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Relazione di Educazione Civica 1998



Sommario.

Relazione di Educazione Civica 1998 *

Prima Parte: società e stato *

Capitolo 1. Caratteri comuni e distintivi tra le società degli uomini e quella degli animali. *

Le somiglianze tra la vita sociale degli uomini e degli animali *

Lo specifico umano *

La spiegazione scientifica dei caratteri distintivi dell’uomo *

La capacità degli uomini di costruire le proprie società *

La società aperta e la libertà umana *

Conclusioni: i rischi delle società chiuse, il dovere di essere liberi e di usare bene della libertà *

Capitolo 2. Il conflitto tra società chiuse e società aperte (organicismo e individualismo) *

L’alveare, modello di società organica *

L’apologo di Menenio Agrippa *

I caratteri fondamentali della società organica *

Le società fondate sugli individui *

I caratteri fondamentali delle società individualiste *

Conclusioni. La lotta tra due concezioni della società *

Capitolo 3. Stato: modelli, ideologie e poteri. *

Stato *

Modelli di Stato *

Ideologie dello Stato *

Poteri dello Stato *

Seconda parte: dallo Statuto albertino alla Costituzione italiana *

Capitolo 1. Premesse: Antico Regime. *

I caratteri dell’Antico regime *

Le nuove esigenze dell’Antico regime *

Capitolo 2. Lo statuto albertino. *

Introduzione *

L'avvento dello Stato liberale in Italia: trasformazione, non rivoluzione *

Il significato moderato dello Statuto albertino: la difesa contro la rivoluzione sociale *

I caratteri dello Statuto: i diritti dei cittadini *

I caratteri dello Statuto: la monarchia rappresentativa e il "governo misto" *
Il carattere oligarchico del regime liberale *

L'evoluzione dalla monarchia costituzionale al sistema parlamentare *

Lo Statuto come costituzione flessibile e il significato dell'onnipotenza della legge *

Capitolo 3. Brevi cenni storici. *

L’unità d’Italia *

I problemi dell’unità *

L’Italia tra sviluppo e arretratezza *

L’Italia fascista *

La Seconda Guerra Mondiale *

Il dopoguerra in Italia *

Capitolo 4. L’assemblea costituente. *

L’Assemblea costituente e il referendum istituzionale *

Terza parte: caratteri della costituzione italiana *

Capitolo 1. Costituzione e mediazione. *

Introduzione *

La costituzione come compromesso *

Il terreno d'incontro: il valore della persona umana e lo Stato sociale *

Quarta parte: come funziona la costituzione *

Capitolo 1. Il parlamento. *

Il parlamento: composizione e struttura *

Il parlamento: competenze *

Capitolo 2. Il governo. *

Il governo: struttura e funzione *

Il governo: competenze *

Capitolo 3. Il presidente della Repubblica. *

Il presidente della Repubblica *

Capitolo 4. La Corte costituzionale e la magistratura. *

La Corte costituzionale *

La magistratura *
Prima Parte: società e stato

Capitolo 1. Caratteri comuni e distintivi tra le società degli uomini e quella degli animali.

Le somiglianze tra la vita sociale degli uomini e degli animali

Gli uomini non sono gli unici esseri che vivono in società. Anche molte specie di animali hanno le loro società. Ma che differenze ci sono tra le società umane e, per esempio, il formicaio, l’alveare, il branco? Differenze certamente esistono, ma più si approfondiscono le ricerche di etologia (la scienza che studia i comportamenti animali e umani, soprattutto attraverso la loro comparazione), più appaiono anche somiglianze numerose e impressionanti. Con troppa leggerezza gli uomini si sono convinti di essere i signori dell’universo, i padroni assoluti della natura che li circonda. Così pensando, hanno posto una grande distanza, un solco invalicabile tra le forme della vita; hanno diviso l’umanità dagli altri esseri viventi, come fossero due mondi separati, l’uno totalmente assoggettato all’altro. Le conseguenze di questo atteggiamento nella formazione culturale dell’uomo (soprattutto dell’uomo occidentale) sono state incalcolabili: basti pensare al disprezzo della vita degli animali, alla liceità che l’uomo si è riconosciuta di distruggere la natura, al consumo dissennato delle risorse della terra su cui è costruita la nostra società.

Ma questo è un atteggiamento che non ha ragione di essere perché l’uomo è un pezzo della natura, è una specie animale tra le altre, sebbene con in più qualcosa che, nel grande flusso della vita e della sua evoluzione, lo ha reso più complicato e (dal suo punto di vista) più perfetto delle altre.

La moderna biologia ha accettato, documentandola con innumerevoli prove, l’ipotesi evoluzionistica formulata alla metà del secolo scorso da Charles Darwin (1809-1882). Secondo questa teoria, gli esseri più evoluti, o superiori, derivano da quelli più semplici, per così dire comprendendoli in se stessi, basandosi su di essi e condividendone le leggi di vita. Lo sviluppo delle forme della vita ha alla base innumerevoli processi biologici di differenziazione e adattamento alle condizioni ambientali, dai quali sono derivate le diverse specie animali a partire da ceppi originari comuni. Tra quelle, vi è anche la specie umana, sul gradino più alto dell’evoluzione. Le somiglianze fisiche e di comportamento sociale con i cugini più prossimi dell’uomo, i primati antropomorfi quali i gorilla e gli scimpanzé, sono numerose e impressionanti. Studiando il loro comportamento sociale e paragonandolo a quello dell’uomo, gli etologi hanno osservato con sorpresa parecchie analogie. Ricordiamo: la competizione per il comando, la sottomissione a individui di rango "sociale" superiore, la suddivisione del lavoro tra maschi e femmine, la cooperazione per la difesa. Ancora: i primati (e non solo loro) hanno il sentimento del possesso della prole e delle cose, manifestano legami di amicizia e inimicizia, trattengono gli istinti aggressivi e nocivi per la specie e li sfogano in riti inoffensivi, si sentono legati dall’appartenenza al gruppo e dalla diffidenza verso gli estranei, sviluppano capacità tecniche attraverso la costruzione di utensili rudimentali, sono capaci di insegnarle ai giovani della specie e quindi di formare un’embrionale tradizione, comunicano tra loro con suoni, gesti e simboli. Si è visto insomma che gli animali hanno una loro "intelligenza" che deve rendere cauti nel porre tagli troppo netti fra intelligenza umana e animale.

A sua volta, la vita sociale dei primati presenta somiglianze con quella di altre specie vicine, e così via, in un’immensa e affascinante analogia della vita nelle sue diversissime forme. L’uomo è una specie in cammino, accanto a tutte le altre: anche i suoi modi di vita sociale, come quelli degli animali, dipendono e si adattano alle condizioni ambientali. Poiché queste variano, così anche la specie umana e le società umane sono sottoposte alla pressione modificatrice dell’ambiente in cui vivono.

Lo specifico umano

È falso ciò che per molto tempo hanno sostenuto i nemici della teoria dell’evoluzione della vita, cioè che la spiegazione solo naturale dell’uomo equivalga ad affermare che "l’uomo non è altro che una scimmia".

Gli esseri superiori, cioè più complessi, sono condizionati da quelli che li precedono nella scala della vita e non esisterebbero se questi non esistessero, come il gradino superiore non può esistere senza quello inferiore. In un certo senso, allora, è vero che l’uomo è una scimmia: egli "contiene" in sé una scimmia. Ma rispetto alla scimmia, l’uomo ha anche altre caratteristiche. Che vi sia questo "qualcosa in più", che l’uomo non sia soltanto una scimmia, è ciò che giustifica la domanda posta alla fine del ‘700 dal filosofo e biologo J.G. Herder: "Che cosa è mancato a una creatura così simile all’uomo (la scimmia) perché potesse divenire uomo?".

Per rispondere a questa domanda, il grande etologo, premio Nobel, Konrad Lorenz indica queste due qualità, proprie solo dell’uomo:

a) il rapporto tra l’agire e il capire, ossia l’agire capendo che cosa si fa e perché lo si fa, la coscienza delle proprie azioni;

b) l’atteggiamento "esplorativo" o curiosità, che perdura fino alla vecchiaia e che fa dell’uomo un essere che aspira costantemente al miglioramento, a differenza delle altre specie, in cui la curiosità si esaurisce nelle prime fasi dell’esistenza.

In sintesi, si può dire così: solo l’uomo ha la capacità di progredire coscientemente; solo l’uomo ha la libertà di controllare, almeno in parte, il proprio destino, orientando, guidando, correggendo le trasformazioni della sua vita; solo l’uomo è, almeno in parte, padrone di se stesso.

La spiegazione scientifica dei caratteri distintivi dell’uomo

La comprensione scientifica dei passaggi tra i diversi gradi dell’essere, dal mondo inanimato (inorganico) a quello della vita (organico), fino a quello animale è oggi all’orizzonte delle possibilità della ricerca biologica, la quale sembra in grado addirittura di sollevare il velo sul mistero della vita, creandola artificialmente. D’altro canto, i ritrovamenti di fossili umani e preumani, dall’uomo di Neandertal al Pithecanthropus erectus a numerosissimi altri, hanno messo sono i nostri occhi alcuni degli anelli del progressivo mutamento biologico, che ha tratto l’uomo dall’abisso delle ere preistoriche.

Ma il passaggio che introduce al regno della coscienza e separa gli animali dall’uomo dal punto di vista spirituale è tuttora chiuso alla comprensione scientifica; l’enigma della coscienza umana è ancora senza spiegazione. È fuori delle nostre capacità intellettuali la spiegazione del legame tra accadimenti neurologici e cerebrali di ordine fisico e processi della coscienza. In altri termini, il rapporto tra anima e corpo è interrotto da una parete divisoria che lo avvolge nel mistero. Essa ci impedisce di prendere partito, con prove certe, tra "evoluzionismo" e "creazionismo", di dire cioè se anche la coscienza si inserisce, come ultima differenziazione, nello sviluppo della vita secondo cause puramente naturali; oppure se si debba ricorrere a spiegazioni che stanno fuori della natura, cioè soprannaturali (come quella, per intenderci, raccontata nella Genesi, I, 27: "Iddio adunque creò l’uomo alla sua immagine"; II, 7: "Il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli alitò nelle nari un fiato vitale, e l’uomo fu fatto anima vivente").

Il problema è negato, come falso problema, da coloro che hanno la convinzione che tutta la realtà sia scientificamente spiegabile secondo leggi naturali, cosicché ciò che non è così spiegabile non esiste (è l’atteggiamento culturale che si denomina "scientismo"). Ma per chi non ragiona a questo modo, il problema è aperto. Alcuni confidano nelle capacità della scienza di poter giungere un giorno alla comprensione naturale dei fenomeni della coscienza; altri negano l’onnipotenza della scienza e contrappongono spiegazioni sovrannaturali. Alla base della convinzione circa i limiti della scienza in ordine ai fenomeni della coscienza c’è questa idea:

l’uomo può avere coscienza di tutto fuor che della sua stessa coscienza, perché qui cade in un circolo vizioso, in una contraddizione. E impossibile sul piano logico utilizzare un fenomeno non noto (la coscienza) come strumento per spiegare sé medesimo.

La capacità degli uomini di costruire le proprie società

La capacità dell’uomo di agire capendo gli consente di influire sulla società in cui vive per modificarla secondo progetti coscienti. Questo punto distingue la società degli uomini da quelle degli animali, anche le più evolute. E possibile che le società degli animali, che ai nostri occhi appaiono come pietrificate, siano anch’esse soggette al cambiamento, magari nel corso dei millenni. Ciò tuttavia non è per effetto degli sforzi coscienti dei loro membri, ma in conseguenza della pressione di fattori ambientali esterni che, modificandosi, influiscono sugli organismi viventi e sui loro rapporti sociali. Per l’esigenza della continuità genetica (che sembra essere la più fondamentale delle leggi naturali del regno animale), essi sono indotti ad adattarsi alle nuove situazioni.

Ma tutte queste mutazioni adattative sono determinate dalla necessità, non dalla libertà.

Anche sull’uomo e sulle sue relazioni sociali influisce la necessità di rispondere alle esigenze biologiche elementari della specie umana (la riproduzione, la nutrizione, ecc.). L’uomo però, e solo l’uomo, al di là di ciò, dispone della capacità di dare un senso cosciente alle sue azioni, di usare della sua libertà per provvedere al soddisfacimento delle sue necessità vitali nel modo che considera migliore; per porsi degli scopi diversi da quelli solo biologici (cioè scopi culturali, morali, etici); per controllare i fattori della natura che possono influire sulla sua esistenza (si pensi agli studi per il mutamento del clima, alle opere di bonifica di estesi territori, alla progettazione di coltivazioni intensive, ecc., tutte cose oggi studiate dall’ecologia o scienza dell’ambiente), per modificare artificialmente addirittura i caratteri degli organismi viventi, secondo i tentativi della cosiddetta ingegneria genetica.

L’uomo e la sua società possono insomma coscientemente aprirsi al cambiamento, possono essere disposti a mettersi in discussione, possono guardare al di fuori di loro stessi, possono in qualche misura sottrarsi alla pressione bruta delle circostanze ambientali. Al contrario, le società degli animali sono portate a ripetersi e si dispongono al cambiamento solo se costrette da circostanze esterne.

Per le ragioni ora indicate, la società degli uomini può dirsi una società (potenzialmente) aperta; la società degli animali, una società chiusa. La libertà e, rispettivamente, l’assenza di libertà sono ciò che differenzia i due tipi di società.

La società aperta e la libertà umana

La società aperta è una realtà che non è data dalla natura, ma deve essere conquistata dagli uomini. Dove per ignavia o, più spesso, per la determinante pressione dei bisogni biologici elementari (la difesa dalla natura ostile, la sicurezza, il procacciamento del cibo e degli altri beni primari, la riproduzione, ecc.) prevale nell’uomo l’animalità e la sua libertà creatrice non ha modo di operare, la società umana non riesce a differenziarsi molto da una società animale. Siamo abituati a osservare l’esistenza di società più o meno evolute, cioè più o meno lontane dai caratteri animali. Basta guardare il vasto panorama delle società umane sparse nel mondo e nella storia: da quelle tribali, pressoché immobili e dominate dall’assillo quotidiano dei bisogni materiali legati alla sopravvivenza in ambienti naturali ostili e poveri, alle società tecnologiche dell’opulento mondo occidentale, le quali, con gli strumenti informatici, tengono sotto controllo e guidano le proprie trasformazioni.

Non si devono però fare tagli netti: se nelle società umane più chiuse la libertà creatrice è sempre pronta a mettersi in movimento, non appena si presentino le condizioni favorevoli, nelle società più aperte, al contrario, incombe sempre la possibilità di involuzioni e chiusure, specie quando venga minacciato il soddisfacimento di bisogni biologici essenziali e gli uomini si dimostrino disposti a sacrificare la propria libertà alle esigenze legate alla sopravvivenza. Basti pensare, nella storia recente, all’affermazione del fascismo e del nazismo, tipiche società chiuse, rese possibili dallo stato di insicurezza materiale (disordine sociale) ed economica (l’inflazione) in cui versava la precedente società democratica. Si comprende così una legge perenne: i nemici delle società aperte, cioè della libertà, operano prima di tutto per minare le basi della pacifica convivenza tra gli uomini, ben sapendo che dall’insicurezza (per esempio dopo un periodo di attentati che minacciano la vita delle persone comuni) nascerà la richiesta di ordine a ogni costo, cioè di soppressione della libertà.

La storia umana è una continua oscillazione tra chiusure, che comprimono la libertà creatrice degli uomini, e aperture, che la favoriscono. Chi ha avuto in sorte il privilegio di vivere in una società almeno parzialmente aperta – come si addice alla natura dell’uomo e chi intende mantenerla così, deve prima di tutto operare perché non vengano meno le condizioni di sicurezza spirituale e materiale che alimentano la libertà e perché non si generino le controcause che spingono a chiedere la fine della libertà e l’instaurazione di società rigidamente controllate che, alle esigenze biologiche fondamentali, sacrificano la libertà umana.

Conclusioni: i rischi delle società chiuse, il dovere di essere liberi e di usare bene della libertà

Proprio l’esistenza di nuove e grandi minacce per l’umanità rende pressante l’esigenza della libertà, e il dovere della libertà, come condizione del contributo di tutti alla ricerca delle vie per scongiurarle. Diamo la parola a due biologi, A.L. Bumett e T. Eiser.

"Ogni specie, animale o vegetale, ha le sue particolari caratteristiche. È stato scritto tanto sull’uomo e sulla sua pretesa di distinzione che non è più necessario discuterne qui. L’uomo ha una mano straordinariamente versatile e un cervello altamente sviluppato per dirigerla. Questo, in breve, è ciò che lo rende unico. Forse nulla è più sorprendente per noi uomini del nostro successo; malgrado una capacità di riproduzione relativamente bassa, ci siamo diffusi su questa terra come batteri.

Pochi millenni fa eravamo migliaia; ora abbiamo superato il traguardo dei cinque miliardi. Abbiamo costruito grandi civiltà, abbiamo una straordinaria capacita di imparare, insegnare ai nostri bambini e trasmettiamo loro esperienze acquisite dalle generazioni precedenti. Possiamo sopravvivere dovunque sulla terra, andiamo ai poli, ci muoviamo sott’acqua in sottomarini, scaliamo le montagne più alte, scaviamo gallerie sotto terra e penetriamo nell’atmosfera. Ora stiamo entrando negli spazi cosmici e abbiamo stabilito programmi di viaggio verso altri pianeti. Abbiamo alterato molte regioni della terra, abbiamo dragato, drenato e arato. Abbiamo sintetizzato antibiotici e insetticidi e possiamo, con altri metodi, combattere specie che ci minacciano. In breve, siamo ben consapevoli delle nostre mancanze adattative e abbiamo imparato ad alterare l’ambiente perché ci vada bene, o a trasportare intatte porzioni del nostro ambiente in luoghi altrimenti inabitabili.

Giudicando del nostro successo nel passato, tendiamo a credere che il nostro futuro sia assicurato. Ma come biologi dovremmo essere ben consapevoli della natura potenzialmente transitoria del successo adattativo. Mentre pare improbabile che l’uomo sia al limite dell’estinzione, sembra opportuno inserire un invito alla prudenza in quella che altrimenti potrebbe essere una visione troppo ottimistica del nostro futuro.

Stiamo aumentando vertiginosamente. Entro i prossimi 50 anni, la popolazione della terra raddoppierà. Possiamo essere la sola specie in cui i viventi di oggi superino i morti del passato. L’esplosione della popolazione è una reale esplosione ed è veramente improbabile che avremo imparato a colonizzare altri pianeti in tempo per sistemare una popolazione terrestre bisognosa di emigrazione in massa. L’emigrazione, ad ogni modo, non è una soluzione. Persino il mantenere la nostra popolazione al livello presente richiederebbe una partenza quotidiana di razzi con un carico totale umano di 50 milioni di tonnellate!

Consumiamo le nostre risorse con una velocità senza precedenti. Anche qui sembra dubbio che altre risorse possano essere trovate a una velocità commensurabile con il consumo di quelle esistenti. E da ultimo, per la prima volta nella nostra storia, i prodotti di rifiuto, compresi quelli atomici, stanno diventando una grande minaccia. Neppure il migliore specialista del mondo in genetica delle radiazioni potrebbe prevedere con assoluta precisione gli effetti biologici a lunga scadenza di una atmosfera che si sta continuamente contaminando con la radioattività.

Come biologi, possiamo solamente segnalare questi problemi e i pericoli loro inerenti. Quanto si farà per risolverli dipende dal ruolo che sceglieremo di svolgere come cittadini".

Le società chiuse, come quelle animali, sono quelle in cui questa scelta è resa impossibile e sono perciò società cieche sul proprio futuro; le società aperte, cioè le società umane, sono quelle che invece consentono ai singoli di assumere il compito e la responsabilità di progettare il proprio futuro: sono società, per così dire, preveggenti o che almeno cercano di essere tali.

La libertà non è oggi solo un imperativo morale individuale; è una esigenza collettiva che vale come premessa per la ricerca delle strade che conducono fuori dei vicoli ciechi in cui l’umanità si è cacciata.

Capitolo 2. Il conflitto tra società chiuse e società aperte (organicismo e individualismo)

L’alveare, modello di società organica

Tradizionalmente, le società chiuse vengono rappresentate come organismi naturali collettivi. Questo è un concetto importantissimo, molto usato e ricco di significati. Cerchiamo di comprenderli pensando a un esempio classico di società organica: l’alveare.

L’alveare è necessario alle api. Fuori di esso, l’ape isolata muore. L’ape singola esiste solo sul tavolo dell’entomologo. L’alveare dà vita alle api, però richiede a ciascuna di esse lo svolgimento di un compito nell’interesse della sopravvivenza dell’alveare intero. C’è l’ape regina con i fuchi che ne costituiscono la corte, le api guerriere e le api operaie: tutte svolgono una funzione essenziale alla quale sono predestinate dalla nascita, perché nessuna può cambiare il proprio destino, sovvertendo i ruoli (se lo potessero, tutte forse deciderebbero di trasformarsi in regine e nessuna si occuperebbe più della difesa e del nutrimento, ma in tal modo l’alveare e con esso le api morirebbero). La vita dell’alveare si svolge dunque secondo una legge naturale, che non è stabilita ma subita dalle api. È una legge oggettiva, inflessibile, necessaria, che sarebbe follia modificare.

