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Categoria: | Ricerche |
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Testo
Vediamo qui rappresentati le zone di origine dei popoli indigeni di cui vi andremo a parlare. Vediamo nel Borneo, nei pressi del mar Cinese meridionale, la patria dei Penan, un poco più ad ovest, presso le isole Andamane, un arcipelago del golfo del Bengala, il luogo dove vivono gli Jarawa. Nel nord dell’America, in un territorio frazionato tra Québec, Alaska e Groenlandia, troviamo gli Inuit, più conosciuti con il nome di Eschimesi. In Africa troviamo due popoli indigeni: a nord ovest i Tuareg, i cosiddetti “uomini blu”, mentre nei pressi del Kenya i Maasai. Infine, unico popolo indigeno in Europa, troviamo i Sami, meglio conosciuti sotto il nome di Lapponi.
Fino ad adesso, abbiamo continuamente parlato di popoli indigeni. Ma cosa intendiamo con questo termine? Per popoli indigeni, si intende gli abitanti autoctoni e precoloniali di un paese. Nel mondo, oggi, vivono circa 900.000.000 di indigeni. A volte si tratta di etnie che contano diversi milioni, mentre più frequentemente sono popoli che arrivano a poche decine di migliaia di rappresentanti. Altri sono addirittura in via di estinzione. La maggior parte di questi popoli, si considerano parte della natura, la cui distruzione minaccerebbe quindi la loro sopravvivenza. Nella maggior parte dei casi, i popoli indigeni non aspirano ad un proprio stato, almeno che non ne avessero già uno in precedenza. Il loro obiettivo è quasi sempre l’autonomia , con particolare attenzione per i diritti territoriali: è il caso dei Maori, degli Indiani del nord America o dei popoli artici.
Tra tutti questi popoli indigeni sopracitati, uno tra i più conosciuti, sono i Tuareg.
I TUAREG
I tuareg, sono un popolo nomade di stirpe berbera che conta attualmente 1.500.000 individui dispersi su un vastissimo territorio frazionato tra Algeria, Burkina Faso, Libia, Mali e Niger. Questo popolo è dotato di una propria lingua (frazionata comunque in molte varietà locali) e di un proprio alfabeto detto tifnagh. Il loro vero nome è Imezir, nome che in arabo significa “senza cammino” mentre gli è stato attribuito l'appellativo "uomini blu" perché portano sempre uno strano copricapo blu scuro, che, come una maschera, lascia scoperti solo i loro occhi impenetrabili; e la pelle, con gli anni, prende lo stesso colore di quella maschera che essi non si tolgono mai. In genere, solo le donne sanno leggere e scrivere, ciò conferisce loro una notevole importanza nella tribù. Aristocratici e alteri, vivono nelle loro tende lussuose e disegnano ogni tipo di lavoro: un tempo erano predoni implacabili e feroci, oggi vivono della pastorizia esercitata dai loro servi. Ma ormai ne restano solo poche migliaia, sparsi sul grande tavolato dell’Ahaggar.
Ma la maggior parte delle tribù vive attorno ai gruppi montuosi dell’Ahaggar, del Tassili e dell’Air. Su una estensione di circa un milione e duecentomila chilometri quadrati vivono, unici abitanti, circa 250000 Tuareg. I Tuareg costituiscono la popolazione a statura più alta di tutta l’Africa settentrionale. Essi hanno la testa piuttosto lunga, i capelli neri e ondulati, vengono rasati tranne una sottile striscia in cui vengono lasciati lunghi e raccolti in un'unica treccia. La loro faccia, molto lunga e stretta, ha un contorno perfettamente ovale, con un mento appuntito e naso lungo, leggermente aquilino; le labbra sono piuttosto sottili e gli occhi piccoli e infossati; molto frequentemente la palpebra superiore tende a superare quella inferiore e a formare una piega nell’angolo esterno. Questa caratteristica permette un’ottima difesa dalla luce e dal vento. Il popolo dei Tuareg, è un popolo seminomade.
