il gotico internazionale & i primi sentori del rinascimento

Materie:Tesina
Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

Il gotico Internazionale
Il gotico internazionale è una fase relativamente tarda che si sviluppa dagli ultimi decenni del XIV fino alla metà del XI. In molti paesi è una valida alternativa allo stile rinascimentale.
Gotico perché c’è la volontà di continuare l’arte gotica, internazionale perché ha in sé le caratteristiche della molteplicità e della internazionalità, in breve non ha un’unica radice attribuibile ad un unico paese, ma deriva dalla somma di più esperienze e soprattutto si diffonderà in modo omogeneo su tutta Europa.
Il Gotico Internazionale è la prima forma d’arte medievale laica, cioè non ha come esclusivo committente la chiesa e quindi i temi religiosi, detto per questo anche Gotico Cortese perché si diffonde soprattutto nei raffinati ambienti delle corti europee, è un’arte che ha come fini il divertimento corto, il gusto per il bello e la ricerca per lo stravagante. Per raggiungere l’idea dello stravagante mira ad esasperare alcuni tratti dell’arte gotica, per esempio: in architettura si tende ad esasperare lo slancio delle volte a crociera e il significato strutturale degli archi rampanti e dei costoloni; in pittura invece si porta alle estreme conseguenze l’uso decorativo della linea di contorno, il colore diventa antinaturalistico (il colore non ha più alcun rapporto con le figure rappresentate) ma comunque si tenderà ancora molto a usare il fondo oro.
Primo “esponente” del gotico internazionale è Simone Martini, 1340 trasferitosi ad Avignone alla corte papale, anche perché l’arte di Martini viene arricchita dall’arte francese. Questo stile viaggia in tutta Europa fermandosi in Italia Settentrionale. Grande diffusione di miniature che permette la conoscenza del gotico.
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Su tutta quest’arte prevale una voglia di evasione verso un mondo di fiaba, ricerca di atmosfere idealizzate, EVADERE dal periodo di decadenza e disgrazie: peste, carestia, problemi economici e sociali, declino delle istituzioni più importanti, papato, impero, comuni, la classe nobiliare perde il suo ruolo attivo nella società e diventa solo una sorta di modello di comportamento.
Gentile da Fabriano
A Firenze, nel 1423, Gentile da Fabriano dipinge la sua opera più famosa, l’Adorazione dei Magi, commissionatagli da Palla Strozzi, l’uomo in quel momento più ricco di Firenze, quasi come una mostra del lusso suo e dell’intera città, in gara con le grandi corti dell’Italia settentrionale o straniere.
La tavola ha bisogno di essere “letta” come un romanzo cavalleresco. La narrazione ha inizio in alto, dove, entro la lunetta di sinistra, i re magi stanno sbarcando; in quella centrale, il corteo, inerpicandosi lungo una strada tortuosa, si dirige verso una città, nel cui interno (nella lunetta di destra) i tre re si accingono a entrare, passando un ponte levatoio, per uscirne dalla parte opposta e scendere entro un sentiero incassato fra sponde rocciose, giungendo sul davanti, dove, uno dopo l’altro, dal più vecchio già inginocchiato al più giovane in piedi, rendono omaggio al gruppo divino. L’itinerario si svolge apparentemente in profondità ma in realtà su un piano obliquo, privo di scalature prospettiche, in un luogo di sogno, da novella profana, seguendo un andamento curveggiante. Evitando la linea retta, Gentile toglie decisione e ottiene grazia; perciò il suo segno è sempre sinuoso, anche quando contorna le singole figure e i minimi dettagli.
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Il primo piano, dove massima è l’attenzione dello spettatore, si dispiega, in tutto il suo fulgore, la ricchezza sontuosa dei Magi, indossatori d’alta moda, o sovrani contemporanei che, attraverso lo splendore degli abiti, mostrano il loro potere, piuttosto che fedeli adoratori di Dio.