Non importa se uno studioso di etologia possa avere qualcosa da obiettare a questa ricostruzione dell’alveare. Importa che questa è un’idea comune che frequentemente è stata estesa alla società umana, per raffigurarla come società chiusa. Per esempio, all’inizio del XIX secolo, per combattere le idee rivoluzionarie francesi, alcuni filosofi tedeschi hanno distinto in ogni società umana, come nell’alveare, tre "ordini" naturali e necessari. Essi si occuperebbero rispettivamente dell’unità del gruppo e del suo permanere nel tempo (il re e la corte), della guerra (l’amministrazione militare), dell’economia (gli imprenditori e i lavoratori).

Siamo in presenza di una delle tante teorie che concepiscono la società umana, non diversamente da quella animale, come un organismo che vive secondo una propria legge naturale; esse vengono denominate teorie organiciste.

L’apologo di Menenio Agrippa

La teoria organicista più famosa è quella nascosta nell’apologo di Menenio Agrippa, raccontata dallo storico di Roma Tito Livio nel libro Il, cap. XXXII di Ab urbe condita. Vi si narra della plebe che, stanca di lavorare per i patrizi, si era ritirata sul monte Aventino e si rifiutava di collaborare ancora alla vita cittadina, finché non fossero state accolte le sue richieste di riforma sociale. Era questo il primo esempio di sciopero. Fu inviato allora Menenio Agrippa, un patrizio, per convincerla a rientrare senza condizioni. Il suo argomento fu la famosa similitudine tra la società umana e il corpo umano:

"Nel tempo in cui nell’uomo le varie membra non erano come ora armoniosamente congiunte, ma ogni membro aveva una sua propria volontà e una sua favella, s’indignarono le altre parti che ogni loro cura, ogni loro fatica e funzione servissero solo al ventre, mentre questo se ne stava in mezzo tranquillo, non facendo altro che godersi i piaceri che gli venivano serviti. Cospirarono allora che le mani non portassero più cibo alla bocca, che la bocca non lo ricevesse, che i denti non masticassero ciò che avevano ricevuto. Per questa loro guerra, avendo voluto domare il ventre con la fame, anche le altre membra e con esse tutto il corpo si ridussero a un estremo deperimento. Si capì così che anche la funzione del ventre non è inutile e che esso nutre quanto è nutrito, restituendo a tutte le parti del corpo, equamente distribuito dalle vene, questo sangue che ci dà vita e che si forma appunto dal cibo elaborato dal ventre".

Ecco, attraverso un apologo, l’idea della società come organismo collettivo vivente e naturale, in cui nessuna parte ha una sua volontà particolare da far valere. Troviamo qui la stessa teoria dell’alveare, esemplificata in altro modo. Secondo questa prospettiva, le leggi sociali non possono essere che quelle che sono e ribellassi a esse sarebbe assurdo, costituendo una minaccia insensata alla saldezza e alla sopravvivenza della stessa società.

Questa concezione, espressa in modi meno ingenui che non nella parabola di Menenio Agrippa, è molto diffusa. Aristotele (384-322 a.C.) nella Politica (I, 1) discorre sull’origine delle società familiari e statali in questo modo:

"Possiamo dire in un certo senso che lo Stato è il fatto primitivo e originario e la famiglia e l’uomo sono condizionati e quindi dipendenti. Poiché il tutto è necessariamente condizione della parte e pertanto deve essere considerato come quello che è più indipendente e originario. Non appena muore tutto il corpo, è morta anche la mano e il piede; o tutt’al più esistono solo come forma esteriore e puro nome, così come si dice mano anche la pietra foggiata in quella guisa... Se dunque l’uomo non può sussistere senza la società e, disgiunto da essa, non basta a se stesso, egli sarà, rispetto alla società, nella relazione di ogni singola parte al tutto. Il tutto però sta a sé ed è originario, la parte è ciò che dipende ed è derivato. Pertanto lo Stato è quello che precede, il singolo quello che segue".

Non è affatto un modo di pensare superato. Esso si ritrova, per esempio, nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, come espressa nell’enciclica Rerum novarum del papa Leone XIII (1810-1903), a proposito del conflitto proprietari – proletari (un conflitto che ricorda quello tra patrizi e plebei):

"Siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria, così volle la natura che nel civile consorzio si armonizzassero quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio".

L’Enciclica è dell’891 e di ciò si deve tener conto nel valutarne il linguaggio, piuttosto lontano dall’attuale. Essa esprime bene, tuttavia, attraverso similitudini, i caratteri della società umana quando in essa prevale la preoccupazione di soddisfare le necessità di vita elementari (la sicurezza, l’ordine, ad esempio) rispetto a quella di sviluppare la libertà creatrice.

I caratteri fondamentali della società organica

L’organicismo assume come punto di partenza la totalità dell’organismo e afferma che l’organismo è qualcosa di diverso dalla pura e semplice somma delle parti: è un’unità che ha una vita propria, che comprende le parti e che ha delle pretese nei confronti di esse.

Analiticamente, i caratteri della società organica sono i seguenti:

a) La società è necessaria agli uomini che la compongono, come l’organismo lo è per i singoli organi. Il cuore, il fegato, ecc. non esistono fuori dell’organismo e, staccati da esso, muoiono. Allo stesso modo, gli uomini nella società.

b) L’uomo non vive per sé, per il suo interesse particolare, ma vive per la società cui appartiene e di cui è un dipendente o un funzionario, così come il cuore pompa il sangue, il fegato lo depura, non nel loro interesse ma in funzione dell’intero organismo. Gli organi devono funzionare bene perché l’organismo non ne risenta e l’organismo in buona salute darà a sua volta energia e vita ai suoi organi.

c) La società è una organizzazione differenziata, nella quale, cioè, ciascun uomo, ciascuna classe sociale sono destinati a compiti specifici. Tra essi non c’è uguaglianza ma diversità e gerarchia.

d) Il compito degli uomini in società è obbligato, non può essere scelto dai singoli, i quali non possono modificarlo o scambiarselo vicendevolmente, così come il cuore non può fare ciò che fa il fegato.

e) La vita della società, infine, è regolata da una legge naturale, oggettiva, necessaria, non stabilita ma subita dagli uomini.

Tuttavia, la teoria organica della società può essere maggiormente compresa attraverso il confronto con la concezione che fonda la società sugli individui.

Le società fondate sugli individui

Alla concezione organicista della società, si contrappone quella che assume come punto di partenza le singole parti della società, cioè gli individui in sé (cioè "atomisticamente") considerati. La società è la somma dei rapporti che gli individui volontariamente, liberamente, stabiliscono tra loro. La società dipende dagli individui, dalla loro libertà e non il contrario; è una struttura non naturale ma artificiale che gli uomini costruiscono per servirsene ai propri scopi. E come un orologio, fatto di ruote e ingranaggi collegati tra loro in vista di uno scopo preciso; tanto che, se qualcosa funziona male, può essere riparata o modificata.

La concezione atomistica della società non ritiene che esistano unicamente individui, quasi fossero entità a sé stanti; in tal caso, non vi sarebbe neppure società. Ritiene invece che la società, con le sue innumerevoli strutture, è creata e trasformata dagli uomini secondo propri progetti (è un meccanismo, non un organismo). Usando ancora un’immagine antropomorfa, il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) l’ha paragonata a un uomo artificiale. In questo c’è un richiamo a Menenio Agrippa, ma con l’essenziale differenza del carattere artificiale: la società è artificiale perché sono gli individui a costituirla così come essa è.

Si noti: gli ingranaggi, le ruote sociali (per restare nella metafora) non sono gli individui considerati nella loro totalità di anima e corpo. Se così fosse, si correrebbe il rischio di ridurre gli uomini a semplici rotelle, a robot disumani, spersonalizzati, anonimi, privi di libertà e volontà. Per le concezioni fondate sugli individui, che assegnano il primato agli uomini invece che all’organizzazione, la società è un insieme di rapporti, strutture, uffici (le ruote e gli ingranaggi della metafora), mentre il tempo, l’intelligenza, l’attività, i sentimenti, in una parola, la vita degli uomini, non sono integralmente assorbiti in tali ruote e ingranaggi: essi si riservano una parte della loro esistenza fuori delle ruote e degli ingranaggi. Solo questa autonomia individuale consente loro di non identificarsi integralmente nella società, permette a ciascuno di avere un osservatorio personale dal quale guardare la società, come qualcosa che è al di fuori di se stesso, sottoporla a critica, modificarla: permette insomma alle parti di avanzare pretese nei confronti del tutto. In ciò sta il primato dell’uomo sulla società che è caratteristico dell’individualismo sociale. Il rischio per la vita sociale nelle società fondate sugli individui è l’eccesso di individualismo, cioè l’egoismo. Esso minerebbe alla base le possibilità di costituire società, sarebbe la premessa dell’anarchia, della lotta di tutti contro tutti.

In che cosa questa rappresentazione contrasta con quella organicista? Pressoché in tutto. Basti pensare che, se la plebe avesse avuto qualcuno che ragionasse a questo modo, avrebbe potuto facilmente replicare a Menenio Agrippa con molti argomenti. Per esempio: che la società romana, fatta così, non era per nulla necessaria alla plebe, la quale infatti se ne stava assai meglio sull’Aventino a far niente o a lavorare per sé che non a Roma a farsi sfruttare dai patrizi; che vivere in società va bene, ma a condizione che a tutti sia assicurata una vita decente e che poco importa a quelli che sono in miseria che la società sia prospera; che le ingiustizie sociali che la plebe denunciava ben avrebbero potuto essere superate, abbassando la posizione dei patrizi ed elevando la propria o abolendo del tutto la distinzione: che appunto questo, infatti, la plebe chiedeva, perché essa era pronta a rientrare a Roma, ma a condizione che ci si mettesse d’accordo su una nuova legge più giusta per tutti.

I caratteri fondamentali delle società individualiste

Raffigurare la società come prodotto della libera creatività degli uomini significa attribuirle dei caratteri che sono l’esatto rovescio di quelli sopra indicati a proposito dell’organicismo.

a) Gli uomini vivono una loro libera vita individuale, che esiste prima e indipendentemente dalla società. Questa è formata dalla volontà di quelli. Gli uomini possono uscire dalla società o trasformarla, quando non corrisponde più alle loro esigenze. La società è il frutto degli uomini, non gli uomini il prodotto della società. Gli uomini vengono prima, la società dopo.

b) La società serve agli uomini, è uno strumento della loro vita. È la società che deve funzionare bene nell’interesse degli uomini, non il contrario.

c) Nella società non esistono compiti naturali prestabiliti, ma sono gli uomini che li determinano e li modificano, facendo uso della loro libertà.

d) Spetta agli uomini, e non alla natura o alla nascita, scegliere e distribuire tra loro i diversi compiti sociali, poiché nessuno è un predestinato e tutti sono autorizzati a cercare di occupare la posizione sociale che reputano più conveniente.

e) Il funzionamento della società non è regolato da una legge necessaria che sta sopra gli uomini, ma sono gli uomini che la stabiliscono e, quando occorre, la cambiano. La società non ha una legge, ma sono gli uomini che gliela devono dare.

Conclusioni. La lotta tra due concezioni della società

Riprendendo il discorso da capo, si può dire così. Per l’organicismo e le società chiuse, l’uomo è dominato dalle esigenze biologiche naturali e il soddisfacimento ditali esigenze determina necessariamente le forme della vita sociale. Per la visione della società fondata sugli individui e sulle società aperte, l’uomo è in grado di dominare tali bisogni ed è quindi in grado di organizzare la sua propria vita sociale. Gli organismi sociali, come quelli animali, sono subordinati alla necessità naturale. I meccanismi sociali sono regolati dalla libertà degli uomini.

Se l’uomo fosse solo animale, avrebbero ragione gli organicisti; se fosse solo libertà creatrice, puro spirito, avrebbero ragione i meccanicisti. È chiaro però che gli uomini non sono interamente né l’una cosa né l’altra, ma sono un impasto di tutte e due. Le società umane portano i segni di entrambe le concezioni; dipende dagli uomini e dal loro grado di civiltà la prevalenza dei caratteri dell’uno o dell’altro tipo di società. Vi è instabilità permanente perché vi è contrasto tra due forze opposte, sempre in azione. La libertà creatrice dell’uomo deve farsi strada tra le difficoltà che la sua natura biologica gli para continuamente davanti; viceversa, i caratteri organici della società, quando riescono ad affermarsi, devono combattere con l’aspirazione alla libertà degli uomini. La piena vittoria della società organica significherebbe degradare l’uomo, contro la sua natura di essere dotato di libertà; ma la piena vittoria della libertà creatrice negherebbe l’altra faccia della medaglia, la realtà biologica dell’uomo.

La storia delle società umane è una continua oscillazione tra i due principi. Questi principi, però, diventano forze che muovono la storia quando trovano gruppi, ceti, classi, partiti che li assumono come criteri della loro azione, della loro politica. Appare allora il loro significato storico, al di là di quello concettuale-astratto: la società chiusa è il programma delle forze conservatrici che operano per il mantenimento dello status quo, temendo la libertà e le sue opere e, col mutamento, la perdita delle proprie posizioni di potere. La società aperta è invece il programma politico del1e forze innovatrici che operano per il superamento dello status quo e per il cambiamento sociale.

Ottenuto lo scopo, le parti sovente si invertono, come mostrano tutti gli esempi storici di movimenti politici che si affermano in nome della società aperta contro le cristallizzazioni del passato e poi, una volta consolidatisi, "chiudono" la situazione per impedire i cambiamenti ulteriori.

Capitolo 3. Stato: modelli, ideologie e poteri.

Stato

Dopo aver a lungo discorso sulla società, diremo qualche parola sullo Stato, creando così le premesse dei discorsi successivi (in particolare, in seguito, approfondiremo l’argomento dello Stato italiano e della sua struttura). Quanto segue ha lo scopo di tracciare un quadro generale e schematico, in modo da rendere il tutto più facilmente comprensibile.

Iniziamo a chiarire la definizione del termine Stato. Lo Stato è un’organizzazione politica di un popolo stanziato su un territorio. Gli individui che compongono il popolo sono i cittadini, che hanno diritti e doveri nei confronti dello Stato. Anche agli stranieri vengono generalmente garantiti i diritti inviolabili dell’uomo. Il territorio è delimitato, rispetto a quello degli Stati vicini, dai confini; dal lato del mare, il confine è rappresentato dalle acque territoriali, stabilite secondo le consuetudini internazionali. Il territorio comprende, inoltre, lo spazio aereo e il sottosuolo e, convenzionalmente, le navi e gli aerei, in qualsiasi luogo si trovino. Dato che l’organizzazione politica rappresenta una caratteristica fondamentale, si distinguono due concetti di Stato: quello formato da un popolo stanziato su un territorio e organizzato politicamente (Stato-comunità); quello costituito dall’apparato politico che esercita il comando (Stato-apparato), a cui si affacciano tutti gli enti pubblici che permettono l’esercizio del potere.

Questa era la definizione di Stato così come dal Dizionario del Cittadino Mondadori.

Modelli di Stato

Tutti abbiamo imparato a distinguere i due grossi quanto diversi modelli di Stato (la monarchia e la repubblica); ora cercheremo di analizzare più a fondo la differenza tra i due e le sottocategorie di ognuno di essi.

Cominciamo con la monarchia. La monarchia è un regime politico nel quale il potere dello Stato è accentrato nella sola persona del re. La parola, infatti, derive dal greco monos ("uno") e archéin ("comandare"). Generalmente il re diventa tale perché discendente del re precedente (successione dinastica), e inoltre perché chiamato da Dio a reggere i suoi sudditi (investitura divina attraverso la mediazione della Chiesa). In tal caso, la monarchia era assoluta, dato che il re non chiedeva l’approvazione del popolo e non sottostava alle leggi (assoluto vuol dire, infatti, "sciolto", "libero" sottinteso: dalle leggi). In seguito agli sconvolgimenti rivoluzionari dell’età moderna, la monarchia in alcuni casi scomparve e in altri dovette modificarsi, venendo a patti con i cittadini e trasformandosi in monarchia costituzionale. Attualmente, infatti, i re ancora esistenti ricoprono il ruolo di capi di Stato, rappresentanti dell’unità nazionale.

Al contrario, la repubblica è una forma di Stato in cui il capo (presidente) viene eletto dal popolo o dal Parlamento per un periodo di tempo. Si contrappone alla monarchia, in cui il capo (re) è tale per successione dinastica e rimane in carica fino alla morte o alla rinuncia del trono (abdicazione). Il termine repubblica deriva dalle parole latine res ("cosa") e publica ("pubblica"). Distinguiamo due tipi di repubblica, quella parlamentare e quella presidenziale. La repubblica parlamentare è una forma di repubblica in cui la maggior parte dei poteri deriva o viene esercitata dal Parlamento, composto da rappresentanti del popolo. Il Parlamento, infatti, esercita il potere legislativo; dà (e può togliere) la fiducia al Governo, che esercita il potere esecutivo; elegge il Presidente della Repubblica.

A questo punto, è bene dire due parole sui diversi tipi di costituzione, perché ben si sa che questo tipo di repubblica si basa su una costituzione. La costituzione è un documento solenne nel quale sono contenute le norme giuridiche che stanno alla base di ogni Stato. In essa il cittadino trova affermati i suoi doveri ma, soprattutto, i suoi diritti nei confronti dello Stato. Si comprende, perciò, la lotta che si è svolta fra i sovrani assoluti e i loro sudditi, perché questi ultimi chiedevano una "costituzione", che ponesse dei chiari limiti allo stesso potere del re. Dopo la Magna charta libertatum (Carta solenne delle libertà) che, in Inghilterra nel 1215, venne strappata al re dai suoi baroni, le prime costituzioni moderne vengono stese in seguito alla Rivoluzione americana, che porta all’indipendenza delle colonie dall’Inghilterra, e alla Rivoluzione francese. Esiste poi anche la costituzione ottraiata, ovvero quella carta costituzionale unilateralmente concessa dal sovrano ai sudditi (come lo Statuto Albertino, di cui parleremo in seguito). Infine, possiamo dire che ci sono al mondo Costituzioni flessibili e rigide, "lunghe" e "corte". Sono in genere flessibili quelle vigenti in paesi di lunghissima tradizione democratica, come la Gran Bretagna. La rigidità prevale invece in Stati di più recente formazione, dove si fissano precise e severe regole per ogni revisione istituzionale.

La repubblica presidenziale, invece, è una forma di repubblica in cui il capo dello Stato viene eletto direttamente dal popolo ed è anche capo del Governo. È il caso degli Stati Uniti, in cui il presidente si presenta all’elettorato con il suo programma, che cercherà di realizzare come capo dell’esecutivo. In Francia esiste un sistema semi-presidenziale, con il presidente eletto direttamente, che nomina il Primo ministro. Il Governo, però, deve avere la fiducia del Parlamento.

Infine, visto che è un argomento che ci ha toccato da vicino, dirò due parole sul regime totalitario, del quale abbiamo avuto esempio nel regime fascista. Un regime autoritario riconosce l’esistenza di una vita privata dei singoli, mentre quello totalitario nega anche quella vita privata e proclama che nulla nell’esistenza degli individui riguarda solo loro stessi, ma che tutto riguarda tutti e che lo Stato perciò ha il diritto e il dovere di immischiarsi in ogni momento nella vita di ciascuno.

Ideologie dello Stato

Possiamo distinguere diverse ideologie, caratteristiche ognuna di uno Stato. Qui di seguito citeremo: liberalismo, democrazia, socialismo e anarchia.

Il liberalismo è una corrente di pensiero che si sviluppa in Europa nel 1700 come reazione all’intolleranza religiosa e all’assolutismo politico. Alla base ha l’idea che l’individuo abbia dei diritti fondamentali e inviolabili (diritti naturali), che lo Stato deve riconoscere e tutelare. Questi diritti si manifestano in campo religioso (libertà religiosa), per cui il credere è una libera scelta dell’uomo e non deve essere imposto; in campo economico (liberismo); in campo politico, con la partecipazione dei cittadini, la divisione dei poteri e con il principio che lo Stato deve interferire al minimo nella vita sociale (liberal-democrazia). Il pensatore che è considerato il primo grande teorico del liberalismo, è l’inglese John Locke (1632-1704).

Democrazia, parola composta dal greco demos ("popolo") e kratos ("potere"), indica la forma di Governo nella quale la sovranità appartiene al popolo. Questa sovranità, cioè il potere di comandare, viene esercitata direttamente (ad esempio mediante il voto espresso in un referendum) oppure indirettamente, eleggendo dei rappresentanti (i membri del Parlamento). In un regime democratico i cittadini devono, inoltre, godere di una serie di diritti, in mancanza dei quali la loro partecipazione al potere sarebbe puramente formale. Si tratta di quei diritti che sono contenuti nella nostra Costituzione, e che si esprimono nella libertà personale, nell’inviolabilità del domicilio, nella libertà di riunione, di associazione, di parola e così via.

