Benito Mussolini

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Testo

I DISCORSI DI BENITO MUSSOLINI
PREFAZIONE

Nelle pagine seguenti abbiamo voluto pubblicare alcuni discorsi di Benito Mussolini che riteniamo importanti ai fini storici.
I discorsi presi in considerazione sono stati pronunciati dal 1919 (un anno dopo la fine della I Guerra Mondiale) al 1922 (Marcia su Roma).
Nella lettura di questi documenti, si può notare come le stesse condizioni storiche dell'epoca vengono oggi nuovamente riproposte, sia nei programmi attuali, sia per i programmi di vita futura.
Mussolini, per controbattere il bolscevismo assunse il potere con il preciso intendimento di contrapporvi la sua ideologia anche a discapito di una democrazia che comunque nulla di proficuo prometteva e che anche oggi, viene professata in silenziosa violenza riproponendo le stesse incertezze e gli stessi pericoli di un sopravvento comunista.
Si potrebbe dire che benché gli uomini politici siano oggi diversi, i sistemi di governo e la mentalità statalista è rimasta praticamente uguale.
Quello che differisce è sostanzialmente il contesto storico.
Infatti il 1919 è l'anno seguente alla fine della I Guerra Mondiale che ha visto l'Italia uscire vittoriosa dalle fangose trincee di guerra pagando per questo un alto tributo di sangue.
In quella guerra, condotta principalmente da contadini italiani, i quali erano spinti oltre che dalla necessità anche da un forte sentimento patriottico, l'Italia ha potuto scrivere un valoroso capitolo della sua storia.
Benito Mussolini, prima socialista, diventa ben presto un agguerrito avversario di tale ideologia perché in esso vede un inopportuno attendismo e una forte vigliaccheria che pericolosamente si avvicina al tradimento.
Sarà soprattutto su questo ultimo aggettivo che il futuro Duce d'Italia attaccherà il governo con i suoi discorsi pronunciati al popolo nelle piazze prima e in parlamento dopo.
Un tradimento voluto dal governo dell'epoca che svenderà al tavolo della Pace la vittoria italiana conquistata sui campi di battaglia.
Gli uomini di eccellente cultura del tempo, si schiereranno con Mussolini.
Tra questi vi sarà D'Annunzio che, senza sparare un solo colpo di fucile, conquisterà Fiume donandola all'Italia.
Riteniamo che i discorsi qui pubblicati possano dare il reale senso di ciò che in quel momento stava accadendo nel nostro Paese.
Le frasi, gli atteggiamenti, le provocazioni e anche le violenze squadriste che lo stesso Mussolini più volte cita nei suoi discorsi, sono gli effetti di una causa social-comunista che per imporre le proprie idee e per distruggere già allora l'ideologia Fascista, fa della violenza urbana la principale arma persuasiva.
Come potrete leggere, Mussolini invita più volte i comunisti e i socialisti a deporre questo ignobile modo di imporre l'idea politica alla massa e chiede ripetutamente di affrontare il problema in parlamento e con la dialettica, ricordando però, allo stesso tempo, che alla violenza social-comunista si contrapporrà quella Fascista.
Gli anni di quel dopoguerra sono tumultuosi, i socialisti e i comunisti, sentono di perdere terreno nei confronti delle masse che sempre di più si schierano verso l'ideale Fascista.
Mussolini ribatte più volte alle folle l'importanza di una guerra vinta ma che non è stata degnamente valutata sui tavoli della Pace.
Sul giornale"Il Popolo D'Italia" e "Gerarchia"più volte scriverà articoli sul pericolo tedesco e su quanto poco o nulla abbiano fatto Francia e Inghilterra per evitare che la Germania sconfitta riprendesse il suo potere economico e quindi militare.
Il 22 Marzo 1922, Mussolini, a proposito della Germania che ritiene sempre pericolosa e pronta ad una rivincita scriverà su "Gerarchia": " Guai alla Francia, se i tedeschi potessero domani, fare una nuova guerra e vincerla! Gli ultimi francesi sarebbero gettati nell'Atlantico."
Le documentazioni riportate sono piene di nozioni storiche e citarle tutte sarebbe un po' come rovinare il piacere della lettura.
Concludiamo questa nostra prefazione invitando i lettori a riflettere su quanto andranno a leggere.
Assoluzioni o giudizi di colpevolezza non possono essere fatti se non immedesimandosi nel contesto di quella parte di storia presa in esame.
Offensivo e denigratorio sarebbe, nei confronti di coloro che credettero nel Fascismo e che per esso morirono, dare un giudizio pretestuoso e/o di parte senza tener conto anacronisticamente del momento particolare nel quale l'Italia si trovava e stava vivendo.
Siamo certi che, nonostante i tentativi di falsificazione e i voluti silenzi sulla storia da parte dei governi succedutisi fino ai giorni nostri dopo la fine della II Guerra Mondiale, nonostante le volgari e assurde accuse date nel tempo da chi più commise stragi ed atrocità di guerra rispetto a coloro che di tali reati furono accusati e nonostante una continua campagna denigratoria voluta da un governo che ha le sue fondamenta sul tradimento compiuto 54 anni fa ed è reo di eccidi mai giudicati e condannati, ma anzi, glorificati e presi a vanto per una ignobile guerra quanto ignobili furono coloro che nel nome di una ipocrita democrazia e di una falsa libertà la condussero, portando il nostro paese nel baratro della guerra fratricida, ribaltando posizioni nemiche ed alleate, Benito Mussolini rimanga sempre quell'uomo di grande carisma e di lungimiranza politica che ha saputo dare all'Italia ed al suo Popolo anni di gloria e di unità Nazionale come mai nessuno, prima e dopo di lui, è più riuscito.
Egli, come tutti i grandi è, a tutto gli effetti, facente parte della gloriosa e sacra storia d'Italia.

IL QUINTO ANNIVERSARIO DELL'ENTRATA IN GUERRA.

Prefazione
Inaugurandosi la seconda Adunata Nazionale dei Fasci di Combattimento, al Teatro Lirico di Milano, il 24 Maggio 1920, quinto anniversario della nostra entrata in guerra, il Duce pronunciava il seguente discorso

Le parole, in determinati momenti, possono essere dei fatti. Supponiamo dunque e facciamo sì che tutte le parole pronunziate qui oggi siano delle azioni potenziali dell'oggi e reali del domani. Cinque anni fa in questi giorni l'entusiasmo popolare prorompeva in tutte le piazze e le strade d'Italia. Ed in questi giorni, rivedendo i documenti dell'epoca, posso affermare, a tanta distanza di tempo, con sicura e pura coscienza, che la causa dell'intervento, nelle settimane del Maggio, non fu sposata dalla cosiddetta borghesia, ma dalla parte più sana e migliore del popolo italiano. E quando dico popolo intendo parlare anche del proletariato, perché nessuno può pensare che le migliaia di cittadini che nelle giornate di Maggio seguivano Corridoni, fossero tutti dei borghesi. Ricordo che una Camera del lavoro agricola, quella di Parma, a grande maggioranza, si dichiarò favorevole all'intervento dell'Italia.
Anche ammesso che la guerra sia stata un errore, ed io non lo ammetto, di animo spregevole è colui che sputa su questo sacrificio. Se si vuole ritornare ad un esame critico io sono disposto ad affrontare in contraddittorio chiunque ed a dimostrare:
1°) che la guerra fu voluta dagli Imperi centrali come è stato confessato dagli uomini politici della repubblica tedesca e come hanno confermato gli archivi dell'impero;
2°) che l'Italia non poteva rimanere neutrale;
3°) che se fosse rimasta neutrale oggi si troverebbe in una condizione peggiore di quella in cui si trova.
D'altra parte noi interventisti non dobbiamo stupirci se il mare è in tempesta. Sarebbe assurdo pretendere che un popolo uscente da una crisi così grave si rimetta a posto nelle 24 ore successive. E quando voi pensate che a due anni di distanza non abbiamo ancora la nostra pace, quando voi pensate al trattamento fattoci dagli alleati, alla deficienza dei nostri governanti, voi dovete comprendere certe crisi di dubbio. Ma la guerra ha dato quello che doveva dare: la vittoria.
Fischiando poco fa la evocazione della falce e del martello, voi non avete certamente voluto spregiare questi che sono due strumenti del lavoro umano, niente di più bello e di più nobile della falce che ci dà il pane e del martello che forge i metalli. Non dunque spregio al lavoro manuale. Dobbiamo comprendere che questa sopravvalutazione odierna del lavoro manuale è data dal fatto che la umanità soffre della mancanza dei beni materiali ed è naturale che coloro che producono questi elementi necessari abbiano una sopravvalutazione eccessiva. Noi non rappresentiamo un punto di reazione. Diciamo alle masse di non andare troppo oltre e di non pretendere di trasformare la società attraverso un figurino che poi non conoscono. Se trasformazioni devono verificarsi, devono avvenire tenendo conto degli elementi storici e psicologici della nostra civiltà.
Non intendiamo osteggiare il movimento delle masse lavoratrici, ma intendiamo smascherare la ignobile turlupinatura che ai danni delle masse lavoratrici fa una accozzaglia di borghesi, semi borghesi e pseudo borghesi, che per il solo fatto di avere la tessera credono di essere diventati salvatori dell'umanità. Non contro il proletariato, ma contro il partito socialista, fino a quando continuerà ad essere anti-italiano. Il partito socialista ha continuato, dopo la vittoria, a svalutare la guerra, a fare la guerra all'intervento ed agli interventisti, minacciando rappresaglie e scomuniche. Ebbene, io, per mio conto, non credo. Delle scomuniche me ne rido, ma davanti alle rappresaglie risponderemo con le nostre sacrosante rappresaglie. Noi non possiamo però andare contro il popolo, perché il popolo è quello che ha fatto la guerra. I contadini che oggi si agitano per risolvere il problema terriero non possono essere guardati da noi con antipatia. Commetteranno degli eccessi, ma vi prego di considerare che il nerbo delle fanterie era composto di contadini, che chi ha fatto la guerra sono stati i contadini.
Noi non ci illudiamo di riuscire a silurare completamente la ormai naufragante nave bolscevica. Ma io noto già dei segni di resipiscenza. Credo che ad un dato momento la massa operaia, stanca di lasciarsi mistificare, tornerà verso di noi, riconoscendo che non l'abbiamo mai adulata, ma abbiamo sempre detta la parola della brutale verità, facendo realmente il suo interesse. Se oggi l'Italia non è precipitata nel baratro ungherese lo si deve anche a noi che ci siamo nessi di traverso con la nostra azione e con la nostra vita. Un solo dovere abbiamo dunque: comprendere i fenomeni sociali che si svolgono sotto i nostri occhi, combattere i mistificatori del popolo ed avere una fede sicura e assoluta nell'avvenire della nazione.
All'indomani di tutte le grandi crisi storiche c'è sempre stato un periodo di lassitudine. Ma poi a poco a poco i muscoli stanchi riprendono. Tutto ciò che fu ieri trascurato e vilipeso ritorna ad essere onorato ed ammirato.Oggi non si vuole più sentire parlare di guerra ed è naturale. Ma fra qualche tempo la psicologia del popolo sarà mutata e tutto o gran parte del popolo italiano riconoscerà il valore morale e materiale della vittoria; tutto il popolo onorerà i suoi combattenti e combatterà quei governi che non volessero garantire l'avvenire della nazione. Tutto il popolo onorerà gli arditi.