La tavola è piena di particolari, ognuno accuratamente studiato ed esposto: non vi soltanto gli uomini, ma ogni genere di animali, dal cane ai cavalli, dalle scimmie ai volatili, dai leopardi al leone e al dromedario. Oltre, s’intende, al bue e all’asino; e alberi, frutti, fiori, questi ultimi perfino sui piastrini della cornice. Tutto sembra richiamarci alla realtà, e tutto, invece, è irreale perché osservato oziosamente, perché i dettagli si sommano gli uni agli altri: invece della concentrazione sulla storia, Gentile raggiunge la deconcentrazione; il fatto narrato resta un pretesto.
La tavola, rutilante di colori, ebbe certo un grande successo. Eppure, oltre a rappresentare il momento culminante, rappresenta anche quello terminale del tardo-gotico a Firenze.
La tavola, firmata e datata, venne dipinta per la Cappella Strozzi nella chiesa di Santa Trinita, oggi trasformata in sagrestia.
Nella predella sono rappresentate tre storie: la Natività, la Fuga in Egitto, la Presentazione al Tempio. Quest’ultima, trasferita in Francia durante il periodo napoleonico, è conservata nel Museo del Louvre a Parigi ed è sostituita, agli Uffizi, da una copia.
Un’altra importante opera di Gentile, dipinta a Firenze nel 1425, è il Polittico Quadratesi che si trova attualmente nella stessa Galleria degli Uffizi, mentre la predella è a Roma, nella Pinacoteca Vaticana.
In quegli stessi anni Filippo Brunelleschi, Donatello e, subito dopo, Masaccio stanno gettando le basi della grande riforma rinascimentale.
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Sono due posizioni diverse e polemiche, l’una rivolta al passato, l’atra al presente e al futuro.
Primi Sentori del Rinascimento
Il termine “rinascita” (oggi preferito dire “rinascimento”) è stato usato, fra i primi, dal Vasari, a metà del XVI secolo, per significare che l’età di cui anch’egli faceva parte (sia pure nel momento terminale) avrebbe fatto “rinascere” l’arte e la cultura classiche, che si ritenevano completamente morte ormai da molti secoli.
Che il rinascimento sia una ripresa dell’antichità classica, tuttavia, non è vero; se lo fosse, sarebbe soltanto imitazione.
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Per comprendere in che cosa consista è forse opportuno vedere prima come sia stato giudicato, discutere ciò che ne è stato detto, discernendo quello che oggi ci appare errato da quello che ci sembra giusto.
Con un luogo comune si suole ripetere che, attraverso lo studio dell’antico, il rinascimento giunge alla scoperta dell’”uomo” e della “prospettiva”. E una frase fatta e, come tale, contiene qualcosa di vero e qualcosa di falso. È sbagliato affermare che durante il medioevo si sia ignorato l’uomo: basti pensare al valore che si dà a lui e al suo lavoro nell’età dei comuni. È vero però che nel rinascimento l’uomo è considerato copula mundi, punto d’incontro, centro del mondo, perché non può conoscere ciò che lo ricorda se non attraverso se stesso, attraverso la propria ragione. Per capire l’universo, l’infinito, egli non ha che la sua ragione, finita. Ma, poiché Dio ha creato l’universo mediante leggi matematiche (eterne e immutabili), è mediante la matematica- che è la logica- che l’uomo può risalire al suo creatore e, al tempo stesso, conoscere il mondo, capirlo, esserne il centro.
Come è sbagliato affermare che durante il medioevo si sia ignorato l’uomo, così è sbagliato pensare che, prima del rinascimento, si ignori la prospettiva. È scienza prospettica quella di Giotto e di Ambrogio Lorenzetti; è scienza prospettica quella che usano gli architetti gotici per creare uno spazio indefinito, illimitato, superumano: poiché la prospettiva non è che un modo di vedere in profondità, esistono infine prospettive, infiniti modi di porsi rispetto allo spazio. E tuttavia è vero che la visione prospettica è fondamentale nel rinascimento e che la prospettiva è considerare in maniera nuova. Tutti i messaggi della realtà sono trasmessi alla ragione solo attraverso gli occhi. Elaborando i dati che riceve da gli occhi essa può, dai particolari che sono intorno a noi, risalire alle grandi leggi che regolano l’universo.