Il socialismo è un orientamento politico nato in Europa nei primi decenni dell’Ottocento, in concomitanza con l’avvento dell’industrializzazione. Non ritenendo sufficienti le libertà civili e politiche affermate dal pensiero liberista e democratico, i socialisti propugnavano una maggiore giustizia sociale e l’avvento di una società ugualitaria in cui fosse soppressa ogni forma di sfruttamento dell’uomo. Individuando nella proprietà privata dei mezzi di produzione (terra, industrie, la radice ultima di tale sfruttamento, i socialisti ne proponevano una regolamentazione molto rigida o addirittura l’abolizione. I maggiori esponenti del socialismo Ottocentesco furono l’inglese Robert Owen, il francese Pierre Joseph Proudhon e il tedesco Karl Marx, la cui dottrina filosofica ed economica influenzò profondamente le successive elaborazioni e scelte politiche del movimento socialista. Il socialismo si diffuse enormemente nella seconda metà dell’Ottocento e del Novecento, differenziandosi al suo interno in molteplici ordinamenti. Sintetizzando possiamo dire che tali orientamenti facevano capo a due filoni principali: quello rivoluzionario, che propugnava l’instaurazione di una società senza classi attraverso una rivoluzione proletaria, e quello riformista, che invece metteva in primo piano obiettivi di riforme economiche, sociali e politiche, dal suffragio universale, al diritto di sciopero, alla riduzione delle disuguaglianze economiche.

Per anarchia si intende invece quella dottrina e movimento politico sociale che intende sostituire a un ordine sociale basato sulla forza dello Stato un ordine fondato sull'autonomia e la libertà degli individui.

Poteri dello Stato

Il potere si esprime in tre funzioni: quella legislativa, di elaborazione delle norme obbligatorie per tutti i cittadini; quella esecutiva, o di Governo, di applicazione delle norme; quella giudiziaria, di applicazione delle norme ai casi concreti con le relative sanzioni per chi non le abbia rispettate.

Il potere legislativo appartiene a un organo, il Parlamento, formato da rappresentanti eletti dai cittadini, che in questo modo esprimono la sovranità popolare. La funziona fondamentale del Parlamento, dunque, consiste nel discutere e approvare le leggi, cioè le norme obbligatorie che si ritengono necessarie per il vivere comune.

Il potere esecutivo viene esercitato dal Governo, composto dal presidente del Consiglio e dai ministri con varie competenze, mediante il lavoro degli addetti alla pubblica amministrazione.

Il potere giudiziario consiste nel giudicare in base alle leggi, applicandole ai casi concreti. Viene esercitato dalla magistratura.

Seconda parte: dallo Statuto albertino alla Costituzione italiana

Capitolo 1. Premesse: Antico Regime.

I caratteri dell’Antico regime

Le società contemporanee del mondo occidentale, di cui il nostro Paese fa parte, hanno debiti importanti nei confronti degli eventi storici e culturali maturati alla fine del XVIII secolo. Le grandi trasformazioni che si sono succedute nei due secoli successivi non possono essere comprese se non risalendo almeno a quell’epoca. Fu allora che entrarono in conflitto due modi antagonisti di concepire le relazioni tra gli uomini, due "culture politiche", quella dell’Antico regime e quella della Rivoluzione francese. La comprensione del significato storico di quel conflitto, a sua volta, richiede la conoscenza dei caratteri della società che la Rivoluzione combatté fino a distruggerla.

L’"Antico regime" (espressione resa famosa da Alexis de Tocqueville) era un impasto di assolutismo e di feudalismo e tale impasto era conflittuale, poiché il potere assoluto cercava di sopraffare i poteri feudali e viceversa.

Al potere del Re si contrapponeva, in effetti, una miriade di contropoteri di derivazione feudale che la monarchia assoluta, ancora alla fine del XVIII secolo, non era riuscita a sconfiggere interamente. Di fronte al Re stava un regno composto da molti "corpi intermedi", distinti per condizione sociale (gli "stati", cioè la nobiltà, il clero, il terzo stato), per professione (le corporazioni) e per territorio (città, borghi, ecc.). Ciascuno aveva una propria organizzazione, godeva di propri privilegi (cioè di "leggi private"), gestiva i propri interessi indipendentemente da quelli degli altri, costituiva cioè, per dir così, uno Stato nello Stato. Nell’insieme, tutte queste strutture sociali differenziate erano il volto feudale della Francia, fatto di tante organizzazioni e di tanti interessi particolari sui quali il Re cercava di stabilire il suo potere generale e incondizionato, cioè sovrano.

La monarchia che si dice assoluta non raggiunse mai una forza sufficiente per imporsi nel modo che l’aggettivo farebbe supporre. Il monarca era un personaggio bivalente: rispetto alle distinzioni feudali più importanti, quelle tra gli "stati", egli si trovava a giocare su due lati. Doveva essere alleato simultaneamente dei nobili (e del clero) contro i borghesi (il terzo stato) e dei borghesi contro i nobili. Per ingraziarsi ora gli uni ora gli altri distribuiva favori qua e là. Così non riuscì mal a sbarazzarsi dei suoi antagonisti per divenire effettivamente e incondizionatamente sovrano.

Il potere del Re incontrava dunque dei limiti, ma a questi non corrispondevano diritti dei singoli bensì privilegi dei corpi sociali in cui i singoli erano inseriti. I singoli non avevano diritti ma, appartenendo a una delle categorie sociali, godevano perciò di una posizione sociale cioè, come si dice, di uno status, corrispondente alla loro collocazione nella società. Era lo status che faceva da scudo contro il potere assoluto del Re e contro le prepotenze degli altri corpi sociali. Ma chi non aveva status (le donne, i vagabondi, i mendicanti, in genere i reietti della società) era soggetto all’arbitrio altrui, poiché non aveva diritti come individuo singolo.

La struttura feudale della società si traduceva così in un estremo particolarismo giuridico. Le leggi generali, valide per tutti, erano soppiantate dalle leggi e dalle consuetudini speciali e locali. Non c’era parte della Francia o strato sociale che non avessero un proprio diritto e giudici particolari.

Molto ampi erano i privilegi nobiliari: le corvées, cioè gli obblighi per i contadini di destinare un certo numero di giornate di lavoro al nobile del posto; l’obbligo di macinare il frumento solo nei suoi mulini; il diritto di caccia del nobile sulle terre altrui, ecc. Analogamente, una serie di diritti speciali legavano i diversi status tra di loro, diversamente da luogo a luogo. La società era come cristallizzata, poiché non era possibile cambiare lo status di appartenenza, che si acquistava per lo più con la nascita. La nascita determinava i rapporti sociali, la professione, i doveri di ciascuno, perfino il modo di vivere.

La cultura stessa – intesa come insieme di credenze, valori, manifestazioni artistiche, ecc. – era divisa in tanti compartimenti stagni. Così, vi era una cultura contadina, una aristocratica, una borghese, ecc. Era dunque una tipica società chiusa, la cui rappresentazione politica più chiara era costituita dagli "stati generali", cioè le assemblee dei ceti che il Re convocava a Parigi, affinché questi potessero presentare le loro richieste particolari e contrattare col Re nuovi privilegi o, al contrario, affinché il Re potesse concordare con i ceti nuove tasse per fronteggiare il dissesto delle finanze pubbliche, dissanguate dalla magnificenza della corte reale e dalle guerre con gli altri Stati. Le leggi, nell’Antico regime, erano il prodotto di questi accordi particolari.

Le nuove esigenze dell’Antico regime

Questo stato di cose non era alla lunga sostenibile, poiché contrario alle esigenze poste dallo sviluppo economico. Al cambiamento erano interessati sia il Re – per poter aumentare le entrate dello Stato attraverso le tasse –, sia gli imprenditori borghesi – per affrancarsi dalle vessazioni dei signori locali e commerciare liberamente, eliminando gli ostacoli che i diversi privilegi feudali ponevano in continuazione. Il Re e il terzo stato, in un arco di tempo che va dal XVI al XVIII secolo, operarono di frequente in accordo, per combattere i residui feudali che avvantaggiavano la nobiltà e il clero.

In economia, fu attuata la politica detta del mercantilismo, che puntava all’aumento della ricchezza pubblica (il "Tesoro"), a una "bilancia dei pagamenti" attiva – più esportazioni che importazioni (e quindi accumulo di ricchezza) – per rendere forte lo Stato e consentire una politica estera da grande potenza. Soprattutto a opera di J.B. Colbert, ministro di Luigi XIV, Re di Francia dal 1661 al 1715, detto il "Re Sole", si operò per la modernizzazione dell’apparato produttivo, incoraggiando le attività private importanti per lo Stato, proteggendole dalla concorrenza estera per mezzo di barriere doganali (il "protezionismo"), creando industrie statali (le "manifatture reali") che stimolassero la produzione nazionale. È l’inizio dell’economia moderna, rivolta alla produzione intensiva di beni per lo scambio (invece che alla produzione dei beni necessari all’autoconsumo, cioè alla semplice sopravvivenza di piccoli nuclei di persone, come era nell’economia feudale). Tutto ciò indebolì progressivamente i ceti economicamente meno intraprendenti come la nobiltà e il clero, rafforzando il terzo stato, e creò più vasti ambiti di circolazione delle merci (i "mercati"), aventi dimensioni nazionali, ponendo con ciò le premesse per 1’ abbattimento della società degli status.

In politica, per combattere i particolarismi, il Re, d’accordo con il terzo stato, tentò di dare al regno una struttura più compatta e centralizzata. Per questo combatté i privilegi e dettò regole uniformi in settori decisivi della vita sociale, come il commercio, i trasporti, la finanza pubblica. Questa è l’origine dello "Stato moderno", portato poi a compimento dalla Rivoluzione: uno Stato nazionale accentrato, dipendente da un’unica volontà sovrana che si irradia dappertutto da un centro (la capitale) verso la periferia, attraverso una rete di funzionari che trasmettono capillarmente gli ordini superiori ricevuti. Tali funzionari non erano più legati al Re da un rapporto personale (come nel feudalesimo, quando i feudatari erano i fedelissimi – i comites o conti – del Re) ma erano diventati degli impiegati alle dipendenze dello Stato.

Si vengono a formare così grandi apparati di funzionari pubblici (la burocrazia) che operano in maniera impersonale, anonima, per così dire "senz’anima", per trasmettere volontà altrui. Questa burocrazia "oggettiva" (che sostituisce gli amici del Re) è una delle caratteristiche salienti dello Stato moderno. Attraverso di essa, lo Stato assume un aspetto oggettivo e spersonalizzato. Non coincide più con il Re come persona fisica, poiché anche il Re diviene un funzionario, anche se il più alto, dello Stato stesso (è di Federico il Grande, Re di Prussia dal 1740 al 1786, la definizione di sé come "il primo servitore dello Stato").

Separato lo Stato dalle persone che lo fanno operare, si giunse addirittura all’altro estremo, cioè a concepirlo come grande persona a sé stante, nella quale i funzionari perdevano la propria identità e si riducevano a puri ingranaggi. L’idea dello Stato-persona esprime chiaramente la contrapposizione tra gli individui come tali e la società formata da essi da una parte, e lo Stato, come organizzazione pubblica, oggettiva, separata, dall’altra. La consapevolezza di questo distacco, tipico dello Stato moderno e introvabile nella società feudale, si è espressa nella grande distinzione tra Stato e società civile, una distinzione che adoperiamo ancora oggi.

La Rivoluzione francese giunse per portare a compimento la vittoria dello Stato moderno sui residui feudali. Non fu solo questo, ma fu questo prima di tutto.

Capitolo 2. Lo statuto albertino.

Introduzione

L’Italia non ha vissuto direttamente un'esperienza analoga a quella delle Rivoluzioni liberali. L'influenza che queste hanno esercitato sulla vita politica e sociale nel nostro paese è stata grande ma indiretta. Essa fu mediata dalla conquista napoleonica, dalla divulgazione dei principi rivoluzionari ad opera degli illuministi italiani e dall'azione politica dei gruppi progressisti che si richiamavano ai "principi dell'89". La diffusione e l'affermazione di questi principi avvenne perciò in modo graduale e parziale, attraverso attenuazioni e compromessi con l'Antico regime restaurato alla fine del ciclo napoleonico e, soprattutto, con gli adattamenti imposti dalle condizioni sociali e politiche dell'Italia e dagli interessi dei suoi gruppi dirigenti.

L'edificazione dello Stato unitario a opera di élites politiche moderate, l'iniziativa militare e diplomatica del Piemonte e della monarchia sabauda, la sconfitta dei movimenti democratici, la controversia tra lo Stato liberale e la Chiesa cattolica, la "questione meridionale" e la tensione tra le "due Italie" (l'una modernizzante al nord, l'altra ancora sprofondata in strutture feudali al sud), lo sviluppo dell'economia capitalista e la "questione sociale", la grande tensione di classe tra i proprietari e i proletari, i condizionamenti politici e economici derivanti dalla situazione internazionale: tutti fattori influenti sui caratteri della cosiddetta età liberale in Italia e che fanno da sfondo alla trattazione che segue, dedicata ai caratteri e ai problemi dello Stato liberale.

L'avvento dello Stato liberale in Italia: trasformazione, non rivoluzione

La cosiddetta "rivoluzione liberale" in Italia fu una vicenda complessa, protrattasi per vari decenni, nel corso dei periodi detti della Restaurazione e del Risorgimento. In tale vicenda non è dato individuare alcun evento storico determinante che abbia segnato la fine del vecchio e l'inizio del nuovo. L'intreccio tra innovazione e tradizione è quindi il carattere più evidente della storia sociale e politica nel corso dell'800.

Il ripristino degli antichi regimi sotto i sovrani "legittimi" e con le gerarchie sociali tradizionali (nobiltà, clero, corporazioni, ecc.), dopo la ventata napoleonica, aveva cancellato le istituzioni rivoluzionarie ispirate ai principi della sovranità nazionale e delle libertà individuali. Non furono invece eliminate quelle istituzioni che erano servite all'accentramento del potere assoluto sotto un unico sovrano: emblematico fu il caso del prefetto, agente del governo che controllava l'intera vita locale, istituito da Napoleone e mantenuto dai sovrani restaurati. I sovrani della Restaurazione tennero conto, avvalendosene per i propri fini, della concentrazione del potere politico che era stata la grande realizzazione della Rivoluzione francese. Sotto questo aspetto, essi erano assai più assolutistici dei loro predecessori.

Non fu possibile però estirpare le esigenze economiche e sociali nuove, che in Francia si erano manifestate attraverso la rivoluzione e in Italia, come altrove, covavano sotto la cenere. Esse erano radicate nella parte più viva della cultura di allora ed erano destinate a riaffacciarsi di quando in quando in moti insurrezionali e in congiure locali. Trovarono anche parziali realizzazioni attraverso le riforme che i governi più "illuminati" (in Toscana e in Lombardia, nonché in Piemonte con Carlo Alberto, Re di Sardegna dal 1831 al 1849) operarono nei loro Stati. La restaurazione reazionaria si apri così poco per volta alla "restaurazione liberale". Questa fu la continuazione, nell'Ottocento, della politica di quei sovrani assoluti che, nel secolo precedente, avevano concepito il loro potere in funzione dell'interesse dei propri sudditi, il quale veniva però interpretato paternalisticamente e sovranamente dal Re stesso. Era il cosiddetto Stato di polizia (ove polizia significava – da polis – il buon governo dello Stato). La "restaurazione liberale" fu lo Stato di polizia con in più il riconoscimento alla borghesia della possibilità di influire sulla politica accanto al sovrano.

Anche l'atto più emblematico di questo periodo, la concessione dello statuto albertino (insieme alle altre costituzioni non piemontesi dalla effimera vita), è solo una riforma che la monarchia restaurata fece a favore della borghesia. Esso fu un evento molto meno rivoluzionario di quel che spesso si dice. D'altro canto, il carattere innovativo dello Statuto non fu tanto dovuto al suo contenuto, quanto agli sviluppi che esso rese possibili.

Fu un impasto, un compromesso tra il vecchio e il nuovo e solo progressivamente e non integralmente il nuovo prevalse sul vecchio. L'assenza di una rivoluzione liberale nel nostro paese – e quindi l'assenza di un ripudio in blocco delle vecchie strutture, della vecchia mentalità, delle vecchie gerarchie – è uno degli aspetti ai quali gli storici sono propensi ad attribuire un grande significato, nella comprensione dei caratteri della nostra società (anche di quella attuale).

Il significato moderato dello Statuto albertino: la difesa contro la rivoluzione sociale

Le considerazioni precedenti circa il carattere moderato delle trasformazioni liberali in Italia possono essere verificate a proposito delle vicende che hanno portato allo Statuto albertino (4 marzo 1848). Esso è una carta costituzionale unilateralmente concessa (octroyée, come si usa dire, traendo la formula dalla Restaurazione in Francia) dal sovrano ai sudditi. Qui vi è un'essenziale differenza rispetto alla costituzione rivoluzionaria elaborata in Francia dall'Assemblea nazionale nel 1791. Lo Statuto è espressione di un potere sovrano che resta nelle mani del Re; la costituzione francese proveniva invece da un nuovo sovrano – l'Assemblea – che aveva spodestato il vecchio. Lo Statuto non fece nascere quindi un nuovo regime politico perché non vi fu sostituzione del sovrano: espresse solo la volontà di questo di autolimitare il proprio potere, senza metterne in gioco il fondamento.

Dal punto di vista della realtà politica, è noto però che il sovrano fu indotto, o costretto, a concedere lo Statuto dalle condizioni storiche che erano venute a determinarsi in tutta Europa (e anche in Piemonte) nel corso del 1848. Questo è l'anno in cui, per la prima volta, a Parigi, si accendono moti rivoluzionari nel nome del socialismo. Essi si svilupparono dalle penose condizioni delle masse operaie che l'organizzazione capitalista (sfruttamento intensivo della mano d'opera, introduzione delle macchine e disoccupazione crescente) rendeva progressivamente peggiori. La posta in gioco non era solo il cambio del regime politico, ma anche il sovvertimento del sistema sociale attraverso l'abolizione della proprietà privata e la presa del potere da parte del popolo. È del 1848 il Manifesto dei comunista di Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), che inizia evocando ironicamente lo "spettro che si aggira per l'Europa", lo Spettro del comunismo. La grande paura di un generale sconvolgimento Sociale che avrebbe travolto le gerarchie tradizionali, il potere dell'aristocrazia e della Chiesa, delle corti presso i sovrani e della borghesia, saldò occasionalmente in un unico intento difensivo i vecchi ceti dominanti e la nuova classe emergente (la borghesia).

Lo Statuto fu, in Piemonte, il patto difensivo di queste forze.

Tuttavia, le forze storiche dell’Antico regime (monarchia, aristocrazia e clero) dovettero cedere molto alle forze del nuovo (la borghesia), per il timore di perdere tutto in un più radicale rivoluzionamento sociale. La borghesia moderata fu la vera vincitrice nel compromesso. Si difese anch'essa dalla rivoluzione proletaria, ottenendo ciò che le premeva: nuove istituzioni politiche in cui poter esercitare un peso più conforme alla sua importanza sociale. Lo Statuto fu il superamento delle forme assolutistiche in una monarchia costituzionale; isolò le tendenze più radicali, aprendo la strada a una moderata modernizzazione politica e sociale, richiesta da una società che stava per mettersi a poco a poco alle spalle la civiltà feudale.

Lo Statuto riuscì così a legare alle nuove istituzioni i conservatori illuminati (cioè disposti ai cambiamenti necessari nei nuovi tempi per salvare l'essenziale dei vecchi) e gli innovatori moderati (cioè preoccupati della continuità rispetto al passato), isolando le ali estreme, reazionaria e rivoluzionaria. Fu insomma una operazione riformatrice "di centro". Non fu invece un evento rivoluzionario, se per rivoluzione si intende il rovesciamento del regime precedente, l'eliminazione della classe dirigente anteriore, il mutamento radicale delle regole della vita sociale ed economica.

I caratteri dello Statuto: i diritti dei cittadini

Lo Statuto di Carlo Alberto assomigliava alle altre "carte" venute alla luce durante la restaurazione liberale.

Era ispirata a quelle francesi del 1814 e del 1830 e a quella belga (tuttora in vigore) del 1831. Si trattava però, più che di una semplice copiatura, del prodotto di un movimento storico-politico di dimensione europea, il liberalismo moderato. Esso, negli anni precedenti, aveva assunto posizioni notevolmente precise sui due aspetti fondamentali delle costituzioni del tempo: i diritti dei cittadini e l'organizzazione dei poteri costituzionali.