Sono gli arditi che andavano alle trincee cantando e se siamo ritornati dal Piave all'Isonzo è merito degli arditi; se teniamo ancora Fiume è merito degli arditi; se siamo ancora nella Dalmazia lo dobbiamo agli arditi. Tre martiri fra i mille che hanno consacrato la guerra italiana hanno voluto fissare i destini della nazione: Battisti ci dice che il Brennero dev'essere il confine d'Italia; Sauro ci dice che l'Adriatico deve essere un mare italiano e commercialmente italo-slavo; Rismondo ci dice che la Dalmazia è italiana. Ebbene, giuriamo davanti al vessillo che porta le insegne della morte che infutura la vita, e della vita che non teme la morte, di tener fede al sacrifico di questi martiri.
I DIRITTI DELLA VITTORIA
Prefazione
All'inaugurazione dell'adunata Fascista di Firenze, il 9 Ottobre 1919, il Duce pronunciò il seguente discorso.

Compagni Fascisti, non so se riuscirò a farvi un discorso molto ordinato perché non ho avuto modo, secondo la mia abitudine, di prepararlo. Un discorso Fascista io mi ripromettevo di pronunciare domani mattina per una ragione mia personale che vi può anche interessare e che mi dava diritto a chiedervi qualche ora di riposo.
Anche io ho fatto una piccola beffa a Sua Indecenza Nitti (Grida di: Abbasso Nitti! Abbasso Cagoia!). Sono partito da Novi Ligure sopra uno SVA insieme ad un magnifico pilota. Abbiamo attraversato l'Adriatico e siamo discesi a Fiume. D'Annunzio ci ha accolti molto festosamente, perché ha bisogno di aviatori e di apparecchi. Ieri mattina al ritorno siamo stati colti da una bufera di "bora" sull'altipiano istriano. Abbiamo perciò dovuto deviare dalla rotta e siamo atterrati ad Aiello. A Fiume ho vissuto quello che D'Annunzio giustamente chiama:" Un atmosfera di miracolo e di prodigio." Vi porto intanto il suo saluto. Egli si riprometteva di scrivere un messaggio apposta per la nostra adunata. (Applausi e grida di: Viva Fiume).
Il mio arrivo a Fiume ha coinciso con la cattura del piroscafo Persia, per cui tanto si era agitato il capitano Giulietti della Federazione del Mare.
La situazione di Fiume è ottima, sotto tutti gli aspetti. Vi sono viveri per tre mesi.
I jugoslavi non hanno nessuna intenzione di muoversi. Non solo, ma i croati riforniscono in parte Fiume, ciò che dimostra come sia sconcia ed insidiosa la manovra nittiana, tendente a sommuovere il popolino, facendo credere che si fosse alla vigilia di una guerra tra noi ed i jugoslavi. Niente di tutto questo esiste! D'Annunzio non ha fatto sparare finora nessun colpo di fucile contro coloro che stanno al di là della linea di armistizio; ha anzi emanato un proclama ai croati che è un magnifico documento, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista umano.
Esso conclude con le parole: "Viva la fratellanza italo-croata! Viva la fratellanza sul mare."
Ora, nei rapporti internazionali la situazione di Fiume è chiarissima. D'Annunzio non si muoverà, perché tutti gli eventi sono favorevoli a lui. Che cosa possono fare le potenze plutocratiche del capitalismo occidentale contro di lui? Nulla. Assolutamente nulla, perché il rimuovere un fatto compiuto sarebbe scatenare un altro più grosso guaio ed a questo nessuno pensa, nè in Francia, nè in Inghilterra. In Francia, lo possiamo dire tranquillamente, c'è un sacro orrore per un nuovo spargimento di sangue. Quanto al popolo dai "cinque pasti", ha fatto la guerra molto bene e brillantemente, ma ora tutto il suo ordine di idee è contrario a qualsiasi impresa guerresca ed a qualsiasi avventura un po' complicata. Domani il fatto compiuto di Fiume sarebbe compiuto per tutti, perché nessuno avrebbe la forza di modificarlo. Se il governo fosse stato meno vile, a quest'ora avrebbe risolto il problema di Fiume e gli alleati avrebbero dovuto accettarlo, magari con una protesta che forse avrebbe servito di argomento a qualche giornale umoristico. (Applausi).
E veniamo alle nostre cose. Noi siamo degli antipregiudizialisti, degli antidottrinari, dei problemisti, dei dinamici; non abbiamo pregiudiziali nè monarchiche, nè repubblicane. Se ora diciamo che la monarchia è assolutamente inferiore al suo compito, non lo diciamo certo in base ai sacri trattati. Noi giudichiamo dai fatti e diciamo: in questi mesi di Settembre e di Ottobre si è fatto in Italia più propaganda repubblicana che non si fosse fatta negli ultimi cinquant'anni, perché quando la monarchia chiama al Quirinale Giovanni Giolitti (Grida assordanti di:"Abbasso Giolitti."); quando la monarchia mantiene al potere quello che ormai passa bollato col marchio di infamia trovato a Fiume; quando essa scioglie la Camera e tollera che Nitti pronunci un discorso in cui si fa un chiaro appello alle forze bolsceviche della Nazione; quando essa tollera al potere un uomo che non è Kerenski, ma Karolyi; quando infine ratifica la pace per decreto reale, allora io vi dico chiaramente che il problema monarchico che ieri non esisteva per noi in linea pregiudiziale, si pone oggi in tutti i suoi termini. La monarchia ha forse compiuto la sua funzione creando ed in parte riuscendo ad unificare l'Italia. Ora dovrebbe essere compito della repubblica di unirla e decentrarla regionalmente e socialmente, di garantire la grandezza che noi vogliamo di tutto il popolo italiano.
Io credo di essermi spiegato e di avere fissato la linea esatta per cui noi siamo assolutamente coerenti nella nostra base iniziale. Ma noi non dobbiamo svalutare i nostri avversari. Il "babau" di una dittatura militare è grottesco. E' stato inventato da Nitti con la complicità dell'alta banca e dei giornali pseudo democratici che sono legati notoriamente all'alta e parassitaria siderurgia italiana. Io penso che domani, nell'attesa della crisi, i difensori delle istituzioni oramai superate non esisterebbero più perché tutti si squaglierebbero. Ma nella falla che si verrebbe ad aprire certo tutte le forze vi precipiterebbero.
Noi dovremmo allora tener presente il movimento pussista. Questa forza pussista consideriamola un po'' da vicino. I pussisti hanno dovuto contarsi ultimamente e intanto su 80.000 iscritti, 14.000 non si sa dove siano andati a finire. Sono gli sbandati. Ben 500 sezioni non sono state rappresentate in quelle che si chiamano le assise del proletariato italiano. Tutto quello che durante il congresso si è detto e fatto è stato molto meschino. Bordiga non è un gran generale. Si eleva un po'' dalla mediocrità. Quello che egli ha riportato alla tribuna è quanto io avevo già dato in pasto alla folla nel 1913. Di veramente importante non c'è stato che il discorso di Turati. Ma gli infiniti discorsi non hanno dato alla fine indicazioni pratiche su quello che i pussisti devono o vogliono fare. Noi siamo molto più precisi di loro e vi diciamo subito che noi dobbiamo porre un "ultimatum" al governo dichiarando che se non abolisce la censura noi fascisti non parteciperemo alle elezioni. Bisogna protestare contro una censura ripristinata in regime elettorale, altrimenti dimostreremo di poter accettare qualunque altro arbitrio. A questa protesta, noi ne possiamo aggiungere un'altra positiva e di azione. In quanto ai socialisti, la grandissima parte si distingue per una fisiologica vigliaccheria. Essi non amano battersi, non vogliono battersi, il ferro e il fuoco li spaventa. D'altra parte, e su questo mi preme di richiamare la vostra attenzione, noi non dobbiamo confondere questa creazione piuttosto artificiosa con un partito del quale i proletari sono un'infima minoranza, mentre abbondano tutti quelli che vogliono un posticino al parlamento, al consiglio comunale e nelle organizzazioni. E' in realtà una cricca politica che vorrebbe sostituirsi alla cricca dominante. Noi non dobbiamo confondere questa cricca di politicanti mediocri con l'immenso movimento del proletariato che ha una sua ragione di vita, di sviluppo e di fratellanza.
Io ripeto qui quanto dissi altra volta. Nessuna demagogia. I calli alle mani non bastano ancora per dimostrare che uno sia capace di reggere uno Stato o una famiglia. Bisogna reagire contro tutti questi cortigiani e questi nuovi semi-idoli per elevare questa gente dalla schiavitù morale e materiale in cui è caduta. Non bisogna andare verso di essa con l'atteggiamento dei partigiani. Noi siamo dei sindacalisti, perché crediamo che attraverso la massa sia possibile di determinare un trapasso dell'economia, ma questo trapasso ha un corso molto lungo e complesso. Una rivoluzione politica si fa in 24 ore, ma in 24 ore non si rovescia l'economia di una Nazione che è parte di un'economia mondiale. Noi non intendiamo con questo di essere considerati una specie di "guardia del corpo" di una borghesia che specialmente nel ceto dei nuovi ricchi è semplicemente indegna e vile. Se questa gente non sa difendersi da se stessa, non speri di essere difesa da noi.
Noi difendiamo la Nazione, il popolo nel suo complesso. Vogliamo la fortuna morale e materiale del popolo e questo perché sia ben inteso.
Io credo che con il nostro atteggiamento sia possibile di avvicinarci alla massa. Intanto la Federazione dei Lavoratori del Mare si è staccata dalla Confederazione Generale del Lavoro; i ferrovieri hanno dimostrato nello scioperismo di essere italiani e di voler essere italiani, e mentre l'alta burocrazia delle amministrazioni pubbliche è piuttosto nittiana e giolittiana, il proletariato delle stesse amministrazioni tende a simpatizzare con noi.
Da cinquant'anni si prendono i generali, i diplomati, i burocratici dalle classi dirigenti, da un nucleo chiuso di ceti e di persone. E' tempo di spezzare tutto ciò se si vogliono mettere nuove energie e nuovo sangue nel corpo della nazione.
E veniamo alle elezioni. Dobbiamo occuparci delle elezioni perché qualunque cosa si faccia è sempre buona regola di stringersi insieme, di non bruciare i vascelli dietro di se. Può essere che in questo mese di Ottobre le cose precipitino in un ritmo così frenetico, da rendere quasi superato il fatto elettorale. Può essere, invece, che le elezioni si svolgano. Dobbiamo essere pronti anche a questa seconda eventualità. Ed allora noi Fascisti dobbiamo affermarci da soli, dobbiamo uscire distinti, contati, e, se saremo pochi, bisognerà pensare che siamo al mondo da sei mesi soltanto.Dove una probabilità di affermazione isolata non esista, si potrà costituire il blocco interventista di sinistra che deve avere da un lato la rivendicazione dell'utilità dell'intervento italiano ai fini universali, umani e nazionali, contro tutti coloro, giolittiani, pussisti e clericali, che l'hanno osteggiato. D'altra parte questo programma non può esaurire la nostra azione, e allora bisognerà presentare alla massa i dati fondamentali su cui vogliamo erigere la nuova Italia. Dove la situazione sarà più complicata, si potrà aderire anche ad un blocco interventista in senso più completo e più vasto.
Ma noi vogliamo, soprattutto, consacrare in questa nostra adunata - rivendicandola contro coloro che la negano e che vorrebbero dimenticarla - la immensa vittoria italiana.