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Di qui l’importanza della prospettiva che è lo strumento che ci permettere di comprendere la realtà sottoponendola a una legge razionale e universale, prospettiva geometrica che incatena tutta la realtà a una serie infinita di linee convergenti in un punto unico (detto “punto di fuga”) posto davanti al nostro occhio, qualunque sia la nostra collocazione; prospettiva basata sul coordinamento delle linee e perciò detta “lineare”; prospettiva unitaria perché relaziona tutte le cose a un unico punto di vista, quello dello spettatore, che è quindi padrone dello “spazio”; legge matematica, certa, non opinabile, imposta dall’uomo, qualunque uomo, a ciò che lo circonda, proporzionano tutto a sé, in un processo continuo di commisurazione.
Ne segue anche la ricerca della proporzione, perché questa permette di capire le varie cose nella comparazione relativa fra l’una e l’altra; matematica anch’essa e quindi di origine divina.
L’importanza data alla prospettiva e l’apparente coincidenza di questa con l’ottica naturale ha fatto credere che l’arte del rinascimento consista nella copia della realtà, senza considerare che la prospettiva, in natura, non esiste, che non è vero che gli oggetti lontani siano più piccoli dei vicini o che le parallele si incontrino all’orizzonte e, soprattutto, che, mentre la prospettiva geometrica è monoculare; la nostra visione è binoculare: noi percepiamo due immagini (una per ciascun occhio) che si sintetizzano in una sola mediante un processo psichico che ci permette di vedere tridimensionalmente. Né esiste in natura il disegno, ossia la linea che costituisce l’ossatura della prospettiva. Prospettiva e disegno sono un “codice” fatto di “segni” (comprensibile soltanto dall’uomo), attraverso il quale trasmettiamo un concetto, o, come è stato detto, un “simbolo” della realtà. Per questo l’arte non è (come nel medioevo) “meccanica”, ma “liberale”, attività intellettuale.
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Quando diciamo che l’uomo è il centro dell’universo non bisogna crederlo isolato egocentricamente. La prospettiva crea una serie di rapporti fra noi e gli altri; se noi esistiamo, la prospettiva ci consente di renderci esattamente conto anche dell’esistenza degli altri, di rispettarne la presenza: ogni uomo a dignità pari a quella di ogni altro uomo.
Questa conoscenza dell’uomo, questa importanza che gli si attribuisce, questa sua “dignità” è il significato più profondo dell’”umanesimo”, non un’erudizione letteraria esteriore, non un’arida anche se dotta ricerca di pagine o analisi di monumenti del passato.
Lo studio dell’antichità classica, anzi il culto di essa, che è una caratteristica dell’età rinascimentale, ha uno scopo ben più alto. È il nuovo concetto di storia: studiando il testo antico, osservando attentamente l’opera d’arte classica, meditando sulle azioni di chi ha preceduto, noi possiamo capire l’uomo e perciò capire noi stessi. Di conseguenza la storia non è più la semplice elencazione di fatti avvenuti in altri tempi e luoghi (cronaca), ma diventa ricerca delle cause che hanno provocato certi eventi e le relative conseguenze che da essi scaturiscono.
Allora anche lo studio del monumento antico, quello studio di Brunelleschi, Alberti, Donatello e tanti altri condurranno sistematicamente, perde ogni significato imitativo. È il passato che si fa presente, in un rinnovato significato della tradizione, ossia dell’eredità spirituale che i nostri padri trasmettono a noi.
