Il Risorgimento

Materie:Appunti
Categoria:Storia

Voto:

1 (2)
Download:523
Data:19.09.2001
Numero di pagine:40
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
risorgimento_5.zip (Dimensione: 30.61 Kb)
trucheck.it_il-risorgimento.doc     91 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

IL PREDOMINIO AUSTRIACO E GLI AVVENIMENTI POLITICI E MILITARI DAL 1713 AL 1748

Con la pace di Utrecht l'Austria aveva sostituito la Spagna quale potenza dominante in Italia, assicurandosi il Milanese, la Sardegna, il Napoletano e lo Stato dei Presidi, mentre Vittorio Amedeo II di Savoia, che aveva mirato alla conquista del Milanese, dovette accontentarsi del Monferrato e della Sicilia col titolo di re. Un estremo tentativo di ripresa da parte spagnola si ebbe dopo il matrimonio di Filippo V con Elisabetta Farnese, nipote del duca di Parma. Artefice del matrimonio era stato Giulio Alberoni, diplomatico dei Farnese alla corte spagnola; divenuto in seguito cardinale, egli fu il rappresentante delle aspirazioni di rivincita della Spagna, rinfocolate dal desiderio di Elisabetta di trovare in Italia un'eredità ai propri figli, esclusi dalla successione al trono dai figli di primo letto di Filippo V. Contro la Spagna si formò presto una coalizione anglo-franco-olandese, a cui si aggiunse, dopo la pace di Passarowitz (1718), anche l'imperatore Carlo VI (Quadruplice alleanza). Nel 1717 l'Alberoni aveva fatto occupare la Sicilia e la Sardegna; ma i Franco-Inglesi attaccarono l'Impero coloniale spagnolo, mentre la flotta spagnola era distrutta a capo Pachino (capo Passero) [1718] da quella britannica e l'Austria riconquistava Sicilia e Sardegna. Costretto ad allontanare l'Alberoni nel 1719, Filippo V firmò l'anno successivo la pace dell'Aia, con cui ottenne, quale re di Spagna, il riconoscimento (fino allora negato) da parte dell'imperatore; ma dovette restituire la Sicilia, che Vittorio Amedeo II scambiò con la Sardegna, cedendola all'Austria (v. COCKPIT [trattato di]); a Carlo, figlio di Elisabetta, fu promessa la successione di Parma e di Toscana, con la sua rinuncia ai diritti al trono spagnolo.
Con la guerra di Successione polacca (1733-1738) l'Italia tornò a essere teatro delle operazioni di guerra: le truppe della Francia e del regno di Sardegna, alleati con la Spagna, occuparono la Lombardia, Parma e Guastalla, mentre Carlo occupava il regno di Napoli. La pace di Vienna (1738), segnò un'ulteriore modificazione della situazione dinastica in Italia: le condizioni di pace prevedevano il riconoscimento di Federico Augusto III quale re di Polonia e l'indennizzo del candidato francese, Stanislao Leszczynski, con la Lorena, che veniva con ciò sottratta a Francesco Stefano, marito di Maria Teresa d'Absburgo; a questi venne perciò data la Toscana, dove l'ultimo dei Medici, Gian Gastone, era morto (1737) senza discendenti; Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta, era riconosciuto sovrano di Napoli col nome di Carlo VII, mentre l'Austria annetteva al Milanese Parma e Piacenza dove la dinastia dei Farnese si era estinta nel 1731. Il re di Sardegna, Carlo Emanuele III, otteneva poi l'annessione delle Langhe, di Tortona e di Novara, modesti compensi in cambio della Lombardia promessagli da Francia e Spagna. Nonostante le sue aspirazioni sul Milanese, Carlo Emanuele III, nel corso della guerra di Successione austriaca che si aprì di lì a poco (1740), si schierò con l'Austria per il timore di un'egemonia borbonica nella penisola. Nel corso del conflitto il re di Napoli stroncò un tentativo austriaco di riconquistare il Mezzogiorno (battaglia di Velletri, 1744); successivamente gli Austro-Sardi occuparono Genova, alleata ai Franco- Spagnoli, ma ne vennero cacciati da un'insurrezione popolare (che sarebbe stata iniziata, secondo la tradizione, da Balilla, nel dicembre 1746). Fallì di conseguenza anche il tentativo di invadere la Provenza; ma l'anno seguente l'attacco francese al Piemonte, nell'intento di invaderlo, fu fermato da Carlo Emanuele III con la battaglia dell'Assietta. Con la pace di Aquisgrana (1748), la situazione subiva nuove, anche se lievi, variazioni: i Savoia ottenevano Vigevano, l'Oltrepò pavese e l'alto Novarese; Parma e Piacenza passavano al figlio minore di Elisabetta Farnese, don Filippo di Borbone. Tale assetto territoriale e dinastico doveva rimanere immutato per il resto del secolo, fino alle guerre della Rivoluzione francese, e la penisola restò sostanzialmente estranea anche al grande perturbamento della guerra dei Sette anni (1756- 1763): nel corso di questa Carlo VII di Napoli scambiò il trono con quello di Spagna, assumendo il nome di Carlo III (1759). Il solo spostamento territoriale di rilievo riguardò la Corsica, ceduta nel 1768 alla Francia dalla repubblica di Genova, incapace di sostenere più a lungo la situazione di rivolta endemica in cui l'isola versava; anche la Francia dovette imporsi con la forza delle armi contro Pasquale Paoli (1769, battaglia di Pontenuovo).

ECONOMIA E SOCIETA` NEL ‘700

A partire dalla pace di Aquisgrana (1748) l'Italia godette, fino all'aprirsi delle guerre della Rivoluzione francese, di un assetto territoriale stabile, dovuto soprattutto alla formazione dell'alleanza franco-absburgica (sorta dal “rovesciamento delle alleanze” avvenuto con la guerra dei Sette anni, 1756-1763), che eliminava le occasioni di attrito fra le due potenze maggiormente interessate alla situazione della penisola. Le guerre della prima metà del Settecento avevano del resto avuto conseguenze in buona parte positive per l'Italia, sostituendo a quella della Spagna l'egemonia dell'Austria, i cui possessi diretti si limitavano però alla Lombardia. Tanto gli Austriaci a Milano, quanto i Lorena insediatisi in Toscana nel 1737 e le nuove dinastie borboniche nel Mezzogiorno e a Parma si mostrarono solleciti, in misura più o meno ampia, nei confronti delle esigenze dei nuovi possedimenti. La Lombardia austriaca (comprendente le odierne province di Milano, Como, Varese, Cremona senza Crema, possesso veneziano, Mantova e Pavia senza l'Oltrepò) ricevette un notevole impulso dal riformismo absburgico e fu, con la Toscana, quello tra gli Stati italiani in cui fu maggiore l'efficacia del movimento illuministico e in cui i processi di trasformazione economica a cui era avviata la penisola si manifestarono nei loro aspetti più positivi. L'aumento dei prezzi, soprattutto del grano, caratteristico dell'economia europea a partire dal XVI sec., aveva spinto infatti le classi dominanti a investire nelle terre i propri capitali; ma solo nel XVIII sec. venne iniziato un processo diretto a modificare i rapporti di produzione e a ottenere un più alto rendimento; contemporaneamente, a seguito anche del grave declino del ruolo esercitato nel commercio internazionale dalle città italiane, gli Stati regionali subivano una trasformazione della loro struttura, che riduceva fortemente il peso predominante esercitato dalle città capitali nei confronti della campagna; stimolati dalla crescente richiesta di derrate agricole si formavano così mercati interni, più vasti, il che portava i ceti dirigenti a un interessamento sempre più attivo verso l'agricoltura, allo studio dei problemi tecnici e a spingere in direzione dell'abolizione dei provvedimenti annonari e della libertà del commercio dei cereali. In Lombardia queste trasformazioni ebbero il loro fondamento nel nuovo “censimento generale” (il catasto iniziato da Carlo VI nel 1718, ripreso nel 1749 sotto la direzione di Pompeo Neri e compiuto nel 1759), che contribuì a limitare le sperequazioni tributarie e a stimolare l'ammodernamento delle colture; il miglioramento delle vie di comunicazione (la strada del Brennero e quella dell'Abetone, rispondenti anche a necessità strategiche) diede grande impulso alla libertà del commercio dei cereali (concessa nel 1776; nel 1786 la liberalizzazione fu estesa all'esportazione. dallo Stato dei cereali stessi). Queste riforme favorirono la formazione di una proprietà borghese libera e facilmente commerciabile, mentre le grandi proprietà ecclesiastiche e nobiliari, private delle antiche immunità, erano spesso cedute in conduzione a grandi affittuari borghesi forniti di cospicui capitali (specie nella regione della “bassa”). Nel campo industriale, sotto la spinta della concorrenza straniera, che aveva gettato in una crisi gravissima l'industria laniera, si ebbe il sorgere di imprese, spesso protette dal governo, a carattere industriale capitalistico per la tessitura della lana, del cotone e di sete speciali. La politica riformatrice austriaca investì anche il settore ecclesiastico, con la limitazione del numero dei conventi e della manomorta, l'abolizione dell'Inquisizione e del diritto d'asilo, l'assoggettamento degli ecclesiastici ai tribunali laici, ecc. Milano, che nel 1790 contava 131.000 ab. contro i 114.000 del 1714, era centro di una vivace attività illuministica; all'opera riformatrice collaborarono elementi lombardi, come il Verri e il Beccaria, e di altre regioni, come il toscano P. Neri e l'istriano G. R. Carli; gli illuministi condussero anche una più vasta opera di rinnovamento culturale, attraverso Il Caffè (1764-1766) e le numerose opere di economia, finanza, storia, scienze naturali di cui arricchirono la cultura italiana; né vanno dimenticati i fermenti dei gruppi giansenisti, riuniti a Pavia attorno a Pietro Tamburini e Giuseppe Zola, che concorsero alle profonde e vaste riforme giurisdizionaliste dei sovrani absburgici, Maria Teresa e Giuseppe II. Tale collaborazione, frutto di una coincidenza di interessi tra la Corona e la nuova borghesia o l'aristocrazia imborghesita, venne però a esaurirsi rapidamente dopo il 1790. Già con Giuseppe II il riformismo absburgico aveva assunto caratteri sempre più centralisti e burocratici; alla sua morte, il contraccolpo della Rivoluzione francese e il contrasto con le aspirazioni di autogoverno locale fecero sì che la collaborazione si spezzasse.