La proclamazione dei diritti era ispirata, con molta moderazione, alla Dichiarazione dell'89. Lo Statuto affermava (a) l'uguaglianza di fronte al/a legge e la parità di accesso alle cariche pubbliche, salve però le eccezioni determinate dalla legge (art. 24); proteggeva (b) la libertà individuale e vietava gli arresti e i processi arbitrari, cioè contrari alla legge (art. 26); vietava le violazioni della (c) libertà del domicilio, eccezion fatta per i casi previsti dalla legge (art. 27); diceva (d) libera la stampa, ma prevedeva una legge per reprimerne gli abusi (art. 28); garantiva (e) il diritto di riunione, conformemente alle leggi che ne regolassero l'esercizio nel pubblico interesse, ma le riunioni pubbliche ricadevano interamente sotto il potere di polizia (art. 32). Senza essere espressamente menzionato, (f) il diritto di associazione si riteneva compreso tra le libertà individuali, come specificazione del diritto di riunione. Come tutte le costituzioni liberali, lo Statuto difendeva (g) il diritto di proprietà, dichiarandolo inviolabile, pur prevedendo l'espropriazione dietro indennità, nel caso di pubblico interesse dichiarato dalla legge (art. 29). Timido era lo Statuto in materia di (h) libertà religiosa, anche se rispetto alle persecuzioni del passato contro le minoranze (valdesi, ebrei) era un progresso. La religione cattolica era proclamata la sola religione dello Stato (che lo Stato avesse una propria religione non corrispondeva affatto alle idee liberali e appariva piuttosto un residuo dell'Antico regime). Gli altri culti erano semplicemente tollerati, conformemente alle leggi (art. 1). Inoltre, lo Stato offriva alla Chiesa cattolica il suo aiuto (il "braccio secolare" per reprimere le pubblicazioni religiose non approvate dal vescovo (art. 28).

In confronto con l'assolutezza delle proclamazioni contenute nella Dichiarazione dell'89, si può notare il costante rinvio alle leggi come strumento per limitare i diritti apparentemente riconosciuti a tutti. Ciò corrispondeva a una visione classista dei diritti costituzionali, poiché la legge non era la volontà di tutti ma di una ristretta oligarchia in cui la borghesia esercitava un ruolo egemone. Perciò la garanzia dei diritti non valeva ugualmente per tutti, ma solo per coloro che disponevano del potere di fare le leggi. I diritti dell'89 erano proclamati in astratto, per tutta l'umanità: le carte liberali dell'800 erano invece la proclamazione dei diritti della vincente borghesia. Si temeva che i diritti riconosciuti incondizionatamente a tutti potessero agevolare la sovversione sociale e l'instaurazione del regime democratico (la bestia nera dei liberali moderati). Il riconoscimento dei diritti era così condizionato alla difesa della società liberale e delle sue gerarchie sociali. Lo Statuto parlava il linguaggio delle società aperte (la Dichiarazione dell'89) ma si apprestava a permettere che una società chiusa si affermasse. Più precisamente, la società che ne sarebbe derivata era – Per così dire – a due strati. Era aperta, per coloro che appartenevano alle classi dominanti, che avevano accesso allo Stato e partecipavano alla legi5lazione; era chiusa per le masse subalterne, escluse dallo Stato, le quali Potevano percepirne soltanto l'aspetto autoritario e repressivo.

I critici di questo tipo di costituzioni (Karl Marx, ad esempio) vedevano in queste dichiarazioni dei diritti l'affermazione di principi di libertà e la loro contraddizione: si dava con una mano – lo Statuto – ciò che con l'altra – la legge – ci si apprestava a togliere. I diritti non erano per tutti.

I caratteri dello Statuto: la monarchia rappresentativa e il "governo misto"

L'organizzazione del potere prevista dallo Statuto corrispondeva allo schema della monarchia costituzionale (o governo costituzionale). Con questa formula non si intendeva un qualunque governo retto da una costituzione, bensì il governo vagheggiato dai liberali moderati. Esso consisteva nell'introdurre accanto ai principi tradizionali dell'Antico regime (i principi monarchico e aristocratico) il terzo principio (detto impropriamente "democratico") attraverso la rappresentanza elettiva della borghesia. Per questo, le monarchie costituzionali si dissero anche monarchie rappresentative.

Lo Statuto albertino si fondava – sull'esempio inglese – sui tre principi – monarchico, aristocratico e "democratico" – ai quali corrispondevano tre organi: il Re, il Senato e la Camera dei deputati. Fra questi tre organi era suddivisa la massima autorità politica, quella di fare le leggi: "il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due camere: il Senato e quella dei deputati" (art. 3). Ciò non ha nulla a che vedere con il principio della separazione dei poteri, che comporta che funzioni diverse siano attribuite a organi diversi. Per l'esercizio della massima funzione politica, quella legislativa, lo Statuto prevedeva non la separazione ma, all'opposto, la compartecipazione dei massimi organi della costituzione, ciascuno dei quali esprimeva una parte della società del tempo. Fuori restavano comunque le grandi masse popolari che erano escluse dal diritto di voto, e perciò il regime non poteva propriamente dirsi democratico.

Si trattava dunque non della separazione dei poteri ma del governo misto: la partecipazione al vertice dello Stato di tutte le componenti sociali, affinché ciascuna vi trovasse la propria garanzia. La legge era approvata dalla Camera dei deputati e dal Senato ed era poi "sanzionata" dal Re. In mancanza di uno di questi passaggi, non vi era legge possibile. L'idea fondamentale del governo misto è dunque quella di unificare nello Stato le diverse componenti della società.

In questo, si coglie facilmente la distanza tra le costituzioni dell'800 – basate su una visione della società di tipo pre-rivoluzionario – e quella rivoluzionaria – basata invece sull'idea di una società di individui uguali.

La teoria del governo misto era una teoria moderata che mirava alla stabilità e all'equilibrio. Lo scopo era analogo a quello della separazione dei poteri, ma i mezzi erano diversi, adeguati a una società ancora divisa in ceti. Può essere interessante ricordarne il fondamento teorico, che risale addirittura all'antico storico Polibio. Egli aveva notato che ogni regime semplice", cioè basato su un solo principio, tende a corrompersi. Così la monarchia (governo di uno), l'aristocrazia (governo dei migliori) e la democrazia (governo di tutti) tendono a divenire tirannia (governo arbitrario di uno), oligarchia (governo egoistico di pochi) e demagogia (governo irrazionale della piazza). La mancanza di freni permette queste degenerazioni.

Malgrado questo schema tripartito, la monarchia costituzionale funzionò in realtà come regime dualista. Il Senato, infatti, organo di nomina regia, era espressione di ceti ormai declinanti che non giocarono un ruolo decisivo, ma si appiattirono sulle posizioni del Re e della sua corte. I senatori erano nominati, per tutta la vita, tra gli alti funzionari dello Stato, i vescovi, i deputati con una certa anzianità, nonché tra chi con servizi e meriti insigni avesse reso illustre la patria o avesse posseduto redditi rilevanti. La composizione risultava, soprattutto all'inizio, prevalentemente nobiliare. Inoltre, non essendo previsto un numero massimo di senatori, il Re poteva in ogni momento piegare la maggioranza ai suoi desideri, attraverso le cosiddette infornate di nuovi senatori fedeli.

Il dualismo Re-Camera elettiva fu la manifestazione dell'opposizione tra l'assolutismo, impersonato dal Re, e il liberalismo, impersonato dai deputati della Camera. Al di là degli schemi tripartiti, il governo costituzionale dell'800 si basò dunque sul Re e sulla Camera. L'art. 2 dello Statuto diceva del resto esplicitamente: "lo Stato è retto da un governo monarchico e rappresentativo". E, come si vedrà, anche questo equilibrio venne rapidamente superato dagli svolgimenti storici concreti.

Il carattere oligarchico del regime liberale

Nella Camera dei deputati, formata elettivamente, si vedeva realizzato, come si diceva, il principio democratico. La legge elettorale riconosceva "il diritto di eleggere a quel maggior numero di cittadini che è compatibile con le condizioni di un governo sicuramente rappresentativo", ma non a tutti. Il suffragio universale (che del resto neppure la Rivoluzione dell'89 riconobbe integralmente) veniva considerato pericoloso portatore di tendenze rivoluzionarie o reazionarie, in ogni caso incompatibili con il carattere moderato dello Statuto.

Le condizioni per poter godere dell'elettorato attivo (cioè del diritto di voto) consistevano nel saper leggere e nel pagare una certa imposta sul reddito. Il primo requisito veniva giustificato sostenendo che la partecipazione alla vita dello Stato non poteva considerarsi adatta a coloro che fossero totalmente privi di cultura, non potessero leggere i giornali e non facessero perciò parte della "opinione pubblica". Il requisito economico o censitario" (che per lo più andava di pari passo con quello culturale) veniva giustificato affermando che i nullatenenti o "proletari", non avendo niente da difendere e quindi niente da temere, avrebbero agito irresponsabilmente e sarebbero diventati facili prede dei demagoghi. Lo Stato si confermava così come faccenda dei proprietari e dei produttori di reddito.

Inoltre, dal voto erano escluse le donne (e lo saranno fino al 1946). Si immaginino le condizioni di vita di allora, per lo più in campagna e quindi con poche possibilità di socializzazione. Si diceva che le donne non avrebbero espresso voti consapevoli e personali ma si sarebbero rimesse alla volontà dei parroci (ciò che avrebbe dato ai clericali un'influenza decisiva nella vita dello Stato) o dei mariti (violando così il principio di uguaglianza tra uomini, sposati e non). Più in generale, l'esclusione delle donne derivava dalla circostanza che solo gli uomini erano produttori di reddito, cioè cittadini a pieno titolo nello Stato della borghesia produttiva.

L'evoluzione dalla monarchia costituzionale al sistema parlamentare

La monarchia costituzionale, come qualunque sistema dualista, era continuamente sottoposta al rischio di dissolversi, qualora si fossero dati contrasti insanabili. Essa esigeva la collaborazione tra le due parti (il Re e la Camera), ma è chiaro che, in questa collaborazione, la parte politicamente più influente, perché espressione delle forze sociali più forti, poteva prendere il sopravvento.

È quanto accadde già nelle primissime applicazioni dello Statuto. La Camera dei deputati assunse il ruolo decisivo e il Re – pur non rinunciando a influire e a gestire in proprio certi settori, come la politica estera e quella militare – si adeguò. I fattori decisivi di questa evoluzione sono stati: (a) la configurazione del potere esecutivo come espressione della maggioranza parlamentare e (b) l'estromissione del Re dalla funzione legislativa.

Lo Statuto come costituzione flessibile e il significato dell'onnipotenza della legge

La ripartizione della sovranità tra la rappresentanza parlamentare e il Re significava che il loro accordo, realizzato nella legge, poteva tutto. Con una legge si poteva quindi perfino contraddire e modificare lo Statuto. In ciò consisteva la sua "flessibilità", carattere comune alle costituzioni dell'800 (che le distingue da quelle del nostro secolo che, al contrario, sono "rigide"). In ciò consisteva anche l'onnipotenza della legge, la quale – come si diceva in Inghilterra – poteva tutto, salvo che trasformare l'uomo in donna. Lo Stato dell’800 non era lo Stato della supremazia della costituzione, ma lo Stato della supremazia della legge. La legge era la fonte del diritto primaria e la sua sottomissione allo Statuto era solo apparente.

Spostando lo sguardo alla realtà politica e sociale, appare la ragione effettiva della flessibilità dello Statuto. Tale ragione risiede nel carattere "monoclasse" dello Stato liberale dell’800, nel quale l'egemonia era detenuta dalla borghesia e le altre componenti sociali o erano declinanti (quelle sopravvissute all'Antico regime) o erano escluse (le masse popolari). Nell'essenziale, i gruppi politici dirigenti (sia la "destra" che la "sinistra") erano espressione della borghesia. Questa non aveva dunque da temere per i propri interessi. Le tendenze democratiche e radicali della borghesia erano state del resto sconfitte irrimediabilmente all'epoca della crisi del’49, dopo la disfatta di Novara e lo scioglimento della Camera seguito al proclama di Moncalieri. In questa situazione, una concezione dello Statuto come costituzione rigida, cioè immodificabile dalla legge, non avrebbe avuto senso.

D'altro canto, il regime liberale oligarchico era interessato a disporre di tutti gli strumenti legislativi necessari per mantenere l'ordine sociale, potenzialmente minacciato dalle masse popolari, escluse dalla partecipazione alla vita dello Stato. Una costituzione rigida avrebbe impedito la possibilità di limitare i diritti fondamentali, privando così le forze dominanti di un formidabile strumento di controllo dell'ordine pubblico. La legge poteva quindi comprimere le libertà, poteva addirittura sospendere lo Statuto, quando esistessero situazioni di emergenza. Ciò avvenne nei numerosi casi di "stato d'assedio" proclamati in occasione di disordini sociali, quando il potere passò nelle mani delle autorità militari.

Nei casi in cui le tensioni sociali minacciavano la saldezza del potere della borghesia, lo Statuto, per così dire, si ritirava e la libertà di stampa, di riunione e di associazione, la libertà di sciopero (non proclamata dallo Statuto ma teoricamente consentita) venivano conculcate.

La costituzione flessibile era insomma il riflesso di una società non democratica in cui esisteva una divisione profonda tra dominanti e dominati, i primi dentro, i secondi fuori dallo Stato. Chi esercitava il dominio non aveva alcun bisogno di garantire la propria libertà né alcun interesse a limitarla. Anzi, poiché le minacce potevano derivare da tensioni prodotte dalla classe sociale esclusa, occorreva evitare che lo Statuto potesse divenire un ingombro all'azione di autodifesa della classe dominante: per questo lo Statuto doveva interpretarsi come costituzione flessibile.

È facile capire, conclusivamente, come la secolare vicenda della emancipazione delle masse subalterne nel corso dell’800 e nella prima parte del’900 non si sia richiamata allo Statuto. In esso non vi era forza liberatrice per gli esclusi; quella era la Carta di una oligarchia, non di tutto il popolo.

Capitolo 3. Brevi cenni storici.

L’unità d’Italia

Se dal 1852 al 1855 Cavour si era dedicato alla costruzione di uno Stato efficiente e moderno in Piemonte, dal 1855 in poi tutti i suoi sforzi furono concentrati sulla costruzione dell'unità d'Italia. Per realizzarla, bisognava innanzitutto cacciare gli Austriaci dal Lombardo-Veneto; data l'imponenza del loro esercito, occorreva quindi non solo aumentare le spese militari del Piemonte, ma anche indurre la Francia a intervenire a fianco dei Savoia.

Tra le moltissime mosse compiute da Cavour per raggiungere questo secondo obiettivo, la più importante fu nel 1855 l'intervento piemontese nella guerra di Crimea, scoppiata nel 1853 tra Russia da una parte, Inghilterra, Francia e Turchia dall'altra. Nel 1856, dopo la sconfitta dei Russi, Cavour poté partecipare in tal modo al Congresso di Parigi, sottoporre all'attenzione internazionale il caso dell'Italia e indurre Napoleone III a intervenire in Italia.

Le incertezze dell'imperatore francese, tuttavia, ritardarono l'intervento, anche se nel 1858 l'attentato del mazziniano Felice Orsini contribuì a gettare nuova luce sulla drammaticità della situazione italiana e portò agli accordi di Plombières. La Seconda guerra d’indipendenza scoppiò però soltanto nella primavera del 1859, grazie a un imprudente attacco mosso dagli Austriaci, che furono battuti contemporaneamente a Solferino dai Francesi e a San Martino dai Piemontesi. L'armistizio di Villafranca, tuttavia, pose fine alla guerra con il solo vantaggio del passaggio della Lombardia dall'Austria al Piemonte.

Nel 1860, grazie a una serie di plebisciti Toscana e Romagna passarono anch'esse al Piemonte. Contemporaneamente Nizza e la Savoia venivano cedute alla Francia. Nel 1860 fu compiuto un altro importante passo verso l'unità d'Italia grazie alla spedizione dei Mille, comandata da Garibaldi, che sbarcò in Sicilia, vinse i Borboni a Calatafimi e proseguì liberando tutto il Regno delle Due Sicilie.

In questa occasione i contadini siciliani che, dopo aver spalleggiato i garibaldini, rivendicavano la riforma agraria, furono duramente repressi da Nino Bixio. Temendo che Garibaldi attaccasse Roma, sede del papa, Cavour bloccò la sua marcia da sud a nord, inducendo Vittorio Emanuele II a congiungersi con lui liberando personalmente tutti i territori dello Stato pontificio salvo il Lazio. L'incontro fra i garibaldini e l'esercito piemontese avvenne a Teano nello stesso anno 1860. Il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno d'Italia, con capitale Torino, anche se all'unità mancavano ancora il Veneto e il Lazio con Roma.

I problemi dell’unità

Fondato il Regno d'Italia nel 1861, il paese dovette affrontare problemi interni e problemi esterni.

1. I problemi interni, riassunti nella frase di Massimo d’Azeglio "L'Italia è fatta. Ora bisogna fare gli Italiani", esplosero in forma gravissima sin dai mesi successivi all'incontro di Teano, con il brigantaggio meridionale, che assunse forme di vera e propria guerra sociale; la maggior parte dei suoi protagonisti, infatti, era formata da braccianti che rivendicavano la riforma agraria. Esso toccò la sua massima estensione tra il 1861 e il 1864 e fu represso con leggi speciali e interventi militari che crearono una frattura profonda tra "paese reale" e "paese legale".

2. I problemi esterni erano quelli della conquista del Veneto (ancora sotto l'Austria) e della conquista di Roma e del Lazio. Quest'ultimo problema comportava la cosiddetta Questione romana, che consisteva nel risolvere i rapporti del Regno d'Italia con il papa, abolendone il potere temporale e rispettandone invece il potere spirituale. Nel quadro ditali problemi esterni si inseriscono tutti gli episodi citati qui sotto.

Nel 1862 (Cavour era morto l'anno prima e il governo era presieduto da Rattazzi), Garibaldi tentò di marciare su Roma, ma fu fermato all'Aspromonte; due anni più tardi, il governo spostò la capitale da Torino a Firenze e Pio IX emanò il Sillabo, in cui condannava l'intera civiltà moderna.

Nel 1866 l'Italia si schierò al fianco della Prussia di Bismarck, che aveva provocato una guerra contro l'Austria. La partecipazione italiana assunse il nome di Terza guerra d'indipendenza; l'Italia subì le sconfitte di Custoza e di Lissa, ma ottenne ugualmente l'acquisizione del Veneto, salvo Trento e Trieste.

L'acquisizione di Roma avvenne invece nel 1870, quando i bersaglieri la occuparono entrando da Porta Pia. Poiché Roma era tradizionalmente difesa dai Francesi, l'Italia approfittò della Guerra franco-prussiana, scoppiata nello stesso anno e disastrosa per la Francia. Napoleone III, sconfitto a Sedan, dovette abdicare e, dopo un terribile assedio, nel 1871 anche Parigi aprì le porte ai Prussiani.

Qui si inserì tuttavia un episodio del tutto eccezionale. Gli operai parigini infatti si barricarono nel centro della città e diedero vita alla Comune cioè a un governo separato e basato su principi socialisti. La Comune, che fu il primo tentativo di governo socialista della storia, fu soffocata dallo stesso esercito francese, che fece strage degli operai, sgombrando il campo ai Prussiani.

L’Italia tra sviluppo e arretratezza

A partire dal 1876, in Italia, ai governi della Destra storica seguirono quelli della Sinistra storica con Depretis, presidente del consiglio dal 1876 al 1887 e creatore della politica del trasformismo, cioè del passaggio di deputati della Destra alla Sinistra per motivi di opportunità; Crispi, presidente tra il 1887 e il 1896. Infine Giolitti, che fu presidente dal 1903 al 1914, e dominò a tal punto la politica italiana che gli storici chiamano questo periodo età giolittiana. Tutti in questo periodo dovettero affrontare tre grandi problemi:

1. Il problema sociale, creato dalla povertà del proletariato urbano e dei contadini. Subito dopo la nascita del Partito socialista italiano nel 1892, la protesta contadina e la richiesta di una riforma agraria esplosero con i Fasci siciliani del 1893, repressi duramente. La protesta operaia, causata dall'aumento del prezzo del pane, diede luogo a manifestazioni a Milano nel 1898, alle quali l'esercito, comandato dal generale Bava-Beccaris, rispose facendo strage dei lavoratori. L'incapacità dei vari governi a risolvere il problema determinò il fenomeno dell'emigrazione, fortissimo soprattutto a partire dalla fine del secolo, e numerose altre agitazioni. Nel 1904 si verificò il primo sciopero generale per protesta contro le continue violente repressioni e nel 1906 nacque la Confederazione generale del lavoro che divenne il più potente sindacato italiano.

2. Il divario tra Nord e Sud. I governi della Sinistra, così come quelli della Destra storica, non osarono toccare gli interessi dei grandi proprietari terrieri e varare quella riforma agraria che avrebbe potuto segnare l'inizio di una ripresa economica del Meridione. Giolitti stesso, anzi, con le sue leggi protezionistiche, favorì lo sviluppo del Nord ponendo le basi del cosiddetto triangolo industriale Torino-Milano-Genova, ma contribuì al declino dell'agricoltura meridionale.