Noi abbiamo debellato un impero nemico che era giunto fino al Piave ed i cui dirigenti avevano tentato di assassinare l'Italia. Noi abbiamo ora il Brennero, abbiamo le Alpi Giulie e Fiume e tutti gli italiani della Dalmazia. Noi possiamo dire che tra Piave e Isonzo abbiamo distrutto un impero e determinato il crollo di quattro autocrazie.
(Un'ovazione vivissima accoglie la chiusa de discorso di Mussolini che è stato seguito e sottolineato nei punti più salienti da entusiastiche acclamazioni)
DISCORSO DI TRIESTE.
Prefazione
Il 20 Settembre 1920 - cinquantesimo anniversario del compimento della prima fase dell'unità d'Italia - il Duce pronunciava questo discorso in Trieste, al Politeama Rossetti. Coglieva l'occasione per considerare, in una sintesi critica, l'attivo e il passivo del Risorgimento italiano e della più recente Storia d'Italia, per stabilire la genesi, i compiti e i fini del Fascismo. Questo discorso - critico e programmatico a un tempo - è uno di quelli che pongono, nei momenti più torbidi e tristi, le chiare basi della ricostruzione. In esso appare quel supremo ideale della missione di Roma che è destinato a divenire, dopo il 1922, uno dei capisaldi spirituali e pragmatici del Regime Fascista.

Io non vi considero, o triestini, come degli italiani ai quali non si può dire ancora la verità o tutta la verità, perché io vi considero come i migliori fra gli italiani, ed il vostro entusiasmo di oggi me lo dimostra. L'evento, che ebbe il 20 Settembre 1870 in Roma il suo compimento, fu un magnifico quadro dentro ad una mediocre cornice, nè su ciò mi soffermerò.
Dopo cinquant'anni dalla Breccia di Porta Pia, noi dobbiamo fare il nostro esame di coscienza. Una nazione come la nostra, che era uscita da una lunga divisione plurisecolare, che aveva appena raggiunto l'unità, non aveva ossa sufficientemente robuste per reggere il peso di una politica mondiale. Un uomo grande nel pensiero italiano, Francesco Crispi, ruppe questa tradizione.
In cinquant'anni di vita, l'Italia ha realizzato progressi meravigliosi. Prima di tutto c'è un dato di fatto: ed è la vitalità della nostra stirpe, della nostra razza. Ci sono delle nazioni che ogni anno devono compulsare con una certa preoccupazione i registri dello stato civile, perché, o signori, è appunto in questo disquilibrio che si producono le grandi crisi dei popoli, e voi sapete a chi alludo. Ma l'Italia non ha di queste preoccupazioni. L'Italia faceva 27.000.000 di abitanti nel 1870; ne ha 50.000.000 adesso: 40.000.000 nella penisola, ed è il blocco più omogeneo che ci sia in Europa. Perché, a paragone del blocco boemo, ad esempio, dove 5.000.000 di ezechi governano 7.000.000 di un'altra razza, l'Italia non ha che 180.000 tedeschi nell'Alto Adige immigrati in casa nostra; non ha che 360.000 slavi immigrati in casa nostra, mentre tutto il resto è un blocco unico e compatto. E accanto a questi 40.000.000 in Italia, ce ne sono 10.000.000 che hanno straripato in tutti i continenti, oltre tutti gli oceani: 700.000 italiani sono a Nuova York, 400.000 nello stato di San Paolo, dove la lingua di stato dovrà divenire la lingua italiana, 900.000 nella repubblica argentina, 120.000 in Tunisia, quella Tunisia alla quale rinunciammo in un momento di minchioneria colossale: quella Tunisia che abbiamo riconquistato attraverso l'opera meravigliosa dei coloni siciliani che ivi hanno trasportato le loro tende che oggi lavorano per la reggenza francese, ma che molto probabilmente lavoreranno domani sotto la reggenza italiana.
E' un peccato che gli stranieri ci conoscano poco, ma è anche più grave che gli italiani conoscano poco l'Italia, perché se la conoscessero, si vedrebbe che molti popoli d'oltre confine sono ancora più indietro di noi, si saprebbe che nel campo industriale il più potente impianto idroelettrico del mondo è in Italia. E non mi si parli di forze reazionarie in Italia. Mi fanno ridere quelli che parlano di governo reazionario, specialmente se sono elementi immigrati o rinnegati di Trieste; perché se c'è un paese al mondo dove la libertà sta per sconfinare nella licenza, dove la libertà è patrimonio inviolabile di tutti i cittadini, è l'Italia.
Non si è visto ancora in Italia quello che si è visto in Francia, dove per uno sciopero politico la Repubblica francese, ha sciolto la Confederazione generale del Lavoro, ha legato i capi e li tiene ancora n galera; non si è visto ancora quello che si è visto in Inghilterra, dove elementi cosiddetti non desiderabili sono spediti oltre la Manica, e non si è visto ancora in Italia quello che si è visto compiuto nell'ultra democratica repubblica degli Stati Uniti, dove in una sola notte 500 cosiddetti sovversivi vengono legati e spediti in 24 ore oltre l'Atlantico. Se c'è qualche cosa da dire è questo: è tempo di imporre una ferrea disciplina ai singoli ed alle folle, perché un conto è la rinnovazione sociale, alla quale non siamo contrari, ed un conto è la dissoluzione in casa. Finché si parla di trasformazione, noi ci siamo tutti, ma quando invece si vuol fare il salto nel buio, allora noi poniamo il nostro alto là. Passerete, diciamo, ma passerete sui nostri corpi; e prima dovete vincere la nostra resistenza.
Ora, dopo mezzo secolo di vita italiana, che io vi ho così schematicamente riassunto, Trieste è italiana e sul Brennero sventola il tricolore. Se fosse possibile attardarci un minuto a misurare la grandiosità dell'evento, voi trovereste che il fatto che sul Brennero ci sia il tricolore, è un fatto di importanza capitale, non solo nella storia italiana, ma anche nella storia europea. Il tricolore sul Brennero significa che i tedeschi non caleranno più impunemente nelle nostre contrade. Si sono messi tra noi e loro i ghiacciai e sopra i ghiacciai quei magnifici alpini che andavano all'assalto del Monte Nero, che si sono sacrificati all'Ortigara ed hanno sulle loro bandiere il motto: " Di qui non si passa". (Applausi fragorosi).
Ora è un fatto importantissimo che Trieste è venuta all'Italia dopo una vittoria colossale.
Se noi non fossimo così quotidianamente presi dalle necessità della vita materiale, se non avessimo continuamente attraversato il pensiero da altri problemi mediocri e banali, noi sapremmo misurare tutto ciò che si svolse sulle rive del Piave nel Giugno ed a Vittorio Veneto nell'Ottobre. Un impero andò in isfacelo in un'ora, un impero che aveva resistito nei secoli, un impero dove si era sviluppata necessariamente un'arte sopraffina di governo che consisteva nel suo eterno divide et impera, saggiamente, secondo la sapienza di Budapest e di Vienna. Questo impero aveva un esercito, aveva una politica tradizionale, aveva una burocrazia, aveva legato tutti i cittadini a suffragio universale. Quest'impero che sembrava potente, invincibile, crollò sotto i colpi delle baionette del popolo italiano.
Il risorgimento italiano non è che una lotta fra un popolo ed uno Stato, fra il popolo italiano da una parte e lo Stato absburgico dall'altra, fra la forza viva a venire e il morto passato. Era fatale che avendo passato il Mincio nel 1859 e l'Adige nel 1866, nel 1915 si dovesse passare l'Isonzo e giungere oltre: era fatale, tanto fatale che oggi gli stessi neutralisti, lo stesso uomo del "parecchio", Giolitti, intervistato da un giornalista americano, ha dovuto riconoscere che l'Italia, pena il suicidio, pena la morte, pena maggiore: la vergogna, non poteva rimanere neutrale. Era per lui questione di modo e di tempo. Ma essenziale per noi è che l'uomo del "parecchio" abbia detto che l'Italia doveva intervenire più tardi o prima non importa, e che era logico e fatale che l'intervento si sviluppasse a fianco dell'Intesa.
Questa rivendicazione del nostri interventismo è quella che ci dà la massima soddisfazione. E che cosa importa se leggo in un libro nero e melanconico che Trieste, Trento e Fiume rappresentano ancora un deficit di fronte alla guerra? Questo modo di ragionare è ridicolo. Prima di tutto non si riducono gli avvenimenti della storia ad una partita computistica di dare ed avere, di entrata ed uscita. Non si può fare un bilancio preventivo nei fatti della storia, e pretendere che collimi col bilancio consuntivo. Tutto questo è frutto di una melanconia filosofica abbastanza diffusa in Italia dopo la guerra.
Ma speriamo che passi presto, per dar posto a sentimenti di ottimismo e di orgoglio. Questo dopoguerra è certamente critico: lo riconosco; ma chi pretende che una crisi gigantesca come quella di cinque anni di guerra mondiale si risolva subito? Che tutto il mondo ritorni tranquillo come prima in men di due anni? La crisi non è di Trieste, di Milano, d'Italia, ma mondiale, e non è finita.
La lotta è l'origine di tutte le cose perché la vita è tutta piena di contrasti: c'è l'amore e l'odio, il bianco e il nero, il giorno e la notte, il bene e il male e finché questi contrasti non si assommano in equilibrio, la lotta sarà sempre nel fondo della natura umana, come suprema fatalità. E del resto è bene che sia così. Oggi può essere la lotta di guerra economica, di idee, ma il giorno in cui più non si lottasse, sarebbe giorno di malinconia, di fine, di rovina. Ora, questo giorno non verrà. Appunto perché la storia si presenta sempre come un panorama cangiante. Se si pretendesse di ritornare alla calma, alla pace, alla tranquillità, si combatterebbero le odierne tendenze dell'attuale periodo dinamico. Bisogna prepararsi ad altre sorprese, ad altre lotte. Non ci sarà un periodo di pace sino a quando i popoli si abbandoneranno ad un sogno cristiano di fratellanza universale e potranno stendersi la mano oltre gli oceani e le montagne. Io, per mio conto, non credo troppo a questi ideali, ma non li escludo perché io non escludo niente: tutto è possibile, anche l'impossibile e l'assurdo. Ma oggi, come oggi, sarebbe fallace, pericoloso, criminoso costruire le nostre case sulla fragile sabbia dell'internazionale cristiano-socialista-comunista. Questi ideali sono rispettabili, ma sono ancora molto lontani dalla realtà. (Applausi).
Quale l'azione del Fascismo in questo periodo così travagliato del dopoguerra? Primo pilastro fondamentale dell'azione Fascista è l'italianità, cioè: noi siamo orgogliosi di essere italiani, noi intendiamo, anche andando in Siberia, di gridare ad alta voce: Siamo Italiani ! Ora è appunto tutto questo che ci separa da molta altra gente che è così grottesca e piccina e che nasconde la sua italianità perché in Italia c'era una volta l'80% di analfabeti. Analfabeta non significa niente, perché anche la piccola mediocre istruzione elementare può essere peggiore dell'analfabetismo puro e semplice. E' vecchia idealità quella di credere che è più intelligente uno che sa scrivere di uno che, essendo forse più intelligente non lo sa.