Secondo una partizione piuttosto comune, l’inizio del rinascimento coinciderebbe con il 1492, anno della scoperta dell’America, della cacciata degli arabi da Granata, della morte di Lorenzo il Magnifico, dando allo studio umanistico del ‘400 il solo valore di momento di erudizione necessario a preparare l’avvento del rinascimento nel XVI secolo.
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Ma le idee rinascimentali, così come le abbiamo viste, trovano già la loro realizzazione nei primi decenni del ‘400 con Brunelleschi, Donatello e Masaccio, che sono dunque gli autentici “padri” del rinascimento. Non si può pertanto ritardarne l’inizio fino al 1492: almeno nelle arti visive umanesimo e rinascimento costituiscono un movimento culturale unitario.
Per quanto riguarda i rapporti col medioevo, è errato credere che vi sia una frattura, come ha sostenuto chi ha contrapposto il presunto “misticismo” medievale al presunto “paganesimo classicheggiante” rinascimentale. Il rinascimento è laico, ma non nega Dio; afferma la priorità del problema umano perché solo così può giungere, attraverso la ragione, a Dio.
Neppure si può affermare che il rinascimento scelga forme classiche escludendo quelle medievale. Gli elementi classici che usa (colonne, capitelli, archi, paraste ecc.) li eredita dalla tradizione medievale fiorentina, e medievale è anche l’uso della linea, indispensabile alla prospettiva e a quel disegno che è il mezzo per definire gli oggetti. Di questi elementi, che riceve alla tradizione, si serve per esprimere idee nuove.
Il rinascimento è inizialmente fiorentino. È fiorentino, perché la misura, la definizione degli spazi e dei volumi, la chiarezza della ragione sono il patrimonio tradizionale della città, che, in questo senso, è classica. Dal punto di vista culturale uno degli avvenimenti più importanti è l’istituzione dello “Studio”, un centro universitario che, soprattutto dopo il riordinamento del 1385, “venne a pesare in modo sempre più sensibile nella vita cittadina introducendovi una circolazione di idee prima ignota”.
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Nel 1439, per partecipare al Concilio di Firenze, promulgato per tentare l’unione della Chiesa romana con quella orientale, giunsero in città i massimi esponenti della cultura greca, suscitando grande interesse. Alcuni di essi restarono a Firenze dando un contributo non indifferente alla cultura locale.
Né si deve dimenticare la politica mecenatistica dei Medici, la famiglia che nel corso del ‘400 solidifica la sua posizione preminente a Firenze e che, forse per ragioni politiche-economiche, ma certamente per interesse umanistico, diviene, insieme ad altre, una delle maggiori committenti di opere d’arte, circondandosi di artisti e di uomini di cultura.
Accanto a quella della Chiesa, viene nascendo la committenza privata. Ciò determina non soltanto una diversa scelta dei temi trattati, ma anche un diverso modo di esprimersi, laico invece che religioso, da parte degli artisti.
Le idee rinascimentali da Firenze si propagheranno, poi, in buona parte dell’Italia e, più tardi, anche in Europa.
La durata globale del rinascimento è di quasi due secoli (il XV e il XVI), anche se, naturalmente, i motivi iniziali si evolveranno sensibilmente in relazione anche alle vicende storiche coeve.
Jacopo della Quercia
Jacopo di Pietro detto della Quercia opera solitario fra Siena, Firenze, Lucca, Bologna.
Non partecipa, dopo il concorso del 1401, alle discussioni fiorentine sulle novità prospettiche, sviluppando in maniera indipendente il proprio pensiero.
La sua formazione sembra essere pisano-senese.
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A Siena e a Pisa aveva grandi esempi, non soltanto in tutta la tradizione pittorica della sua città, ma anche nella calma misura classica di Nicola Pisano e nella drammatica tensione di Giovanni.
La prima opera sicura che possediamo di lui è la Tomba di Ilaria del Carretto.