3. Le avventure coloniali, intraprese in nome di una politica di potenza alla quale l'Italia era impreparata. Nonostante la conquista dell'Eritrea (1890), della Libia, del Dodecaneso e di Rodi (1911-12) e il protettorato sulla Somalia, l'Italia non fu mai in grado di impadronirsi dell'Etiopia: la guerra finì con la sconfitta di Adua (1896), che determinò la caduta del governo Crispi.

Questo periodo di tempo vide l'avvicendarsi sul trono di due sovrani: Umberto I, divenuto re nel 1878 e ucciso nel 1900 dall'anarchico Bresci, che volle così vendicare la strage di Bava-Beccaris; Vittorio Emanuele III, che intraprese una politica più moderata e affidò, come si è visto, il governo al liberale Giolitti.

L’Italia fascista

L'affermazione del fascismo in Italia si inquadra nei problemi che il nostro paese si trovò di fronte alla fine della Prima guerra mondiale:

a) la delusione per la vittoria mutilata, esplosa nel 1919 con la crisi di Fiume, nella quale ebbe parte attiva Gabriele D'Annunzio e che fu poi risolta da Giolitti nel 1920 con il trattato di Rapallo.

b) la crisi sociale, aggravata da disoccupazione, bassi salari e mancata riforma agraria.

In questo quadro le forze politiche in campo erano le seguenti: 1) i liberali, ormai da anni al governo, che fin allora avevano rappresentato gli interessi della media e alta borghesia e dei proprietari terrieri; 2) il Partito socialista, con la sua organizzazione sindacale, la CGL, che rappresentava gli interessi dei lavoratori ma era diviso al suo interno tra riformisti e massimalisti; 3) il Partito comunista, fondato da Antonio Gramsci dopo il fallimento dell'occupazione delle fabbriche provocato nel 1921, secondo il gruppo di Gramsci, dall'incapacità direttiva dei capi socialisti e sindacali; 4) il Partito popolare italiano, fondato nel 1918 da don Luigi Sturzo, che raccoglieva i cattolici, dopo il permesso concesso dal papa di partecipare alla vita politica (partecipazione che era stata proibita nel 1874); 5) il Partito nazionale fascista, fondato da Benito Mussolini nel 1921 dalla trasformazione del movimento dei Fasci, sorto due anni prima. Esso raccoglieva consensi tra i reduci della guerra, la media e piccola borghesia impoverita, i disoccupati e gli studenti. Si presentava come il difensore della patria contro operai e contadini "bolscevichi", cioè socialisti e comunisti, contro i quali agiva materialmente con spedizioni punitive effettuate da "squadre" di picchiatori.

Tra queste forze politiche la grande industria del Nord e i proprietari terrieri del Sud, impressionati dagli scioperi e dalle minacce rivoluzionarie di operai e braccianti agricoli, scelsero di appoggiare il partito fascista, che fu quindi lasciato libero di compiere la "marcia su Roma" nel 1922, al termine della quale il re Vittorio Emanuele III pose Mussolini a capo del governo.

Le successive elezioni del 1924, svoltesi sotto la minaccia delle squadre fasciste armate, diedero a Mussolini una larghissima maggioranza, che segnò il concreto inizio del regime fascista. Giacomo Matteotti, il deputato socialista che denunciò in Parlamento le truffe elettorali, fu assassinato. Nel 1929 il potere di Mussolini fu ulteriormente rafforzato dai Patti Lateranensi, tra lo Stato italiano e il Vaticano, che gli procurarono l'appoggio delle masse cattoliche.

Il fascismo è stato definito un regime reazionario. Ciò significa che si basò: a) sulla repressione delle libertà individuali (attraverso tribunali speciali, polizia politica, censura, ecc.); b) sulla difesa degli interessi del grande capitale (leggi antisciopero, scioglimento dei sindacati e creazione delle "corporazioni", ecc.); c) sullo svuotamento del Parlamento e la fondazione di una dittatura (tutti i poteri al "duce").

Il fascismo fu anche un regime di massa. Ciò significa che esso cercò di creare consenso intorno alla politica del governo, soprattutto con un'intensissima azione di propaganda e con l'irreggimentazione dei cittadini attraverso iniziative che li coinvolgevano a tutte le età e a qualunque categoria appartenessero. Gli antifascisti, perseguitati e ridotti al silenzio, passarono anni in carcere come Antonio Gramsci o furono costretti a fuggire all'estero.

La Seconda Guerra Mondiale

Il primo di settembre del 1939 le truppe naziste invasero la Polonia mettendo in atto la guerra lampo, basata sull'attacco rapido e massiccio di divisioni blindate e fanteria motorizzata, con la copertura aerea. Per reazione Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania, mentre l'Unione Sovietica, in virtù del Patto di non aggressione con la Germania, occupava la Polonia orientale. Dopo un periodo di relativa interruzione, le operazioni di guerra ripresero nel 1940 con l'invasione tedesca di Norvegia e Danimarca; nel maggio, aggirando la linea Maginot, i Tedeschi invasero la Francia giungendo fino a Parigi e costringendo le truppe del corpo di spedizione britannico ad imbarcarsi rapidamente a Dunkerque sulla Manica, per sfuggire all'accerchiamento. La Francia settentrionale rimase sotto il diretto dominio tedesco, mentre in quella meridionale fu creato un governo filotedesco presieduto dal maresciallo Pétain. Dall'Inghilterra, nel frattempo, il generale De Gaulle lanciava un appello alla resistenza e alla non collaborazione col nemico.

Il vittorioso ingresso dei Tedeschi in Francia spinse Mussolini, convinto che la guerra stesse per finire, a far entrare l'Italia in guerra il 10 giugno 1940. La sconfitta delle truppe italiane in Africa e in Grecia, provocò l'intervento tedesco anche su questi fronti.

Deciso ad invadere l'Inghilterra, Hitler sottopose le città e le basi militari britanniche ad un intenso bombardamento aereo; la cosiddetta battaglia di Inghilterra fu però un insuccesso, perché l'impiego del radar riuscì a contrastare efficacemente l'offensiva. Rinunciando all'invasione dell'Inghilterra, Hitler concentrò le sue forze sul fronte orientale; dopo aver occupato la penisola balcanica, nel giugno del 1941 iniziò l'Operazione Barbarossa, attraversando senza preavviso il confine russo e giungendo, a ottobre, quasi a Mosca.

Per ordine di Stalin le truppe russe si ritirarono senza dar battaglia, lasciando dietro di sé "terra bruciata". Ostacolati dalla guerra partigiana e dal gelo, privi di rifornimento, i Tedeschi dovettero fermarsi e la guerra lampo si trasformò in guerra d'usura.

Nel frattempo il Giappone, per realizzare il suo progetto di espansione nel Pacifico, aveva distrutto la flotta americana a Pearl Harbor e invaso Indocina, Filippine, Birmania, Indonesia e Nuova Guinea. Per reazione gli Stati Uniti dichiararono la guerra.

Mentre le popolazioni dei paesi occupati subivano la dura dominazione tedesca, gli Alleati, con l'aiuto determinante dell'apparato industriale americano, prepararono la controffensiva, che iniziò alla fine del 1942 e fu vittoriosa in Africa, nel Pacifico e a Stalingrado.

Nel 1943, quando le truppe angloamericane sbarcarono in Sicilia, in Italia si era già sviluppata una forte opposizione alla guerra e al fascismo. Mussolini, ritenuto il principale responsabile della grave situazione in cui si trovava il paese, fu messo in minoranza dagli stessi gerarchi fascisti e fatto destituire ed arrestare dal re. Il nuovo capo del governo, Badoglio, firmò con gli Alleati un armistizio, reso noto l'8 settembre. I Tedeschi per reazione occuparono l'Italia, con feroci rappresaglie nei confronti di militari e civili; liberarono Mussolini che fondò la Repubblica sociale italiana, con sede a Salò, sul lago di Garda.

Mentre le truppe alleate risalivano lentamente la penisola, dietro le retrovie tedesche si andava organizzando un movimento popolare di resistenza, che trovò il proprio punto di riferimento nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), creato dai partiti ricostituitisi dopo la caduta del fascismo. Per tutto il 1944 le formazioni partigiane contrastarono l'azione dei Tedeschi e nell'aprile 1945 proclamarono l'insurrezione nazionale, che portò alla liberazione delle città del Nord e alla fine della guerra in Italia.

Intanto nel febbraio, a Yalta, Roosevelt, Churchill e Stalin, riuniti per decidere l'assetto da dare all'Europa dopo la sconfitta della Germania, avevano stabilito di seguire il principio dell'autodeterminazione dei popoli; tuttavia l'Europa occidentale fu posta sotto l'influenza americana e quella orientale sotto quella sovietica. Furono anche decise la smilitarizzazione e la divisione della Germania.

Caduta Berlino, nel maggio 1945, la Germania si arrese. Il Giappone fu costretto alla resa nel settembre, dopo che due bombe atomiche avevano distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki, provocando centinaia di migliaia di morti.

Il dopoguerra in Italia

Danni enormi all'agricoltura, all'industria ed al sistema dei trasporti, un numero elevatissimo di morti e feriti, un'estrema povertà furono l'eredità del fascismo e della guerra in Italia. Vi erano però anche molte attese e speranze di un futuro migliore; mentre molti speravano in una rivoluzione che spazzasse via le classi compromesse con il vecchio regime e aprisse la strada al progresso, altri volevano una politica di caute riforme che avviasse il paese verso una democrazia parlamentare senza alterare i rapporti sociali esistenti. Il primo schieramento faceva capo ai partiti di sinistra, comunista e socialista; del secondo facevano invece parte la borghesia liberale, l'alta finanza, i grandi proprietari, gli industriali e le gerarchie ecclesiastiche.

Il 2 giugno 1946 per la prima volta tutti gli Italiani furono chiamati alle urne. Dovevano esprimere la loro volontà in merito alla monarchia, che fu abrogata, e i loro orientamenti politici eleggendo l'Assemblea Costituente, che avrebbe preparato la nuova Costituzione.

La Democrazia cristiana, che si era presentata come il partito dell'ordine e delle caute riforme, ottenne la maggioranza relativa (35% dei suffragi); una consistente affermazione ebbero anche il Partito socialista (20%) e il Partito comunista (19%); quest'ultimo, pur mantenendo in politica estera i suoi legami con l’URSS, adottò una politica interna di collaborazione con le altre forze politiche nel segno della ricostruzione e della conciliazione nazionale.

Con il contributo e l'appoggio delle principali forze politiche entrò così in vigore, il 10 gennaio 1948, la Costituzione Repubblicana che riconosceva come diritti fondamentali tutte quelle libertà che il fascismo aveva soppresso.

A Parigi, intanto, il Trattato di Pace era stato firmato per l'Italia da Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia cristiana e capo del primo governo repubblicano, creato dopo le elezioni con la partecipazione, oltre che di democristiani, di socialisti, comunisti e repubblicani.

La collaborazione tra questi partiti, tuttavia, ebbe breve durata, incrinandosi. Lo scontro avvenne durante la campagna per le elezioni politiche del 1948 che si trasformarono in una scelta tra l'Occidente americano e l'Oriente sovietico e sulle quali pesarono anche le prime vicende della guerra fredda.

Vinse la Democrazia cristiana, che ottenne la maggioranza assoluta e formò un governo di orientamento moderato con repubblicani, liberali e socialdemocratici. Socialisti e comunisti, che complessivamente avevano perso il 10% dei voti, ne furono esclusi.

Capitolo 4. L’assemblea costituente.

L’Assemblea costituente e il referendum istituzionale

La caduta del fascismo fu l'inizio di una nuova fase della nostra storia, la democrazia. I primi anni del secolo avevano visto affacciarsi la democrazia politica nello Stato liberale, ma non avevano conosciuto una democrazia sociale. Caduto il fascismo, si trattava di gettare le basi di una democrazia più solida e profonda di quella già conosciuta. Questo fu il compito della Assemblea costituente.

Dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943) e il ripristino di un clima di libertà politica (nei limiti che la situazione bellica consentiva), si determinò un contrasto circa il modo di giungere a quel rinnovamento della vita collettiva che appariva necessario agli occhi di tutti. Da un lato, le forze moderate che facevano capo al Re operavano per ripristinare lo Statuto albertino e i suoi organi e per affidare a essi le trasformazioni che la fine del fascismo e la sconfitta nella guerra rendevano necessarie. Dall'altro lato, le principali forze politiche antifasciste, riunite a partire dall'8 settembre '43 nei Comitati di liberazione nazionale (CLN), esprimevano una molto più radicale esigenza di rifondazione dello Stato, che rompesse non solo col fascismo (come era ovvio), ma anche con il regime liberale anteriore, accusato, per così dire, di averlo tenuto a battesimo. A questo fine si imponeva la necessità di convocare un organo totalmente nuovo, straordinario, non previsto dallo Statuto. Tale organo era un'assemblea democraticamente eletta da tutti gli italiani e dotata di pieni poteri in materia costituzionale.

Il contrasto fu superato nel giugno 1944 attraverso un accordo, detto "tregua istituzionale", resosi necessario per concentrare gli sforzi nella lotta contro gli occupanti tedeschi e il regime fascista della Repubblica di Salò. L'accordo riguardava questi due punti: la rinuncia del Re Vittorio Emanuele III all'esercizio di tutti i suoi poteri, affidati al figlio Umberto II, col titolo provvisorio di luogotenente del regno, fino al momento della scelta definitiva tra monarchia e repubblica; la convocazione di un'Assemblea costituente, non appena la guerra fosse terminata con la liberazione dell'intero territorio nazionale.

L'accordo era un rinvio dei principali problemi, ma stabiliva due principi fondamentali: il congelamento della monarchia che, successivamente, avrebbe potuto essere confermata o rifiutata ma alla quale, per intanto,

veniva impedito di operare attivamente; la decisione costituente, che chiamava il popolo italiano, per la prima volta nella sua storia, a pronunciarsi democraticamente sui massimi problemi della vita politica e sociale.

In seguito, l'Assemblea costituente venne privata del potere di risolvere la questione istituzionale. La scelta tra monarchia e repubblica fu affidata a un referendum popolare, per dare una possibilità in più alla monarchia. Infatti, la sua sorte sarebbe stata segnata fin dall'inizio in una Assemblea costituente nella quale la grande maggioranza dei partiti era di orientamento repubblicano.

Il 2 giugno 1946, gli elettori si espressero contemporaneamente sulla questione istituzionale e sull'elezione dei deputati della Assemblea costituente. Il sistema elettorale era, per la prima volta, interamente democratico, essendosi riconosciuto il diritto di voto a tutti i cittadini maggiorenni, uomini e donne.

La scelta repubblicana prevalse di poco su quella monarchica (12.717.923 voti contro 10.719.284), e il risultato non sarebbe cambiato anche se le schede nulle o bianche (circa 1.500.000) fossero state contate a favore della monarchia, in quanto voti che non esprimevano una volontà di cambiamento (questa era la tesi dei monarchici).

Fu una decisione di grande importanza: non si trattava solo di scegliere se avere un Re o un presidente della Repubblica al vertice dello Stato. Era in gioco la continuità col regime precedente. Il popolo italiano scelse la rottura, cioè un regime integralmente nuovo, attraverso l'abolizione della monarchia, il segno più visibile e rappresentativo della continuità. Il Re si allontanò dall'Italia e l'Assemblea costituente si accinse alla sua opera con il campo sgombro dalla "questione istituzionale", in una atmosfera più serena e con un'indicazione del popolo italiano a favore di una profonda trasformazione costituzionale.

L'Assemblea costituente fu eletta dai cittadini votando liste di candidati predisposte dai partiti, secondo un sistema elettorale proporzionale (un sistema cioè che dà a ogni partito un numero di eletti proporzionale al numero di voti ottenuti). Ciò consentì di verificare la misura del consenso che ciascun partito politico riscuoteva nel paese (in precedenza, nei CLN, i partiti erano rappresentati pariteticamente, poiché fino a una verifica elettorale non era possibile constatare la forza rispettiva). L'Assemblea costituente era dunque un'assemblea di partiti, come si addiceva ormai a una democrazia di massa, in cui non vi era più spazio per i notabili del periodo liberale. Qui si vede l'origine del carattere partitico della nuova costituzione (da non confondere con la "partitocrazia", che è la degenerazione della democrazia dei partiti).

Il quadro che si delineò fu questo: la Democrazia cristiana (con il 35,1% dei voti e 207 seggi) era la maggior forza politica. Ma il Partito comunista (con il 18,9% dei voti e 104 seggi) e il Partito socialista (con il 20,7% dei voti e 115 seggi), uniti da un "patto di unità d'azione", costituivano il polo di sinistra, a sua volta maggioritario.

Questi partiti erano i tre grandi della politica italiana. Le forze liberali erano rappresentate, ma non in misura altrettanto consistente, a dimostrazione che la loro egemonia, su cui lo Stato unitario era stato edificato, era ormai tramontata. Il Partito liberale era rappresentato da 41 deputati (6,8% dei voti) e i partiti di ideologia liberal-democratica (il Partito repubblicano, con 23 seggi e il 4,4% dei voti; il Partito d'azione, con 7 seggi e 1' 1,5% dei voti) non andavano al di là di modesti risultati. Esisteva poi, oltre ad altri raggruppamenti trascurabili, la formazione dell'Uomo qualunque (trasformatosi poi, nel 1948, nel Movimento sociale italiano) che si richiamava più o meno espressamente al regime anteriore e rifiutava la politica, i partiti e la democrazia, secondo un atteggiamento che da allora si chiamò "qualunquismo" (30 seggi e il 5,3% dei voti).

Questo era il quadro politico della nuova Italia: due formazioni maggiori a confronto, la democrazia cristiana da un lato e i partiti comunista e socialista dall'altro; le forze "laiche" liberali, con un ruolo complementare, incapaci di una politica autonoma, ma in condizione di influenzare la politica degli altri.

Tra queste forze maggiori si stipulò il patto che diede luogo alla costituzione o, come si disse fin da allora, il compromesso costituzionale.

Terza parte: caratteri della costituzione italiana

Capitolo 1. Costituzione e mediazione.

Introduzione

Dicevamo, nell’ultimo paragrafo della parte seconda, come tra le forze maggiori in cui era diviso il quadro italiano agli inizi della repubblica (la democrazia cristiana da un lato e i partiti comunista e socialista dall'altro; le forze "laiche" liberali, con un ruolo complementare, incapaci di una politica autonoma, ma in condizione di influenzare la politica degli altri) si stipulò il patto che diede luogo alla costituzione o, come si disse fin da allora, il compromesso costituzionale.

Vediamo ora di analizzare più in dettagli questa situazione.

La costituzione come compromesso

Il compromesso che diede luogo alla costituzione fu messo in luce già durante i lavori dell'Assemblea costituente. Piero Calamandrei, uomo di grande prestigio del Partito d'azione, parlò di "compromesso tripartito" (tra DC, PSI e PCI). Soprattutto gli esponenti della tradizione liberale vedevano in ciò un segno di confusione e debolezza della nuova costituzione. Essi auspicavano una costituzione più semplice, lineare e univoca, ciò che però la composizione dell'Assemblea costituente rendeva impossibile.

Ma contro quest’interpretazione negativa del compromesso costituzionale se ne avanzò un'altra, di segno positivo. Palmiro Togliatti, allora segretario del PCI, osservò:

"Che cos'è un compromesso? I colleghi che si sono serviti di questa espressione probabilmente l'hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare a un'unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti. Se questa confluenza di diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarlo come "compromesso", fatelo pure. Per me si tratta invece di qualcosa di molto più nobile e elevato, della ricerca di quell'unità che è necessaria per poter fare la costituzione non dell'uno o dell'altro partito, non dell'una o dell'altra ideologia, ma la costituzione di tutti i lavoratori italiani, di tutta la nazione".

Dal canto suo, Lelio Basso, esponente socialista, aveva detto:

"noi voteremo in questa costituzione degli articoli che certamente non corrispondono alle tradizioni del nostro partito e altri che contraddicono a quelle che sono le nostre aspirazioni lontane; ma voteremo degli articoli che siano l'espressione della complessa realtà oggi in atto e li voteremo con perfetta lealtà".

Nella costituzione vi sono certamente norme poco chiare, che furono approvate dalle diverse forze politiche con l'intento di piegarle – se e quando lo avessero potuto – alla loro visione di parte (ad esempio alcune disposizioni in materia economica, o altre sulla scuola). Ma sono casi sporadici. Per lo più, si può dare ragione a Togliatti, poiché le norme della costituzione non esprimono punti di vista unilaterali di singoli partiti, ma punti di incontro tra posizioni diverse. Le costituzioni contrattate tra più forze politiche e sociali non sono dei manifesti ideologici che devono obbedire a una rigorosa logica unitaria: sono documenti che, per poter valere, devono rappresentare tutti i lati dell'accordo. Infine, aveva ragione anche Basso: una costituzione che non avesse rispecchiato la "complessa realtà" ma l'avesse semplificata arbitrariamente, sarebbe stata una costituzione monca, debole, incapace di ottenere l'adesione di tutte le forze politiche. Il compromesso non fu quindi la debolezza, ma la forza della costituzione. Ciascuna parte dovette rinunciare a qualcosa e accettare qualcos'altro che non coincideva con le proprie aspirazioni, pur di raggiungere l'accordo (per esempio, le forze di ispirazione marxista rinunciarono alla statizzazione dei mezzi di produzione; le forze laiche accettarono i Patti lateranensi, ecc.). Solo così la costituzione poté giungere all'approvazione, ottenendo un larghissimo consenso: nel voto finale, si contarono 453 favorevoli e solo 62 contrari. La costituzione non rispecchia perciò un'idea semplice di democrazia, ma un'idea complessa, poiché la società che l'ha espressa era una società a tanti lati, una società, come si dice, pluralistica.