I fenomeni e le trasformazioni che avevano avuto luogo nella Lombardia si ripeterono d'altra parte, se pure in forme meno accentuate e meno positive, anche nelle altre regioni italiane, giungendo parimenti a una crisi negli anni attorno al 1790. Lo Stato sabaudo era diviso in due parti ben distinte: il Piemonte, per quanto più arretrato sul piano economico e sociale della Lombardia, conobbe sotto Vittorio Amedeo II (regnante fino al 1730) un'energica azione per limitare i privilegi feudali ed ecclesiastici; con Carlo Emanuele III (1730-1773) e Vittorio Amedeo III (1773-1796) gli aspetti burocratici e accentratori si accentuarono, il clima culturale si fece più chiuso, tanto che numerosi illuministi e uomini di cultura (A. Radicati di Passerano, Carlo Denina, Giuseppe Baretti, Vittorio Alfieri) finirono con l'emigrare; sopravvisse una corrente di cultura legata alle tradizioni del paese che accoglieva alcune esigenze illuministiche, riunita attorno a G. B. L. Bogino (C. A. Galeani Napione e Prospero Balbo). Profondamente diversa la Sardegna, poco popolata e con un'economia basata essenzialmente sulla pastorizia e l'agricoltura estensiva, che conobbe però, per breve tempo, l'opera riformatrice del Bogino (1749-1773). La repubblica di Venezia, la cui economia si basava nei domini di terraferma su un'agricoltura meno progredita di quella lombarda (anche per le difficoltà tecniche che s'opponevano alle bonifiche), era governata da un patriziato che si disinteressava sostanzialmente della conduzione delle sue terre; né d'altra parte Venezia, che aveva cessato di essere un grande emporio internazionale, accennava ad aprirsi al commercio agricolo regionale (come avveniva invece per Milano), ma manteneva intatte le strutture tradizionali dello Stato cittadino, riservandosi i privilegi politici ed economici; non mancavano tendenze innovatrici (le Accademie agrarie diffuse dopo il 1768), ma esse non incidevano sulla struttura sociale, che rimaneva statica. Ciononostante assunse nuovo sviluppo la coltura del gelso e del baco da seta (come avveniva in genere per tutta l'alta Italia), si estesero alcune industrie (fabbriche di telerie di lino e cotone nel Friuli, a Tolmezzo, Cividale, Schio), mentre a Bergamo e a Brescia assunsero rilievo rispettivamente l'industria serica e quella delle armi. La repubblica di Genova, che conservò carattere cittadino e oligarchico, conobbe una reviviscenza dell'attività creditizia con la guerra di Successione austriaca; ma con questo si legò fortemente agli Stati europei, ai cui investimenti pubblici i banchieri genovesi si rivolgevano, cosicché il crollo dell'Ancien régime segnò una crisi irrimediabile per l'antica Repubblica. Si diffusero, al di fuori del ceto dominante, fermenti e idee nuove, che portarono la borghesia mercantile ed elementi della nobiltà ad aspirare alla partecipazione al governo, mentre gruppi del clero erano influenzati dalle dottrine gianseniste (Degola) e propugnavano una riforma morale e organizzativa della Chiesa. I ducati di Parma e di Modena risentirono fortemente del peso delle influenze straniere, a cui dovevano peraltro la loro esistenza, anche nella politica interna, su cui incise in maniera determinante la volontà dei principi, soprattutto perché la loro limitata dimensione ne sottolineava il carattere patrimoniale e di proprietà principesca. Le risorse economiche continuarono a fondarsi sull'agricoltura e sull'allevamento (bovini e suini), mentre l'industria rimaneva a livello artigianale, legata, nelle città capitali, alle richieste della corte. Nel ducato di Parma e Piacenza (ingrandito poi del ducato di Guastalla) emerse la figura del du Tillot, ministro con Filippo di Borbone (1748-1765) e durante la minorità di Ferdinando (1765-1802): du Tillot promosse una legislazione giurisdizionalista (fu abolita l'Inquisizione), ridusse la proprietà ecclesiastica mediante la restrizione della manomorta, favorì il propagarsi di una cultura illuministica (a Parma venne il Condillac, e molti Francesi insegnarono all'università di Parma e al collegio Alberoni di Piacenza); dopo il suo licenziamento (1771), però, l'attività riformatrice, non sostenuta da forze locali, si arrestò e nel 1786 fu ristabilita l'Inquisizione. A Modena le riforme di Francesco III (1737-1780) [che visse a lungo in Lombardia come governatore] furono più limitate, e sboccarono in provvedimenti finanziari e nell'emanazione del nuovo codice civile (1771). Il granducato di Toscana (comprendente tutta la regione, salvo la repubblica oligarchica di Lucca, i principati di Piombino e di Massa e Carrara e lo Stato dei Presidi) fu, dopo la Lombardia, lo Stato italiano che maggiormente godette dei benefici del dispotismo illuminato: sotto Francesco II (1737-1765) esso venne governato prevalentemente dal consiglio di reggenza e fu strettamente legato all'Austria; con Pietro Leopoldo (1765-1790) le riforme già iniziate vennero portate avanti con grande energia. Tra il 1757 e il 1775 fu attuata la libertà di commercio per i cereali, e nel 1783 vennero soppressi tutti i dazi interni e fu istituita una tariffa unica ai confini dello Stato; fu favorita la libera commerciabilità dei beni immobili e si tentò di creare, accanto a quello largamente prevalente dei mezzadri, un ceto di piccoli proprietari o possessori contadini, alienando o concedendo a livello i beni ducali, quelli dell'ordine di Santo Stefano e di enti privilegiati; nel 1774 si procedette a un rinnovamento del sistema delle amministrazioni locali (riforma comunitativa), basato su una certa autonomia municipale. In campo ecclesiastico l'opera di Pietro Leopoldo si indirizzò verso una riforma della Chiesa, che fu appoggiata dal clero giansenista, capeggiato dal vescovo Scipione de' Ricci; ma la sua azione si scontrò con la decisa opposizione della maggioranza del clero. Appoggiato da valenti collaboratori (P. Neri e B. Tanucci), formatisi per lo più all'università di Pisa, il granduca giunse a far elaborare da F. M. Gianni (1781) un progetto che avrebbe dovuto trasformare lo Stato in una sorta di monarchia costituzionale temperata; ma il tentativo rimase inattuato per l'assenteismo dei grandi proprietari chiamati a collaborare col sovrano; tuttavia la cultura toscana, imbevuta di influenze francesi (l'Enciclopedia fu stampata a Lucca nel 1758 e a Livorno nel 1770), fornì ottimi funzionari al governo (S. A. Bandini, A. Tavanti, F. Paoletti, ecc.) ed ebbe in G. M. Lampredi un insigne giurista. Lo Stato Pontificio risentì in modo assai limitato del clima illuministico: nel Lazio, scarsamente popolato da contadini immiseriti, predominava la grande proprietà assenteista, che affidava la conduzione delle sue tenute al ceto borghese dei “mercanti di campagna”, che praticavano l'allevamento brado e l'agricoltura estensiva; le condizioni dell'Umbria, delle Marche e delle Legazioni (nella cui agricoltura prevaleva la mezzadria), per quanto meno infelici, erano anch'esse caratterizzate da un sostanziale immobilismo. Roma era una capitale a carattere cosmopolitico, in cui risiedeva l'aristocrazia laica ed ecclesiastica (grandi famiglie di origine feudale, Colonna, Orsini, Caetani, o famiglie di papi e cardinali dei secc. XVI-XVIII, Borghese, Barberini, Chigi, ecc.); essa rifletteva l'arretratezza del territorio circostante e della classe politica che la dominava. All'interno del ceto di governo si riscontravano fluttuazioni frequenti, legate al rapido succedersi dei papi, senza che però vi fossero cambiamenti sociali di fondo: il sistema assolutistico aveva portato al concentramento del potere nelle mani della nobiltà, che dominava anche la vita economica e finanziaria. Nella seconda metà del secolo, tuttavia, il movimento innovatore toccò anche gli Stati della Chiesa: Pio VI promosse la bonifica delle Paludi pontine, che andò però in parte fallita soprattutto perché non si accompagnò a un'opera di colonizzazione; nel 1777 fu iniziato il nuovo catasto, che naufragò per l'opposizione dei grandi proprietari.
