Lezioni di storia del diritto italiano

Materie:Appunti
Categoria:Ricerche

Voto:

2.5 (2)
Download:1354
Data:28.06.2001
Numero di pagine:132
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
lezioni-storia-diritto-italiano_1.zip (Dimensione: 208.77 Kb)
trucheck.it_lezioni-di-storia-del-diritto-italiano.doc     908 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

Storia del diritto italiano
LEZIONI SUL CAVANNA DEL PROF. TAVILLA
Siamo già nel basso medioevo. Mentre Ruggero forma il suo regno, nel nord si sono già formati i comuni.
Dobbiamo però adesso affrontare un discorso più propriamente giuridico.
Esiste una facoltà di giurisprudenza, perché un maestro di arti liberali, attorno al 1140 (proprio negli stessi anni in cui Ruggero II si faceva incoronare a Palermo) metteva insieme 4 studenti (soci) e fondava quella che si chiama UNIVERSITA’ (dal latino UNIVERSITAS).
Perché ad un certo punto viene fuori un signore (Irnerio)? Per quale motivo gli è venuto in mente di tirare su una scuola giuridica e, soprattutto, per quale motivo è andato a recuperare con grande zelo i testi giustinianei?
La prima cosa che bisogna sfatare è questa: alto medioevo – tutto buio; basso medioevo – tutta luce (buio e luce relativamente alla compilazione giustinianea).
La compilazione giustinianea, in qualche modo, sopravviveva nell’alto medioevo: le institutiones, il codex e le novellae in forma riassunta, mentre scompaiono gli altri, anche se ogni tanto c’è qualche citazione di qualche compilazione canonistici. Quindi, non è del tutto vero che non abbiamo nessuna traccia, però giuristi che si possono chiamare così, perché si impegnano su questi testi, non ce ne sono.
Però ci sono dei segnali: 100-150 anni prima di Irnerio ci sono dei segnali che ci portano Irnerio su un vassoio d’argento. Vediamo tre località nelle quali succedono delle cose che ci portano a Irnerio:
• PAVIA = è la capitale del regno Italiane, dove ci sta il rex longobardo e il rex franco, dove stavano anche gli scribi. A Pavia c’è un ambiente di notai, ma di persone con una certa cultura di scrittura giuridica, perché devono porre in essere degli atti pubblici (editti, capitolari, privilegi, ecc.). Quindi, a Pavia si forma l’EXPOSITIO AD LIBRUM PAPIENSEM (=spiegazione al libro di pavese): nell’alto medioevo si formano due raccolte molto simili, la LOMBARDA AD LIBER PAPIENSIS, cioè due raccolte di leggi e di editti longobardi, capitolari franchi, costituzioni imperiali, tutto tranne il diritto romano. La differenza tra queste due opere è che la lombarda è fatta meglio, perché è organizzata per aree tematiche, mentre il liber papiensis è organizzato da un punto di vista meramente cronologico. Quest’opera poteva essere prodotta a Pavia, perché qui c’è già un ambiente di funzionari regi e per quanto ignoranti possano essere, almeno qualcosa del diritto barbarico dovevano sapere. Inoltre, in quest’operetta si parla di IUS ROMANORUM: questi giuristi si definiscono in tre modi, cioè ANTIQUI (giuristi della generazione barbarica), MODERNI e MODERNISSIMI (giuristi contemporanei che vivono in quegli anni, solo che alcuni si definiscono moderni, mentre altri modernissimi, come se i modernissimi volessero far vedere di essere più aperti dei moderni e questa apertura, per loro, consiste nel definire lo ius romanorum, cioè il diritto dei romani, un diritto prevalente, perché LEX GENERALIS OMNIUM, perché il diritto romano è la legge generale di tutti = il diritto romano è un diritto comune). Si sente l’esigenza profonda di qualche cosa, cioè di un riferimento giuridico forte, che sappia trovare una risposta efficace all’eventuale, e ormai frequentissima, conflittualità tra le consuetudini: se le consuetudini confliggono, o sono carenti, o altro, si applicava la lex romanorum: era già maturata l’idea che il diritto romano aveva una superiorità ed era, cioè un diritto di grado superiore, universale, che potesse servire i problemi della lacunosità e della conflittualità delle tante consuetudini personali e territoriali che si erano create nell’alto medioevo.