Quella gente si vergogna, per esempio, se gli emigranti italiani distribuiscono qualche generosa coltellata: ma tutto questo è un modo molto brillante di dimostrare che gli italiani non sono vigliacchi nè rammolliti e che hanno il mezzo di difendere l'italianità quando i consoli non sanno difenderla. Ora noi rivendichiamo l'onore di essere italiani, perché nella nostra penisola, meravigliosa e adorabile -adorabile benché ci siano degli abitatori non sempre adorabili - s'è svolta la storia più prodigiosa e meravigliosa del genere umano. Pensate voi a un uomo che stia pure nel lontano Giappone o nell'America dei dollari o in qualche altro sito anche recondito, pensate se quest'uomo possa essere civile senza conoscere la storia di Roma. Non è possibile.
Roma è il nome che riempie tutta la storia per 20 secoli. Roma dà il segnale della civiltà universale; Roma che traccia strade, segna confini e che dà al mondo le leggi eterne dell'immutabile suo diritto. Ma se questo è stato il compito universale di Roma nell'antichità, ecco che dobbiamo assolvere ancora un altro compito universale. Questo destino non può diventare universale se non si trapianta nel terreno di Roma. Attraverso il cristianesimo, Roma trova la sua forma e trova il modo di reggersi nel mondo. Ecco Roma che ritorna centro dell'impero universale che parla la sua lingua. Pensate che il compito di Roma non è finito, no, perché la storia italiana del medioevo, la storia più brillante di Venezia, che regna per 10 secoli, che porta le sue galee in tutti i mari, che ha ambasciate e governi , governi di cui oggi si è perduta la semente, non si è chiusa. La storia dei comuni italiani, è una storia piena di prodigi, piene di grandezza, di nobiltà. Andate a Venezia, a Pisa, ad Amalfi, a Genova, a Firenze, e voi troverete là sui palazzi, nelle strade, il segno, l'impronta di questa nostra meravigliosa e non ancora marcita civiltà.
Ora, amici che ascoltate, dopo questo periodo, sul principio dell'800 in cui l'Italia era divisa in 7 piccoli stati, sorse una generazione di poeti: la poesia ha anche il compito di suscitare l'entusiasmo e di accendere le fedi e non per niente il più grande poeta dell'Italia moderna, lo vogliano o no gli scribi che non sanno esprimere nel loro cervello un'ideuzza, il più grande poeta d'Italia, Gabriele D'Annunzio, realizza, nella magnifica unità di pensiero e di sentimento, l'azione che è una caratteristica del popolo italiano. (Il pubblico scatta in piedi al grido di :"Viva D'Annunzio, Viva Fiume")
Siamo orgogliosi di essere italiani, non già per un criterio di gretto esclusivismo. Lo spirito moderno ha il timpano auricolare teso verso la bellezza e la verità. Non si può pensare un uomo moderno che non abbia letto Cervantes, Shakespeare, Goethe, che non abbia letto Tolstoj. Ma tutto questo non deve farci dimenticare che noi abbiamo tenuto il primato, che noi eravamo grandi quando gli altri non erano nati, che mentre il tedesco Klopstock scriveva la verbosa messiade, Dante Alighieri dal 1265 al 1321 giganteggiava. E abbiamo ancora la scultura di Michelangelo, la pittura di Raffaello, l'astronomia di Galileo, la medicina di Morgagni e accanto a questi il misterioso Leonardo da Vinci, che eccelle in tutti i campi e, se volete passare all'arte della politica e della guerra, ecco Napoleone, ma soprattutto Garibaldi latinamente italiano.
Queste sono le Dolomiti del pensiero, dello spirito italiano, ma accanto a queste Dolomiti, quasi inaccessibili, c'è un panorama di culmini e di vette minori, che dimostrano che non si può assolutamente pensare alla civiltà umana senza il contributo formidabile recatovi dal pensiero italiano. E questo bisogna ripetere qui dove stanno, ai nostri confini, tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili e che pretenderebbero, soltanto perché sono in tanti di sopprimere e soppiantare questa nostra meravigliosa civiltà che ha resistito due millenni e si prepara a resistere il terzo.
Quanto al secondo pilastro del Fascismo esso significa antidemagogia e pragmatismo. Non abbiamo nessun preconcetto, non ideali fissi e soprattutto non orgoglio sciocco. Coloro che dicono: "Siete infelici, eccovi la ricetta per la felicità", mi fanno venire a mente la reclame:" Volete la salute?". Noi non promettiamo agli uomini felicità qui nè al di là, a differenza dei socialisti, che pretenderebbero di mascherare la faccia dei Mediterranei con la maschera russa.
Una volta c'erano i cortigiani che bruciavano incenso davanti ai re e ai papi, e ora, c'è una nuova genia che brucia incenso senza sincerità davanti al proletariato. Dicono: solo chi ha l'Italia nelle mani ha diritto di governare e magari costoro non sanno governare nemmeno la propria famiglia. Noi no. Noi teniamo altro linguaggio, molto più serio e spregiudicato e più degno di uomini liberi. Noi non escludiamo che il proletariato sia capace di sostituire altri valori, ma diciamo al proletariato: prima di pretendere di governare una nazione incomincia col governare te stesso: comincia a rendertene degno, tecnicamente, e prima ancora moralmente, perché governare è cosa tremendamente complessa, difficile e complicata. (Applausi). La nazione ha milioni e milioni di individui i cui interessi contrastano, e non ci sono esseri superiori che possano conciliare tutte queste contrarietà per fare una unità di progressi e di vita.
D'altra parte noi non siamo passatisti assolutamente legati ai sassi e alle macerie. Nelle città moderne tutto deve trasformarsi. Ai trams, alle automobili, ai motori, le vecchie strade delle nostre città non resistono più. Poiché in esse passa il flutto della civiltà. Si può distruggere per ricreare il più bello, grande e nuovo, ma mai distruggere col gusto del selvaggio che spezza una macchina per vedere che cosa c'è dentro. Non ci rifiutiamo a modificazioni anche nella città dello spirito, appunto perché lo spirito è delicato. A me non ripugna nessuna trasformazione sociale necessaria. Così accetto anche questo famoso controllo delle fabbriche ed anche la gestione cooperativa sociale delle fabbriche, ma semplicemente chiedo che si abbia la coscienza morale pulita, la capacità tecnica per mandare avanti le aziende; chiedo che queste aziende producano di più, e se ciò mi è garantito dalle maestranze operaie e non più padronali, non ho difficoltà a dire che gli ultimi hanno il diritto di sostituire i primi.
Quello cui ci opponiamo noi Fascisti è la mascheranza bolscevica del socialismo italiano. E' strano che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i vangeli prima in Germania e poi in Russia. Bisognerebbe studiare un po' Pisacane e Mazzini e si vedrebbe che alcune delle verità che si pretendono rivelate dalla Russia non sono che verità già consacrate nei libri dei nostri grandi maestri italiani. Ma infine come pensate che il comunismo sia possibile in Italia, il paese più individualista del mondo? Questo è possibile dove ogni uomo è un numero, ma non in Italia, dove ogni uomo è un individuo, anzi una individualità. Ma poi, cari signori, esiste ancora in Russia questo bolscevismo? Non esiste più. Non più consigli di fabbrica, ma dittatori di fabbrica; non 8 ore di lavoro, ma 12; non eguaglianza di salari, ma 35 categorie di salari; non secondo il bisogno, ma secondo i meriti. Non c'è in Russia nemmeno quella libertà che ha l'Italia. C'è una dittatura del proletariato? No! C'è una dittatura dei socialisti? No! C'è una dittatura di pochi uomini intellettuali non operai, appartenenti ad una frazione del partito socialista, combattuta da tutte le altre frazioni.
Questa dittatura di pochi uomini è quella che si chiama bolscevismo. Ora, in Italia noi non ne vogliamo sapere, e gli stessi socialisti, compresi quelli che hanno veduto la Russia, quando voi li interrogate, riconoscono che non si può trapiantare in Italia quello che va male in Russia. Solamente hanno il torto di non dirlo apertamente, hanno il torto di giocare sull'equivoco e di mistificare le masse. Ripetiamo, noi non siamo contrari alle masse operaie, perché esse sono necessarie alla nazione, sono necessarie, sacrosantamente necessarie. I 20 milioni di italiani che lavorano col braccio hanno il diritto di difendere i loro interessi. Quella che noi combattiamo è la mistificazione dei politicanti a danno delle classi operaie; noi combattiamo questi nuovi preti in mala fede che promettono un paradiso nel quale non credono neppure essi. Quelli che a Trieste fanno i bolscevichi più accesi, lo fanno semplicemente per rendersi simpatici alle masse slave che abitano qui vicino. (Applausi fragorosi.)
E se io ho una disistima profonda, un disprezzo profondo di molti capi del movimento bolscevico d'Italia, è perché li conosco bene, perché li ho conosciuti tutti quanti, sono stato con loro a contatto; so benissimo che quando fanno i leoni sono conigli, so benissimo che fanno come quei tali frati di Arrigo Heine, che predicano apertamente l'acqua e bevono nascostamente il vino. Noi vogliamo appunto che questa turpe speculazione finisca, anche perché è antinazionale.
Mi sapete dire per qual caso singolare in tutte le questioni i socialisti italiani sono contro l'Italia? Mi sapete dire perché sono sempre coi popoli che avversano l'Italia? Cogli albanesi, coi croati, coi tedeschi, e con tutti gli altri popoli? Mi sapete spiegare perché si grida viva l'Albania che fa la guerra per avere Valona che è albanese e non si grida viva l'Italia che fa la guerra per avere Trento e Trieste che sono italiane? Ma che criterio è questo di essere sempre contro l'Italia e di gridare sempre stupidissimi "via"?
Quattro arabi si rivoltano in Libia: via dalla Libia ! Seimila albanesi attaccano: via da Valona ! E se domani i croati della Dalmazia ci attaccheranno, i socialisti diranno: via dalla Dalmazia ! E se domani su questi monti arsicci del Carso si sviluppasse un movimento insurrezionale contro Trieste, temo che i socialisti d'Italia direbbero anche: via da Trieste ! (A questo punto tutto il pubblico scatta in piedi gridando "Mai !"). Ma ci sono anche italiani di qui e fuori di qui che affogherebbero loro in bocca il grido fratricida.
Ed è lo stesso della loro opposizione alla guerra. Vedete, la guerra è cosa orribile. Lo sanno coloro che l'hanno fatta. Ma allora bisogna spiegarsi: o la guerra in se e per se, fatta per qualsiasi ragione, sotto qualsiasi latitudine, per qualsiasi pretesto, non deve farsi e allora io rispetto questi umanitari, questi tolstoiani se dicono: io aborro dal sangue per qualsiasi ragione sia versato. Li rispetto e li ammiro, sebbene trovi ciò leggermente inattuabile. Ma i socialisti gridano "abbasso la guerra", quando la fa l'Italia e "viva la guerra" quando la fa la Russia. Voi avete un giornale che era lieto quando i cosiddetti bolscevichi marciavano su Varsavia e usava un stile prettamente militare: "Mentre scriviamo, il cannone, ecc". Lo sappiamo a memoria. Ma allora la guerra non è la stessa cosa. La guerra russa non fa vedove, non fa orfani? Non è fatta coi cannoni, aeroplani, e tutte le armi infine che straziano e uccidono corpi umani? O voi, dunque, siete contrari a tutte le guerre, e allora noi potremo discutere insieme, ma se voi fate distinzione fra guerra e guerra, guerra che si può fare e guerra che non si può fare, allora noi vi diciamo che il vostro umanitarismo ci fa schifo. E se avete ragione di fare la guerra, avevamo ragione noi di farla per i destini della nazione nel 1915.(Applausi).