Le abitazioni
I Tuareg che possiedono terre vivono in villaggi dove le case sono come quelle che si trovano nelle oasi sahariane: rettangolari, con tetto a terrazza, costituite da mattoni e da pietre. Le abitazioni dei nomadi sono la tenda o la capanna montabili. Generalmente la tenda è formata da una copertura fatta da numerose pelli di muflone o di pecora cucite tra loro ed è sostenuta al centro da un alto palo; i lati estremi vengono fissati a tanti pali più corti, infissi saldamente a terra.
Un’organizzazione feudale
L’ordinamento sociale dei Tuareg si basa sulla distinzione di quattro classi: i nobili, i vassalli, i servi e gli operai. I nobili costituiscono la classe più pura. Leggi severe proibiscono a qualsiasi nobile di sposare una donna di un’altra classe. Soltanto le donne nobili possono unirsi in matrimonio con un vassallo. La classe dei nobili comprende i più grossi proprietari di greggi e cereali. I vassalli sono piccoli proprietari soggetti ad un nobile. I servi, praticamente schiavi, sono di origine negroide e provengono dalle razzie che in passato compivano i Tuareg a danno di tribù negre. Gli operaio sono umili Tuareg, gli unici
lavoratori delle tribù, lavorano il cuoio o il ferro o il legno. Tutti questi operai, ma specialmente i fabbri, vengono grandemente disprezzate dai Tuareg che li considerano amici del "diavolo". Essi comunque fabbricano maggior parte degli attrezzi utili alla tribù. Sopra tutti vi è il re, "amenakal", cioè il "padrone del paese". Egli viene eletto dai nobili.
Un popolo di razziatori
I Tuareg non amano nessun lavoro; hanno sempre vissuto di razzie. Ogni tribù rubava a tribù vicine. Razziavano nei villaggi negri degli stati africani confinanti o assalivano le carovane che attraversavano il deserto. I Tuareg non coltivano la terra: tutt’al più, quando la possiedono, fanno coltivare grano, ortaggi e tabacco dai propri servi.
La maggior ricchezza di questo popolo è costituita dal bestiame ovino e dai cammelli.
Se ci spostiamo più a sud ovest, nella zona del Kenya troviamo un altro popolo indigeno, quello dei Maasai.
I MAASAI
Attorno al 1500 gruppi di pastori maasai abbandonarono le terre del nord dell'odierno Kenya, per dirigersi verso sud. Nei due secoli successivi si insediarono in vaste regioni della savana dell’Africa occidentale. Già da allora tutta l'economia maasai era imperniata sull'allevamento bovino ed ancor oggi le mandrie rivestono grandissima importanza tanto che un masaai privo di bestiame cessa di essere considerato tale. Sono talmente tanto basati sulla pastorizia che per loro l’agricoltura ricopre una minima importanza. I masai hanno una lingua propria. Per la maggior parte vivono concentrati sugli altipiani della regione a est del lago Vittoria. Nel villaggio, ogni donna possiede una propria capanna e vi sono apposite capanne per gli scapoli e le ragazze prepuberi. Anche la vita delle tribù masaai era impostata sulla transumanza del bestiame dagli alti pascoli sulle montagne attorno alla Rift Valley alla pianura quando le piogge annuali hanno permesso il germoglio dell'erba. Attualmente la consistenza numerica dei masaai è assai limitata contando circa 220.000 individui in
Kenya e 150.000 in Tanzania. Sono ripartiti in clan totemici patrilineari, ma alla base della loro organizzazione sociale è piuttosto il sistema delle classi d'età, con la circoncisione che segna il passaggio all'età adulta e l'ingresso nella classe dei guerrieri giovani. Nel complesso la società dei Masai è notevolmente ugualitaria e non ha mai conosciuto la schiavitù. Tra i maasai è d'uso che i giovani tra i 14 ed 18 anni vengano circoncisi ed iniziati all'arte della guerra. Le tradizioni sono così radicate che ancora oggi gruppi di giovani passano il confine tra Kenya e Tanzania per razziare il bestiame in quanto, a loro modo di vedere, il bestiame appartiene loro per volontà divina e quindi il furto è pienamente giustificato. Il matrimonio in questo popolo, si conclude mediante un compenso in bestiame alla
famiglia della donna. Anche l'indipendenza di Kenya Tanzania non portò significativi miglioramenti per i maasai anche perchè subentrò la lotta per l'utilizzo delle ultime aree naturali rimaste; il contrasto con l'istituzione di parchi nazionali che, se da un lato mirano alla salvaguardia della natura, dall'altro minano il tradizionale stile di
vita dei pastori nomadi non fa che aggravare la situazione.