• MARTURI (Poggibonsi – tra Siena e Firenze) = Abbiamo un famoso PLACITO, cioè una sentenza (la sentenza nell’alto medioevo ha valore dichiarativo). A Marturi c’è il monastero di S. Michele, il quale aveva ricevuto da Ugo (un conte) delle terre. Succede, però, che il cattivo marchese Bonifacio si prende questi territori e non li consegna più. Questi beni, dopo tanti anni, finiscono ad un certo Sigizzo di Firenze, il quale si trova spontaneamente questi beni del monastero che erano stati estirpati violentemente da Bonifacio. Secondo l’ottica dell’alto medioevo, dopo aver tenuto delle terre per un certo numero di anni (e qui erano passati ben 40 anni) c’era l’usucapione. Ma abbiamo qui la grande novità storica: i clerici del monastero avevano capito già da secoli l’importanza del diritto romano e, siccome, non gli piaceva il fatto che Sigizzo, pur avendo avuto queste terre in buona fede, le tenesse lui: allora vanno dal giudice di competenza e allegano una norma romana. Si cita un principio romanistico che, per prima cosa non riguarda i monasteri, ma riguarda i minori di 25 anni, ma i minori sono i deboli e anche la chiesa è considerata debole, perché non ha armi e non ha esercito, quindi è privilegiata: in pratica, SI ALLEGA UNA NORMA ROMANA CON EFFICACIA COSTITUTIVA, perché qui si modifica il rapporto di fatto. La cosa straordinaria è che in questo periodo troviamo dei giudici romani che vengono impressionati dal diritto romano: cioè, allegando il diritto romano si comincia a vincere una causa (questo nell’alto medioevo era assolutamente impensabile, primo, perché non si conosceva il diritto romano a sufficienza, poi perché nessuno pensava ad allegarlo: adesso si comincia a conoscere meglio e non è una cosa da monastero, ma è un ELEMENTO GIURIDICO CHE FA VINCERE LE CAUSE e costringe il giudice a non emettere un placito soltanto con funzione dichiarativa, ma qui con funzione costitutiva, perché incide profondamente nella situazione giuridica pregressa). Altro fatto è che uno degli avvocati o un componente del collegio dei giudici, coinvolto a Poggibonsi, PEPO (detto anche Pepone): ci sono delle fonti che dicono che, prima di Irnerio, a Bologna non c’erano scuole, però c’era questo Pepo che, per conto suo, aveva la compilazione giustinianea, anche se non la insegnava (e questo Pepo di Poggibonsi coincide molto con quello di Bologna, anche se non abbiamo la certezza).
• CANOSSA = La corte di Marturi apparteneva alla Toscana, ma la Toscana era sotto la giurisdizione di Matilda di Canossa e, ancora prima, della madre, Beatrice di Canossa. La madre è quella nel cui ambiente nasce questa sentenza. Abbiamo delle testimonianze che ci dicono che Irnerio si sarebbe mosso a cercare la compilazione giustinianea “ad petitionem Mathilde comitisse”, cioè su richiesta della contessa di Canossa. A dire il vero non abbiamo delle vere e proprie certezze di tutto questo. Ma siccome il diritto romano può rappresentare una valida alternativa e, siccome in questo ambiente già qualche causa si vince, non stupirebbe per niente il fatto che Matilda chieda ad un grande maestro di arti liberali dell’alto medioevo, quale Irnerio, e gli dia l’incarico di farle conoscere il diritto romano.
In città si crea l’esigenza di un diritto più raffinato, più complesso, un diritto che tenga conto delle varie esigenze del mondo mercantile, delle esigenze del mondo bancario, delle corporazioni, cioè un diritto che non fosse quelle due consuetudini territoriali che conoscevano, o peggio ancora, conflittuali tra di loro, e che non potevano essere sempre gli statuti, perché è vero che gli statuti possono avere al loro interno vari diritti, perché adesso da Modena a Bologna ci sono già due statuti diversi: quindi, il diritto romano è una buona alternativa per coordinare alcuni principi giuridici.
Quindi, si crea una domanda di diritto sia dal mondo dei grandi signori territoriali, come Matilda, sia dal mondo vivo e produttivo delle città.