Naturalmente, dei tre aspetti del compromesso – il mercanteggiamento di Calamandrei, l'elevata ricerca di unità di Togliatti, la rinuncia di Basso – essenziale è quello sottolineato da Togliatti: se la costituzione non avesse espresso un incontro effettivo e leale tra le forze costituenti, se fosse stata solo mercanteggiamento e rinuncia, non sarebbe riuscita nel suo compito unificatore e pacificatore che svolse per tanti anni e nelle condizioni più difficili per la nostra democrazia.

Il terreno d'incontro: il valore della persona umana e lo Stato sociale

Se si considera l'attuale litigiosità dei partiti politici e l'estrema difficoltà di ogni accordo tra di loro su questioni di fondo, ci si può stupire della riuscita del compromesso costituzionale. La ragione principale di quel successo sta nel fatto che la costituzione non era più concepita allora come strumento di affermazione di qualche partito a danno di qualche altro. L'Assemblea costituente lavorava indipendentemente dalle vicende politiche quotidiane, in una prospettiva di lunga portata.

Neppure la rottura della collaborazione tra i tre maggiori partiti e l'estromissione dal governo dei due partiti di sinistra, alla metà del 1947, compromisero la realizzazione dell'impresa costituente. Quella rottura influenzò certi contenuti: soprattutto furono rafforzati i meccanismi di garanzia delle minoranze, necessari nell'incertezza su quale dei due blocchi – la sinistra o la democrazia cristiana con i suoi alleati di centro – sarebbe prevalso in futuro. Tutti avevano perciò interesse a premunirsi per l'ipotesi in cui si fossero trovati in minoranza. La condizione essenziale del successo fu ciò che si chiama il "velo dell'ignoranza", cioè il fatto che nessuno allora era in grado di sapere chi, nel futuro prossimo, sarebbe stato danneggiato o favorito da questa o quella regola costituzionale. In tale situazione favorevole, che si realizza solo all'inizio di un'esperienza costituzionale nuova, il problema costituente non fu vissuto dai partiti come problema di potere (ciò che avrebbe paralizzato ogni accordo) e tutte le parti si prestarono a ragionare in astratto, facendo prevalere le considerazioni più elevate su quelle più egoistiche. Le soluzioni costituzionali si accoglievano o si scartavano perché conformi o contrarie a visioni generali, non a interessi di parte.

Ciò favori l'incontro attorno a un nucleo costituzionale di largo significato. Tale nucleo è rappresentato dal valore della persona umana. Attorno ad esso si formò un movimento culturale di matrice cattolica, il personalismo, espressamente orientato al compromesso tra culture diverse. Esso si diffuse in Francia tra le due guerre e influenzò – attraverso l'opera della sinistra democristiana (Dossetti, La Pira, Moro, ecc.) – i lavori dell'Assemblea costituente. Poiché di solito non si sa molto in proposito, è opportuna qualche parola.

Il maggiore esponente di questa corrente di pensiero, Emmanuel Mounier, così si esprimeva:

"[Il personalismo] non sarà mai un sistema né una macchina politica. Noi adoperiamo questo comodo termine per designare una certa prospettiva dei problemi umani e per porre l'accento, nella soluzione della crisi del XX secolo, su certe esigenze che non sempre sono messe in valore. Non si diviene personalisti abbandonando le proprie fedeltà di prima o i punti di vista pratici, scelti per la soluzione dei problemi concreti. Si può essere cristiani e personalisti, socialisti e personalisti e, perché no? comunisti e personalisti. La miglior sorte che possa toccare al personalismo è questa: che dopo aver risvegliato in un sufficiente numero di uomini il senso totale dell'uomo, si confonda talmente con l'andamento quotidiano dei giorni da scomparire senza lasciare traccia".

Non era dunque una nuova filosofia politica, né un nuovo manifesto politico che volesse scacciare tutti gli altri: era invece un tentativo di gettare ponti in tante direzioni, per cercare collaborazioni rispettando le diversità. Si metteva al centro dell'attenzione delle forze politiche la persona umana, il vero "valore" di ogni scelta politica:

"La persona non è una cellula, nemmeno in senso sociale, ma un vertice, dal quale partono tutte le vie del mondo...

La persona umana non è un concetto solo metafisico, come spesso si inducono a considerarla i filosofi spiritualisti, che si perdono in chiacchiere sullo "spirito" umano e non si degnano di gettare lo sguardo sulle deplorevoli condizioni della vita quotidiana di tanti uomini: "non vi siete accorti di nulla, e questo vi condanna""

Non è però nemmeno un concetto solo materialista, che riducesse l'uomo ai suoi bisogni economici, come avevano fatto le due grandi filosofie dell'800, quella liberale e quella marxista, l'una nemica dell'altra, ma sullo stesso terreno. Per il personalismo, la persona poneva problemi sia spirituali che materiali: anzi, in una situazione storica data, di indigenza diffusa, i problemi economico-strutturali assumevano un'urgenza primaria, condizionando lo sviluppo spirituale dell'uomo: "il primo passo della rivoluzione spirituale è la rivoluzione economica e politica, che apre a quella la via verso traguardi ancora troppo offuscati dalle preoccupazioni elementari della difesa della propria vita".

Sotto gli aspetti ora indicati, il personalismo offriva un terreno d'incontro indubbiamente fecondo tra una parte del mondo cattolico (il "cattolicesimo sociale" che si richiamava al filosofo dell'"umanesimo integrale", Jacques Maritain) e le forze di sinistra, interessate a una trasformazione profonda della realtà economica e sociale dell'Italia del dopoguerra: era una visione di matrice cristiano-cattolica che, per una volta, non si rassegnava a convivere con la società così com'era, ma indicava la via di un impegno per la trasformazione.

Le conseguenze pratiche di tale concezione sul terreno costituzionale furono numerose. Essa consentì convergenze importanti. In primo luogo, si impose la visione della società italiana quale realtà da trasformare, per combattere le ingiustizie sociali (art. 3, secondo comma della costituzione). Correlativamente, si abbracciò la concezione dello Stato come strumento di questa trasformazione (lo Stato interventista, programmatore, ecc.). Fu un grande passo in avanti, rispetto alla visione dello "Stato guardiano notturno" dell'Ottocento liberale, e a quella della "sussidiarietà" dello Stato, propria del cattolicesimo tradizionale, secondo cui il ruolo dello Stato era solo di sopperire alle crisi sociali momentanee, non di trasformare la società. Così si apriva la strada all'innovazione più importante circa la concezione dello Stato: lo Stato che governa i processi economici e limita e indirizza i diritti economici dei privati, i diritti che il secolo precedente aveva proclamati sacri e il secolo nostro vuole subordinati agli interessi generali. È lo Stato interventista.

Altro punto significativo è la visione comunitaria dell'uomo e della società. Ogni persona è concepita non in astratto, ma nelle relazioni sociali concrete in cui è inserita: si tratta cioè del cosiddetto uomo situato. Ciò significa che è improprio considerare gli individui tutti astrattamente uguali, ma che occorre considerare l'operaio, il contadino, il padre, la madre, il membro di una famiglia, il credente, ecc., ciascuno con le proprie esigenze e le proprie particolarità. Secondo la concezione cattolica, di cui il personalismo è un figlio, l'uomo è inserito in comunità naturali, cioè dipendenti non dalla sua volontà, ma dalla sua stessa indole di individuo sociale: la famiglia, la chiesa, il sindacato, la fabbrica, la scuola, ecc.: comunità che, essendo appunto "naturali", hanno i loro propri diritti naturali che nemmeno lo Stato può violare. Anche su questa concezione anti-individualistica e comunitaria della vita sociale si trovò l'accordo con le forze di sinistra, le quali si erano formate storicamente attraverso organizzazioni di tipo comunitario: i sindacati, le leghe dei lavoratori, i partiti, i cui componenti si chiamavano "compagni".

Si trattava però di un accordo non di tipo dottrinale, ma pratico. Per i marxismi di tutti i tipi, i caratteri dei gruppi sociali, famiglia compresa, non sono naturali ma derivano dai rapporti economici. Ma, per l'intanto, la visione concreta dell'uomo, legato alla cerchia delle persone con cui condivide esperienze di vita, garantiva il rispetto delle organizzazioni della classe operaia e il riconoscimento del loro ruolo negli anni a venire.

Tutto ciò portava a una visione pluralista della società italiana, non concepita quale somma di individui tutti indifferentemente assoggettati alla stessa legge, ricchi e poveri, proprietari e proletari, potenti e impotenti, ma come la risultante di tante realtà sociali differenziate, ciascuna con le proprie aspirazioni da soddisfare. Si pensi alle "formazioni sociali" di cui parla l'art. 2 della costituzione, alle "confessioni religiose" dell'art. 8, alla famiglia come "comunità naturale" dell'art. 29, al "mondo del lavoro" degli artt. 35 e seguenti, al sindacato dell'art. 39 e al partito politico dell'art. 49, ecc.

Non era propriamente un ritorno all'antico, alla società per ceti pre-rivoluzionaria: allora, ogni uomo apparteneva integralmente a un ceto, aveva uno status definito che ne limitava il ruolo sociale. La costituzione considera invece che ogni persona si proietta in quelle comunità per sviluppare se stessa, quasi come le sostanze chimiche che possiedono molte "valenze" che ne consentono l'unione con altre, in nuove sostanze complesse aventi altre proprietà. La società per ceti amputava le potenzialità della persona; la società comunitaria invece le aumenta.

La novità, rispetto all'Antico regime, si vede bene in questo: nel fatto che accanto ai diritti dell'"uomo situato", sono comunque mantenuti i diritti classici della tradizione liberale, i quali attengono all'individuo come tale e costituiscono il minimo comune denominatore della condizione di libertà di tutti gli uomini. In questo, la Rivoluzione francese dimostrava di non essere morta.

I contenuti della "persona" cui il personalismo si ispirava, così come il rapporto tra le "comunità" e lo Stato, non erano definiti una volta per tutte. Si trattava di un orientamento di pensiero e di metodo da tenere presente nell'affrontare i problemi sociali, più che di una ricetta per fornire risposte precise. Per questo, il personalismo non divenne mai una parola d'ordine, un proclama capace di effetti propagandistici di massa: fu piuttosto un discorso per élites intellettuali e politiche, come quelle che operarono nell'Assemblea costituente. Le forze di sinistra ne furono attratte, tanto più in quanto avevano abbandonato il proposito rivoluzionario immediato e si affidavano a una "lunga marcia" attraverso lo Stato. La sinistra richiedeva la democratizzazione politica e soprattutto sociale (la cosiddetta democrazia progressiva di Togliatti) e le aperture trasformatrici del cattolicesimo sociale e personalista facevano intravedere prospettive in tal senso. Era un punto di accordo iniziale che lasciava integre le possibilità future di ciascuna forza politica di far valere le proprie istanze trasformatrici; era un accordo – per riprendere una formula già usata a proposito dello Statuto albertino – che non avrebbe impedito di andare più avanti.

Coloro che non si riconobbero in queste prospettive furono le forze liberali: le critiche più forti al compromesso costituzionale vennero infatti da loro. Non si può dire però che la tradizione liberale non sia riconoscibile nel testo costituzionale: nell'essenziale, le dichiarazioni dei diritti e delle libertà individuali (salvo che nella decisiva materia economica, tuttavia), sono di matrice liberale. Per questa parte, i diritti della Rivoluzione francese si dimostrarono assai più che "diritti borghesi", come il marxismo li aveva riduttivamente considerati: erano invece conquiste universali della libertà e della dignità dell'uomo. Solo che, a differenza delle concezioni liberali classiche, tali diritti e tali libertà non erano l'ultimo orizzonte della costituzione: erano inseriti in un più ampio quadro di tipo sociale, dal quale la tradizione liberale si riteneva estranea.

Ecco dunque la struttura portante del compromesso costituzionale, raggiunto dai cattolici-sociali e dai partiti comunista e socialista, con l'apporto delle concezioni liberali circa i diritti e le libertà individuali.

Ne scaturì quello che, con una formula sintetica che allude a tutto ciò che si è detto, si definisce lo Stato sociale.

Quarta parte: come funziona la costituzione

Capitolo 1. Il parlamento.

Il parlamento: composizione e struttura

Il parlamento è il cardine dell’organizzazione costituzionale. Ad esso spettano i più alti poteri di decisione sul funzionamento dello Stato e sui diritti e i doveri dei cittadini. L’elezione dei suoi membri è perciò la forma principale di esercizio della sovranità popolare. Ogni 5 anni, il corpo elettorale è chiamato a votare per rinnovare i propri rappresentanti in parlamento. L’intervallo tra una elezione e l’altra si denomina legislatura (la cui durata è dunque di 5 anni, salve le abbreviazioni che derivano dagli scioglimenti anticipati.

Il parlamento è un organo bicamerale, composto da due "rami", la Camera dei deputati (630 deputati) e il Senato (315 senatori, più quelli "a vita", cioè gli ex presidenti della Repubblica e i 5 che ogni presidente della Repubblica può nominare tra cittadini illustri, nella scienza, nell’arte, nella politica). Sono due Camere separate, dotate di identici poteri, che solo eccezionalmente si riuniscono in seduta comune (per esempio, per l’elezione del presidente della Repubblica). Ma le competenze "normali" (il controllo sul governo e la legislazione) sono esercitate da entrambe le Camere, separatamente.

Le due camere rappresentano i cittadini elettori nel medesimo modo, poiché l’una è il doppione dell’altra. Ciò è dovuto alla rassomiglianza dei due sistemi elettorali, proporzionali, prima del 1993 e, dopo, misti a prevalenza maggioritaria.

La Camera avrebbe dovuto essere l’organo rappresentativo di tutto il popolo, mentre il Senato avrebbe dovuto essere il luogo di rappresentanza delle regioni ("è eletto su base regionale", dice l’art. 57). Così avviene negli Stati federali: ad esempio, il Senato negli Usa rappresenta gli Stati federati che eleggono due senatori ciascuno; in Germania federale, il Senato – detto Bundesrat – rappresenta i governi degli Stati federati – detti Lander -. Ma la struttura fortemente accentrata ("romana") dei partiti ha di molto attenuato le caratteristiche regionali della vita politica in Italia. Per questo, le due Camere, politicamente, si assomigliano come due gocce d’acqua. Da ciò nasce l’interrogativo se abbia senso mantenerle così come sono.

Si è proposta, per esempio, l’abolizione del Senato o la sua caratterizzazione più spiccatamente regionale (la cosiddetta Camera delle regioni). A una simile differenziazione dovrebbe seguire una distinzione di compiti, rispetto a quelli della Camera dei deputati. Due Camere con composizione diversa ma dotate dei medesimi poteri renderebbero infatti ancor più difficile il funzionamento delle istituzioni rappresentative. Per questo, si pensa di concentrare l’attività legislativa ordinaria nella Camera dei deputati e di assegnare al Senato il compito di controllo sul governo e la trattazione delle questioni di interesse regionale (oltre che quelle riguardanti i rapporti con l’Unione Europea). Ma, finora, nessuna di queste proposte ha ottenuto i consensi necessari per tradursi in una modifica della costituzione.

Le Camere funzionano, cioè deliberano, a maggioranza. Vale insomma la regola dei più, che comporta la formazione, accanto alla maggioranza, di minoranze che costituiscono le opposizioni (di destra e di sinistra). Tutta la dinamica parlamentare sta in questo confronto di maggioranza e opposizioni.

Di regola, le Camere deliberano a maggioranza semplice, cioè col voto favorevole della metà più uno dei presenti. Eccezionalmente, per le decisioni più importanti, si richiedono maggioranze più ampie, come la maggioranza assoluta (metà più uno dei componenti) e le maggioranze qualificate (per esempio i 2/3 richiesti per l’approvazione delle modifiche della costituzione).

I membri del parlamento – deputati e senatori – godono di particolari garanzie, per poter svolgere in piena libertà le proprie funzioni. Esse si denominano immunità parlamentari. Consistono (a) nella insindacabilità, secondo la quale i parlamentari non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni; (b) nell’inviolabilità, per la quale, se non vi è una speciale autorizzazione a procedere della Camera cui appartengono, i parlamentari non possono essere arrestati né Sottoposti ad altre misure limitative della libertà personale, a meno che non siano colti nell’atto ("in flagranza") di commettere reati di particolare gravità (quelli per i quali si viene necessariamente arrestati) o quando queste misure siano adottate in esecuzione di una sentenza penale irrevocabile (art. 68 cost.). La ragione delle immunità parlamentari sta nell’esigenza di impedire la persecuzione dei deputati e dei senatori e di difendere perciò la libertà delle istituzioni rappresentative. Queste garanzie hanno un’origine molto antica. Esse sono sorte già all’epoca dei primi parlamenti, quando i giudici e le forze di polizia dipendevano dal Re e dal governo. Esse valevano quindi per difendere l’indipendenza del parlamento nei confronti di questi organi. Oggi la magistratura è indipendente e le misure contro la libertà della persona prese dalle forze dell’ordine sono sempre controllate dai giudici. Molti pensano perciò che queste garanzie si traducano ora in inammissibili privilegi dei parlamentari i quali, a differenza di tutti gli altri cittadini, vengono così sottratti al corso regolare della giustizia. In realtà, queste garanzie si giustificano ancora oggi, data la politicizzazione di parte della magistratura e l’obbligo che essa ha di procedere quando vi sia una denuncia (la quale potrebbe essere "montata" ad arte per danneggiare un parlamentare). L’importante sarebbe di non abusarne. In pratica, gli abusi sono frequenti: per esempio fino alla XI legislatura, l’autorizzazione è stata negata sistematicamente quando si aveva a che fare con reati riguardanti il finanziamento illecito dei partiti.

Negli ultimi tempi, si sono moltiplicate le proposte per una nuova disciplina dell’immunità parlamentare. C’è stato chi ha proposto più radicalmente di abolirla tout court e così di rendere i parlamentari uguali a tutti i cittadini, di fronte alle inchieste penali che li riguardano. Ma si è fatto strada anche un forse più opportuno orientamento rivolto a mantenerla ma con correttivi rivolti a impedire gli abusi. In particolare, una proposta su cui si era raggiunto un certo consenso nella X legislatura, ma non arrivata al termine dell’iter di approvazione, prevedeva non il potere di autorizzare, ma quello di fermare i giudici penali quando, entro sessanta giorni, una larghissima maggioranza della Camera di appartenenza (i 2/3) avesse ravvisato un intento persecutorio nell’iniziativa giudiziaria (il cosiddetto fumus persecutionis). Nella XI legislatura, il progetto è stato ripreso ma "annacquato" dalla possibilità per la maggioranza di opporsi al procedimento giudiziario. Infine, di fronte a un uso che è apparso spudorato (il diniego dell’autorizzazione a procedere contro un ex-segretario del Partito socialista, imputato di gravi reati di corruzione) si è di nuovo proposta 1’ abolizione dell’istituto (da mantenere semmai solo per i reati di opinione e per l’arresto). Questi sbandamenti dimostrano come, in questa materia, si sia ancora ben lontani da una valutazione equilibrata e non condizionata dalle vicende politiche contingenti.

Le Camere sono organi molto complessi che richiedono un’organizzazione assai articolata.

I gruppi parlamentari sono le proiezioni dei partiti in parlamento e raggruppano i deputati e i senatori dello stesso partito. Essi mantengono la disciplina di gruppo, che è disciplina di partito, orientando il voto dei propri iscritti. Ciò non comporta però la riduzione totale dei parlamentari a semplici portavoce dei partiti ai quali appartengono. I membri del parlamento, infatti, non sono giuridicamente legati a vincoli di fedeltà al partito nelle cui liste sono stati eletti: essi – secondo la tradizione liberale di origine francese – "rappresentano la nazione senza vincolo di mandato" (art. 67 cost.). Perciò, se vogliono, possono votare come credono, anche contro le indicazioni del loro gruppo: andranno forse incontro a sanzioni politiche (l’espulsione dal partito, dal gruppo, la mancata ricandidatura alle successive elezioni), ma non decadono dalla carica che ricoprono. Alcune costituzioni contemporanee prevedono invece che l’uscita dal partito o dal gruppo determini la decadenza da parlamentare: da noi non si arriva a tanto, poiché non si vuole una così forte dipendenza dal partito.

