Benito Mussolini

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Testo

MUSSOLINI BENITO

Uomo politico italiano (Dovia di Predappio, Forlì, 1883 - Giulino di Mezzegra, Como, 1945). Figlio di un fabbro, Alessandro, socialista di tendenze anarchiche, e di una maestra elementare, Rosa Maltoni, fece i primi studi presso il collegio salesiano di Faenza (1892-1894), poi a Forlimpopoli, nel collegio laico Giosue Carducci e presso la scuola normale, diplomandosi maestro nel luglio 1901. Di carattere impulsivo e violento (fu espulso dal collegio Carducci per aver inferto una coltellata a un compagno di scuola), trovò nel partito socialista, cui si era iscritto già alla fine del 1900, un compromesso tra il senso di ribellione che nutriva contro la società, la ricerca di un ambiente in cui vivere, le idee socialisteggianti mutuate dal padre e la necessità di realizzare quel desiderio di notorietà che fu caratteristico di tutta la sua vita. L'atteggiamento individualista, ribelle e anarchico ebbe dapprima il sopravvento: dopo aver collaborato per breve tempo alla Giustizia di Prampolini ed essere stato supplente nella scuola rurale di Gualtieri (Reggio nell'Emilia), fece aperta professione di antimilitarismo ed emigrò in Svizzera (1902) per sottrarsi alla chiamata militare, decisione che gli attirò la condanna a un anno di carcere per diserzione. In Svizzera vagò da un cantone all'altro, dando lezioni ed esercitando lavori manuali di vario genere, finché la sua attività di propaganda rivoluzionaria e anticlericale lo fece espellere dal paese. Tornato in Italia nel gennaio 1905 grazie all'amnistia concessa nel 1904 per la nascita del principe ereditario Umberto, abbandonò temporaneamente le idee che lo avevano spinto a emigrare e prestò servizio militare come bersagliere a Verona fino al settembre 1906; si dedicò quindi all'insegnamento (fu maestro elementare a Predappio e a Tolmezzo, e nel 1908 insegnante di francese a Oneglia) e abbracciò contemporaneamente quella che considerava la sua vera vocazione, il giornalismo, distinguendosi per una spiccata irreligiosità e per la sua concezione della violenza nella lotta politica; nel 1908, durante un breve soggiorno a Predappio partecipò a uno sciopero di braccianti e fu incarcerato per quindici giorni. Alla fine dell'anno fu chiamato a Trento (allora appartenente all'Impero austro-ungarico) per assumere la carica di segretario della camera del lavoro e la direzione del settimanale socialista L'avvenire del lavoratore; per un mese circa collaborò anche al Popolo di Cesare Battisti, quale redattore capo, ma abbandonò presto l'incarico disapprovando la priorità data dal giornale alle istanze nazionaliste più che alla lotta di classe. Tuttavia a Trento l'orientamento ideologico di Mussolini, ispirato alle teorie rivoluzionarie di L. A. Blanqui e del sindacalista G. Sorel più che al marxismo ortodosso, risentì l'influenza sia del nazionalismo di Battisti, sia della filosofia pessimistica e irrazionalistica tedesca, in particolare di Nietzsche, che rafforzò la sua fede nella violenza come fattore fondamentale di trasformazione sociale.
Dopo la sua espulsione dal Trentino, provvedimento cui non furono estranei gli attacchi al clero cattolico, alla religione, al partito cristiano sociale e al quotidiano cattolico Il Trentino diretto da Alcide De Gasperi, nel 1909 tornò a Forlì; qui si unì a Rachele Guidi, poi sposata civilmente nel 1915 (dal matrimonio nacquero Edda, futura moglie di Galeazzo Ciano; Vittorio, Bruno, Anna Maria e Romano). Nel 1910 fu nominato segretario della sezione forlivese del partito socialista, di cui fondò e diresse l'organo di stampa, il settimanale La lotta di classe. Contrario alla guerra italo-turca, nel settembre 1911 guidò a Forlì le dimostrazioni popolari contro di essa e fu condannato a cinque mesi di prigione insieme con Pietro Nenni. Sempre sulla scia della polemica religiosa scrisse tra il 1910 e il 1912 un saggio intitolato Giovanni Huss il Veridico.