Allora possiamo già cominciare a capire che Irnerio non viene dal nulla: viene da Pavia, viene da Marturi, viene da Canossa. A volte viene chiamato “iudex”, a volte viene chiamato “notarius”, a volte viene chiamato “maestro – magister”: gli vengono attribuite tante cose. Pare che abbia scritto un formulario notarile. Ed è pronto a recepire un’eventuale richiesta, in una città importante come Bologna, e di una signora importante come quella di Canossa.
Forse la sua iniziativa è del tutto personale, ma Irnerio ha capito che nell’aria c’è un interesse per il diritto romano e si mette alla ricerca.
E adesso capiamo perché Irnerio è quello che riscopre la compilazione giustinianea.
Che lui faccia questa operazione abbiamo una traccia molto concreta e consiste in questo. Le parti della compilazione giustinianea sono: digesta, codex, novellae, institutiones. Abbiamo visto che l’alto medioevo ha fatto scomparire i digesta, mentre ha riassunto i primi 9 libri del codex.
Anche Irnerio quando riscopre il codex porta alla luce i primi 9 libri. Le institutiones le copia così come sono, perché ne trova una copia sufficientemente attendibile nei monasteri. Per i digesta è un problema: forse in qualche monastero c’erano, ma prima di tutto bisognava trovarli, poi bisognava ricopiarli e si trattava di un’operazione difficile e molto costosa.
Quando riscopre i digesta, Irnerio scopre, per la verità, tre parti dei digesta, perché evidentemente nell’alto medioevo ci volevano troppe pagine per ricopiare tutti i 50 libri, l’avevano già diviso in tre libri più piccoli, perché era più facile da copiare. Quindi, l’operazione di Irnerio consiste:
1. DIGESTUM VETUS – i primi 24 libri – è il digesto antico (vetus = antico), probabilmente perché è uno dei primi che Irnerio porta alla luce.
2. DIGESTUM NOVUM – ultima parte, dal 38 al 50.
3. INFORTIATIUM – scoperto più tardi – sono i libri dal 24 al 38.
4. CODEX – solo i primi 9 libri.
5. VOLUMEN PARVUM che comprende: 4 libri delle institutiones; 3 libri finali del codice; 134 novelle comprese nella raccolta Authenticum, di cui però solo 97 sono state accolte dai glossatori, divise poi in 9 collationes.
Tutti gli studenti seguiranno i corsi sulla base di questi testi giustinianei.
Da qui la parola LEZIONE, che deriva da LECTIO = atto del leggere, cioè leggere questi testi.
Irnerio fa questo tipo di operazione, però la differenza con Pepo è che Pepo se lo tiene per sé, mentre Irnerio lo legge davanti a dei ragazzi volonterosi di ascoltarlo.
E’ un’operazione immediata: lui comincia a leggere il testo insieme a dei ragazzi che lo seguono e comincia a spiegarlo lui stesso mentre lo legge.
Questo è l’inizio dell’universitas: l’universitas non è altro che una piccola societas in cui c’è un dominus (che sarà poi chiamato “doctor”, cioè il perito di diritto) e i soci, che non sono in una posizione inferiore, ma sono soci di questa società, i quali, di solito, stanno a casa del docente e ci vivono e lo pagano con uno strumento, rimasto oggi nel nostro linguaggio, che è la COLLECTA: i soci concordano col dominus una collecta per stare a casa sua, vivere e lavorare a casa sua. E’ una vera e propria comunità tra un dominus e dei soci.
Su questo si fonderà la prima organizzazione privata, che in un secondo momento diventerà pubblica, quando prenderà il nome di universitas.
Adesso, però, si chiama solo societas.

UNIVERSITA’:
La prima organizzazione di studi, quella irneriana, è un’organizzazione privata, molto elementare: successivamente diventerà più complessa, ma all’inizio è un’associazione privata che vive nella città, come qualsiasi altra organizzazione spontanea del mondo comunale imprenditoriale: infatti ci sono falegnami, banchieri, all’interno di corporazioni, e ci sono anche queste scuole, cioè delle società private di domini (insegnanti) e di socii (studenti). Ben presto i domini, (poi i doctores), si organizzeranno in corporazioni, come le altre corporazioni che conosciamo nel mondo comunale. C’è da dire, però, che la corporazione dei giuristi sarà una delle corporazioni più forti dell’Italia comunale, soprattutto della seconda Italia comunale, cioè dei comuni potestarili e, soprattutto, dei comuni popolari.