Il regno di Napoli e il regno di Sicilia, indipendenti e uniti sotto lo stesso sovrano dal 1734, conservavano forti differenze tra la parte insulare e quella continentale. Nel Napoletano la situazione era caratterizzata dal tentativo, operato sia dalla potente feudalità baronale sia dai primi nuclei di una nuova borghesia terriera, di impadronirsi dei demani universali (delle comunità); ne nasceva una lotta tra le comunità contadine, la feudalità baronale, minacciata dall'aumento costante dei prezzi, e la nuova borghesia: i tre elementi erano in contrasto reciproco, ma la lotta si risolveva di fatto in un tentativo della borghesia, appoggiata in questo dal potere statale, di limitare giuridicamente le prerogative feudali; mancava invece uno stimolo al miglioramento della produzione e delle condizioni dei contadini, ridotti in generale in uno stato di estrema miseria. In questo contesto si inseriva una forte tendenza giurisdizionalista: l'anticurialismo napoletano, che trovava una spinta nel fatto che il papa considerava il regno ancora come un feudo e concedeva frequentemente a stranieri i benefici ecclesiastici, ebbe appoggi tanto presso la feudalità quanto presso la borghesia; esso, forte fin dai tempi del viceregno austriaco, si sviluppò con Carlo VII di Borbone (1734-1759) e ancor più sotto Ferdinando IV (1759-1825), fino al licenziamento del ministro B. Tanucci (1777); col concordato del 1741 l'immunità fiscale dei beni ecclesiastici fu limitata e venne abolita l'Inquisizione; nel 1788 infine fu abolito l'omaggio feudale dei re di Napoli alla Santa Sede (la chinea). L'Illuminismo napoletano, benché qualitativamente molto elevato (A. Genovesi, F. Galiani, G. Filangieri, G. Palmieri, M. Pagano, M. Delfico), ottenne risultati pratici ben minori che quello toscano o lombardo, e la sua collaborazione fu attiva soprattutto prima che su Ferdinando IV prevalessero le influenze della regina Maria Carolina e di lord Acton.
Le condizioni della Sicilia (in cui sussisteva ancora l'antico parlamento) risentivano fortemente del predominio assoluto esercitato dalla nobiltà, che dai viceré spagnoli era stata rafforzata con appoggi e privilegi d'ogni genere; anche la Sicilia conobbe tuttavia una certa attività riformatrice, soprattutto dopo l'arrivo (1781) del viceré marchese Domenico Caracciolo, deciso sostenitore delle idee illuministiche. (Fu appunto lui, qualche anno dopo, a far abolire l'omaggio della chinea.)
La situazione economico-sociale dell'Italia settecentesca alla vigilia della Rivoluzione francese era quindi largamente caratterizzata dalla presenza di una borghesia dedita all'attività agraria e mercantile, interessata a favorire una politica riformatrice antifeudale; il contrasto tra nobiltà e borghesia d'altra parte era nella penisola assai meno violento che altrove, in quanto entrambe le classi traevano i loro proventi soprattutto dalla proprietà terriera; sia l'una sia l'altra erano però favorevoli alla lotta antiecclesiastica, per poter così approfittare dei beni della Chiesa. Tuttavia, nonostante questa atmosfera favorevole a un'opera di rinnovamento economico-politico, sia pur condizionata alla situazione particolare dei vari Stati, l'Italia della fine del Settecento era travagliata da un'acuta crisi sociale, rappresentata in particolare dalla crescente miseria delle popolazioni contadine, su cui si innestava la crisi della politica riformatrice, che nasceva dal contrasto tra l'autoritarismo dei sovrani e la debolezza delle forze innovatrici; inoltre quasi tutti gli Stati italiani si trovavano in difficoltà finanziarie. Su questa situazione doveva influire potentemente la Rivoluzione francese, le cui idee trovavano un terreno particolarmente adatto nei gruppi più vivi dei ceti intellettuali italiani, specie tra i più giovani, che dall'Illuminismo avevano ricevuto un'educazione ispirata alle idee di libertà e di uguaglianza, di sovranità popolare e dei diritti dell'uomo.

LE ORIGINI DEL RISORGIMENTO
L’ETA` GIACOBINA E NAPOLEONICA

Di fronte agli sviluppi della Rivoluzione francese, tutti gli Stati italiani abbandonarono ogni velleità riformatrice e si unirono al fronte antifrancese; Vittorio Amedeo III e il regno di Napoli conclusero esplicite alleanze offensive con le potenze della prima coalizione (1792-1793); gli altri Stati italiani si mantennero neutrali, ma si ebbero lo stesso vari incidenti, che acuivano la tensione con la Francia rivoluzionaria, tra cui l'uccisione di H. de Bassville a Roma (1793). Nelle popolazioni, vario era lo stato d'animo di fronte agli avvenimenti francesi: parte delle masse contadine, per lo meno inizialmente, non vi fu ostile, vedendo realizzate in Francia le proprie aspirazioni antifeudali; ma le campagne furono ben presto guadagnate dalla fortissima propaganda antirivoluzionaria e clericale. Una parte del ceto dirigente illuminista, di fronte all'affossamento delle riforme, si distaccò dai governi (Melzi, Verri, G. B. Vasco), abbracciando posizioni costituzionali moderate che ne prepararono l'adesione ai governi repubblicani. Si formarono, infine, minoranze “patriote” e giacobine, in parte derivate dalla massoneria (setta degli illuminati di Baviera), che iniziarono una vivace attività cospirativa accompagnata da repressioni poliziesche ed esecuzioni capitali (in Piemonte, repressione della congiura facente capo a I. Bonafous e C. Botta, nel maggio 1794; a Napoli, nello stesso mese, scioglimento della società patriottica diretta da C. Lauberg, con tre condanne a morte; a Bologna, tentativo insurrezionale dello studente Luigi Zamboni nel novembre 1794; in Sardegna, moti antifeudali diretti dal magistrato G. M. Angioj e attività di Filippo Buonarroti, ecc.). Nominato comandante dell'armata d'Italia il 2 marzo 1796, Napoleone Bonaparte varcò le Alpi e, occupato il Piemonte (battaglie di Montenotte, Millesimo e Dego), concluse l'armistizio di Cherasco (28 aprile) e la pace di Parigi (15 maggio), che conservavano a Vittorio Amedeo il Piemonte, distaccandone Nizza e la Savoia e garantendo ai Francesi l'occupazione delle principali fortezze del paese. Cadde così la repubblica di Alba, primo tentativo dei giacobini di creare il nucleo di una repubblica italiana, con un programma democratico avanzato e con l'instaurazione di stretti legami con la sinistra democratica francese. La politica del Direttorio in Italia doveva infatti seguire indirizzi assai diversi, vedendo nei territori italiani occupati un mezzo di pressione e una merce di scambio nelle trattative con l'Austria: la sistematica spoliazione finanziaria, l'ostilità verso ogni corrente giacobina e unitaria, l'appoggio ai moderati ne sarebbero state le caratteristiche, cui si sarebbe aggiunta in Bonaparte la volontà di fare del paese la base del proprio potere personale mediante la creazione di repubbliche “sorelle” strettamente dipendenti dalla Francia. Per le varie fasi della vittoriosa campagna del 1796-1797, v. la voce I TALIA (campagna d'): qui basterà ricordare che, oltre ad aver occupato la Lombardia e parte del Veneto, Bonaparte impose pesanti oneri finanziari a Parma e a Modena, in giugno occupò le Legazioni pontificie, installò un presidio ad Ancona e obbligò Pio VI a una forte contribuzione e a consegnare numerose opere d'arte. Conclusa poi col papa la pace di Tolentino (19 febbraio 1797), iniziò con l'Austria i preliminari di pace a Leoben (aprile 1797), in base ai quali, secondo una clausola segreta, essa rinunciava alla Lombardia venendone compensata con l'Istria, la Dalmazia e gran parte della terraferma veneta. Sin dall'agosto del 1796 era stata creata in Lombardia un'amministrazione generale provvisoria, e Milano era divenuta la capitale dei patrioti e giacobini esuli e un centro di vivace attività giornalistica e politica; ma la sorte definitiva della Lombardia restava in sospeso per le incertezze del Direttorio, mentre le gravose requisizioni e il conseguente dissesto finanziario suscitavano le prime ostilità contro i Francesi. Più rapidamente venne dato un assetto all'Emilia, dove Reggio e Modena, allontanata la reggenza estense, si erano aggregate a Bologna e Ferrara (agosto-ottobre 1796): un congresso elettivo convocato a Reggio e poi a Modena (27 dicembre 1796 - 1º marzo 1797) approvò la creazione di una Repubblica Cispadana una e indivisibile, la cui costituzione, accentuatamente moderata e modellata su quella francese del 1795, fu l'unica del triennio repubblicano a non essere imposta dai Francesi. (Al congresso di Reggio, il 7 gennaio 1797, venne consacrato il tricolore, già approvato nel novembre precedente da Bonaparte per le milizie lombarde, quale vessillo della Cispadana.) Un direttorio di tre membri e un corpo legislativo si riunirono a Bologna; ma nel luglio del 1797 Bonaparte decise di sciogliere la Cispadana e la aggregò, insieme alla Romagna, alla Repubblica Cisalpina, sorta il 29 giugno 1797, la cui costituzione venne promulgata l'8 luglio. Sin dal 6 giugno era stata creata la Repubblica Ligure democratizzata; un grave colpo ricevette invece il movimento giacobino con la cessione all'Austria del Veneto, sanzionata dalla pace di Campoformio (17 ottobre 1797), dopo pochi mesi di vivace vita democratica; gli esuli veneti a Milano andarono a ingrossare correnti più o meno apertamente antifrancesi e indipendentiste. Partito Bonaparte dall'Italia nel novembre 1797, si riunì a Milano il corpo legislativo, dove presero il sopravvento le correnti democratiche e vennero approvate diverse leggi per l'abolizione della feudalità, la vendita dei beni ecclesiastici e nazionali e la soppressione di vari ordini religiosi. Alla realizzazione di un programma organico di riforme furono tuttavia d'ostacolo, oltre alle difficoltà finanziarie, i ripetuti colpi di Stato imposti