Cambiando continente, dirigendosi in Europa, troviamo il Popolo dei Sami, l’unico popolo indigeno europeo.
I SAMI, INDIGENI DEL NORD
Generalmente si pensa che i popoli indigeni siano tutti extraeuropei, ma esiste un'eccezione: si tratta dei Sami (in Italia meglio noti come Lapponi), che vivono divisi in 4 stati contigui dell'estremo nord europeo (Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia). Se nella letteratura classica e in tanti documenti ufficiali del passato i Sami vengono chiamati Lapponi, è solo perché nella lingua finnica il termine lapp indicava una persona che trae le proprie fonti di sostentamento dalla pesca, dalla caccia e dall'allevamento della renna: le tradizionali e
principali attività economiche dei Sami. In tutta la Scandinavia e nella penisola di Kola se
contano oggi non più di 75 mila. In Norvegia vivono poco più di 40 mila Sami, in Svezia se ne contano tra i 15 e i 25 mila, in Finlandia 6500 e in Russia duemila. Dello stesso ceppo razziale, probabilmente di origine asiatica, degli Eskimo americani, i Sami hanno una storia, un proprio, e unico, stile di vita. In Finlandia, Svezia e Norvegia è considerato Sami chi, innanzitutto, si definisce tale e ha almeno un genitore che parla la lingua Sami come madrelingua.
Più della metà dei Sami parla una lingua che non è comprensibile da nessun altro gruppo etnico della Scandinavia, ma in Lapponia vengono usati diversi dialetti, al punto che le
differenti comunità Sami non riescono a comprendersi reciprocamente. Questo benché in un tempo lontano Sami e Finni parlassero una lingua comune. Sembra che gli antenati dei Sami siano originari della Russia nordoccidentale, dove sarebbero stati insediati già attorno al 500 a.C. L'invasione di popoli provenienti dalle regioni uraliche li costringe ad emigrare ad ovest, nella regione scandinava. Fino al secolo undicesimo i Sami vivono tranquillamente di caccia, pesca e raccolta, dopodiché le invasioni vichinghe li spingono all'estremo nord.
I Sami, popolo fondamentalmente nomade, abitano ora la tundra artica, dove vivono una vita quasi simbiotica con la renna. Abitazione tipica, la capanna conica trasportabile,
formata da una copertura di pelli di renna, su un'ossatura di rami d'albero. Oggi solo il 10% si dedica all'allevamento di questo animale, che resta comunque d'importanza centrale nella cultura e nell'economia. Il loro nomadismo viene minacciato quando inizia la colonizzazione scandinava, che ha il suo motore nella cristianizzazione del tardo Medio Evo. La nuova era porta con se strade, ferrovie e nuovi villaggi che mutano profondamente l'economia lappone.
Comincia poi una dura repressione della lingua, non di rado in nome del cristianesimo: molti uomini di chiesa affermano che "il lappone è la lingua del diavolo". D'altro canto, però, si deve proprio a dei missionari la codificazione di una lingua finora tramandata oralmente.
All'inizio del 1800 la Bibbia viene tradotta in Sami.
Gli insediamenti storici
Le comunità indigene vivevano di pesca, caccia e allevamento di renne, mantenendosi entro i confini dei loro «villaggi» lapponi ma senza costruire abitazioni fisse o coltivare la terra. A quei tempi i Sami erano «proprietari permanenti» delle loro terre, ragion per cui pagavano le cosiddette «tasse lapponi». In seguito, un trattato sulla definizione dei confini tra Norvegia e Svezia fissò anche il divieto per i Sami di possedere terreni che sarebbero stati
tassati in più di un Paese. La situazione si fece per i Sami molto critica in Finlandia a partire dagli inizi del Novecento, quando la loro economia cominciò a essere progressivamente minacciata dal rischio di estinzione di animali come la renna selvatica e il castoro, che erano anche elementi fondamentali del loro immaginario collettivo. Le terre destinate alle attività all'aria aperta si fecero sempre più ristrette e il contributo che i Sami potevano offrire in termini di tassazione diventò sempre più ridotto.