All’interno della città vediamo, quindi, un’organizzazione privata delle scuole che, dopo una prima fase di reciproca tolleranza, viene ben presto conglobata dal comune, nel senso che l’organizzazione comunale si rende conto dell’importanza di questa scuola, anche perché l’arrivo in Italia di studenti, anche da altre parti dell’Europa, comporta un fortissimo incremento demografico e anche opportunità commerciali dei residenti.
Quindi, da una prima fase di organizzazione spontanea, il comune incentiva la presenza di maestri nelle proprie mura e, addirittura, attribuisce uno stipendio al docente, pur di farlo rimanere in città.
Questo per quello che riguarda il comune. Ma l’organizzazione è anche all’interno dello stesso studium universitario, attraverso la forma stessa dell’UNIVERSITA’ (dal latino UNIVERSITAS = corpo collettivo di oggetti che per il diritto prende la configurazione di un unico oggetto, pur essendo un oggetto plurale). Anche gli studenti non sono altro che un universitas, cioè un gruppo di ragazzi che si organizza.
L’universitas, in Italia, non è altro che l’organizzazione degli studenti.
(il termine universitas, in Italia, lo conosciamo nel meridione e soprattutto per indicare le città, cioè per indicare che si tratta di una collettività di cittadini).
MODELLO BOLOGNESE: Gli studenti si organizzano per avere buone condizioni di vita e per costringere i docenti a rispettare i patti stipulati, appunto, tra docenti e studenti. Si organizzano, cioè, in “statuti”: organizzano diritti e doveri degli studenti, doveri del docente, programma, ecc. Insomma, una vera e propria organizzazione articolata, dove anche gli studenti si muovono nella stessa linea di quanto succede nelle città comunali in questo periodo.
Questo modello bolognese va distinto dal modello parigino.
Perché il comune si interessa dell’università? Ci sono motivi di carattere commerciale, ma c’è anche un altro fenomeno che riguarda, per esempio, una città come Modena. All’inizio l’università è solo bolognese: c’è Irnerio, poi i successori di Irnerio che, secondo la leggenda, sono quattro (di cui i due più famosi saranno Martino e Bulgaro). Ad un certo punto le generazioni dei domini (domini se li consideriamo nel rapporto con gli studenti, ma si chiamano magister; quando la cosa si stabilizzerà si chiameranno doctores) cominciano a diventare troppi rispetto alla domanda che c’è, oppure entrano in disaccordo con il comune: allora molti di loro cominciano ad emigrare. La prima emigrazione che conosciamo è quella modenese: Modena è il secondo studium universitario di giurisprudenza europeo. Il Fondatore della facoltà di Modena è PILLIO (PYLEUS, da Medicina che è una cittadina vicino a Bologna). Siamo intorno al 1175.
Questo fenomeno non succede solo a Modena: succede anche a Padova, ad Arezzo, a Siena, a Perugia, cioè succede per varie altre sedi universitarie che si perdono dopo un centinaio d’anni, come Vercelli ed Arezzo, mentre altre diventeranno università importantissime ed antichissime, come Padova e Perugia.
Tutte queste università nascono da movimenti migratori di docenti, da una parte, e di studenti dall’altra.
Quindi, in Italia comincia ad esserci una ramificazione di questi STUDIA e spesso c’è lo zampino delle città che allettano gli studenti e i docenti per le migliori condizioni di vita.
Non sono solo le città ad interessarsi degli studia: ad esempio, a Napoli nel 1224 Federico II fonda uno studium e si parla di “prima università pubblica” (ma pubblica nel senso che non è un’affermazione spontanea di docenti e di studenti, ma ci ha messo lo zampino direttamente il re).
Anche la chiesa e l’impero si interessano a questi studia.