Quale può essere quindi - e volgo alla fine - il compito dei Fascisti? Il compito dei Fascisti in Italia è questo: tenere testa alla demagogia con coraggio, energia ed impeto. Il Fascio si chiama di combattimento e la parola combattimento non lascia dubbi di sorta. Combattere con armi pacifiche, ma anche con armi guerriere. Del resto tutto ciò è normale in Italia perché tutto il mondo si arma e quindi è assolutamente necessario che noi che siamo italiani, ci armiamo a nostra volta. Ma il compito dei Fascisti di queste terre è più delicato, più sacro, più difficile, più necessario. Qui il Fascismo ha ragione d'essere; qui il Fascismo trova il suo terreno naturale di sviluppo. In questa giornata storica mentre la crisi italiana sembra aggravarsi - non importa, si risolverà - io ho fiducia illimitata nell'avvenire della nazione italiana. Le crisi si succederanno alle crisi, ci saranno pause e parentesi, ma andremo all'assestamento e non si potrà pensare a una storia di domani senza la partecipazione italiana. Perché è bensì vero che nel 1919 l'Italia ha avuto un Nitti e nel 1920 un Giolitti, ma se questa è la faccia nera della situazione, dall'altra parte la faccia splendente di questa situazione è Gabriele D'Annunzio, il quale ha realizzato l'unica rivolta contro la plutocrazia di Versaglia.
Molti ordini del giorno, molti articoli di giornali, molte chiacchiere più o meno insulse, ma l'unico che abbia compiuto un gesto vero e reale di rivolta, l'unico che per dodici o tredici mesi ha tenuto in iscacco tutte le forze del mondo è Gabriele D'Annunzio insieme coi suoi legionari. Contro quest'uomo di pura razza italiana si accaniscono tutti i vigliacchi ed è per questo che noi siamo fierissimi ed orgogliosi di essere con lui, anche se contro di noi si accanisca la vasta tribù degli scemi. Quest'uomo significa anche la possibilità della vittoria e della resurrezione. E questa possibilità esiste, perché abbiamo fatto la guerra e abbiamo vinto ed è ridicolo che coloro che di più hanno beneficiato della guerra, in stipendi, in voti, in onori, siano proprio coloro che sputano oggi su questa guerra e su questa vittoria. Ad ogni modo io penso, e questa vostra adunata me ne fa testimonianza solenne, che l'ora della riscossa del valore nazionale è spuntata. C'è da una parte un vasto mondo che brulica, ma c'è anche un mondo che non è immemore che non è ignorante. (Applausi vivissimi.)
Mentre partivo da Milano, mi giungeva da Cupra Marittima, un piccolo paese dell'Italia centrale, un invito del sindaco che mi chiamava a commemorare i caduti in guerra. Non ho accettato perché i discorsi mi pesano. Ma questo episodio, come il pellegrinaggio dell'Ortigara, il pellegrinaggio sul Grappa, il pellegrinaggio del 24 Ottobre sulle pietraie del Carso, vi dice che i valori ideali e morali non sono ancora tutti perduti e stanno anzi risorgendo. Noi vogliamo aiutare questa rinascita di valori spirituali e morali e vogliamo aiutarla colle opere scritte e fatte.
Ieri ebbi un minuto di viva commozione passando l'Isonzo. Tutte le volte che ho passato quel fiume con lo zaino sulle spalle, mi sono chinato a bere quell'acqua cristallina e limpida. Se non avessimo varcato quel fiume, oggi il tricolore non sarebbe su San Giusto.
Qui è il significato vero e proprio della guerra. Orbene, se il tricolore è issato su San Giusto, vi è issato perché 20 anni fa un triestino fu il precursore di questa gesta; vi è issato anche perché nel 1915 i battaglioni italiani si precipitarono sui reticolati austriaci; ed a questa gesta tutta l'Italia ha preso parte, dagli alpini delle montagne di Piemonte, di Lombardia, del Friuli, alle fanterie magnifiche dell'Abruzzo, delle Puglie, della Sicilia ed ai soldati dell'isola generosa e ferrigna, della Sardegna dimenticata anche troppo dal Governo italiano. E quei generosi figli non si sono ancora levati in rappresaglie contro i demagoghi dell'Italia, perché sono ancora sempre pronti a compiere il loro dovere.
Triestini ! Il tricolore di San Giusto è sacro: il tricolore sul Nevoso è sacro; ancora più sacro è il tricolore sulle Dinariche. Il tricolore sarà protetto dai nostri eroici morti: ma giuriamo insieme che sarà difeso anche dai vivi ! (Calda e lunga ovazione.)
SECONDO DISCORSO DI TRIESTE

Prefazione
Ancora una volta il Duce sceglieva Trieste redenta per esporre in ampia sintesi la posizione del Fascismo di fronte agli assillanti problemi di politica estera. Questo discorso fu pronunciato al Politeama Rossetti di Trieste, il 6 Febbraio 1921. La citazione che chiude il discorso è presa dall'Eneide, canto I, v. 287.

Per delineare quali direttive debba seguire la politica estera dell'Italia, nell'immediato e mediato futuro, è opportuno gettare, preliminarmente, uno sguardo d'insieme, sulla situazione mondiale, sulle forze e correnti che vi agiscono e prospettare quali possano esserne gli sbocchi e i risultati. Tutti gli Stati del mondo si trovano fra di loro in un rapporto fatale d'interdipendenza, il periodo della splendide isolation è passato per tutti. Si può ben dire che colla guerra e dalla guerra, la storia del genere umano ha acquistato un ritmo mondiale. Mentre l'Europa dissanguata, stenta a ritrovare il suo equilibrio, economico, politico e spirituale, già si annunciano, oltre i confini del vecchio continente, formidabili antitesi d'interessi. Alludo al conflitto fra Stati Uniti e Giappone i cui episodi recenti, che vanno dalla faccenda del "cavo" al "bill" contro l'immigrazione gialla in California, sono nella cronaca dei giornali. Il Giappone conta oggi 77 milioni di abitanti; gli Stati Uniti 110 milioni. Che la coscienza della inevitabilità di un urto fra questi due Stati esista, può trovarsi in questo particolare significantissimo: il libro che ha avuto ed ha a Tokio la maggiore diffusione in tutte le zone della popolazione, s'intitola: La nostra prossima guerra cogli Stati Uniti. Quella che si profila è la guerra dei continenti per un dominio del Pacifico. L'asse della civiltà mondiale tende a spostarsi. Fu, sino al 1500, nel Mediterraneo; dal 1492 in poi, scoperta dell'America, passò nell'Atlantico: da oggi, si annuncia il suo trapasso al più grande oceano del pianeta.
Dissi altra volta che ci avviciniamo al secolo "asiatico". Il Giappone è destinato a funzionare da fermento di tutto il mondo giallo, mentre non è detto che Isaac Rufus, diventato lord Reading e viceré delle Indie, riuscirà a salvare in quelle terre l'imperialismo britannico.
Spostandosi l'asse della civiltà da Londra a New York (che fa già 7 milioni di abitanti e sarà, fra poco, la più grande agglomerazione umana della terra) e dall'Atlantico al Pacifico, c'è chi prevede un graduale decadimento economico e spirituale della nostra vecchia Europa, del nostro continente piccolo e meraviglioso, che è stato, sino ad ieri, guida e luce per tutte le genti. Assisteremo a questo oscurarsi ed eclissarsi del "ruolo" europeo nella storia del mondo?
A questa domanda inquietante e angosciosa rispondiamo: è possibile. La "vita" dell'Europa, specialmente nelle zone dell'Europa Centrale, è alla mercé degli americani. D'altra parte l'Europa ci presenta un panorama politico ed economico tormentatissimo, un groviglio spinoso di questioni nazionali e di questioni sociali e talvolta accade che il comunismo sia la maschera del nazionalismo e viceversa. Non sembra vicina realtà quella di una "unità" europea. Egoismi ed interessi di nazioni e di classi si accampano in fieri contrasti. La Russia non è più un enigma dal punto di vista economico. In Russia non c'è comunismo e nemmeno socialismo, ma una rivoluzione agraria a tipo democratico, piccolo-borghese. Rimane l'enigma dal punto di vista politico. Quale politica estera persegue in realtà la Russia? E' una politica di pace o di guerra? La varietà dei fatti a nostra conoscenza ci porta ad oscillare perennemente, fra l'una e l'altra ipotesi. In altri termini: sotto l'emblema falce e martello, si nasconde o non si nasconde il vecchio panslavismo, che, oggi sarebbe inoltre dominato da una ferrea necessità "rivoluzionaria" che è quella di allargare la rivoluzione nel resto d'Europa per salvare il Governo dei Soviety in Russia?
Se la Russia farà una politica di guerra la sorte degli Stati baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) appare segnata. Incerto anche il destino della Polonia, che potrebbe essere schiacciata al muro ostile tedesco dell'eventuale straripare dei russi. Ci sono in quelle plaghe dell'Europa nord-orientale, punti di dissidio, fra gli Stati. C'è un dissidio polacco-lituano-russo a proposito di Wilna 263.000 polacchi, 118.000 lituani, 8.000 bianco-ruteni, 83.000 israeliti. Le stesse cifre proporzionalmente si hanno per Grodno. Quanto all'Alta Slesia che tiene agitatissimo il mondo tedesco e quello polacco, le statistiche tedesche danno queste cifre: 1.348.000 polacchi; 588.000 tedeschi. L'Alta Slesia è, dunque, polacca, ma il suo destino sarà deciso dal plebiscito convocato pel 15 Marzo.
La grande guerra si è conclusa con sei, finora, trattati di pace: Versailles, S. Germano, Trianon, Neuilly, Sevres, Rapallo. Nessuno di questi trattati, ha accontentato in tutto i vincitori: nessuno di questi trattati, nemmeno quello di Rapallo, che si volle definire un trionfo delle negoziazioni amichevoli e pacifiche, è stato accettato dai vinti. Ognuno di questi trattati ha dei punti controversi o di difficile realizzazione. Per quello che riguarda il "trattatissimo" di Versailles, è in piedi, proprio in questo momento, la grossa questione dell'indennità che la Germania dovrebbe pagare: è una cifra che dà le vertigini. L'ultima parola non è stata ancora detta. Tutto quello che si fa, specie dai diplomatici, è un definitivo che ha sempre un ironico carattere di provvisorio. I tedeschi che hanno realizzato l"union sacrèe" del non pagare, annunciano che faranno delle controproposte e se ne parlerà a Londra, presenti gli stessi tedeschi, fra qualche settimana. La nostra opinione è che se i tedeschi possono pagare, devono, sino al grado della loro possibilità, pagare. I "tecnici" stabiliscano questa loro possibilità. Non bisogna dimenticare, prima di abbandonarsi a compiangere i tedeschi, che se vincevano, la indennità che noi avremmo dovuto pagare, era già stata fissata in 500 miliardi d'oro; che i tedeschi hanno scatenato la guerra e che il primo irredentismo inscenato dai tedeschi è diretto contro l'Italia, per la loro minoranza calata abusivamente nell'Alto Adige.
Dal trattato di S. Germano è uscita l'attuale repubblica austriaca. Può vivere così com'è formata? Generalmente si opina di no. Rimane l'ipotesi di una confederazione danubiana sull'asse Vienna-Budapest ma la "Piccola Intesa", composta dagli eredi, vigila a che non si ritorni, sotto una forma o l'altra, all'antico.