Il congresso di Reggio nell'Emilia del partito socialista (1912) segnò la sua affermazione come capo dell'ala più intransigente del partito, che egli riuscì a far prevalere contro la tendenza riformista, provocando l'espulsione di Leonida Bissolati e di Ivanoe Bonomi. Il 1º dicembre 1912 fu nominato direttore dell'Avanti!, organo ufficiale del partito, e si trasferì a Milano. Divenne così una delle più importanti personalità del socialismo italiano, senza tuttavia nutrire per il socialismo la stessa fede dei suoi compagni di partito; ciò nonostante, per l'autorità di cui godeva e che poteva esercitare dalle colonne del giornale, impose con facilità la sua linea politica ai socialisti, i cui dirigenti si dibattevano tra sterili proclami rivoluzionari, l'inattività di fatto e la paura di essere fagocitati dal sistema borghese. Accentrando nelle sue mani ogni iniziativa politica e conferendo all'Avanti! la sua esclusiva impronta, Mussolini riuscì ad aumentare la tiratura sebbene si fosse fatto fautore, con l'abbandono progressivo della lotta di classe, di una rivoluzione che sempre meno si presentava come espressione della volontà del proletariato e sempre più risultava opera di una ristretta minoranza e favorevole all'instaurazione di un regime autoritario. Per tutto questo periodo la sua polemica seguì i binari, che gli erano ormai consueti, dell'autoritarismo, della lotta contro i “guerrafondai” del potere economico e contro il clero.
Scoppiata la prima guerra mondiale, Mussolini fu dapprima risolutamente neutralista, ma nell'ottobre 1914 mutò d'improvviso atteggiamento, proclamando sull'Avanti! (18 ottobre) la tesi del passaggio dalla neutralità assoluta a quella condizionata e sostenendo nel novembre la necessità dell'intervento a fianco dell'Intesa. A questo voltafaccia contribuirono l'influenza, e probabilmente gli aiuti finanziari, dell'ambasciata francese, e altresì l'opera mediatrice del socialista Marcel Cachin, suo amico; ma essa aveva anche radici nella convinzione di Mussolini che la guerra avrebbe favorito la rivoluzione sociale in Italia. Questa tesi non fu però accolta dall'assemblea della sezione socialista di Milano del 24 novembre 1914, e Mussolini fu espulso dal partito, quando già il 15 novembre era apparso il suo nuovo quotidiano, Il Popolo d'Italia, a cui fece seguito la fondazione dei “fasci di azione rivoluzionaria”, che svolsero intensa propaganda a favore della guerra contro gli Imperi centrali. Richiamato alle armi nell'agosto 1915, Mussolini prestò servizio nei bersaglieri; nel febbraio 1917 fu ferito durante un'esercitazione e dopo vari mesi di ospedale poté abbandonare la zona di guerra e riprendere la direzione del Popolo d'Italia.
Dopo un periodo di eclisse tra la fine della guerra e l'immediato dopoguerra, le fortune politiche di Mussolini ebbero nuovo e decisivo impulso con la fondazione a Milano, il 23 marzo 1919, in piazza San Sepolcro (da cui il nome di “sansepolcristi” ai fascisti della prima ora), dei “fasci italiani di combattimento”. Caratteri essenziali del movimento fascista furono un esasperato nazionalismo (mito della “vittoria mutilata”, campagna contro la politica estera “rinunciataria”, appoggio incondizionato all'impresa fiumana di D'Annunzio), il ricorso sistematico alla violenza come metodo di lotta politica (azioni di “squadre” armate contro le organizzazioni e gli uomini del partito socialista e degli altri partiti, le camere del lavoro, le cooperative contadine, ecc., inaugurate con l'assalto all'Avanti! del 15 aprile 1919 e proseguite in crescendo fino alla marcia su Roma e oltre), l'avversione di fondo per lo Stato democratico e le istituzioni parlamentari. L'abilità demagogica e manovriera e lo spregiudicato opportunismo di Mussolini, capo indiscusso (o “duce”, come già veniva chiamato) del movimento, il massiccio appoggio finanziario del grande capitale industriale e degli agrari (che permise a Mussolini di venire eletto alla camera nel 1921 per la lista del “blocco nazionale” formato da liberali di destra e fascisti), la disorganizzazione degli avversari, la debolezza dei governi e la passività degli organi dello Stato di fronte alle violenze squadristiche, il filofascismo più o meno larvato di una larga parte della classe dirigente e dell'esercito permisero al movimento (trasformato in partito nazionale fascista nel novembre 1921) di intensificare sempre più la sua azione rivolta alla presa diretta del potere, che culminò il 28 ottobre 1922 nella “marcia su Roma” delle camicie nere. Questa non incontrò praticamente alcuna resistenza da parte delle autorità civili e militari; il re, dopo aver rifiutato di firmare il decreto di stato d'assedio presentatogli da Facta, il 30 ottobre incaricò Mussolini di formare il nuovo governo.