Le commissioni parlamentari (13 sia alla Camera che al Senato) trattano ciascuna particolari materie (industria, giustizia, agricoltura, ecc.) e sono composte dai parlamentari di tutti i gruppi, in proporzione alle dimensioni di questi ultimi. Sono "le camere in miniatura" e consentono lo snellimento delle molteplici funzioni parlamentari. Queste, se dovessero compiersi tutte davanti all’aula o, come si dice, al plenum, comporterebbero la paralisi del parlamento per sovraccarico di attività. Le commissioni svolgono importanti funzioni, partecipando sia al procedimento legislativo che al controllo dell’attività del governo.

Le Camere possono anche istituire, volta per volta, speciali commissioni d’inchiesta, talora bicamerali (cioè composte da deputati e senatori). Tali commissioni accertano i fatti sui quali sono chiamate a indagare e hanno gli stessi poteri che spettano ai giudici penali (art. 82 cost.). Non possono però condannare nessuno, ma solo riferire alle camere i risultati della loro attività e, ove ravvisino l’esistenza di reati, farne denuncia al magistrato penale. Per dare un’idea della loro importanza, si possono ricordare le commissioni d’inchiesta sulla loggia massonica P2, sulla strage di via Fani e l’omicidio dell’on. Aldo Moro, sulle deviazioni dei servizi di sicurezza (SIFAR), sulla mafia siciliana, sul banditismo in Sardegna, sulle stragi (da Piazza Fontana a Ustica) che hanno turbato la vita democratica negli ultimi decenni (tutti casi in cui si trattava di accertare responsabilità politiche e trarne le conseguenze). Altre volte, si è trattato di acquisire conoscenze per poi legiferare: così è avvenuto, ad esempio, con le inchieste sulla miseria, sulla disoccupazione, sulle condizioni dei lavoratori, sulla "giungla retributiva". In questi casi, si parla di commissioni d’indagine.

I presidenti delle Camere devono dirigere in modo imparziale i lavori parlamentari, assicurando a ogni gruppo e a ogni parlamentare il rispetto dei propri diritti. La loro elezione avviene a maggioranza assoluta e, data la natura non politica della loro funzione, essi vengono talora scelti anche tra i parlamentari dei gruppi di opposizione.

Il parlamento: competenze

La principale competenza del parlamento è quella legislativa. La legge è l’atto principale attraverso il quale lo Stato opera: essa è obbligatoria per tutti, dal momento in cui è pubblicata sulla Gazzetta ufficiale (talora, quando la legge è complessa, l’entrata in vigore si posticipa di quindici giorni, o anche di più, per consentire ai cittadini di informarsi: è la vacatio legis). Con la legge si può far tutto, salvo che modificare o contraddire la costituzione, in quanto essa è "rigida". Entro questo limite, la legge può ben dirsi l’atto primario (o "fonte del diritto" primaria), poiché tutti gli altri atti (decreti del governo, sentenze dei giudici, ecc.) sono subordinati alla legge, cioè devono rispettarne i contenuti. In questo vincolo alla legge consiste il principio di legalità, conseguenza della posizione centrale del parlamento – autore della legge – nel sistema costituzionale.

L’approvazione della legge si svolge attraverso un complesso procedimento che inizia con l’iniziativa o proposta di legge. Possono presentare proposte i singoli parlamentari, le regioni, 50.000 elettori, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (organismo cui partecipano i rappresentanti del mondo del lavoro, con funzioni di consulenza, finora di scarso rilievo) e il governo. Di fatto, è l’iniziativa di quest’ultimo ad assumere la massima importanza. Esso dispone di una propria maggioranza nelle due camere, e quindi si può presumere che le sue iniziative siano bene accolte. Inoltre, è attraverso le sue proposte di legge – dette "disegni di legge" – che il governo può attuare il suo programma.

La proposta, presentata indifferentemente a una delle due Camere, viene inviata per un esame preliminare alle commissioni parlamentari competenti per materia. Esse predispongono delle relazioni che inviano all’aula per l’esame e l’approvazione della proposta di legge. L’approvazione avviene articolo per articolo e poi con voto finale sull’intera legge. Durante i lavori parlamentari possono essere presentati emendamenti, cioè proposte di modifiche, che vengono anch’esse messe ai voti. Dopo l’approvazione di un ramo del parlamento, il testo viene inviato all’altro, la cui approvazione, in forza del principio bicamerale, è ugualmente necessaria. Qualora in questa seconda fase si apportino delle modifiche, il testo viene rinviato alla prima Camera per un nuovo esame. La legge non si considera approvata, infatti, se non vi è una conforme deliberazione di entrambe le Camere.

Successivamente, essa viene inviata al presidente della Repubblica per la promulgazione. Questa consiste in un controllo di regolarità (ad esempio che vi sia stata la doppia approvazione su testo identico) e di costituzionalità (ad esempio, secondo l’art. 81 cost., che la legge che preveda spese indichi la "copertura" finanziaria, cioè i mezzi per sopperire ad esse) e contiene l’ordine di osservare e fare osservare la legge. Qualora riscontri dei difetti, il presidente può usare del suo potere di veto sospensivo, rinviando la legge alle Camere per chiederne il riesame. Se le Camere la riapprovano, il presidente è obbligato a promulgarla (art. 74 cost.). Dopo di che, il testo è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e può entrare in vigore.

Il procedimento descritto si articola così in queste fasi: (a) la proposta, (b) l’esame delle commissioni, (c) l’approvazione dell’aula (queste due fasi ripetute nelle due Camere), (d) la promulgazione, (e) la pubblicazione.

L’approvazione in aula costituisce un vero e proprio collo di bottiglia che, per ragioni di tempo, impedirebbe di fare molte leggi pur necessarie.

E stato allora previsto che l’approvazione possa essere decentrata alle commissioni: in tal caso, esse svolgono non solo una funzione referente ma anche deliberante o legislativa. Per materie particolarmente importanti, però, l’approvazione è riservata all’aula (art. 72 cost.). In tutti gli altri casi si ha frequentemente l’uso delle commissioni al posto del solenne, complesso e pubblico procedimento di fronte al plenum. Accanto al vantaggi di efficienza, questa scorciatoia comporta anche un grave inconveniente: la proliferazione di piccole leggi che assomigliano ai "privilegi" dell’Antico regime. Queste "leggine" contengono favori per questo o quel gruppo sociale e contraddicono il ruolo generale del parlamento, come interprete dei problemi della comunità nazionale nel suo complesso.

Le leggi del parlamento, in particolari circostanze, possono essere sostituite da "leggi" del governo. Non si chiamano però leggi, bensì decreti legislativi e decreti-legge, ma sostanzialmente hanno la stessa efficacia della legge.

L’esistenza di questi atti rompe il monopolio legislativo delle Camere, creando un concorrente nel governo. Ma i procedimenti previsti per l’uno e per l’altro di questi "atti con forza di legge" assicurano comunque la supremazia politica del parlamento sulle scelte del governo.

Il decreto legislativo è un atto che il governo adotta dopo aver ricevuto una delega da parte del parlamento. La legge di delega deve limitare il potere del governo in tre punti: nell’oggetto (non può il governo regolare quel che vuole), nel tempo (non può nel momento che vuole), nei principi e criteri direttivi (non può come vuole) (art. 76 cost.). Il decreto legislativo si usa per l’approvazione di testi importantissimi, come i codici, composti da centinaia e talora migliaia di articoli, che le Camere (anche attraverso le loro commissioni) non riuscirebbero a esaminare se non in un tempo esorbitante.

Il decreto-legge, invece, è un atto che il governo approva direttamente, sotto la propria responsabilità, in casi straordinari di necessità e urgenza, quando l’intervento parlamentare risulterebbe tardivo. Si pensi a provvidenze a favore di popolazioni colpite da cataclismi, a misure economiche che devono entrare in vigore immediatamente per evitare speculazioni. Il decreto governativo, però, deve essere convertito in legge dal parlamento con una legge da approvarsi entro i 60 giorni successivi. Se non vi è questa conversione, il decreto si considera come mai entrato in vigore e i suoi effetti vengono eliminati fin dall’inizio (ad esempio se il decreto prevedeva delle imposte, i cittadini che le avessero pagate dovrebbero essere rimborsati). L’intervento del parlamento è qui successivo (a differenza che nel decreto legislativo, ove è preventivo), ma è ugualmente efficace nel garantire la subordinazione del governo agli orientamenti delle Camere.

Negli ultimi anni si è assistito a un abuso del decreto-legge. Esso è impiegato dal governo anche fuori della necessità e urgenza, per varare provvedimenti ritenuti politicamente importanti o anche solo per evitare le lungaggini parlamentari e le insidie del procedimento legislativo ordinario (emendamenti, scarsa compattezza della maggioranza, insabbiamenti). Le Camere hanno protestato e, talora, hanno reagito all’abuso negando la conversione. Ma così si è creata altra confusione, perché ritornare alla situazione anteriore al decreto può essere talora molto difficile. D’altro canto, questa distorsione è destinata a durare, finché le Camere non saranno capaci di agire più tempestivamente di quanto (per motivi procedurali e per la scarsa coesione delle maggioranze) avviene oggi.

L’altro grande settore di attività delle Camere è il controllo e l’indirizzo del governo. Gli strumenti principali sono: (a) le interrogazioni, domande dei parlamentari circa i comportamenti tenuti dal governo, alle quali questi deve rispondere; (b) le interpellanze, domande circa la posizione che il governo intende prendere di fronte a certi avvenimenti, le quali hanno quindi un valore politico e possono mettere in questione la linea del governo; (c) le mozioni, documenti che mirano a promuovere la discussione sull’operato del governo e che si concludono con un voto, di indirizzo per il futuro, o di censura per il passato (le mozioni più importanti sono quelle di fiducia e sfiducia, di cui si parlerà a proposito della vita del governo); (d) le inchieste, di cui si è già parlato a proposito delle commissioni parlamentari.

Capitolo 2. Il governo.

Il governo: struttura e funzione

Il governo è un organo ristretto, composto dal presidente del Consiglio dei ministri e dai ministri. Esso è espressione dell’orientamento politico della maggioranza parlamentare di cui deve avere la fiducia. Mentre dunque in parlamento trovano posto tutti i partiti, per il sol fatto di essere riusciti a far eleggere i propri candidati, al governo accedono solo quei partiti che sono riusciti a formare la maggioranza, cioè la coalizione di governo.

Il governo si denomina abitualmente potere esecutivo. Ciò è esatto, in quanto a esso spettano i poteri rivolti a eseguire i compiti previsti dalle leggi e per questo al governo fa capo l’immane struttura degli uffici ministeriali. Ma questa formula è limitativa, poiché il governo non è solo potere esecutivo ma è anche direzione, impulso, indirizzo della vita politica: è appunto governo nel senso più pieno.

La struttura del governo risulta da diversi organi.

a) Il Consiglio dei ministri è l’organo collegiale maggiore, comprendente tutti i ministri e il presidente del Consiglio. Quest’organo dovrebbe esprimere un unico orientamento politico, dovrebbe restare in carica finché ha una ragione unitaria di vita e questa ragione dovrebbe essere l’attuazione del programma su cui il parlamento ha espresso la sua fiducia. Di fatto, il governo di coalizione è la somma (non la fusione) di forze diverse e i ministri sono spesso indicati realisticamente come i "delegati" dei loro partiti. L’omogeneità del programma comune cede alla disomogeneità degli interessi partitici e i "posti" al governo si degradano a feudi che ciascun ministro difende gelosamente contro i suoi colleghi, pregiudicando l’unitarietà dell’azione di governo. Il governo è divenuto un organo "a direzione multipla e dissociata".

Le divergenze tra ministri, così frequenti sulla politica economica e sulla politica estera, dovrebbero essere composte dal Consiglio dei ministri. Si assiste invece a controversie pubbliche e perfino a vere risse che fanno pensare all’inesistenza di un effettivo programma comune. Ma il governo normalmente non si dimette per questo, poiché, nel governo di coalizione, il confronto tra i partiti necessita di questi contrasti. Essi indeboliscono il governo ma alimentano la vita politica. In questa situazione, per assicurare unità, si è cercato di valorizzare il presidente del Consiglio e la sua opera di direzione e coordinamento, come vuole la costituzione.

b) Il presidente del Consiglio rappresenta il governo e il suo indirizzo politico. Perciò il governo ruota attorno a lui: a lui spetta infatti scegliere i ministri (e proporne la nomina al presidente della Repubblica) e le sue dimissioni comportano le dimissioni dell’intero governo (mentre, se si dimette un ministro, si dà luogo semplicemente a un "rimpasto", cioè alla sua sostituzione).

Il presidente deve assicurare l’unità dell’indirizzo politico del governo (art. 95 cost.). Ma questo suo compito è reso difficile dal fatto che egli non è propriamente un "capo" del governo (come era sotto il fascismo) ma è piuttosto un primus inter pares, rispetto agli altri ministri. Date le caratteristiche del governo di coalizione, perennemente diviso tra le sue componenti, il presidente necessita di poteri di direzione e di coordinamento. Essi sono ora previsti nella legge n. 400 del 1988 – Disciplina dell’attività del Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio – approvata dunque a quarant’anni dall’entrata in vigore della costituzione che (all’art. 95) prevede questa legge.

Accanto al presidente, esiste un vicepresidente, che lo sostituisce in caso di impedimento e soprattutto serve a dare un "contentino" al partito maggiore della coalizione, quando non ha ottenuto la presidenza del Consiglio.

c) I ministri compongono il Consiglio dei ministri e sono responsabili della conduzione di settori particolari della vita dello Stato (gli affari esteri, gli interni, la giustizia, il bilancio e la programmazione economica, le finanze, il tesoro, la difesa, la pubblica istruzione, la sanità, i lavori pubblici, l’industria, le poste e telecomunicazioni, ecc.). Essi sono perciò i capi dei Ministeri (il Ministero è l’insieme degli uffici burocratici che operano in settori omogenei). Oltre ai ministri di cui si è detto, vi sono i ministri senza portafoglio, detti così perché, non essendo a capo di un Ministero, nel bilancio dello Stato non sono loro attribuiti fondi da spendere (per esempio il ministro per i rapporti con il parlamento, che deve coordinare il lavoro del governo con l’attività delle Camere; il ministro per le politiche della Comunità europea, ecc.). I ministri senza portafoglio non sono in numero fisso, ma la loro esistenza dipende dalle necessità che si manifestano quando il governo viene nominato. Per questo, il numero dei ministri cambia ad ogni nuovo governo. Il governo Andreotti del 1989 comprendeva 32 ministri, di cui 6 senza portafoglio; il governo Amato del 1992, 24 ministri di cui 4 senza portafoglio; il governo Ciampi del 1993, 25 ministri di cui 5 senza portafoglio.

d) I Comitati interministeriali sono articolazioni minori del Consiglio dei ministri, comprendenti i ministri competenti su settori omogenei. Ad esempio, il CICR si occupa de! credito e del risparmio; il CIPAA della politica agricola e alimentare, ecc.

Il più importante è il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), creato per essere un supergoverno dell’economia, comprendente tutti i "ministri economici". Questo obbiettivo di efficienza non è stato tuttavia raggiunto poiché, per le resistenze "feudali" dei singoli ministri, molte competenze circa il governo dell’economia restano frammentate.

L’esistenza dei Comitati dimostra comunque l’esigenza di riunire i settori omogenei e ridurre quindi il numero dei ministri e dei Ministeri. Ciò però è stato reso per lungo tempo difficile dai caratteri dei governi di coalizione che portano piuttosto ad aumentare i posti che a diminuirli, per dare soddisfazione a tutte le aspirazioni. Si sono allora cercate soluzioni per altra via. Una è stata il referendum del 1993, con il quale si sono abrogate le norme istitutive dei Ministeri dell’agricoltura e del turismo e spettacolo. Altre sono rappresentate, come si è detto, da forme di integrazione dei ministri esistenti, principalmente i Comitati interministeriali e il Consiglio di gabinetto.

e) Il Consiglio di gabinetto è un Comitato direttivo dell’esecutivo, con il compito (come dice la delibera istitutiva) di "assistere il presidente e il vicepresidente, ferme restando le attribuzioni del Consiglio dei ministri". Esso è dunque un organo solo politico che non ha il compito di deliberare su nulla ma di preparare l’accordo tra le diverse componenti del governo sulle più importanti questioni da decidere.

f) I sottosegretari sono i collaboratori dei ministri, delegati a seguire particolari settori dell’amministrazione. Il loro nome deriva dal fatto che i ministri stessi si denominano "segretari di Stato". Essi fanno parte del governo solo in senso generico, poiché non entrano nel Consiglio dei ministri. Il segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri, invece, partecipa al Consiglio stesso, ove svolge la funzione di segretario.

La formazione del governo avviene per nomina da parte del presidente della Repubblica.

Il governo si dimette in seguito o a un voto di sfiducia delle Camere (crisi parlamentare) o a contrasti interni alla coalizione che lo sosteneva (crisi extraparlamentare). Si apre allora la crisi di governo. Il presidente della Repubblica deve risolverla attraverso la nomina di un nuovo governo, che possa essere sostenuto da una maggioranza parlamentare. A questo fine, egli apre le consultazioni con i segretari dei partiti e i presidenti dei gruppi parlamentari (nonché con gli ex-presidenti della Repubblica e i presidenti delle Camere). Quando il quadro politico gli appare sufficientemente chiaro, conferisce l’incarico di formare il nuovo governo. Nelle situazioni più intricate, può guadagnare tempo e chiedere un supplemento di informazioni, conferendo un mandato esplorativo al presidente del Senato. Il presidente incaricato, di solito procede a sua volta a contatti con le delegazioni dei partiti, al fine di concordare il programma del nuovo governo e la lista dei nuovi ministri. Se riesce a mettere d’accordo una maggioranza, accetterà la nomina a presidente del Consiglio da parte del presidente della Repubblica e proporrà a quest’ultimo la lista dei ministri (art. 92 cost.). Di fatto, il potere di scelta dei ministri – che dovrebbe servire al presidente del Consiglio per scegliersi dei collaboratori idonei a formare un governo omogeneo – è espropriato dai partiti della coalizione. Questi si riservano il potere di indicare i nominativi di coloro che andranno a occupare i posti loro assegnati, come concordato durante le trattative. Perciò, come si è già detto, il governo è la somma delle delegazioni dei partiti di governo.

Una volta nominato, il nuovo governo deve presentarsi alle Camere entro dieci giorni, per esporre il programma e su questo ottenere la fiducia. In tutti i voti di fiducia – o sfiducia – si vota per appello nominale, cioè palesemente (art. 94 cost.), per impedire i franchi tiratori (cioè il voto contrario di deputati e senatori che nascondono la propria identità). Se il governo non ottiene la fiducia, deve presentare di nuovo le dimissioni e si cercherà di formare un altro governo. Nei casi estremi, quando la situazione parlamentare sia così ingarbugliata che nessuna maggioranza appare possibile, il presidente della Repubblica ha la possibilità di sciogliere anticipatamente le Camere e ridare così la parola agli elettori.

A differenza delle Camere che hanno una durata definita (cinque anni, salvo lo scioglimento anticipato), il governo non ha scadenze prefissate: esso resta in carica finché ha la fiducia delle Camere e non insorgano dissensi gravi tra i partiti della coalizione. Dati i caratteri delle coalizioni, la stabilità dei governi è sempre stata difettosa e le crisi si ripetono frequentemente. Mancando però la possibilità di alternanza, i governi che si sono succeduti finora sono stati spesso la fotocopia dei precedenti. Così, in Italia, alla notevole instabilità del governo, si accompagna una notevole continuità della sua politica e delle stesse persone che lo compongono.

I difetti maggiori dell’organo governativo derivano dall’essere espressione di coalizioni eterogenee. Ciascun partito desidera migliorare le proprie posizioni rispetto agli altri con cui si trova a collaborare. Il far parte dello stesso governo non è allora motivo di concordia ma più spesso di competizione e contrasto. Ciò ostacola la formazione di indirizzi unitari là dove i partiti vedono l’occasione di avvantaggiarsi (in potere, risorse politiche, come i voti degli elettori, o economiche, come i finanziamenti, leciti o illeciti). La spartizione del governo (come organo e come funzioni) è la parola-chiave. I diversi Ministeri hanno ciascuno una loro caratura, alcuni valgono di più (e quindi sono più richiesti) e altri meno a seconda delle capacità di spendere e quindi di usare del potere per fini clientelari.

Il governo: competenze

Si è già detto in generale della funzione del governo, come guida politica del paese. Ora occorre dire attraverso quali specifiche competenze si realizza.