Noi pensiamo che, per forza di cose, a una Confederazione economica danubiana, presto o tardi, ci si arriverà e allora le condizioni dell'Austria e in particolar modo quelle di Vienna, ne verrebbero migliorate sino ad attenuare il movimento annessionistico pro-Germania. Dal punto di vista della giustizia, e quando ci fosse una manifesta e chiara volontà di popolo, l'Austria avrebbe diritto di "alienarsi" alla Germania. Questa ipotesi non ci può lasciare indifferenti, per via del confine al Brennero, questione di vita o di morte, per la sicurezza della valle padana. Un'Austria affamata ed elemosinante, non può scatenare un'irredentismo pericoloso contro di noi; unita alla Germania, la questione dell'Alto Adige si farebbe certissimamente più acuta. Quanto all'Ungheria essa può attendere una ragionevole revisione del Trattato che la mutilava da ogni parte. Bisogna però aggiungere che il capitolo "Fiume" è definitivamente sepolto nella storia ungherese. In tutto il mondo balcanico esistono focolai d'infezione di nuove guerre. Citiamo: Montenegro, Albania. Siamo per la indipendenza del primo e della seconda, se dimostrerà di saperla godere. Macedonia che è bulgara (1.181.000 bulgari, di fronte a 499.000 turchi ed a 228.000 greci). La Bulgaria ha diritto a un porto sull'Egeo. E' questo di un interesse capitale per l'espansione economica italiana in Bulgaria. Il trattato di Sèvres ha massacrato la Turchia per iperbolizzare la Grecia di Venizelos e di Costantino che ha dato alla guerra europea il sacrificio di ben 787 "euzoni". Pensiamo che per ciò che riguarda il Mediterraneo Orientale, l'Italia debba seguire una politica piuttosto turcofila.
A suo tempo, immediatamente dopo la firma del trattato, il Comitato Centrale dei Fasci diede il suo giudizio sul trattato di Rapallo, trovandolo "accettabile per il confine orientale, inaccettabile e deficiente per Fiume, insufficiente e da respingere per Zara e la Dalmazia". A tre mesi di distanza quel giudizio non appare smentito dagli avvenimenti successivi. Il trattato di Rapallo è un compromesso infelice, contro il quale sul Popolo furono elevate pagine di critica che è, ora, inutile riesumare. Si tratta di spiegare come l'Italia vittoriosa sia giunta a Rapallo. E la spiegazione non richiede eccessivi sforzi mentali. Siamo arrivati a Rapallo, come conseguenza logica della politica estera - fatta o impostaci - prima della guerra, durante la guerra e dopo la guerra. Per spiegare Rapallo, bisogna pensare agli alleati, due dei quali, essendo mediterranei per posizione geografica (Francia) o per interessi e colonie (Inghilterra) non possono vedere di buon occhio il sorgere dell'Italia in potenza mediterranea. onde si spiegano, in loro, lo zelo e tutte le manovre più o meno oblique con cui sono riuscite a creare nell'Adriatico Superiore e Inferiore, il contraltare marittimo - jugoslavo e greco - dell'Italia. Rapallo si spiega pensando a Wilson e ai suoi cosiddetti "experts"; alla mancanza assoluta di propaganda italiana all'estero; alla stanchezza mortale e perfettamente comprensibile della popolazione. Rapallo si spiega col convegno delle Nazionalità oppresse tenutosi nell'Aprile del 1918 a Roma e quel convegno si riattacca all'infausta pagina di Caporetto. Tutto si paga nella vita. Il 12 Novembre del 1920 abbiamo pagato a Rapallo la rotta del 24 Ottobre 1917. Senza Caporetto, niente Patto di Roma. In quel congresso i jugoslavi ci vendettero del fumo, poiché in realtà essi nulla, assolutamente nulla, fecero per disintegrare dall'interno la duplice monarchia, della quale furono fedelissimi servitori sino all'ultimo, con lealismo tradizionalmente croato. Non per niente, dopo il suo decesso, la monarchia d'Absburgo tentava regalare ai jugoslavi la sua flotta di guerra. Ma nell'Aprile del 1918 si creava - consenzienti tutte le correnti dell'opinione pubblica italiana, compresa la nostra e la nazionalista - l'irreparabile; si elevavano, cioè, al rango di alleati effettuali e potenziali i nostri peggiori nemici e si capisce, che a vittoria ottenuta, costoro non hanno accettato il ruolo dei vinti, ma hanno insistito sul loro ruolo di collaboratori e hanno rivendicato anche nei nostri confronti la relativa quota-parte del bottino comune. Dopo il Patto di Roma, non si poteva piantare il ginocchio sul petto alla Jugoslavia: questa la verità. Così è accaduto che il popolo italiano, stanco ed impoverito, snervato da due lunghi anni di inutili trattative, demoralizzato dalla politica di Cagoia e dalla tremenda ondata di disfattismo postbellico alla quale solo i Fasci hanno potentemente reagito, ha accettato o subito il trattato di Rapallo, senza manifestazioni di gioia o di rammarico. Pur di finirla, una buona volta, molta gente avrebbe trangugiato anche la linea terribile di Montemaggiore. Tutti i partiti, di tutte le gradazioni di destra o di sinistra, hanno accettato il trattato come un "meno peggio". Noi lo abbiamo subìto considerandolo soprattutto come una cosa effimera e transitoria (c'è mai stato nel mondo e specialmente sulle sabbie mobili della diplomazia qualche cosa di definitivo?) e, nell'intento di preparare tutte le forze affinché la prossima o lontana, ma fatale revisione, migliori il trattato e non lo peggiori; porti il nostro confine alle Dinariche, ma non porti mai più il confine jugoslavo all'Isonzo. La sorte toccata alla Dalmazia ci angoscia profondamente. Ma la colpa della rinuncia non è da attribuirsi tutta ai negoziatori dell'ultima ora: la rinuncia era già stata perpetrata nel Parlamento, nel giornalismo, nell'Università stessa, dove un professore ha stampato libri - naturalmente tradotti a Zagabria - per dimostrare - a modo suo - che la Dalmazia non è italiana !
La tragedia dalmata è in questa ignoranza, malafede e incomprensione, colpe alle quali speriamo di riparare colla nostra opera futura, intesa a far conoscere, amare e difendere la Dalmazia italiana.
Firmato il trattato, si poteva annullarlo con uno o l'altro di questi due mezzi: o la guerra all'esterno o la rivoluzione all'interno. L'una e l'altra assurde ! Non si fa scattare un popolo sulle piazze contro un trattato di pace, dopo cinque anni di calvario sanguinoso. Nessuno è capace di operare tale prodigio !
Si è potuta fare in Italia una rivoluzione per imporre l'intervento, ma nel Novembre 1920 non si poteva pensare a una rivoluzione per annullare un trattato di pace, che, buono o cattivo, era accettato dal 99 percento degli italiani ! Io non tengo, fra tutte le virtù possibili e pensabili, alla coerenza; ma testimoni esistono e documenti stenografici fanno fede, che, dopo Rapallo, io ho sempre dichiarato che due cose mi rifiutavo di fare contro il trattato: la guerra all'esterno e la guerra all'interno. Pensavo anche che era pericoloso imbottigliarsi in un'opposizione armata al trattato, rimanendo in un punto periferico della Nazione, come Fiume.
Due mesi di polemiche e note quotidiane dei mesi di Novembre e Dicembre, stanno a testimoniare trionfalmente la mia opera di solidarietà colla causa di Fiume e la mia aperta e recisa opposizione al Governo di Giolitti. Gran peccato che l'oblio cada così rapidamente sugli scritti di un quotidiano; nè io ho l'abitudine melanconica di riesumare ciò che pubblico. Ma la realtà indistruttibile è che giorno per giorno ho battagliato perché il Governo di Roma riconoscesse quello di Fiume; perché al convegno di Rapallo fossero invitati i rappresentanti della Reggenza; perché da parte del Governo di Roma si evitasse ogni attacco armato contro Fiume. A Tragedia iniziata ho bollato come un enorme delitto l'attacco della vigilia di Natale e ho segnato all'indomani i "titoli d'infamia" del Governo di Giolitti e sempre ho esaltato lo spirito di giustizia, di libertà e di volontà che è lo spirito immortale della legione di Ronchi.
Accade per gli avvenimenti della storia, come talvolta a teatro: ci sono delle platee ringhiose che, avendo pagato il biglietto, pretendono che la rappresentazione, a qualunque costo, vada a termine. Così oggi in Italia incontrate due categorie d'individui: gli uni, tipo Malagodi e Papini, che rimproverano a D'Annunzio di essere sopravvissuto alla tragedia fiumana e altri che rimproverano a Mussolini di non aver fatto quella piccola cosa leggera, facile, graziosa, che si chiama una "rivoluzione". Io ho sempre disdegnato gli alibi vigliacchi, coi quali e pei quali, in Italia - deficienza, impotenza, rancori e miserie - ci si sfoga su teste di turco reali o immaginarie. I Fasci di Combattimento non hanno mai promesso di fare la rivoluzione in Italia, in caso di un attacco a Fiume, e specialmente dopo la defezione di Millo. Io poi, personalmente, non ho mai scritto o fatto sapere a D'Annunzio che la rivoluzione, in Italia, dipendeva dal mio capriccio. Non faccio bluff e non vendo del fumo. La rivoluzione non è una boite à surprise che scatta a piacere. Io non la porto in tasca e non la portano nemmeno coloro che del suo nome si riempiono la bocca rumorosamente e all'atto pratico non vanno oltre al tafferuglio di piazza, dopo la dimostrazioncella inconcludente, magari col provvidenziale arresto che salva da guai peggiori. Conosco la specie e gli uomini. Faccio la politica da vent'anni. A guerra iniziata fra Caviglia e Fiume, o c'era la possibilità di scatenare grandi cose o altrimenti, per un senso di pudore, bisognava evitare l'eccessivo vociare e le sparate fumose, dileguate subito senza traccia e senza sangue.
La storia raccolta di fatti lontani insegna poco agli uomini; ma la cronaca,storia che si fa sotto gli occhi nostri, dovrebbe essere più fortunata. Ora la cronaca ci dice che le rivoluzioni si fanno coll'esercito, non contro l'esercito; colle armi, non senza armi; con movimenti di reparti inquadrati, non con masse amorfe, chiamate a comizi di piazza. Riescono quando le circonda un alone di simpatia da parte della maggioranza; se no, gelano e falliscono. Ora, nella tragedia fiumana, esercito e marina non defezionarono. Certo rivoluzionarismo fiumano dell'ultima ora non si definiva; andava da taluni anarchici a taluni nazionalisti. Secondo taluni "emissari", si poteva mettere insieme il diavolo e l'acqua santa; la nazione e l'anti-nazione; Misiano e Delcroix. Ora io, dichiaro che respingo tutti i bolscevismi, ma qualora dovessi, per forza, sceglierne uno, prenderei quello di Mosca e di Lenin, non fosse altro perché ha proporzioni gigantesche, barbariche, universali. Quale rivoluzione allora? La nazionale o la bolscevica ? Una grande incertezza - complicata da tante cause minori - confondeva gli animi, mentre la nazione più che in un senso di rivolta per ciò che accadeva attorno a Fiume, si raccoglieva in un senso di dolore e una sola cosa auspicava: la localizzazione dell'episodio e la sua rapida, pacifica conclusione.