dal Direttorio tramite i suoi agenti, sia per arginare l'azione dei democratici sia come contraccolpo delle vicende interne francesi. Nel febbraio del 1798, in seguito all'uccisione del generale Duphot a Roma, il Direttorio incaricò il generale Berthier di occupare Roma e lo Stato Pontificio, mentre Pio VI si ritirò in Toscana. La nuova Repubblica Romana rimase sottoposta per i diciotto mesi della sua esistenza a una sorta di dittatura militare francese (al Berthier succedette presto lo Championnet), pur avendo una costituzione propria; e anche qui il governo, nonostante una certa attività di riforme (abolizione dei feudi e fedecommessi, riduzione delle mense vescovili), fu ostacolato dall'inflazione, da gravissime difficoltà finanziarie e da vari rimaneggiamenti voluti dalle autorità francesi, mentre l'arretratezza delle campagne provocava vasti fermenti di rivolta sanfedista. Dopo lo Stato Pontificio venne occupato dai Francesi anche il regno di Napoli (gennaio 1799), il cui esercito, al comando del generale austriaco Mack, aveva attaccato nel novembre la Repubblica Romana, riuscendo a impadronirsi della città; ma Championnet, costretto in un primo tempo alla ritirata, passò alla controffensiva, rioccupò Roma in dicembre e marciò quindi su Napoli. Ferdinando IV dovette ritirarsi in Sicilia, mentre venne creata, non senza opposizione da parte del Direttorio, la Repubblica Partenopea, organizzata per “comitati” secondo uno schema analogo a quello francese dei tempi della Convenzione; il vivacissimo ceto dirigente giacobino della capitale, che vantava nomi illustri come M. Pagano, D. Cirillo, E. Fonseca Pimentel, ecc., si trovò tuttavia in una posizione difficile a causa dell'ostilità delle masse contadine, di cui non seppe assicurarsi l'appoggio ritardando l'approvazione di una legge per l'abolizione della feudalità. Contemporaneamente alla caduta di Ferdinando IV, veniva occupato anche il Piemonte, e Carlo Emanuele IV si rifugiò in Sardegna (8 dicembre 1798); deludendo ancora una volta le speranze giacobine nell'indipendenza o nell'unione alla Cisalpina, il Piemonte venne annesso alla Francia, e sembra che proprio allora si costituisse la società segreta detta dei Raggi o della Lega nera, favorevole all'unità e all'indipendenza italiane. Ultimo a cadere fu Ferdinando III di Toscana, cui i Francesi (27 marzo 1799) sostituirono un governo provvisorio e forze d'occupazione; ma quell'epoca era già in corso in Italia settentrionale l'offensiva austro-russa del generale Suvorov, e i Francesi stavano rapidamente abbandonando le proprie posizioni in tutta la penisola. Dopo una serie di combattimenti svoltisi sull'Adige in tre fasi successive, fra le truppe del generale Scherer e quelle del generale austriaco Kray (26 maggio - 5 aprile) i Francesi dovettero ritirarsi sul Mincio. In aprile cadde la Cisalpina; in maggio venne occupato dalle forze della coalizione il Piemonte, già percorso da bande di insorti; dopo la battaglia della Trebbia (17-20 giugno) anche i territori cispadani furono sgomberati e le superstiti forze francesi si raccolsero a Genova. Nel giugno cadde tragicamente anche la Partenopea, dove, lasciato irrisolto dai giacobini il problema della terra, le masse contadine insorsero in una vera e propria jacquerie antifeudale, identificando nei giacobini gli odiati padroni; mentre gruppi di contadini assaltavano i castelli e bruciavano le carte feudali, bande di insorti, guidate dal cardinale Ruffo, marciavano all'insegna della “Santa Fede” dalla Calabria su Napoli ormai abbandonata dai Francesi, e la occupavano il 13 giugno. Al ritorno di Ferdinando IV fece seguito una feroce reazione, in cui più di cento patrioti lasciarono la vita (M. Pagano, V. Russo, D. Cirillo, I. Ciaia, F. Caracciolo). In luglio Ferdinando III di Toscana rientrò nel suo Stato e infine, nel settembre, cadde la Repubblica Romana, ormai circondata da ogni parte da bande d'insorti e da forze napoletane e austriache. Si chiudeva così la breve esperienza del giacobinismo italiano, che aveva tentato di dare saldezza e autonomia alla rivoluzione “importata”, e che la politica direttoriale e le stesse debolezze interne (conflitti tra moderati e giacobini, distacco dalle masse popolari, prevalenza in Italia di una classe media a base terriera) avevano portato al fallimento.
Dopo il colpo di Stato del 18 brumaio, Bonaparte, primo console, intraprese una seconda trionfale campagna d'Italia (v. ITALIA [campagna d'] 1800), e con la battaglia di Marengo (14 giugno 1800) riportò sotto il dominio francese tutta l'Italia settentrionale. La pace di Lunéville con l'Austria (9 febbraio 1801) sancì la ricostituzione della Repubblica Ligure e della Cisalpina, trasformata nel 1802 in Repubblica Italiana che comprendeva anche i territori ex veneti a destra dell'Adige, le antiche Legazioni e i territori ex piemontesi tra Sesia e Ticino; l'Austria conservava il Veneto con confine sull'Adige. Dopo un periodo d'amministrazione militare, il Piemonte venne invece annesso alla Francia (settembre 1802). Nel corso della campagna (ottobre 1800) i Francesi occuparono nuovamente anche la Toscana, ricacciandone le truppe napoletane; dopo l'armistizio di Foligno (18 febbraio 1801) la pace di Firenze col regno di Napoli (28 marzo) obbligò Ferdinando IV di Napoli a cedere lo Stato dei Presidi e ad accettare l'occupazione francese delle coste dell'Abruzzo e della Puglia. La Toscana, dove Ferdinando III era stato deposto nell'ottobre 1800, in seguito a trattative con la Spagna venne assegnata all'infante di Parma Ludovico di Borbone col titolo di re d'Etruria, insieme con lo Stato dei Presidi, mentre l'Elba e Piombino passavano alla Francia, cui dopo la morte del duca Ferdinando di Borbone (1802) doveva andare anche Parma. (Il duca Ferdinando non aveva potuto accettare per sé come compenso per Parma il regno d'Etruria, che andò quindi al figlio Ludovico.) Parma fu governata come possedimento sino al 1808 e poi annessa all'Impero francese; Lucca rimase repubblica sotto protezione francese. Quanto allo spossessato Ferdinando III di Toscana, ricevette in base al trattato di Lunéville il principato di Salisburgo e poi il granducato di Würzburg.
Divenuto imperatore nel maggio 1804, Napoleone assunse (18 marzo 1805) il titolo di re d'Italia, trasformando in Regno Italico la Repubblica Italiana (v. oltre); la Repubblica Ligure divenne un dipartimento dell'Impero francese nel giugno 1805, Lucca con Piombino fu trasformata in principato per la sorella di Napoleone, Elisa Bonaparte Baciocchi. Dopo la pace di Presburgo (26 dicembre 1805) l'Austria cedette il Veneto, l'Istria e la Dalmazia, che vennero aggregati al Regno Italico; la politica del blocco continentale indusse infine Bonaparte a completare il controllo delle coste italiane: nel febbraio 1806 venne occupato il regno di Napoli, assegnato dapprima a Giuseppe Bonaparte, e, dopo il suo passaggio al trono di Spagna (1808), a Gioacchino Murat. Nel dicembre 1807 venne abolito il regno d'Etruria, e la Toscana (dove nel 1809 sarebbe stata insediata come governatrice, col titolo di granduchessa, Elisa Bonaparte) fu annessa all'Impero francese; nel novembre 1807 Napoleone fece occupare le Marche, aggregate nell'aprile 1808 al Regno Italico; nel febbraio 1808 fu occupata anche Roma con tutto il Lazio e l'Umbria, trasformati in dipartimento francese, mentre Pio VII (luglio 1809) veniva arrestato e tradotto in Francia (1812). Per tutto il periodo napoleonico rimasero infine sotto protezione inglese la Sicilia e la Sardegna, dove si mantennero le case di Borbone e di Savoia. Dopo i tredici mesi di occupazione austriaca, disastrosi sia dal punto di vista politico sia finanziario, la seconda Cisalpina (proclamata il 5 giugno 1800) si trovò a dover affrontare, in una situazione di estrema provvisorietà, problemi forse ancora più gravi di quelli del triennio; mentre il comitato di governo, accusato di malversazioni e di estremismo, cadeva ben presto in discredito, si creava così lo stato d'animo favorevole alla riorganizzazione decisa da Bonaparte nel 1801 in senso conservatore, e attuata con la convocazione della consulta (o comizi) di Lione (dicembre 1801), che approvarono la creazione di un regime di “notabili”, alla cui testa era un presidente. Eletto Bonaparte a quest'ultima carica, la nuova Repubblica italiana ebbe alla vicepresidenza Francesco Melzi d'Eril, che, approdato dall'Illuminismo a posizioni moderato-costituzionali, garantiva, insieme con l'eliminazione di ogni superstite giacobinismo, l'attuazione di una vasta politica di riforme, ma anche il consolidamento del predominio delle classi agiate e del ceto dei proprietari terrieri. La proclamazione del Regno Italico(1805), il cui governo effettivo venne affidato al viceré Eugenio di Beauharnais, segnò un'ulteriore involuzione conservatrice sia per la soppressione delle ultime parvenze di rappresentatività e di autonomie locali, sia per la subordinazione sempre più spiccata del ceto dirigente alla volontà di Napoleone. Gli anni della repubblica e del regno portarono tuttavia, attraverso una vasta politica di riforme, alla creazione di strutture più moderne e razionali, uniformi sia amministrativamente (dipartimenti retti da prefetti), sia giuridicamente (promulgazione dei nuovi codici, 1806- 1808), sia nel sistema dei pesi, misure e monete, sia in quello militare, con la creazione di un esercito e la promulgazione di una legge sul reclutamento. D'altra parte il largo tributo di sangue del regno alle campagne napoleoniche, il gravoso fiscalismo, i danni arrecati dal Blocco continentale e dalla politica doganale che favoriva le merci francesi alienavano via via più profondamente al regime napoleonlco le masse popolari e anche parte dei ceti più abbienti.