I Sami e gli Stati nazionali
Oggi lo Stato finlandese sfrutta, trasforma e affitta le terre pubbliche, impedendo ai Sami di utilizzarle per scopi diversi.
Dei 6500 Sami che vivono entro i confini della Finlandia, la maggior parte vive oggi in un'area ristretta, delimitata dai confini di Svezia, Norvegia e Russia. L'area copre un'estensione di 35 mila chilometri quadrati e include una zona speciale riservata ai Sami Skolt che si insediarono qui dopo la Seconda Guerra Mondiale. I Sami non sono gli unici abitanti di questa area e anzi rappresentano un terzo della popolazione complessiva.
L'immensa regione dei Sami, che comprende il Nord della Penisola scandinava travalicando i confini nazionali di quattro Paesi, è dunque divisa tra «terre di proprietà privata», che rappresentano il 10% del territorio, e «terre pubbliche». Sulle loro terre private i Sami praticano l'agricoltura, la pesca e sfruttano il legname offerto dalle foreste. Le terre pubbliche sono utilizzate per l'allevamento della renna, la pesca e la caccia. Questa prassi è riconosciuta come diritto del popolo Sami in Svezia e in Norvegia ma, come abbiamo visto, non in Finlandia.
Cultura ed economia
La cultura dei Sami è basata sullo sfruttamento sostenibile e per scopi differenti del territorio in cui essi si muovono, al fine di soddisfare i propri bisogni primari. Essi interagiscono dunque con la natura utilizzando conoscenze che hanno sviluppato nell'arco di millenni e che riguardano gli equilibri dell'ecosistema e il comportamento degli animali che in esso vivono.
Le fonti di sussistenza principali per i Sami sono la pesca, la caccia, l'allevamento della renna, la raccolta dei prodotti esistenti in natura e la fabbricazione di manufatti secondo tradizionali tecniche artigianali. In genere l'economia delle comunità sparse in Lapponia si fonda su un insieme vario di queste attività e sull'organizzazione di coltivazioni su piccola scala, ma sul piano economico e culturale la renna è la più importante fonte di sostentamento. Questo animale è sempre stato sfruttato, sia come fonte diretta di nutrizione sia come materia prima per la fabbricazione di indumenti, scarpe, berretti, stringhe, corde e di una copertura per le tende. Ancora oggi, nei mesi estivi, i Sami seguono le migrazioni delle renne. Essi si spostano in altitudine e latitudine con le slitte trainate dalle renne medesime, oppure con modernissime slitte a motore. Per le loro soste costruiscono tende simili a quelle usate da tutte le popolazioni artiche dell'Asia come dimore temporanee, ogni volta in luoghi differenti.
Per rimanere nella zona nord della terra, ci spostiamo ora in America del nord, dove troviamo il popolo degli Inuit, popolo meglio conosciuto con il nome di Eschimese.
GLI INUIT
Spesso i nomi che vengono usati comunemente usati per designare i popoli indigeni nascondono un significato dispregiativo. I Lakota, ad esempio, vennero ribattezzati Sioux dai missionari gesuiti. Non fanno eccezione gli Inuit, (uomini), da sempre noti come Eschimesi (mangiatori di carne cruda), termine dispregiativo di origine algonchina. Gli Inuit, come si capisce osservando i loro tratti somatici, sono originari delle fredde distese siberiane.
Abitano la regione della tundra e vivono di caccia, pesca e piccole attività agricole.