Delle due l'una, nel caso che ci fosse stata e non c'era assolutamente, dato il contegno delle forze armate di cui disponeva il governo, la possibilità di un moto insurrezionale da parte nostra: o la disfatta o la vittoria. Nel primo caso tutto sarebbe andato perduto irreparabilmente nel baratro di una inutile guerra civile. Facciamo pure per amore di polemica, la seconda ipotesi; l'ipotesi della vittoria colla caduta del governo e del regime. E nel secondo tempo? Dopo la più o meno facile demolizione, quale direzione avrebbe avuto la rivoluzione? Sociale, come volevano taluni bolscevizzanti - quelli della formula "sempre più a sinistra", equivalente della grottesca "corsa al più rosso" - o nazionale e dalmatica e reazionaria come la volevano altri?
Non possibilità di conciliazione fra le due correnti. Per una rivoluzione socialoide, che significato avrebbero potuto avere ancora le questioni territoriali e precisamente dalmatiche? Nell'altro caso di una rivoluzione nazionale, contro il trattato di Rapallo, il tutto si sarebbe limitato ad un annullamento formale del trattato e a una sostituzione di uomini, per poi addivenire a un altro trattato, in un'altra Rapallo qualsiasi, poiché un giorno o l'altro, la nazione avrebbe dovuto finalmente avere la sua pace. Non si sanava un episodio di guerra civile, scatenando più ampia guerra, in un momento come quello che si attraversava, e nessuno è capace di prolungare e di creare artificiosamente situazioni storiche conchiuse e superate. A chi sa elevarsi al disopra delle meschine passioni e sa trarre una sintesi del vario cozzare degli elementi, e scernere il grano puro dal loglio equivoco, è concesso il privilegio dell'anticipazione sul Natale fiumano che può essere chiamato il punto d'incrocio tragico fra la ragione di Stato e la ragione dell'Ideale; il convegno terminale di tutte le nostre deficienze e di tutte le nostre grandezze !
Il primo è quello di Fiume. Non sentiamo il bisogno di accumulare frasi per ripetere la nostra solidarietà colla città olocausta. Abbiamo dato, proprio in questi giorni, le prove più tangibili della nostra solidarietà al Fascio Fiumano di Combattimento, per rimetterlo in condizioni tali da impegnare la lotta contro la croataglia che ritorna a farsi viva. L'azione dei fascisti deve tendere a realizzare, per il momento, l'annessione economica di Fiume all'Italia. Sollecitare governo e privati. Nello stesso tempo mantenere con ogni mezzo la fiamma dell'italianità, in modo che all'annessione economica si passi in breve a quella politica. A ciò si arriverà, malgrado tutto. Tutta la solidarietà fascista, nazionale e governativa dev'essere concentrata su Zara, in modo che la piccola città possa adempiere al suo delicato e grandioso compito storico. Tutela efficace degli italiani rimasti negli altri centri della Dalmazia. Niente collegio separato per gli slavi in Istria o per i tedeschi nell'Alto Adige. Non si può creare un precedente siffatto che ci porterebbe molto lontano. I francesi della Val d'Aosta, che sono, in realtà, ottimi italiani, non hanno collegio speciale o altri privilegi del genere. Questa duplice circoscrizione sarebbe un errore gravissimo. Tocca ai fascisti del Trentino e di Trieste, impedire a qualunque costo che si compia.
Gli orientamenti stabiliti l'anno scorso - nell'adunata del Maggio a Milano - non sono invecchiati o sorpassati.
Il Fascismo gode fama di essere "imperialista".Quest'accusa fa il paio coll'altra di "reazionarismo". Il Fascismo è anti-rinunciatario quando "rinunciare" significa umiliarsi e diminuirsi. A paragrafi:
1°)Il Fascismo non crede alla vitalità e ai principi che ispirano la cosiddetta Società delle Nazioni. In questa Società le Nazioni non sono affatto su un piede di eguaglianza. E' una specie di santa alleanza delle nazioni plutocratiche del gruppo franco-anglo-sassone per garantirsi - malgrado inevitabili urti di interessi - lo sfruttamento della massima parte del mondo.
2°) Il Fascismo non crede alle Internazionali rosse che muoiono, si riproducono, si moltiplicano, tornano a morire. Si tratta di costruzioni artificiali e formalistiche, che raccolgono piccole minoranze, in confronto alle masse di popolazioni che vivendo, movendosi e progredendo o regredendo, finiscono per determinare quegli spostamenti di interesse, davanti ai quali vanno a pezzi le costruzioni internazionalistiche di prima, seconda, terza maniera.
3°) Il Fascismo non crede alla immediata possibilità del disarmo universale.
4°) Il Fascismo pensa che l'Italia debba fare, nell'attuale periodo storico, una politica europea di equilibrio e di conciliazione fra le diverse Potenze.
Da queste premesse generali consegue che i Fasci Italiani di Combattimento chiedono:
a) che i Trattati di pace siano riveduti e modificati in quelle parti che si appalesano inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e fomite di nuove guerre;
b) l'annessione economica di Fiume all'Italia e la tutela degli italiani residenti nelle terre dalmatiche;
c) lo svincolamento graduale dell'Italia dal gruppo delle nazioni plutocratiche occidentali attraverso lo sviluppo delle nostre forze produttive interne;
d) il riavvicinamento alle nazioni nemiche - Austria, Germania, Bulgaria, Turchia, Ungheria - ma con atteggiamento di dignità, e tenendo fermo alle necessità supreme dei nostri confini settentrionali e orientali;
e) creazione e intensificazione di relazioni amichevoli con tutti i popoli dell'Oriente, non esclusi quelli governati dai "Soviety" e del Sud-Oriente europeo;
f) rivendicazioni, nei riguardi coloniali dei diritti e delle necessità della nazione;
g) svecchiamento e rinnovamento di tutte le nostre rappresentanze diplomatiche con elementi usciti da facoltà speciali universitari;
h) valorizzazione delle colonie italiane del Mediterraneo e di oltre Atlantico con istituzioni economiche e culturali e con rapide comunicazioni.
Ho una fede illimitata nell'avvenire di grandezza del popolo italiano. Il nostro è, fra i popoli europei, il più numeroso e il più omogeneo. E' destino che il Mediterraneo torni nostro. E' destino che Roma torni ad essere la città direttrice della civiltà in tutto l'Occidente d'Europa. Innalziamo la bandiera dell'impero, del nostro imperialismo che non deve essere confuso con quello di marca prussiana o inglese. Commettiamo alle nuove generazioni che sorgono la fiamma di questa passione: fare dell'Italia una delle nazioni senza le quali è impossibile concepire la storia futura dell'Umanità.
Respingiamo tutte le stolide obiezioni dei sedentari che ci parlano di analfabetismo e di pellagra ed altro, quando si vede che mezzo secolo di "piede di casa" non ci ha guariti da questi che non sono nè delitti, nè vergogna. Al disopra dei pessimisti che vedono tutto grande in casa altrui e tutto piccolo in casa propria, dobbiamo avere l'orgoglio della nostra razza e della nostra storia. La guerra ha enormemente aumentato il prestigio morale dell'Italia. Si grida: "Viva l'Italia" nella lontana Lettonia e nella ancora più lontana Georgia. L'Italia è l'ala tricolore di Ferrarin, l'onda magnetica di Marconi, la bacchetta di Toscanini, il ritorno a Dante, nel sesto centenario della sua dipartita. Sogniamo e prepariamo - con l'alacre fatica di ogni giorno - l'Italia di domani, libera e ricca, sonante di cantieri, coi mari e i cieli popolati dalle sue flotte. con la terra ovunque fecondata dai suoi aratri. Possa il cittadino che verrà dire quel che Virgilio diceva di Roma: imperioum oceano, famam qui terminet astris: ponga i termini dell'Impero all'Oceano ma la sua fama elevi alle stelle.
DISCORSO DI BOLOGNA

Prefazione
Questo discorso fu pronunciato a Bologna, al Teatro Comunale, il 3 Aprile 1921. Anche questo è un discorso sintetico, in cui appaiono le basi essenziali e le idee-forza del Fascismo. Con esso, al 1° Maggio d'infausta memoria socialista si opponeva il 21 Aprile fascista, data del Natale di Roma, consacrato al Lavoro e alla Nazione. Fra le persone citate nel discorso, giovi rammentare che Giulio Giordani fu assassinato in Bologna da un'aggressione rossa nel Palazzo d'Accursio, in pieno consiglio comunale. L'avv. Grandi è il futuro Ministro degli Affari Esteri; i nomi di Bucco, Zanardi e Bentini, note personalità del socialismo, sono presi ad esponente di tutta una categoria di uomini che, pur facendo i politicanti rossi, non avevano neppure il coraggio di una possibile rivoluzione.

Fascisti dell'Emilia e della Romagna ! Cittadini bolognesi ! Tutte le circostanze, a cominciare dalle accoglienze di ieri sera, dai canti di questa notte, a questo magnifico mareggiare di teste, al saluto che io accettai con trepida venerazione, dalla vedova del nostro indimenticabile Giulio Giordani, (applausi) alla presenza in un palco di due donne eroiche, vedove di eroi grandissimi: parlo di Battisti e di Venezian (applausi); tutto ciò potrebbe trascinarmi sopra un terreno dell'eloquenza che non è la mia. Ma io credo, io sono quasi certo che voi non vi attendete da me un discorso retorico, ma vi attendete da me un discorso duro ed aspro, come è nel mio costume. Ed allora noi ci parleremo schiettamente, fascisticamente.
Io ringrazio l'avv. Grandi che mi ha presentato a voi con parole troppo lusinghiere: io le accetto e credo di non commettere un peccato di orgoglio. Potrei dirvi socraticamente che se ognuno deve conoscere se stesso, anche io conosco e devo conoscere me stesso (applausi). Come è nato questo fascismo, attorno al quale è così vasto strepito di passioni, di simpatie, di odi, di rancori e di incomprensione? Non è nato soltanto dalla mia mente o dal mio cuore: non è nato soltanto da quella riunione che nel 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano. E' nato da un profondo, perenne bisogno di questa nostra stirpe ariana e mediterranea che ad un dato momento si è sentita minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza di una tragica follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo stesso ove è nata (applausi).
Noi sentimmo allora, noi che non eravamo i maddaleni pentiti; noi che avevamo il coraggio di esaltare sempre l'intervento e le ragioni delle giornate del 1915; noi che non ci vergognavamo di avere sbaragliato l'Austria sul Piave e di averla poi mandata in frantumi a Vittorio Veneto; noi che volemmo una pace vittoriosa, noi sentimmo subito, appena cessata l'esaltazione della vittoria, che il nostro compito non era finito. Difatti ad ogni volgere di stagione si dice che il mio compito e il compito delle forze che mi seguono, sia finito. Nel Maggio 1915, quando i fasci di azione rivoluzionaria avevano spazzato da tutte le strade, da tutte le piazze e le vie d'Italia, perfino nei più piccoli borghi d'Italia il neutralismo parecchista, si disse: Mussolini non ha più niente da dire alla nazione. Ma quando vennero le tragiche e tristi giornate di Caporetto, quando Milano era grigia e terrea perché sentiva che se gli austriaci passavano e venivano nella città delle cinque giornate sarebbe stata la fine dell'Italia tutta, allora noi sentimmo di avere ancora una parola di dire. E dopo la vittoria, quando sorse la scuola della rinunzia più o meno democratica, che intendeva amputare la vittoria, noi fascisti avemmo il supremo spregiudicato coraggio di dirci imperialisti ed antirinunciatari.