Nel regno di Napoli, nonostante il periodo di relativa tranquillità goduto dopo la pace dl Firenze, Ferdinando IV non aveva attuato alcuna delle riforme promesse ai contadini insorti, il cui malcontento andò ad aggiungersi a quello dei nobili e dei borghesi colpiti dalla reazione del 1799; Giuseppe Bonaparte, divenuto re, poté così contare su un regime assai più solido di quello giacobino, e l'amministrazione, da lui affidata prevalentemente a Francesi, passò gradualmente in mano ai Napoletani a opera del nuovo sovrano Gioacchino Murat; quest'ultimo, più indipendente da Napoleone del predecessore, si legò anche a elementi patrioti e unitari e si atteggiò a re nazionale. Le opere di riforma economica e amministrativa, in primo luogo la cosiddetta “eversione della feudalità” e la vendita dei beni demaniali, se non valsero a risolvere il problema della terra e a por fine al diffuso brigantaggio, agirono tuttavia tanto più profondamente quanto più grave era l'arretratezza in cui i Borboni avevano lasciato lo Stato. La dipendenza politica dalla Francia fu infine assoluta nei territori annessi all'Impero, che ne condivisero tutti gli ordinamenti; le più moderne strutture napoleoniche furono d'altronde lasciate in buona parte sussistere dai governi della Restaurazione, mentre si formava in tutta Italia un nuovo ceto dirigente di funzionari, magistrati, ufficiali di origine sia nobiliare sia borghese, e di sentimenti moderati e costituzionali, che doveva in parte confluire nelle correnti liberali risorgimentali. Un modello costituzionale per gli uomini del Risorgimento fu d'altronde la costituzione introdotta in Sicilia (rimasta a Ferdinando IV) da lord Bentinck nel 1812, che stabiliva, secondo il sistema inglese, la divisione tra potere esecutivo e legislativo, la responsabilità ministeriale, e un parlamento diviso in due camere, una elettiva e una ereditaria.
Negli ultimi anni del periodo napoleonico i sacrifici militari e le difficoltà economiche accrebbero lo scontento tra le masse popolari, mentre mai sopite erano le aspirazioni politiche degli antichi giacobini e si affermava nei ceti dirigenti il desiderio di una maggiore indipendenza dalla Francia e un nascente sentimento nazionale; queste correnti d'insoddisfazione trovarono sbocco in numerose società segrete, in parte di ispirazione reazionaria e cattolica (amicizia cristiana in Piemonte, sette meridionali dei trinitari e dei calderari), in parte liberali e costituzionali, con infiltrazioni giacobine (adelfi e filadelfi a nord, carbonari a sud), la cui esistenza è già testimoniata in questo periodo, benché dovessero assumere maggiore importanza durante la Restaurazione. Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia (1813), sorse d'altra parte la speranza che fosse possibile ottenere per i regni napoleonici in Italia l'indipendenza sia dalla Francia sia dall'Austria. In Lombardia, la cui sorte fu lasciata in sospeso dall'armistizio di Schiarino Rizzino (16 aprile 1814) tra Eugenio di Beauharnais e l'Austria, il senato milanese votò l'invio a Parigi di una deputazione che chiedesse l'indipendenza; ma lo stesso giorno (20 aprile) la popolazione insorse uccidendo l'odiato ministro delle finanze Prina; di questa situazione approfittò l'Austria per instaurare una reggenza, che il 12 giugno proclamò l'annessione della Lombardia all'Impero austriaco. A Napoli Murat, staccatosi da Napoleone, tentò di conservare la corona dichiarando guerra all'Austria e pubblicando il famoso proclama di Rimini (30 marzo 1815), che prometteva agli Italiani la libertà, l'indipendenza e la costituzione, ma fu rapidamente battuto (a Tolentino, 3 maggio) e costretto a rifugiarsi in Corsica (convenzione di Casalanza, 20 maggio 1815); di qui fece un ultimo tentativo di riscossa, sbarcando in Calabria, ma, catturato dai Borboni, fu fucilato il 13 ottobre 1815.
Le sorti dell'Italia vennero quindi definitivamente decise dal congresso di Vienna, che restaurò gli antichi sovrani: il regno di Sardegna, con la Liguria, Nizza e la Savoia, fu assegnato a Vittorio Emanuele I di Savoia; la Lombardia, il Veneto e la Valtellina, col nome di Regno lombardo-veneto, divennero parte integrante dei domini absburgici, mentre il Trentino, Trieste e l'Istria, sempre sotto dominio austriaco, erano uniti alla Confederazione germanica; il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla venne assegnato a Maria Luisa d'Absburgo, moglie di Napoleone, alla cui morte sarebbe dovuto tornare ai Borboni, cui era dato nel frattempo il ducato di Lucca; il ducato di Modena, Reggio e Mirandola andò a Francesco IV d'Austria-Este, figlio dell'arciduca Ferdinando e di Maria Beatrice d'Este, assorbendo dopo la morte di quest'ultima anche il ducato di Massa e Carrara; a Ferdinando III d'Absburgo- Lorena venne restituito il granducato di Toscana, accresciuto di Piombino e dello Stato dei Presidi, e destinato ad assorbire anche il ducato di Lucca dopo il ritorno dei Borbone a Parma; lo Stato Pontificio venne ricostituito nei confini tradizionali, eccetto Avignone, sotto il pontefice Pio VII; l'antico regno di Napoli, infine, divenuto regno delle Due Sicilie, tornò sotto il dominio di Ferdinando I di Borbone, già Ferdinando IV di Napoli.
Con le leggi eversive della feudalità, l'incameramento dei beni ecclesiastici e la vendita dei beni nazionali, l'età napoleonica attuò anche in Italia una trasformazione del regime della proprietà, liberata dagli antichi vincoli feudali; ma le terre così immesse sul mercato finirono in gran parte nelle mani degli antichi proprietari nobili o della più ricca borghesia cittadina, con conseguenze particolarmente gravi nell'Italia meridionale, mentre i contadini, benché liberati in parte dai censi feudali (di cui fu però decretato in molti casi il riscatto in danaro), videro talvolta peggiorata la loro condizione sia per il rafforzamento dei proprietari sia per la perdita degli usi civici sui beni demaniali o comunali messi in vendita. Accanto al consolidamento di una classe borghese e aristocratica a base terriera, si ebbe un relativo riordinamento finanziario, sia pur minato alla base dal peso dei tributi percepiti dalla Francia, con il risanamento del debito pubblico a Milano e a Napoli e con varie riforme tributarie, che sostituirono alle congerie delle antiche imposizioni un'imposta fondiaria, ma anche un numero sempre crescente di imposte indirette gravanti soprattutto sulle classi meno abbienti. L'unificazione politica dell'Italia settentrionale, con la soppressione di molte barriere doganali e l'iniziale tendenza liberistica del regime napoleonico in tutta Italia, crearono d'altronde le condizioni per uno sviluppo dei commerci e delle industrie.