La precisa origine antropologica degli Eschimesi non è ancora definita; pur avendo i caratteri tipologici dei mongoloidi, presentano spiccate forme di adattamento all'ambiente glaciale; al loro gruppo si è data la definizione di razza eschimide. Caratteristica l'abitazione invernale seminterrata ricoperta di neve (igloo), dalla quale è derivata la capanna semisferica fatta di blocchi di neve (igloolak) degli Eschimesi del Canada; durante l'estate gli Eschimesi usano tende coniche coperte di pelli di foca, derivate da quelle siberiane. Altrettanto tipiche le
imbarcazioni: il kayak, canotto monoposto da caccia fabbricato con pelli, e l'umyak, detto battello delle donne, di dimensioni maggiori, con intelaiatura di legno coperta di pelli. Con le ossa, l'avorio, la pietra, il legno e talvolta le pelli, gli Eschimesi producono ancor oggi notevoli manufatti artistici, che ricalcano i temi ancestrali riallacciantisi, sotto certi aspetti, all'arte magdaleniana: piccole sculture antropomorfe e zoomorfe, bambole, giocattoli, gioielli, oggetti magico-rituali decorati, pelli decorate e istoriate, maschere in osso e (più raramente) in corteccia di legno.Oggi gli Inuit sono poco più di 60.000 e vivono divisi fra Canada, Stati Uniti (Alaska), Groenlandia e penisola di Chukotka (Russia), mentre alcuni gruppi vivono nell'Asia orientale, lungo le coste orientali. Alle diverse collocazioni geografiche corrispondono differenze di vario tipo. Anzitutto la lingua: ad un paio di idiomi-base si aggiunge una grande varietà dialettale. Quelli che vivono in Russia costituiscono la comunità più esigua (1.500 persone). In Groenlandia, al contrario, rappresentano l'85% della popolazione, anche se molti groenlandesi sono meticci dano-eschimesi: l'isola è infatti un territorio autonomo sotto la corona danese. Fondamentalmente nomade, disperso su spazi sconfinati, per lunghi scoli il popolo eschimese non conosce l'unità. Al tempo stesso, deve fronteggiare condizioni di vita durissime, con una natura spietata sempre in agguato. I pericoli della caccia, la malnutrizione e l'elevata mortalità infantile rendono molto bassa l'età media (30-35 anni). E' così che la vita degli aborigeni polari trascorre per circa 4.000 senza produrre una storia (almeno nel senso che noi attribuiamo a questo termine).
Gli Inuit e gli altri popoli nativi diventano cittadini canadesi nel 1867.
Agli inizi del nostro secolo viene scoperta l'esistenza del petrolio nella Valle del fiume Mackenzie. Questo stravolge il sistema di vita basato sulla caccia: il trauma economico e culturale che investe gli indigeni è grande. Bisogna però sottolineare che fra tutti i popoli del Nord-America gli uomini dei ghiacci sono quelli che meglio ad adattarsi alle nuove condizioni di vita, forti di certa attitudine al commercio che in altri è assai meno sviluppata. Le terre abitate dagli Inuit sono ricche anche in Alaska, dove nel 1968 viene scoperta l'esistenza del petrolio. Questo accresce l'importanza strategica dell'Artico e favorisce la sua militarizzazione da parte delle due superpotenze.
Nel continente Asiatico, invece, troviamo una popolazione scoperta solamente nella metà del diciannovesimo secolo, si tratta di una popolazione che vive nell’arcipelago delle Andamane, un arcipelago situato nel Golfo Persico, si tratta degli Jarawa.