L'inclusione nel primo gabinetto Mussolini di elementi non fascisti e la relativa moderazione iniziale del “duce” alimentarono in molti esponenti della vecchia classe politica l'illusione che il fascismo sarebbe rientrato nell'alveo costituzionale. Fu invece Mussolini a servirsi dei partiti costituzionali: infatti egli si valse all'inizio della collaborazione a livello governativo dei popolari e dei liberali, ma nell'aprile 1923 allontanò i primi e utilizzò l'appoggio dei secondi solo sino alla fine dell'anno successivo. Ottenuta la fiducia dalla camera (306 voti favorevoli contro 116), che lo investì anche dei pieni poteri per la riforma dell'amministrazione pubblica, il capo del governo incominciò ben presto la fascistizzazione dello Stato: il 12 gennaio 1923 istituì il Gran consiglio del fascismo (che con la legge del 9 dicembre 1928 doveva diventare uno dei massimi organi statali), e poco dopo diede un assetto stabile allo squadrismo con la creazione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (di fatto, esercito al servizio del capo del governo) e fece approvare il 18 novembre 1923 una legge elettorale maggioritaria (legge Acerbo) intesa a garantire al partito di maggioranza relativa i due terzi circa dei seggi della camera. Le elezioni del 6 aprile 1924, svoltesi in un clima di intimidazione e di violenze, assicurarono alla lista fascista (il “listone”) il 64% dei voti. Ma l'assassinio a opera di squadristi (10 giugno 1924) del deputato socialista Matteotti, che aveva denunciato alla camera le soperchierie fasciste, provocò nel paese un'ondata d'indignazione da cui Mussolini rischiò di essere travolto. Tuttavia i partiti di opposizione si limitarono a un atteggiamento di protesta passiva (l'“Aventino”), mentre il re, dopo qualche esitazione, confermò la fiducia a Mussolini, che poté riprendere in mano la situazione e col discorso del 3 gennaio 1925 inaugurò la fase dittatoriale e “totalitaria” del regime fascista. Le leggi “fascistissime” del 24 dicembre 1925 e 31 luglio 1926 assicurarono al “duce” un potere personale pressoché assoluto, e il 6 novembre 1926 furono soppressi i partiti (tranne quello fascista), le organizzazioni sindacali e ogni libertà di stampa e di riunione; tre giorni dopo la camera proclamò la decadenza dei deputati aventiniani.

In tale periodo l'avversione al regime si manifestò con alcuni attentati effettuati contro Mussolini, senza conseguenze per la sua persona. Il primo, progettato dal deputato socialista T. Zaniboni e dal generale Capello, con l'appoggio di esponenti politici e militari, fu sventato prima della sua attuazione (novembre 1925). Il secondo fu attuato a Roma il 7 aprile 1926 da un'anziana signora inglese, Violet Gibson, poi dichiarata seminferma di mente. Il terzo, compiuto il 31 ottobre 1926 a Bologna, fu attribuito a un ragazzo appena quindicenne, Anteo Zamboni, che avrebbe sparato contro il “duce” un colpo di rivoltella e venne subito dopo linciato dalla folla. Potenziata al massimo la polizia politica, il 25 novembre 1926 fu istituito il “tribunale speciale per la difesa dello Stato” (che erogò condanne a morte e migliaia di anni di carcere e di confino), incaricato di giudicare i reati politici. Una nuova legge elettorale (1928) stabilì un'unica lista fascista di candidati alla camera.