Fu quella la prima battaglia che demmo nel Teatro della Scala nel Gennaio 1919. Ma come? Avevamo vinto, avevamo vinto noi per tutti, avevamo sacrificato il fior fiore della nostra gioventù, e poi si veniva a noi coi conti degli usurai, degli strozzini. Ci si contendevano i termini sacri della patria, e c'erano in Italia dei democratici, la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo per gli altri e nel rinnegarlo per noi (applausi), che ci lanciavano questa stolta accusa, semplicemente perché intendevamo che il confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero, dove sarà fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia (applausi). Intendevamo che il confine orientale fosse al Nevoso, perché la' sono i naturali, giusti confini della Patria e perché non eravamo sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore lo spasimo del fratelli della Dalmazia, perché infine sentivamo vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma che ci lega anche agli italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono più esserlo, a quelli di Corsica, a quelli che sono al di la' dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza (applausi). Si notavano già le prime avvisaglie della offensiva pussista. Milano il 16 Febbraio assistette, fra lo sgomento e il terrore di una borghesia infiacchita e trepidante, ad una sfilata di 20 mila bolscevichi i quali, dopo aver inneggiato a Lenin dall'alto dei torrioni del castello, dissero che la rivoluzione bolscevica era imminente.
Allora io uscii all'indomani con un articolo che fece una certa impressione anche ad alcuni amici. Era intitolato:"Contro il ritorno della bestia trionfante".Era un articolo in cui si diceva: noi siamo disposti a convertire le piazze delle città d'Italia in tante trincee munite di reticolati per vincere la nostra battaglia, per dare l'ultima battaglia contro questo nemico interno. E la battaglia disfattista iniziatasi con quella parata continuò per tutta l'estate quando fu rimestata fino alla nausea quella inchiesta sul disastro di Caporetto che un ministro infame, infamabile, da infamarsi ( morte a Nitti, morte a Cagoia, viva d'Annunzio, applausi) aveva dato in pasto alla esasperazione ed ai giusti dolori di gran parte del popolo italiano.
Anche allora noi fascisti avemmo il coraggio di difendere certe azioni che col misurino della morale corrente non sono forse difendibili. Ma, o signori, la guerra è come la rivoluzione: si accetta in blocco: non si può scendere al dettaglio: non si può e non si deve.
Ma intanto questa campagna aveva le sue risultanze elettorali. Un milione e 850.000 elettori misero nell'urna la scheda con la falce e il martello: 156 deputati alla Camera. Pareva imminente la catastrofe. Io fui ripescato suicida nelle acque niente affatto limpide del vecchio Naviglio. Ma si dimenticava una cosa: si dimenticava il mio spirito tenacissimo e la mia volontà qualche volta indomabile. Io, tutto orgoglioso del miei quattromila voti, e chi mi ha visto in quei giorni sa con quanta disinvoltura accettassi questo responso elettorale, dissi: la battaglia continua ! Perché io credevo fermamente che giorno sarebbe venuto in cui gli italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del 16 Novembre, giorno sarebbe venuto in cui gli italiani non avrebbero più eletto in due città quell'ignobile disertore che io in questo momento non voglio nominare (applausi: morte a Misiano!). Tanto è vero che costui oggi essendo incapace di vivere nel dramma scende nella farsa e dopo avere disprezzato la guardia regia chiede a quella divisa la impunità e la salvezza.
Ma ancora non è finito l'avvento di questo fascismo, di questo movimento straripante, di questo movimento giovane, ardimentoso ed eroico. io solo qualche volta , io che rivendico la paternità di questa mia creatura così traboccante di vita, io posso qualche volta sentire che il movimento ha già straripato dai modesti confini che gli aveva assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna di fuoco, perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere. E per quanto si possa deplorare la violenza, è evidente che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon di randellate toccare i crani refrattari.
Ma noi non facciamo della violenza una scuola, un sistema o peggio ancora una estetica. Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo. Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria del fascismo una linea, uno stile nettamente aristocratico o se meglio vi piace nettamente chirurgico.
Le nostre spedizioni punitive, tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali, devono avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono sono italiani anch'essi. Ma è necessario, e fin che sarà necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ingrata fatica.
Ora i democratici, i repubblicani, i socialisti ci muovono accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto che siamo venduti ai pescicani o all'agraria. Non ci sarebbero pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento come il nostro e d'altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani piuttosto stupidi perché fin dal Marzo 1919 noi nei postulati fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e che sono in ogni caso antipescecaneschi.
Le altre accuse che ci da la democrazia sono ridicole, le accuse che ci fanno i repubblicani altrettanto. Io non mi spiego come dei repubblicani possano essere contrari ad un movimento che è tendenzialmente repubblicano. Io comprenderei che fossero contrari ad un movimento tendenzialmente monarchico. Ci si dice: voi non avete pregiudiziali. Non ne abbiamo ed è nostro vanto non averne. Ma voi dovete spiegarvi il fenomeno dell'ira e della incomprensione dei socialisti. I socialisti avevano in Italia costituito uno stato nello Stato. Se questo nuovo stato fosse stato più liberale, più moderno, più vicino all'antico, niente in contrario. Ma questo stato, e voi lo sapete per esperienza diretta, era uno stato più tirannico, più illiberale, più camorrista del vecchio, per cui questa che noi compiamo oggi è una rivoluzione che spezza lo stato bolscevico nell'attesa di fare conti con lo stato liberale che rimane. (Applausi).
C'è chi pensa che la crisi socialista sia soltanto una crisi di uomini, di questi piccoli uomini che voi conoscete, i Bucco, i Zanardi, i Bentini (urla di abbasso)e simile tritume umano; ma la crisi è più profonda, cari amici, è un tracollo di tutti i valori. Non è soltanto una fuga più o meno ignobile di uomini perché fra tutte le cose assurde c'è stata questa: di battezzare il socialismo come scientifico. Ora di scientifico non c'è niente al mondo. La scienza ci spiega il come dei fenomeni, ma non ci spiega anche il perché di essi. Ora se non c'è niente di scientifico in quelle che si chiamano le scienze esatte, pensate se non era assurdo, se non era grottesco gabellare per scientifico un movimento vasto, incerto, oscuro, sotterraneo come è stato il movimento socialista il quale ha avuto una funzione utile in un primo tempo, quando si è diretto a queste plebi oppresse e le ha fatte scattare verso nuove forme di vita. Voi converrete con me che non si torna indietro. Non si deve fare del contrabbando stolto, reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo. Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la maestà di S.M. il proletariato. Noi partiamo da un altro punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere una grande nazione capace di grandezza attuale e potenziale se le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento. (Applausi) E' necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una pratica che io chiamerei mazziniana, la quale concilii e debba conciliare il diritto col dovere, è necessario che questa massa enorme di diecine di milioni di gente che lavora, che questa enorme massa sia portata sempre più ad un livello superiore di vita.
E' stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in ispirito con coloro che lavorano: Ma non facciamo distinzioni assurde, ma non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità del lavoratore manuale. Per noi tutti lavorano: anche l'astronomo che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle lavora, anche il giurista, l'archeologo, lo studioso di religioni, anche l'artista lavora, quando accresce il patrimonio dei beni spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche il minatore, il marinaio, il contadino. Noi vogliamo appunto che tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si realizzi la comunione, la solidarietà della stirpe. Ed allora questo fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più o meno piagnoni: Andatevene da questi tempi che minacciano rovina, perché la nostra eresia trionfante è destinata a portare la luce in tutti i cervelli, a tutti gli animi. E diciamo a tutti: piccoli e grandi uomini della scena politica nazionale, diciamo fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente largo, voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi della nazione italiana. (Applausi)
Siamo dinanzi ad un fatto che è il fatto elettorale. Essendo la camera vecchia e peggio che vecchia, fradicia ed imputridita, essendo tutti i protagonisti di questa semitragedia degli uomini usati ed abusati, stanchi e peggio ancora stracchi, si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene, non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste e misianesche, le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste? Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà più ai vecchi uomini della vecchia Italia: nè a Salandra, nè a Sonnino, nè al lacrimoso Orlando, nè al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti, l'uomo del parecchio neutralista, del 1915 a Gabriele D'Annunzio che è un uomo nuovo? (Applausi, ovazioni prolungate: Viva D'Annunzio).
Questi vostri applausi dicono molte cose: e disperdono equivoci che sono già dispersi. Ho ricevuto oggi un messaggio in base al quale posso affermare sinceramente che il dissidio creato più o meno ad arte fra quelli che hanno difeso Fiume - e noi tributeremo sempre loro l'omaggio della nostra riconoscenza - e noi che la difendemmo all'interno, non ha ragione di essere. E Gabriele D'Annunzio porrà fine a questo dissidio che più che da legionari partiva da certi politicanti che forse non erano neppure a Fiume quando a Fiume ci si batteva sul serio. E credo di aver detto a sufficienza perché tutti mi comprendano. (Applausi)
Altro elemento di vita del fascismo è l'orgoglio della nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti hanno il 1° Maggio, se i popolari hanno il 15 Maggio, se altri partiti di altro colore hanno altre giornate, noi fascisti ne avremo una: ed è il Natale di Roma. il 21 Aprile. In quel giorno noi, nel segno di Roma Eterna, nel segno di quella città che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza, noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco, ma semplicemente romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire il gregge, la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo a queste forme di manifestazione passatiste la nostra marcia che impone un controllo individuale ad ognuno, che impone a tutti un ordine ed una disciplina. Perché noi vogliamo appunto instaurare una solida disciplina nazionale, perché pensiamo che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni. E quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca, devono pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi, ma sono questi che copiavano e copiano i romani, per cui siamo noi che ritorniamo alle origini, che ritorniamo al nostro stile romano, latino e mediterraneo. E non abbiamo pregiudiziali: non le abbiamo perché non siamo una chiesa: siamo un movimento. Non siamo un partito: siamo una palestra di uomini liberi. Quando uno è stufo di essere fascista ha venti botteghe e venti chiese cui battere alla porta, per domandare ospitalità. Non abbiamo nemmeno istituti: li riteniamo superflui. Il nostro è un esercito che si riconosce dalla sua passione e dalla disciplina volontaria: che si riconosce soprattutto per ritenersi non guardia di un partito o di una fazione, ma soltanto guardia della nazione. Ci riconosciamo soprattutto dall'amore che sentiamo per l'Italia, per l'Italia resa e raffigurata nella sua storia, nella sua civiltà e raffigurata anche nella sua struttura geografica ed umana.
Ieri mentre il treno mi portava a Bologna, io mi sentivo veramente legato con le cose e con gli uomini, mi sentivo legato a questa terra, mi sentivo parte infinitesimale di quel magnifico fiume che corre dalle Alpi all'Adriatico, mi riconoscevo fratello nei contadini, che avevano il gesto sacro e grave di colui che lavora la terra; mi riconoscevo nel cielo azzurro che suscitava la mia inestinguibile passione del volo, mi riconoscevo in tutti gli aspetti della natura e degli uomini. Ed allora una preghiera profonda saliva dal mio cuore. E' la preghiera che tutti gli italiani dovrebbero recitare quando le aurore incendiano il cielo o quando i crepuscoli obnubilano la terra. Noi italiani del secolo XX, noi che abbiamo veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo nel profondo nel nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti, che sono la nostra religione, noi, o cittadini d'Italia, facciamo un solo giuramento, un solo proposito: vogliamo essere gli artefici modesti, ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire. (Applausi ed ovazioni)

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