Jacopo rappresenta Ilaria giacente. Il corpo, contenuto entro il rettangolo di appoggio dai compatti cuscini in alto, dal cagnolino (simbolo della fedeltà) accoccolato ai suoi piedi, in basso, è basato su tre ellissi, di differente misura e coordinate fra loro: la testa incorniciata dal grande cércine, dai capelli, dall’alto colletto svasato; la linea ovale che, intersecando la precedente, parte dal punto di vita, rialzato fin sotto il seno, e giunge ai piedi.
Le tre zone sono unificate dalla veste, che, col colletto, si congiunge alla testa e, con il manto (dai cui spacchi escono le braccia), scende continuamente fino in fondo. Passando dall’una all’altra di queste ellissi c’è un aumento progressivo di moto: il volto è liscio e disteso; la veste, invece, finemente pieghettata intorno alla cintura, si organizza in strutture via via più ampie dall’alto al basso. Per conseguenza la luce scorre unitaria e diffusa sul viso e crea chiaroscuri più lievi o più sentiti sul corpo, seguendo e facendo risaltare, con le ombre che si addensano nelle rientranze, la continuità gotica delle linee.
Ilaria del carretto, moglie di Paolo Guinigi, signore di Lucca, era morta in giovane età nel 1405. il marito le fece erigere il monumento funebre da Jacopo della Quercia. Caduta la signoria dei Guinigi, morto Paolo in carcere a Pavia prigioniero di Francesco Sforza, il sepolcro fu disgraziatamente scomposto e ricostituito (non sappiamo se esattamente) soltanto un secolo dopo.
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Il vertice dell’arte di Jacopo è costituito dalla decorazione, lasciata interrotta per la morte dell’artista, del Portale maggiore di San Petronio a Bologna, con storie del vecchio e del Nuovo Testamento. Qui, circondando i possenti corpi con una linea di contorno che ne contiene e ne costringe le forme, ottiene una straordinaria forza espressiva.
Paolo Uccello
Paolo di Dono, detto Paolo Uccello, appartiene, cronologicamente, alla prima generazione degli artisti fiorentini del ‘400: è pressoché coetaneo di Michelozzo, dell’Angelico, di Masaccio. Ma partecipa anche alla discussione dei problemi che si svolge prima, intorno e subito dopo la metà del secolo.
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L’impostazione dello spazio, come rappresentazione dell’habitat umano, è un elemento ormai definitivamente acquisito dopo le grandi scoperte brunelleschiane e la codificazione albertiana. Piuttosto occorre, ora, finalizzare la prospettiva all’espressione del proprio mondo; perché, se è vero che la prospettiva serve a dare ordine razionale alla realtà, è anche vero che ciascuno di noi possiede un diverso modo di porsi in relazione con la stessa realtà, dandole il proprio ordine razionale.
Che Paolo Uccello si sia dedicato ad accurati studi prospettici è provato dalle sue opere. Ma questi studi sono apparsi alla critica una ricerca sterile. Il Vasari, sostenitore della teoria della verosimiglianza in arte, lo descrive assorto in inutili studi prospettici e gli rimprovera di aver dipinto “i campi azzurri, le città di color rosso” e di aver dato agli edifici il colore che a lui piaceva di più invece che quello naturale. Così viene giudicato anche dopo. Solo nel nostro secolo, superato il pregiudizio dell’arte come imitazione della natura, si può giungere a una sua piena rivalutazione, rendendosi conto che la prospettiva serve a Paolo Uccello per realizzare volumi cristallini, geometricamente esatti: ad essi riduce la realtà, spogliandola della sua apparenza e trovandone, piuttosto, la forma immutabile.
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Oltre alla tavola di Firenze, altre due, con altrettanti episodi della stessa battaglia, si trovano al Museo del Louvre a Parigi e nella National Gallery di Londra.
Originariamente i tre pannelli erano collocati in una sala terrena di Palazzo Medici, detta “camera di Lorenzo”. Essi rappresentano tre momenti diversi dello scontro avvenuto a San Romano nel 1432.

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