A rafforzare ulteriormente il regime e il prestigio personale di Mussolini contribuì la conclusione con la Santa Sede (11 febbraio 1929) dei patti lateranensi, che risolsero il grave problema dei rapporti tra Stato e Chiesa rimasto insoluto dal 1870, anno della presa di Roma. Con la Carta del lavoro (1927), che stabiliva le basi del sistema corporativo, e la successiva creazione (20 marzo 1930) e organizzazione definitiva (5 febbraio 1934) delle corporazioni (22, tutte presiedute da Mussolini), l'intera vita economica fu posta sotto il controllo del governo. Infine anche il parlamento fascista fu soppresso e sostituito, con la legge del 19 gennaio 1939, dalla camera dei fasci e delle corporazioni (composta dai membri del Gran consiglio del fascismo e dal Consiglio nazionale delle corporazioni), il cui compito era quello di collaborare col governo allo studio e alla preparazione delle leggi. Si compiva così, con la nascita della nuova camera e la soppressione del principio rappresentativo, ultimo residuo dello Stato liberale, il processo di costruzione del regime fascista.
In politica estera Mussolini mancò di una direttiva coerente e rettilinea: oscillò dapprima fra la tesi di una revisione dei trattati di Versailles (ne furono esempi l'appoggio dato nel 1923 alla Francia contro la Germania di Weimar nella questione della Ruhr e il patto di Roma firmato con la Iugoslavia nel gennaio 1924 per risolvere il problema di Fiume) e la preoccupazione per ogni iniziativa che potesse compromettere lo statu quo, fra l'ostilità verso le democrazie occidentali e l'intesa con esse di fronte alla risorgente potenza tedesca; nell'ultimo periodo imboccò decisamente la via dell'alleanza con la Germania di Hitler. Se nei primi anni del regime Mussolini, per non destare preoccupazioni nei governi stranieri, amò ripetere che l'ideologia fascista non avrebbe influito sulla politica estera italiana, nel 1927, quando il fascismo aveva ormai raggiunto un certo grado di solidità, incominciò a manifestare in numerosi discorsi mire espansionistiche e propositi di riarmo; sul piano dell'azione a livello internazionale invece, sempre allo scopo di non attirarsi l'ostilità dei paesi esteri, attuava una politica pacifista: tale fu il caso dell'adesione (1928) al patto Briand-Kellogg e della politica conciliante di Dino Grandi, ministro degli esteri, alla conferenza navale di Londra (gennaio-aprile 1930). Dopo essersi opposto al primo tentativo nazista di annessione dell'Austria (1934), assumendo formalmente la protezione di quest'ultima, e dopo il convegno di Stresa (1935) con Francia e Inghilterra in vista di una politica comune nei confronti della Germania, Mussolini entrò in conflitto con le due democrazie e con la Società delle Nazioni a causa della guerra etiopica (1935-1936).
Il successo etiopico, nonostante le sanzioni, con la successiva proclamazione dell'Impero, parve segnare l'apogeo della popolarità di Mussolini e dar ragione alla sua politica, che da allora si venne avvicinando sempre più a quella del dittatore tedesco. Il comune intervento nella guerra civile spagnola a favore dei nazionalisti di Franco (1936-1939), gli scambi di visite e l'amicizia personale dei due dittatori, l'Asse Roma-Berlino (1936), l'annessione dell'Austria alla Germania (marzo 1938), questa volta con la tacita approvazione del “duce”, l'appoggio diplomatico italiano alle rivendicazioni cecoslovacche di Hitler nel convegno di Monaco (settembre 1938), portarono alla firma (22 maggio 1939) del “Patto d'acciaio” fra i due Stati totalitari; precedentemente, a imitazione dell'aspetto più estremista del nazismo, erano state introdotte in Italia le leggi razziali antisemite (1938).