DALLA RESTAURAZIONE ALL’UNITA`

La Restaurazione imposta autoritariamente all'Europa dal congresso di Vienna si manifestò negli Stati italiani in forme tanto più radicali quanto più sensibile era l'influenza austriaca. Nei suoi domini diretti l'Impero absburgico mirò a colpire le aspirazioni all'indipendenza nazionale maturate nel periodo francese e che guadagnavano terreno tra la borghesia cittadina più evoluta, la quale si sentiva danneggiata dalla politica doganale di Vienna, molto più favorevole ad altre regioni dell'Impero piuttosto che al Lombardo- Veneto. Nel regno di Sardegna, nello Stato Pontificio e nel regno delle Due Sicilie (soprattutto nel periodo del governo del principe di Canosa e meno negli anni di governo del Medici, che iniziò la politica conciliatrice detta dell'“amalgama”) la reazione fu particolarmente aspra e ottusa poiché mirava a colpire ogni traccia di novità lasciata dal precedente periodo; solo nei ducati di Parma e di Modena (e qui solamente per un primo periodo) e nel granducato di Toscana la restaurazione tenne una via moderata: a Parma Maria Luisa mantenne in sostanza i princìpi della legislazione francese (1820: Codice parmense) e in Toscana Ferdinando III (attraverso i ministri Neri Corsini e Fossombroni) sembrò riprendere la tradizione riformista del secolo precedente. Contro le forze reazionarie i gruppi liberali e progressisti non trovarono altra via se non quella della cospirazione: la carboneria, diffusa soprattutto nel regno delle Due Sicilie, prese a ramificarsi anche nell'Italia centrosettentrionale, diffondendo il suo programma genericamente costituzionalista; nell'Italia settentrionale prendeva piede la Federazione italiana; mentre il Buonarroti intensificava l'attività delle sue organizzazioni settarie (sublimi maestri perfetti, ecc.) che, tenendo segreto il loro programma ultimo di rivoluzione sociale, miravano a influenzare le altre società segrete ampliando i loro orizzonti politici e sociali. Accanto a queste iniziative segrete fioriva in Lombardia (settembre 1818 - ottobre 1819) la rivista liberale Il Conciliatore, soppresso poi dalla polizia austriaca, la quale individuò anche e colpì nell'ottobre 1820 una vendita carbonara, di cui facevano parte, tra gli altri, il Maroncelli e il Pellico. Nel 1820, infine, dopo alcuni tentativi falliti tra il 1817 e il 1820, si presentò alla carboneria napoletana l'occasione per un tentativo rivoluzionario: il moto scoppiato a Nola il 1º luglio (in rispondenza alla rivoluzione spagnola del 1820), guidato da Morelli e Silvati, conquistò rapidamente l'alta ufficialità murattiana, legata alla carboneria; le truppe insorte, guidate da Gabriele Pepe, entrarono in Napoli, costringendo il re Ferdinando a concedere (13 luglio) la costituzione spagnola del 1812. La rivoluzione si estese subito dopo a Palermo (15-17 luglio) e vi assunse carattere separatista, così da creare tra l'isola e il continente una divergenza che pesò gravemente sulle possibilità di difesa dei costituzionali: Napoli infatti reagì negativamente alle richieste autonomiste dell'isola, inviando Florestano Pepe e successivamente Pietro Colletta (ottobre 1820) a sottomettere la Sicilia, impegnando nell'isola un numero rilevante di soldati. Nel frattempo, Metternich faceva accettare alle potenze il principio dell'intervento (congresso di Troppau, ottobre-novembre 1820); e l'intervento fu infatti richiesto al successivo congresso della Santa alleanza a Lubiana dal re delle Due Sicilie (gennaio 1821), che pure aveva giurato fedeltà alla costituzione. Le truppe austriache del generale Frimont travolsero rapidamente all'Antrodoco le deboli resistenze dei costituzionali e il 28 marzo entrarono in Napoli. Anche in Piemonte, che aveva conosciuto un modesto tentativo di Prospero Balbo per attuare riforme amministrative, l'organizzazione clandestina si mosse, a seguito degli avvenimenti napoletani, proprio alla vigilia dell'intervento austriaco: presi contatti con patrioti lombardi e avvicinato Carlo Alberto di Savoia-Carignano, che si dimostrava animato da sentimenti antiaustriaci, fu messo in moto un tentativo insurrezionale col duplice obiettivo della costituzione e della guerra all'Austria. Ad Alessandria insorse la guarnigione il 9- 10 marzo; la propagazione della rivolta a Torino provocò l'abdicazione di Vittorio Emanuele I (12-13 marzo); nella sua qualità di reggente per lo zio Carlo Felice, Carlo Alberto il 14 concesse la costituzione spagnola del 1812 sotto riserva dell'approvazione del re, costituendo anche un ministero; ma quando Carlo Felice, che si trovava allora a Modena, fece sapere che avrebbe respinto qualsiasi idea di costituzione, cominciò a preparare nascostamente un'azione repressiva, pur fingendosi favorevole ai ribelli, e il 21 marzo si rifugiò a Novara, lasciando il governo provvisorio, guidato da Santorre di Santarosa, di fronte alle truppe regie di La Tour che, con l'appoggio austriaco, vinsero rapidamente gli insorti. La repressione fu dura tanto a Napoli quanto nel Settentrione: nel regno delle Due Sicilie si ebbero circa novecento condanne a pene varie, mentre nel Lombardo-Veneto furono istruiti i processi del 1821-1823 contro il Confalonieri e i federati; le persecuzioni spinsero all'emigrazione folti gruppi di patrioti, che all'estero strinsero contatti tra di loro e con gli esuli stranieri, partecipando alle lotte di altre nazionalità e inserendo la causa italiana in quella delle nazionalità oppresse di tutta l'Europa (partecipazione alla lotta per la libertà della Grecia e della Spagna). Nel 1830 la rivoluzione parigina del luglio provocò in Italia, come contraccolpo, un nuovo movimento insurrezionale, che era stato preparato da tempo a Modena, dove il duca Francesco IV, di convinzioni reazionarie, ma dominato da ambizioni dinastiche, era parso in un primo tempo appoggiare l'attività cospiratrice di Ciro Menotti ed Enrico Misley. Il tradimento del duca, che fece catturare Menotti e i suoi alla vigilia dell'insurrezione (3 febbraio 1831), non impedì che il moto scoppiasse e si estendesse, anzi, oltre i domini estensi, a Bologna (4 febbraio), nelle Legazioni, nelle Marche (5 febbraio) e nell'Umbria. Ma Luigi Filippo, il nuovo re dei Francesi sul cui favore gli insorti contavano perché fosse impedito l'intervento austriaco, non osò opporsi alla repressione del moto da parte austriaca, che d'altro canto non incontrò una difesa concertata tra i patrioti delle diverse province (Province Unite).
Con la sconfitta del 1831 entrò in crisi il settarismo carbonaro, perché le soluzioni dinastiche, a cui inclinavano gli uomini formatisi nelle amministrazioni napoleoniche, si rivelavano impossibili; nel decennio successivo i protagonisti del movimento per l'indipendenza e la libertà furono quindi gli appartenenti alle correnti repubblicane e democratiche, che col Buonarroti erano già da tempo presenti nelle file cospirative. Fu tuttavia Giuseppe Mazzini a dare la sua impronta alla nuova organizzazione cospirativa e a legare il problema dell'unità nazionale a quello dell'elevazione morale e materiale delle classi popolari, attraverso la cui forza doveva attuarsi, in una prospettiva di redenzione universale dell'intera umanità, l'indipendenza della nazione. La federazione della “Giovine Italia” fu organizzata dal Mazzini tra il 1831 e il 1833; si diffuse rapidamente in Italia, soprattutto fra i giovani dell'Italia centrosettentrionale, appoggiandosi anche alle organizzazioni buonarrotiane (apofasimeni, veri italiani, ecc.), con le quali tuttavia entrò presto in contrasto per il dissidio ideologico tra Buonarroti e Mazzini, che intendeva abbandonare taluni aspetti più spiccatamente sociali dell'ideologia democratica. I primi tentativi insurrezionali mazziniani nel Piemonte si chiusero però con un fallimento (invasione della Savoia guidata dal Ramorino e tentativo di ammutinamento nella marina sarda a Genova, promosso da Garibaldi, 1834), e l'organizzazione mazziniana ne rimase per alcuni anni scompaginata. Dono il 1840, tuttavia, la situazione economico-sociale italiana, se pur arretrata rispetto all'Europa occidentale, cominciò a risentire le conseguenze favorevoli del lungo periodo di pace seguito al congresso di Vienna, mentre si facevano evidenti gli scompensi tra l'assetto politico imposto dalla Restaurazione e le esigenze della nuova situazione. L'espressione delle istanze della maggior parte della borghesia colta e non rivoluzionaria della penisola fu il movimento liberale moderato, che aveva alle sue spalle una tradizione culturale progressista e che si ispirò a un'ideologia cattolico-liberale (Rosmini, Manzoni, Balbo e Tommaseo); la formazione di tale orientamento dà ragione del successo incontrato dalla dottrina politica di Vincenzo Gioberti, che col Primato morale e civile degli Italiani (1843) proponeva un'interpretazione guelfa della storia d'Italia e assegnava al papato una funzione di guida nel risorgimento della penisola. La grande fortuna del neoguelfismo coincise d'altra parte con una ripresa dell'azione mazziniana (attività di Nicola Fabrizi e della sua Legione italica nel regno borbonico e spedizione dei fratelli Bandiera nel 1844; moti di Romagna del 1843 e 1845); ma il fallimento di queste iniziative finì col favorire i progressi dell'opinione moderata, rafforzata dalla pubblicazione