GLI JARAWA
Gli Jarawa sono un piccolo popolo di neri che vivono in un arcipelago del golfo del Bengala ora appartenente all’India. Il loro aspetto fisico è molto diverso da quello che siamo abituati a vedere: statura bassa, niente barbe e quasi totale assenza di peli. Sono infatti i diretti discendenti degli uomini preistorici che dall’Africa arrivarono in Asia circa cinquantamila anni fa. Questo popolo ha conservato intatte le caratteristiche di 100 mila anni fa. Gli Jarawa, che si ritiene siano un numero compreso tra i 200 e i 400
individui, sono cacciatori raccoglitori nomadi e sono sopravvissuti per migliaia di anni nella loro foresta pluviale. I loro utensili sono ancora oggi costruiti con la pietra. Costruiscono panieri e reti da pesca con la fibra esteriore del cocco. La loro lingua non è ancora stata tradotta. Gli Jarawa hanno un’economia arcaica basata sulla caccia e sulla raccolta di vegetali spontanei. Cacciano maiali selvatici, varani e tartarughe. Con le frecce prendono anche grossi pesci. Raccolgono nella foresta miele selvatico, radici, tuberi e bacche. Per due o tre mesi all’anno vivono in accampamenti fissi che ospitano circa 50 persone che stanno insieme in una grande capanna costruita con tronchi, foglie e fango, senza porte. Per il resto dell’anno si disperdono in gruppi familiari nomadi. Si pensa che questo popolo sia cannibale. Quando ebbero i primi contatti con i bianchi, 77 Jarawa si ammalarono di morbillo, circa un quarto della popolazione. Negli ultimi mesi gli Jarawa, per motivi ignoti, hanno cominciato ad uscire dal loro territorio per visitare i villaggi vicini e persino le città. Attratti dalla novità di una tribù che sta cominciando solo ora a rapportarsi pacificamente col mondo esterno, i coloni locali e i turisti hanno donato loro cibo e vestiti. Queste interazioni, anche se animate da buone intenzioni, potrebbero essere devastanti per gli Jarawa. Se effettuate senza un’attenta supervisione medica, esporranno gli indigeni al grave rischio di contrarre malattie, come l’influenza, verso cui non hanno difese immunitarie. Questi virus sono spesso fatali per i popoli tribali che non hanno mai avuto contatti con l’esterno. Ora non si è ancora ottenuto il contatto con i Jarawa del nord, considerati più bellicosi e determinati a mantenere l’isolamento.
L’ultimo popolo indigeno di cui andremo a parlare, è il popolo dei Penan, una popolazione che vive nel Borneo.
I PENAN
I Penan vivono nella foresta tropicale più antica del mondo (150.000.000 di anni), che sorge nel Borneo, nei pressi del mar Cinese meridionale. I dati ufficiali parlano di circa 10.000 Penan, oggi semisedentari, mentre solo poche centinaia sono rimasti nomadi. In Sarawak vivono altri venti popoli indigeni, collettivamente chiamati Dayak, tutti più o meno dipendenti dalle foreste. I Penan vivono in piccole palafitte costruite in mezzo alla foresta. Sono popoli poco bellicosi e non conoscono divisioni gerarchiche. I bambini sono considerati membri della società a pieno titolo, ma difficilmente vengono puniti od
obbligati a fare qualcosa. I Penan e la maggior parte dei popoli dayak non hanno pregiudizi nei confronti degli stranieri. La loro venerazione per gli anziani è tale che si rivolge anche ai funzionari governativi. Una difesa non violenta che ha ottenuto il sostegno di associazioni ecologiste e per i diritti umani. Ma i Penan, sotto il tetto fitto della foresta, continuano a coltivare il riso e commerciano con i Dayak, scambiando i prodotti della foresta con sale, attrezzi di ferro, tegami ed altri oggetti. Fra i popoli indigeni del Borneo esistono infatti legami economici assai vari ed estremamente funzionali.
La tragedia di questi popoli richiama quella degli indios amazzonici. La foresta costituisce infatti una formidabile fonte di affari, che schiaccia senza pietà la varietà ambientale e i diritti dei popoli indigeni. Il disboscamento diviene quindi il nemico dei Penan e dei Dayak: dagli anni Ottanta, oltre la metà del legno tropicale esportato nel mondo proviene da queste foreste. Le autorità governative sostengono di sfruttare il patrimonio forestale in modo selettivo, ma in realtà si tratta di uno scempio che arriva a diradare i due terzi della sconfinata foresta tropicale. La caduta degli alberi giganteschi ed i bulldozer devastano la foresta.
Il disboscamento procede a pieno ritmo, giorno e notte.
A causa dell'erosione i fiumi si trasformano velocemente in torrenti di fango: la conseguenza è l'inquinamento dell'acqua potabile. Il disboscamento determina la scomparsa di pesci, uccelli, piccoli mammiferi, alberi da frutto: in altre parole, delle principali fonti d'alimentazione per gli indigeni.
I Penan stessi vengono deportati in campi dove muoiono di infezioni, di malattia, di fame. Alcuni organizzano manifestazioni non violente, generalmente bloccando l'accesso delle strade ai bulldozer. Il prezzo che pagano è alto: alcuni vengono feriti o uccisi, altri vengono imprigionati e torturati.
Un ragazzo Penan