Scoppiata la seconda guerra mondiale, Mussolini non intervenne subito a fianco dell'alleato, proclamando la “non belligeranza” (1º settembre); ma le strepitose vittorie tedesche nella primavera del 1940 lo indussero, il 10 giugno, a dichiarare guerra alla Francia (già prostrata dall'invasione tedesca) e alla Gran Bretagna. L'impreparazione militare italiana, dopo tanto bellicismo verbale, e l'inettitudine di Mussolini quale supremo stratega (nel maggio 1940 il re gli aveva ceduto il comando delle forze armate) apparvero manifeste già con l'aggressione alla Grecia. L'andamento sempre più disastroso del conflitto, in URSS e Africa settentrionale, mentre si profilava la disfatta generale delle forze dell'Asse, indusse lo stesso Gran consiglio fascista, dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, a votare, su proposta di Dino Grandi, nella notte dal 24 al 25 luglio 1943, una mozione di sfiducia a Mussolini. Il 25 luglio questi fu fatto arrestare dal re, che affidò il governo al maresciallo Badoglio; il partito fascista fu sciolto.
Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e al Gran Sasso, Mussolini fu liberato, pochi giorni dopo l'annunzio dell'armistizio italiano, da un commando di paracadutisti tedeschi guidato dal maggiore delle SS Otto Skorzeny (12 settembre) e portato in volo in Germania; qui annunciò da radio Monaco (17 settembre) la creazione della Repubblica Sociale Italiana il cui primo governo fu costituito il 23 settembre. Tornato in Italia, si insediò a Gargnano, sul lago di Garda, come capo dello Stato e del governo della “repubblica di Salò”; ma era ormai un sopravvissuto, strumento inerte dei Tedeschi e succubo del fanatismo dei suoi estremi seguaci (lasciò mettere a morte, a conclusione del processo di Verona, il proprio genero Ciano e altri gerarchi colpevoli di avergli votato contro nell'ultima seduta del Gran consiglio). Dopo il crollo della linea gotica si trasferì a Milano (17 aprile 1945), e il 25 aprile cercò vanamente di trattare la resa col Comitato di liberazione; fuggito quella notte verso Como con alcuni gerarchi e aggregatosi successivamente a una autocolonna tedesca, fu fermato il 27 aprile dai partigiani a Musso e tentò di sottrarsi alla cattura travestendosi da soldato tedesco; riconosciuto, fu trattenuto in stato d'arresto nella vicina Dongo, e fucilato nel pomeriggio del 28 a Giulino di Mezzegra con la sua amante Clara Petacci, per ordine del CLN. Esecutore della sentenza fu il partigiano comunista “colonnello Valerio” (Walter Audisio). I due cadaveri, insieme con quelli di altri gerarchi, furono portati a Milano ed esposti a piazzale Loreto.
Un giudizio storico su Mussolini non può non rilevare le contraddizioni del suo carattere, l'effettiva debolezza mascherata da atteggiamenti apparentemente duri, l'utopistica visione della realtà, la sproporzione fra le condizioni dell'Italia e una politica di potenza, tentata anche per rinsaldare la sua personale posizione e quella del fascismo e risoltasi in una serie di fatali avventure, il fragile equilibrio di una politica interna basata in gran parte su aspetti superficiali e demagogici. Prigioniero di un rigido schematismo fondato sul mito dell'“uomo forte”, da lui stesso creato e alimentato dai suoi seguaci, egli non seppe trovare soluzioni diverse da quelle di un semplicistico ricorso a misure coercitive o restrittive della libertà. Anche il momentaneo consenso di una parte dell'opinione pubblica (non solo in Italia, ma all'estero), dovuto a successi effimeri e a una facile e ben calcolata oratoria, contribuì a illuderlo e a rendere vana persino la parte positiva di certi atteggiamenti, volti a migliorare e a modernizzare il paese, conferendogli autorità e prestigio. La rovina pressoché totale della sua opera testimonia, al di là della guerra perduta, la fragile radice di un credo politico nutrito di retorica e di compromessi.
Tra le sue opere più importanti vanno ricordate, oltre al già citato Giovanni Huss il Veridico, i ricordi autobiografici: Il mio diario di guerra, 1916-1917 (1931), Vita di Arnaldo (in ricordo del fratello [1932]), Parlo con Bruno (in memoria del figlio morto [1941]), La mia vita (scritto nel 1911-1912 e pubblicato postumo nel 1947); gli Scritti e discorsi (13 voll., 1934-1940), Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota (1944) e il Testamento politico (postumo, 1948), ripubblicati nell'Opera omnia (1951).

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