delle Speranze d'Italia del Balbo (1844), dei Prolegomeni del Gioberti (1845), violentemente polemici verso i gesuiti, degli Ultimi casi di Romagna del d'Azeglio (1846), ecc. Anche alcuni governi parevano del resto indirizzarsi verso un progressismo moderato: il nuovo pontefice Pio IX (eletto il 16 giugno 1846) confermò la sua fama di liberale con l'editto del Perdono (amnistia del 16 luglio 1846), mentre Carlo Alberto (successo in Piemonte a Carlo Felice fin dal 1831) si orientò, sul piano della politica estera, verso un'opposizione all'Austria che si manifestò con l'offerta di truppe al pontefice quando forze austriache occuparono Ferrara (luglio 1847). Vennero anche ventilati progetti di unione doganale tra Toscana e Piemonte, mentre nel Mezzogiorno si andava estendendo l'opposizione antiborbonica (1847: pubblicazione della Protesta del popolo delle Due Sicilie). E fu proprio dalla Sicilia che partì il segnale della rivoluzione quarantottesca: il 12 gennaio 1848 insorgeva Palermo, mentre in tutte le altre parti d'Italia si manifestavano sintomi di ribellione. Ferdinando II fu così costretto a concedere una costituzione (29 gennaio), e gli altri sovrani dovettero seguirne l'esempio (Leopoldo II di Toscana, 17 febbraio; Carlo Alberto, 4 marzo; Pio IX, 14 marzo). Nel Lombardo-Veneto il segnale del moto insurrezionale (Cinque giornate di Milano, insurrezione di Venezia) fu dato dalla rivoluzione di Vienna; e la pressione dell'opinione pubblica dei vari Stati portò alla guerra contro l'Austria, dichiarata il 23 marzo dal Piemonte, seguito da Toscana e Napoli; sembrò così per un breve periodo che le dinastie regnanti si unissero per una lotta nazionale (v. I NDIPENDENZA ITALIANA [guerre d']). Il successivo distacco della Toscana, di Napoli e del pontefice dalla causa nazionale e il fallimento della campagna che si concluse con l'armistizio Salasco (9 agosto 1848) segnarono la fine del disegno moderato e neoguelfo, e l'iniziativa fu assunta dalle forze democratiche, che si trovarono tuttavia a operare nel momento più difficile, quando ormai l'ondata reazionaria prevaleva nell'intera Europa. Mentre nel Mezzogiorno Ferdinando II riconquistava la Sicilia (bombardamento di Messina, settembre 1848), nel granducato di Toscana Leopoldo II entrava in contrasto coi ministri Guerrazzi e Montanelli, che propugnavano un'Assemblea costituente italiana, e fu costretto a riparare a Gaeta, per cui si costituiva in Firenze (8 febbraio 1849) un triumvirato (Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni). Da Roma fuggiva anche Pio IX subito dopo l'assassinio di Pellegrino Rossi (15 novembre 1848), e nella città l'Assemblea costituente convocata subito dopo proclamava la repubblica (9 febbraio 1849), affidando il triumvirato a Mazzini, Armellini e Saffi (29 marzo). Anche nel Piemonte, dopo un ministero Gioberti (dicembre 1848 - febbraio 1849), sotto la spinta dei democratici fu ripresa la guerra, che terminò rovinosamente a Novara, provocando l'abdicazione di Carlo Alberto (23 marzo 1849). Dopo la sconfitta piemontese, le forze conservatrici e reazionarie ripresero vigore: in Toscana i moderati allontanarono i triumviri (aprile 1849), richiamando Leopoldo II, che però rientrò solo con le truppe austriache abolendo la costituzione; a Roma la repubblica, attaccata dalle truppe di Luigi Napoleone al comando dell'Oudinot, resistette dal 24 aprile al 1º luglio 1849 (anima della difesa fu Garibaldi), ma infine fu costretta a cessare la difesa; e Venezia, ultima trincea dei democratici nel Settentrione dopo la caduta di Brescia (@19Dieci#534314NN3NN@*19 giornate di Brescia, 23 marzo - 1º aprile 1849), dovette scendere a patti nell'agosto. Con la sola eccezione del Piemonte, in Italia trionfava la reazione: nel Lombardo- Veneto il dominio austriaco si mantenne con lo stato d'assedio fino al 1856; Pio IX, attraverso il segretario di Stato Antonelli, condusse una politica di dura repressione antiliberale, senza preoccuparsi di provvedere alle ormai indispensabili riforme economiche e amministrative; Ferdinando II, re delle Due Sicilie, sciolse il parlamento (13 marzo 1849) e prese a governare con un regime di dispotismo personale, non riuscendo però a impedire che l'attività cospirativa rimanesse assai viva (setta dell'@19Unità italiana#595398NN3NN@*19, fondata da L. Settembrini, S. Spaventa e F. Agresti). Nei ducati, grazie anche al legame doganale stabilito tra Austria, Parma e Modena, l'influenza austriaca contribuì a rendere estremamente duro il clima repressivo; in Toscana invece la repressione fu meno aspra che nel resto del paese, anche se la situazione era pur sempre caratterizzata dalla presenza austriaca. Solo nel Piemonte sopravvissero le libertà costituzionali, che Vittorio Emanuele II, nonostante certe sue tendenze autoritarie, aveva coraggiosamente mantenute. L'opposizione democratica piemontese aveva tuttavia fortemente osteggiato il trattato di pace di Milano (6 agosto 1849) e Genova s'era addirittura ribellata subito dopo Novara; il re dovette quindi sciogliere il parlamento col proclama di Moncalieri (20 novembre 1849) per ottenerne la ratifica da una camera più moderata. Dopo un ministero d'Azeglio che aveva avviato la liberalizzazione dello Stato e l'opera delle riforme interne, soprattutto in campo ecclesiastico (leggi Siccardi, 1850), e che durò fino al 1852, si realizzò un accordo (il “connubio”) tra i moderati di Cavour (già ministro dal 1850) e il centro-sinistra del Rattazzi, che portò appunto Cavour alla presidenza del consiglio (4 novembre 1852). Mentre nel Piemonte veniva intrapresa una politica economica di orientamento liberista che avrebbe contribuito a porlo alla festa dello sviluppo tra gli Stati italiani, nel campo democratico emergevano atteggiamenti di critica verso Mazzini (il federalismo repubblicano di G. Ferrari e di C. Cattaneo e le tendenze socialiste di Pisacane), e contemporaneamente maturavano le condizioni per cui il moderatismo cavouriano avrebbe preso la guida del moto nazionale. Entrato in crisi con il fallimento dei moti milanesi del febbraio 1853, con la tragica conclusione della congiura di Mantova, di cui fu anima don Enrico Tazzoli (arrestato nel gennaio 1852), in seguito alla quale numerosi patrioti furono giustiziati sugli spalti di Belfiore (dicembre 1852 - marzo 1853), e con la gloriosa fine di Pier Fortunato Calvi che tentò di far insorgere il Cadore (arrestato nel settembre 1853 fu impiccato nel 1855), il mazzinianesimo cercò di reagire mediante la creazione del partito d'azione; ma l'insuccesso del tentativo insurrezionale operato a Genova e Livorno in connessione con la spedizione di Sapri (giugno-luglio 1857), iniziative nate dalla collaborazione tra Mazzini e Pisacane, nell'ultima delle quali il secondo trovò la morte, crearono il vuoto attorno all'esule genovese. La politica di Cavour, al contrario, riusciva proprio in quegli anni a inserire il Piemonte nel gioco diplomatico europeo e, approfittando dell'isolamento diplomatico dell'Austria verificatosi in occasione della guerra di Crimea, il regno sabaudo realizzò un'alleanza con Francia e Inghilterra (10 gennaio 1855) che, nonostante una forte opposizione interna, portò un corpo di spedizione sardo di 15.000 uomini, al comando di A. La Marmora, a combattere contro i Russi in Crimea (maggio 1855) e che permise a Cavour di partecipare al congresso di Parigi (febbraio 1856), ove il ministro sabaudo sostenne la tesi che l'Austria, con l'occupazione militare in Italia, era causa di squilibrio europeo e di perturbazioni rivoluzionarie. Dalla crisi dei democratici dopo il 1857 e dai successi della linea moderata nacque così la fortuna della Società nazionale italiana, che aveva per programma l'unificazione sotto i Savoia e alla quale la presidenza di Daniele Manin e la vicepresidenza di Giuseppe Garibaldi assicurarono l'adesione anche di molti democratici. Cavour, sul piano della politica estera, riuscì a stabilire con Napoleone III accordi di alleanza antiaustriaca (Plombières, 20-21 luglio 1858) per la soluzione del problema italiano, facendo leva tanto sugli interessi nazionali francesi quanto sui timori dell'imperatore (accentuati dall'attentato di F. Orsini, 14 gennaio 1858) per un prevalere delle forze rivoluzionarie in Italia. Fondamento degli accordi era però che l'Austria dovesse per prima attaccare il Piemonte, ma il discorso della corona pronunciato da Vittorio Emanuele II all'inizio dell'anno 1859, contenente l'accenno famoso al “grido di dolore”, parve ai patrioti (e fu giustamente interpretato), una squilla di guerra antiaustriaca. Nonostante un tentativo russo e uno inglese, nell'aprile del 1859, di promuovere un congresso delle potenze che, di fronte al peggiorare della tensione internazionale, risolvesse pacificamente la situazione della penisola, l'Austria, spaventata dall'accorrere di volontari in Piemonte da ogni parte d'Italia, fece fallire l'idea del congresso rifiutando la partecipazione del Regno sardo e infine cadde nella trappola tesale da Cavour, rompendo gli indugi e inviando un ultimatum (23 aprile) al Piemonte. In base a esso le clausole degli accordi di Plombières portarono la Francia a intervenire a fianco del Regno sardo, giacché la guerra era scoppiata per iniziativa austriaca (v. I NDIPENDENZA ITALIANA [guerre d']). Contemporaneamente