Tra esse, si segnalano:

• l’iniziativa legislativa. La traduzione in pratica del programma di governo deve, per gran parte, passare attraverso proposte legislative; la proposta non è legge di per sé, ma può diventarlo poiché il governo dispone, come si è detto, di una sua maggioranza e le sue proposte hanno quindi una probabilità di essere accolte tanto maggiore quanto più i partiti di governo sono concordi;

• l’adozione dei decreti-legge e dei decreti legislativi delegati, di cui si è già detto;

• l’approvazione dei regolamenti, norme giuridiche, subordinate alla legge, che hanno il compito di eseguirla o completarla;

• la conduzione dei rapporti internazionali con gli altri Stati e organismi internazionali, la nomina degli ambasciatori e l’emanazione di direttive ad essi;

• la nomina degli alti funzionari (i cosiddetti grands commis dello Stato) che ricoprono le cariche di vertice nei Ministeri, nelle forze armate, nelle imprese pubbliche. Una legge del 1978 ha previsto un controllo parlamentare preventivo per ostacolare l’uso di questo potere per fini solo partitici e clientelari. Spesso infatti la scelta è caduta su individui incompetenti, con grave danno per gli enti che sono andati a dirigere (si pensi agli enti economici, che dovrebbero essere guidati con capacità manageriali, piuttosto che con fedeltà partitiche) e per la collettività in genere;

• la direzione degli apparati dipendenti dal governo (Ministeri, forze dell’ordine, ecc.), attraverso la quale si esplica l’indirizzo politico-amministrativo del governo. Particolare delicatezza rivestono i compiti governativi nel campo della sicurezza dello Stato. Il presidente del Consiglio, coadiuvato da un Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, è responsabile dell’attività dei servizi segreti (il SISME e il SISDI). Le attività in questo campo, svolgendosi in segreto, possono diventare pericolose. Per questo, è istituito anche un Comitato parlamentare che controlla permanentemente il governo e i cui membri sono a loro volta tenuti a mantenere segrete le notizie che vengono a conoscere. Inoltre, il presidente del Consiglio, ogni sei mesi, deve presentare alle Camere una relazione circa i criteri seguiti e i risultati raggiunti dai servizi di sicurezza, senza però svelare gli elementi che, se resi noti, renderebbero inefficace la loro azione (ad esempio i nomi degli agenti e le loro fonti di informazione). Si tratta di attività delicatissime, al limite della legalità, ma di importanza vitale per la difesa dello Stato democratico (si pensi alle minacce rappresentate dai gruppi eversivi, come un tempo le "Brigate rosse" o le organizzazioni neofasciste, o criminali, come la mafia o la camorra, o dalla diffusione nel nostro paese di gruppi di terrorismo internazionali).

Più in generale il governo, essendo il soggetto propulsore della vita pubblica, è divenuto il punto di riferimento di molti soggetti (sindacati dei lavoratori, associazioni degli imprenditori, gruppi di pressione, ecc.) interessati a determinati interventi pubblici o a ottenere dal governo opera di mediazione nei conflitti sociali (per esempio, il Ministro del lavoro, o più spesso lo stesso presidente del Consiglio intervengono nelle trattative sindacali). Per questo, in concreto, il governo si è assunto il compito di mediatore tra le domande della società e le risposte che ad esse danno le istituzioni.

Capitolo 3. Il presidente della Repubblica.

Il presidente della Repubblica

In un regime repubblicano, il capo dello Stato è il presidente della Repubblica. Egli è il successore del Re in questa carica. Ma a parte questo parallelo, la costituzione dà al presidente una fisionomia nuova. La più appariscente novità è questa: nel regime monarchico, il Re era il capo del governo; secondo la costituzione vigente, il governo è invece un organo totalmente distinto, anche se deriva dalla nomina del presidente della Repubblica.

Il presidente della Repubblica è eletto dalle Camere in seduta comune, integrate da tre delegati per ogni regione (uno per la Valle d’Aosta), con una maggioranza più ampia di quella consueta (i 2/3 della assemblea e poi, dopo la terza votazione, la maggioranza assoluta), a scrutinio segreto e senza candidature ufficiali, né discorsi programmatici.

La durata della carica è fissa: sette anni (salvo il caso di dimissioni – Leone e Cossiga – o di impedimento permanente – Segni, colpito da ictus cerebrale –). Il presidente uscente è rieleggibile, anche se finora questa possibilità non è stata usata: 14 anni appaiono davvero troppi, quasi una monarchia!

La funzione del presidente della Repubblica non è politica, se per politica si intende quella partitica: egli non deve parteggiare per nessuno ma deve restare rigorosamente imparziale o, come si dice, super partes. La funzione presidenziale è invece altamente politica, se per politica si intende la cura dei supremi interessi pubblici.

In ogni caso, gli atti del presidente devono essere controfirmati da un ministro (art. 89 cost.), il quale può così esercitare un controllo sull’attività del presidente. Poiché quest’ultimo è irresponsabile (salvi casi gravissimi dell’attentato alla costituzione e dell’alto tradimento), con la controfirma il ministro subentra come responsabile di fronte al parlamento. Anche questo è un modo (un modo quotidiano e di routine) per impedire gli eventuali abusi del presidente, il quale è anch’esso inserito in un sistema di "pesi e contrappesi" costituzionali, rivolti a escludere il predominio di un organo su tutti gli altri.

Le funzioni presidenziali possono dividersi concettualmente in tre categorie, tutte e tre "politiche" nel senso anzidetto: (a) le funzioni di rappresentanza dell’unità nazionale; (b) quelle, per così dire, intermediarie tra organi dello Stato, rivolte a mettere in moto i meccanismi inceppati ed agevolarne l’attività; (c) quelle di controllo del buon funzionamento del sistema costituzionale. Ciascuna di esse deve essere esercitata con spirito unitario, in funzione della integrità della compagine statale e del sistema costituzionale, contro i rischi della frantumazione della politica partitica. Quando si dice che il presidente della Repubblica è il "garante della costituzione", si allude a questo suo compito.

Tutti i poteri presidenziali, ancorché molto diversi, attengono a questa funzione unitaria. I più importanti sono:

• la promulgazione o il rinvio delle leggi alle Camere per una seconda deliberazione; l’emanazione degli atti del governo (decreti, regolamenti, ecc.), in occasione della quale egli può fare osservazioni sul loro contenuto;

• i messaggi alle Camere, con i quali si segnalano problemi di importanza essenziale per la vita dello Stato. Sebbene non previsto dalla costituzione, si è affermato – fino ad assumere una frequenza quasi giornaliera con Cossiga – un generale potere di esternazione, in occasioni pubbliche, alla stampa, alla televisione, che permette al presidente di far conoscere il suo pensiero sui maggiori problemi sociali e politici;

• la presidenza del Consiglio superiore della magistratura e del Consiglio supremo di difesa. Il significato della presenza presidenziale in questi organi è di garanzia: affinché nella magistratura non si affermino posizioni corporative e affinché la politica militare sia sempre conforme alle esigenze della democrazia e alla vocazione pacifica dell’Italia, scritta nella costituzione;

• la nomina di cinque giudici costituzionali e di cinque senatori a vita; la grazia, che può essere concessa ai condannati quando vi siano particolari ragioni umanitarie o motivi di interesse pubblico così elevati da giustificare la deroga all’ordinario corso della giustizia penale (l’amnistia e l’indulto, misure di clemenza generali, sono oggi concesse dalle Camere, con legge votata a maggioranza dei 2/3);

• la nomina del governo e lo scioglimento anticipato delle Camere, poteri importantissimi, rivolti a mettere in moto meccanismi costituzionali arrestati da crisi politiche. Tali poteri non devono essere usati per fini personali del presidente (ad esempio per imporre governi a sé graditi, ma sgraditi alle Camere; per sciogliere le Camere, quando le maggioranze non siano conformi alle sue vedute). Nel caso del governo, la nomina deve mirare a una soluzione della crisi che riscuota il consenso parlamentare (la fiducia al nuovo governo); nel caso delle Camere, lo scioglimento deve rimettere imparzialmente la soluzione dei contrasti politici al corpo elettorale, quando sia obbiettivamente impossibile la formazione di una maggioranza omogenea oppure si sia determinata una frattura rispetto agli orientamenti politici del paese. Tale facoltà non può essere esercitata negli ultimi mesi del suo mandato, a meno che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura.

Al presidente della Repubblica spetta il titolo di capo dello Stato. Ma questa formula non deve intendersi alla lettera, come se gli spettasse il supremo potere di comando sugli organi dello Stato. Il presidente è vertice dello Stato nel senso che è il punto più alto dell’organizzazione, nel quale passano e si collegano tutti i fili che compongono la complessa trama della vita costituzionale. Per restare nella metafora, a lui spetta impedire che si spezzino e, una volta spezzati, agire per riannodarli.

In altre costituzioni (ad esempio quella francese), al capo dello Stato si riconosce il compito di unico "reggitore dello Stato" nei momenti di crisi, attraverso poteri di emergenza (quando gli altri organi costituzionali non riescono a funzionare, quando vi sia una grave minaccia all’ordine pubblico, ecc.). La pericolosità di questi poteri è dimostrata dal fatto che per mezzo di analoghi strumenti di emergenza previsti dalla costituzione della Repubblica tedesca del 1919 (detta "di Weimar"), Hitler riuscì a impadronirsi dello Stato e a imporre il totalitarismo nazista. La nostra costituzione non si pronuncia su chi possa essere il "reggitore dello Stato" nelle crisi. È però ragionevole pensare al parlamento, piuttosto che al presidente della Repubblica. Il popolo sovrano, infatti, si rispecchia piuttosto nel primo che nel secondo e i poteri eccezionali sono attributo della sovranità.

Capitolo 4. La Corte costituzionale e la magistratura.

La Corte costituzionale

Già si è detto delle ragioni che condussero a stabilire una costituzione rigida. Il naturale completamento era l’istituzione di un apposito organo di giustizia costituzionale, chiamato a difendere la costituzione contro tutti gli atti dei pubblici poteri e, in particolare, contro le leggi, quando fossero incostituzionali.

La giustizia costituzionale è una delle maggiori novità della vigente costituzione. Essa ha segnato la fine del mito della sovranità parlamentare che aveva dominato, dall’epoca della Rivoluzione francese, nei regimi rappresentativi. Il controllo di costituzionalità significa che nessun organo dello Stato, nemmeno il parlamento, dispone più di un potere illimitato; che anche il potere politico più elevato è ormai assoggettato a una regola; che il diritto è penetrato nella vita politica e che essa non è più questione solo di potenza e prepotenza ma, prima di tutto, di regole giuridiche. E davvero una trasformazione essenziale.

L’organo della giustizia costituzionale è la Corte costituzionale. Essa è composta da quindici giudici nominati, per un terzo ciascuno, dal presidente della Repubblica, dal parlamento in seduta comune e dai più alti gradi della magistratura (Corte di cassazione, Corte dei conti e Consiglio di Stato). La scelta dei giudici deve avvenire tra giuristi: professori di diritto, avvocati e magistrati. Ogni giudice dura in carica nove anni e non è rieleggibile. Così, la Corte è sottoposta a rinnovi parziali frequenti che impediscono la sclerotizzazione e l’invecchiamento dell’organo, un organo specialissimo dove le ragioni del puro diritto si uniscono alla necessaria sensibilità politica. Interpretare molte norme costituzionali vaghe e contenenti principi indeterminati, valutare il significato delle leggi da giudicare, tener conto delle conseguenze che possono derivare da una decisione piuttosto che da un’altra, ecc., sono tutti apprezzamenti che richiedono sapienza giuridica ma anche saggezza politica. La responsabilità di coloro che scelgono i giudici della Corte è dunque grande e c’è da dolersi che da noi (a differenza di quanto avviene in altri paesi, come la Germania federale o gli Stati Uniti) non vi sia nessun controllo sulle scelte, cosicché talora anche la Corte non è stata al riparo dalla lottizzazione tra i partiti.

La funzione principale della Corte costituzionale è il controllo di costituzionalità delle leggi. Quando un giudice ritiene che la legge da applicare per decidere una causa sia sospetta di incostituzionalità, propone il suo dubbio alla Corte e sospende la causa fino a che la questione non sia stata decisa. Le leggi ritenute incostituzionali dalla Corte vengono annullate e non possono più essere applicate da nessuno. Non esiste la possibilità per i cittadini di adire direttamente la Corte per difendere i propri diritti costituzionali. Occorre invece intentare una causa davanti a un giudice e chiedere a questi di sollevare la questione di costituzionalità di fronte alla Corte. È dunque un procedimento indiretto che impedisce la tutela immediata dei diritti costituzionali (al contrario di quanto è previsto in altri paesi – come la Spagna e la Germania federale – che hanno sistemi di giustizia costituzionale più completi del nostro).

La Corte costituzionale interviene anche in altri casi, quando si renda necessaria un’istanza di giudizio elevatissima che giudichi secondo la costituzione.

Una serie importante di controversie che si svolgono di fronte alla Corte riguarda i conflitti tra lo Stato e le regioni, quando l’uno o le altre eccedano le loro competenze. La Corte è così arbitra degli equilibri tra le esigenze dello Stato unitario e quelle del decentramento. Analogamente, la Corte decide i conflitti tra i poteri dello Stato (parlamento, governo, magistratura, presidente della Repubblica, ecc.). In questo caso, essa controlla il rispetto della forma di governo voluta dalla costituzione.

Altre questioni di competenza della Corte sono quelle riguardanti l’ammissibilità del referendum abrogativo, il quale non può essere richiesto in alcune materie (art. 75 cost.). Dopo che si sono raccolte le firme necessarie, la domanda di referendum è sottoposta automaticamente al controllo della Corte, la quale diviene in questo caso arbitra dei rapporti tra la democrazia rappresentativa (espressa nella legge di cui si chiede l’abrogazione) e la democrazia diretta, che chiede di esprimersi nel referendum.

L’ultima competenza – che la Corte esercita con l’integrazione di altri sedici giudici estratti a sorte da una lista predisposta dal parlamento, e quindi in una composizione più politica – riguarda il giudizio penale contro il presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla costituzione. In questo caso la Corte è un giudice penale, che può condannare le persone sottoposte al suo giudizio e rimuoverle dalla carica. Il giudizio è promosso da un atto di accusa votato dal parlamento a camere riunite.

La magistratura

La magistratura è un insieme di organi indipendenti – i giudici – il cui compito è decidere le liti secondo il diritto, pronunciando sentenze. In questo compito consiste la funzione giurisdizionale (la terza delle grandi funzioni dello Stato: quella legislativa attribuita al parlamento; quella esecutiva attribuita al governo e quella, appunto, giurisdizionale, attribuita alla magistratura).

Carattere essenziale dei giudici è la loro esclusiva soggezione alla legge e quindi l’indipendenza da qualunque altro potere. Per rendere giustizia, il giudice deve essere imparziale, cioè non farsi portatore di interessi diversi da quelli della corretta applicazione della legge. Nei regimi autoritari (il fascismo, per esempio) il giudice era un funzionario dipendente dal governo e la magistratura era quindi uno strumento politico. Nei regimi liberali e democratici, la magistratura deve essere invece un "potere nullo" (Montesquieu), un potere "senza forza né volontà" (Hamilton, uno dei maggiori ispiratori della costituzione statunitense) per poter essere al servizio solo della legge. Il principio della separazione dei poteri, che si è notevolmente attenuato tra il legislativo e l’esecutivo, è invece rigorosamente rispettato per la magistratura.

L’indipendenza dei giudici ha due aspetti, uno interno e l’altro esterno (alla magistratura). Dal punto di vista interno, indipendenza significa che non esistono gerarchie tra i giudici stessi: essi si distinguono solo per le diverse funzioni che esercitano, non per grado. Un giudice della suprema Corte di cassazione non può dare ordini al piccolo pretore di una sperduta circoscrizione. Ogni giudice, nel momento in cui svolge le sue funzioni, è perfettamente libero di decidere come gli sembra giusto, secondo la legge.

Dal punto di vista esterno, indipendenza vuoi dire esclusione di interferenze di altri poteri. A questo fine è stato creato un apposito organo, il Consiglio superiore della magistratura (CSM), competente a decidere tutte le questioni attinenti alla carriera dei magistrati (promozioni, trasferimenti, sanzioni disciplinari, ecc.). Queste decisioni un tempo erano di competenza del Ministro della giustizia e potevano perciò essere usate per interferire sull’indipendenza della magistratura. Per esempio, il trasferimento in una sede poco importante oppure la sanzione disciplinare per motivi politici, ecc., potevano servire per allontanare giudici "scomodi", invisi al potere. Oggi, queste decisioni spettano al Consiglio superiore che è abilitato a prendere posizione contro tutto ciò che, in qualunque modo, violi l’indipendenza della magistratura e dei singoli giudici (per esempio, esso ha reagito in numerose occasioni alle critiche e alle intimidazioni provenienti dal mondo politico per determinate pronunce giudiziarie che colpivano personaggi legati ai partiti). Il Consiglio superiore è composto da trentatré membri: venti sono giudici, eletti dai giudici stessi; dieci sono avvocati o professori di diritto, eletti dal parlamento a Camere riunite. Inoltre, sono componenti di diritto i due più elevati magistrati della Corte di cassazione (il primo presidente e il procuratore generale). Il CSM è presieduto dal capo dello Stato.

Data la netta preminenza numerica dei componenti togati (cioè degli eletti dai giudici), si parla di "organo di autogoverno" della magistratura. Non si tratta però di autogoverno integrale, data l’esistenza dei componenti esterni, detti anche "laici". La loro presenza fu prevista per evitare che la magistratura si costituisse in corpo separato, come una casta di intoccabili. Il CSM esprime perciò la doppia preoccupazione: evitare le interferenze esterne da un lato; impedire che la magistratura, resa così indipendente, possa subire la tentazione di travalicare i suoi compiti e divenire una corporazione separata, uno "Stato nello Stato".

Gli organi giudiziari sono numerosi. Essi possono distinguersi a seconda che appartengano alla giurisdizione penale (relativa alla condanna di chi abbia commesso reati previsti dal codice penale), alla giurisdizione civile (relativa alle controversie tra i privati), alla giurisdizione amministrativa (relativa alle controversie promosse tra i privati e la pubblica amministrazione).

Sono organi di primo grado della giurisdizione penale il pretore, il tribunale e la Corte d’assise. È destinato ad avere alcune competenze penali in primo grado anche il neocostituito giudice di pace, quando non sia questione di pene detentive. La competenza di questi giudici si distingue a seconda della gravità dei reati. Per i più gravi è prevista la Corte d’assise, in cui accanto a due giudici di carriera siedono i giudici popolari, tratti a sorte tra tutti i cittadini che abbiano una certa istruzione. Questa è la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, voluta per unire la sensibilità popolare alla rigida interpretazione della legge. Oltre agli organi anzidetti, vi sono quelli cui ci si rivolge in appello, contro le sentenze pronunciate in primo grado. Questi organi sono la Corte d’appello (che esamina le sentenze del pretore e del tribunale) e la Corte d’assise d’appello (che esamina le sentenze della Corte d’assise). Essi possono "riformare" le sentenze di primo grado, fino al punto di rovesciarle integralmente. Esiste una giurisdizione speciale per i militari, esercitata dai Tribunali militari, con organi di primo e secondo grado.

Sono organi della giurisdizione civile il giudice di pace (che sostituisce il precedente giudice conciliatore), il pretore e il tribunale. La loro competenza è determinata dall’importanza della causa. Le sentenze sono appellabili secondo l’ordine seguente: quelle del conciliatore, davanti al pretore; quelle del pretore, davanti al tribunale. Le decisioni di quest’ultimo sono a loro volta appellabili davanti alla Corte d’appello che è solo organo di secondo grado. Importanti sono le sezioni specializzate del tribunale – come il Tribunale dei minorenni – che giudica con l’ausilio di esperti (psicologi, assistenti sociali, ecc.)

Sono organi della giurisdizione amministrativa i Tribunali amministrativi regionali (TAR) e poi, in secondo grado, il Consiglio di Stato. Accanto ad essi, vi sono poi vari organi di giustizia amministrativa speciale (la Corte dei conti, che si occupa della responsabilità dei funzionari dello Stato che usino male del denaro pubblico; le Commissioni tributarie, che giudicano nelle controversie tra i contribuenti e il fisco, ecc.).

Sopra tutto quest’insieme di organi giudicanti sta la Corte di cassazione, l’organo giudiziario più elevato in grado. Ad essa può presentarsi ricorso contro le sentenze di appello, quando vi sia stato un errore di diritto, quando cioè il giudice abbia male interpretato e applicato la legge. La Corte di cassazione ha il compito di assicurare la corretta interpretazione e applicazione del diritto e quindi l’uniformità della giurisprudenza. In un sistema dove ciascun giudice è del tutto libero nell’intendere la legge che deve applicare, si comprende la necessità di un’opera di unificazione, in vista sia della certezza del diritto che della uguaglianza dei cittadini. Ciò si ottiene – come si è detto – non stabilendo un vincolo gerarchico tra i giudici in modo che il più elevato possa comandare sugli altri, ma attribuendo ad un organo, la Corte di cassazione appunto, il potere di annullare (cioè "cassare") le sentenze giuridicamente sbagliate. La Corte di cassazione occupa dunque una posizione molto importante.

Le sue sentenze assumono spesso una portata vincolante generale che va al di là dei singoli casi decisi. Infatti i giudici che intendessero discostarsi dall’interpretazione della Cassazione – pur essendo liberi di farlo – saprebbero che le loro sentenze avrebbero molte probabilità di essere impugnate in Cassazione e annullate. Perciò, se non sono più che sicuri dei propri buoni argomenti, i giudici sono portati ad adeguarsi spontaneamente agli orientamenti della Corte di cassazione.

Esempio



  


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