si muoveva tutta l'Italia centrale: Leopoldo II dovette fuggire da Firenze, in conseguenza dell'insurrezione del 27 aprile; dopo la vittoriosa battaglia di Magenta (4 giugno) si sollevarono le Legazioni e i ducati, proclamando la loro volontà di annessione al Piemonte, e Vittorio Emanuele II vi inviò commissari regi. Ma la politica di Cavour ricevette un gravissimo colpo dai preliminari di pace di Villafranca seguiti alla sanguinosa battaglia di Solferino e San Martino: lo stesso ministro rassegnò le dimissioni, convinto che il prestigio della monarchia fosse compromesso e che non sarebbe stato possibile contenere la ripresa del partito d'azione. Mentre tuttavia il governo La Marmora-Rattazzi doveva ritirare i commissari regi le province insorte organizzavano le loro forze per resistere a un ritorno dei sovrani legittimi, e allo sforzo unitario collaborò anche Mazzini; sul piano diplomatico intervenne con peso decisivo l'Inghilterra, disposta ad appoggiare la causa italiana ora che si profilava la possibilità della formazione di uno Stato abbastanza grande da fare da contrappeso alla Francia. La pace di Zurigo (10 novembre 1859) riconobbe implicitamente l'esistenza e la forza del moto unitario italiano, rimandando a un futuro congresso il problema della restaurazione dei principi spodestati. In queste condizioni Cavour poté ritornare al potere (21 gennaio 1860) e ottenere l'assenso di Napoleone III ai plebisciti (marzo 1860). Ma il partito d'azione, che criticava aspramente la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia e la dipendenza della politica piemontese da Napoleone III, pose con decisione il problema dell'unificazione dell'intera penisola: rispondendo all'insurrezione palermitana dell'aprile 1860, Garibaldi assunse la guida della spedizione che partì da Quarto il 6 maggio 1860 (v. MILLE [impresa dei]). Il successo della spedizione, avvenuta nonostante l'opposizione iniziale di Cavour (preoccupato di un esito repubblicano dell'impresa), sembrò segnare un successo del partito d'azione; ma, giocando abilmente sul pericolo di questa prospettiva, Cavour poté strappare alla Francia l'assenso a intervenire per fermare Garibaldi, che sembrava intenzionato a puntare su Roma. Cogliendo il pretesto della concentrazione in Roma di volontari legittimisti, l'esercito sabaudo entrò nello Stato Pontificio, batté l'esercito papale a Castelfidardo, conquistando Ancona (28 settembre) e muovendo poi verso il Napoletano; con l'incontro tra il re e Garibaldi (26 ottobre) si chiuse la liberazione del Mezzogiorno; i plebisciti (21 ottobre nel regno delle Due Sicilie; 4 novembre nelle Marche e nell'Umbria) permisero l'annessione dei nuovi territori; dopo l'approvazione del senato (26 febbraio) e della camera (14 marzo), il 17 marzo 1861 venne pubblicato il decreto che proclamava il regno d'Italia, mentre per alcuni giorni (sino al 21) continuava il dibattito parlamentare sulla formula, poi accolta, “per grazia di Dio e volontà della Nazione”.

SVILUPPI ECONOMICI DAL 1815 AL 1861

Nel primo ventennio seguito alla caduta di Napoleone l'economia italiana risentì a lungo delle gravi difficoltà che nascevano dall'arresto provocato nelle trasformazioni strutturali avviate nel 1700 dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche e dal Blocco continentale; la situazione fu aggravata dal ripristino delle barriere doganali e dei sistemi vincolistici, che stabilivano dazi e dogane non solo ai confini degli Stati, ma anche al loro interno. La crisi economica europea, che si manifestava con la caduta dei prezzi e che venne accompagnata nel 1816-1817 da una grave carestia, non poté essere superata in Italia che molto lentamente, proprio a causa delle condizioni create dalla restaurazione dell'antico regime anche sul terreno economico. Molto lento fu di conseguenza anche l'incremento demografico (il 25% tra il 1812 e il 1861, da 19,8 a 25 milioni, contro il 40% dell'Europa tra il 1800 e il 1850), mentre rimaneva pressoché sconosciuto nella penisola un altro fenomeno dell'Europa occidentale del tempo, l'urbanesimo. L'occupazione prevalente della popolazione restava l'agricoltura, con caratteri capitalistici abbastanza progrediti nelle zone pianeggianti del Piemonte orientale, della Lombardia e dell'Emilia; nel resto del paese prevalevano invece i caratteri tradizionali (mezzadria nella Toscana, Umbria, Marche; latifondo e cerealicoltura estensiva nel Sud); veniva completato intanto il fenomeno, già avviato nel XVIII sec., dell'eliminazione delle terre comuni e degli usi civici, mentre si affermava il regime della piena proprietà privata. Erano in ascesa nelle campagne del Nord la coltivazione del gelso e l'allevamento del baco da seta legati al relativo fiorire dell'industria serica: l'industria cotoniera solo verso il 1840 assunse i primi tratti della grande industria. Dopo il 1830, del resto, l'economia degli Stati italiani cominciò a rivelare molti segni di risveglio: si segnalava una ripresa di interesse per i problemi tecnici ed economici dell'agricoltura a opera di società agrarie (i Georgofili in Toscana, le società economiche del Mezzogiorno) e sulla spinta dei governi, o anche per iniziativa di singoli proprietari e studiosi. Sintomi positivi si mostravano anche nel campo dell'industria manifatturiera: nel Piemonte (dove solo nel 1844 si giunse alla soppressione delle corporazioni d'arti e mestieri), grazie a trattati di commercio coi principali Stati europei e italiani, si assistette a una vigorosa ripresa dell'industria laniera nel Biellese, che, pur conservando i caratteri di piccola industria, prese a ricorrere in misura crescente alla filatura meccanica; attorno a Torino si svilupparono poi nuclei consistenti di industria cotoniera. Anche nella Lombardia si ebbero rilevanti progressi industriali, benché in questo settore gli investimenti rimanessero sempre inferiori a quelli agricoli. Al primo posto rimasero la trattura e la torcitura della seta, seguite dall'industria cotoniera, che si esercitavano soprattutto nei centri rurali. Fu nel campo della filatura che, dopo il 1830, cominciarono a manifestarsi le prime trasformazioni industriali e una incipiente meccanizzazione, cosicché fu possibile iniziare un attivo commercio di esportazione. Accanto all'industria tessile cominciò anche a delinearsi, pur se in proporzioni ancora assai modeste, un settore metallurgico e meccanico. Tra gli altri Stati, il granducato di Toscana conseguì buoni progressi, grazie all'amministrazione tollerante che lasciava grande libertà all'iniziativa privata. Nei centri minori e nelle campagne l'industria laniera, l'allevamento dei bozzoli e la trattura della seta, la filatura e la tessitura del cotone (che avevano però proporzioni inferiori a quelle assunte in Piemonte e in Lombardia), l'industria della carta e della paglia, la fabbricazione delle ceramiche erano in fioritura e davano vita a un commercio attivo e ben equilibrato con la preponderante attività agricola. Anche nel regno di Napoli, dopo il 1835, si notavano segni di ripresa e l'industria della lana, fortemente protetta, prendeva sviluppo in varie province; la protezione doganale permise anche il sorgere dell'industria cotoniera, con capitali essenzialmente stranieri (Salernitano), e della carta (valle del Liri), mentre la produzione napoletana dei guanti raggiungeva fama mondiale. Tali trasformazioni e tali progressi richiedevano disponibilità di capitali, che furono offerti dalle prime banche di emissione di Genova, Torino, Firenze e Roma e dalle Casse di risparmio: queste ultime, sorte in un primo tempo col carattere di istituti di previdenza e di carità, con limiti precisi ai depositi, finirono con lo svolgere in un secondo tempo, per l'affluire dei depositi, le funzioni di istituti di credito prima agricolo e poi anche commerciale. Il rinnovamento agricolo e industriale che s'avviava negli Stati italiani rendeva intanto evidente la limitatezza dell'orizzonte degli Stati regionali, soprattutto dopo il 1840, quando negli altri paesi europei si andava compiendo la rivoluzione dei mezzi di trasporto attraverso le costruzioni ferroviarie. Un miglioramento della rete stradale nel Settentrione e in parte anche nel regno di Napoli non fu sufficiente a soddisfare le necessità di un commercio in via d'espansione; d'altra parte, per ragioni soprattutto politiche, era impossibile avviare un piano di costruzioni ferroviarie organico per tutte le province, cosicché i tratti di strada ferrata che per primi vennero costruiti si limitarono a congiungere le capitali con le ville reali dei dintorni (Napoli-Portici, 1839; Napoli-Caserta e Milano-Monza, 1840; Torino- Moncalieri, 1843). Solo per il Lombardo-Veneto e per la Toscana (tra il 1842 e il 1847) fu progettato e attuato un piano per una rete ferroviaria che potesse giovare al commercio interregionale. Il ritardo dell'Italia nelle costruzioni ferroviarie pose la penisola in condizioni gravi di inferiorità nei confronti degli altri Stati dell'Europa occidentale.
Fu il Piemonte di Cavour, spinto dal geniale statista sulla via di un'economia moderna con strumenti liberali anziché protezionisti (trattati di commercio, agevolazioni al credito con la creazione della Banca nazionale degli Stati sardi), a dare dopo il 1850 un notevole impulso alle costruzioni ferroviarie.

Esempio