La chiesa si interessa, per esempio, a Bologna quando Onorio III (1219) stabilisce una PROCEDURA DI ADDOTORAMENTO in cattedrale = lo studente che prende la laurea lo fa in forma solenne nella chiesa madre di Bologna davanti all’autorità ecclesiastica. La chiesa è fortemente interessata a questi studia e vuole che il momento finale sia in qualche modo sponsorizzato dalla gerarchia ecclesiastica. In realtà la chiesa non fa solo questo, perché poi in questi anni si studia anche il diritto canonico. Comunque, nello studio del diritto civile, la chiesa vuole in qualche modo essere presente nel momento conclusivo degli studia.
Riguardo all’impero…… Il diritto romano della compilazione giustinianea è prima di tutto il diritto dell’imperatore (diritto di Giustiniano). I più grandi imperatori di quest’epoca che non s’interessano di esercitare la supremazia di imperatore, oltre che ad interessarsi del corpus iuris, sono Federico Barbarossa e Federico II.
Federico Barbarossa è quello che ingaggia una vera e propria guerra, con la lega delle città comunali italiane che non vogliono assecondare la politica di supremazia dell’impero: l’impero c’è, ma in Germania, mentre qui c’è una propria autonomia (viene riconosciuta all’impero una sua supremazia virtuale, basta che non venga nella pianura padana ad esercitare la sua supremazia) – questa fase si concluderà nel 1183 con la pace di Costanza che segna un equilibrio.
Federico II combatte anche lui con i comuni del nord, ma senza riuscire sul programma “imperialista”: l’imperatore per esercitare una sua autonomia deve impugnare le armi, e soprattutto in Italia, dove c’è una forte autonomia nel nord.
Mentre ci sono tutte queste guerre, Federico Barbarossa trova nei giuristi di Bologna degli alleati. Questo vuole dire che gli imperatori capiscono la grande importanza di
questi studia e, il fatto che questi studia si affermano con successo in tutta Europa, per gli imperatori è una sorta di propaganda: qui si studia un diritto e si afferma la supremazia dell’impero, perché il diritto romano è il diritto dell’imperatore.
Nel 1155 Federico Barbarossa promulga la CONSTITUTIO HABITA, che viene inserita nella compilazione giustinianea. Questa costituzione passa alla storia come la prima costituzione che da privilegi a studenti e dottori, per esempio il “privilegio del foro” (=in caso di cause in cui una delle parti siano studenti o dottori, tali cause sono decise davanti ad un collegio di dottori) = foro privilegiato all’interno delle città. E’ importante, per gli studenti e per i docenti, il “divieto del diritto di rappresaglia”.
Molto importante anche nel 1158 a Roncaglia (DIETA = assemblea) = Federico II fa un’assemblea per dichiarare quali sono i poteri dell’imperatore, una volta per tutte. Ma per sapere tutte queste cose egli si rivolge ai giuristi di Bologna (Martino o Bulgaro), che chiama a Roncaglia e si fa dire quelle che sono, secondo il diritto romano, le REGALIE (=poteri dell’imperatore, o poteri del re).
Si è parlato anche di UNIVERSITA’ MINORI: queste vediamo che sono tutte le università d’Italia, tranne Bologna.
Perché si è fatta questa differenza? Perché, ad un certo punto, andando a vedere tutti i manoscritti che man mano si trovavano, che si afferma il modello bolognese, quello irneriano, poi con la migrazione ci sono altre università che sono minori, ma non tanto per il fatto che sono più piccole, ma perché c’è una forte diversità rispetto a Bologna.
La differenza molto importante che è stata notata è che, mentre a Bologna si afferma un interesse di tipo soprattutto teorico-generalista-astratto (il diritto romano è una miniera enorme di istituti, come proprietà e possesso, o altri: a Bologna si studia soprattutto il diritto romano in questo modo, stando attenti a queste figure, a questi grandi istituti), in tutte le altre città questa impostazione non funziona; cioè nelle altre città come Modena, Padova, Vercelli, un’impostazione così teorica non piace e i giuristi non la fanno, perché quando emigrano in queste città, di solito, i giuristi sono incoraggiati da scuole ecclesiastiche o da gruppi notarili, quindi vogliono studiare il diritto, perché hanno capito che è importante e da prestigio, ma non lo vogliono studiare astrattamente, ma lo vogliono collegato alla realtà pratica (ad esempio, lo vogliono per capire meglio come funziona lo statuto, o come spiegare certe problematiche nella vita commerciale, ecc.) = Lo studio del diritto romano in tutte le università minori è contrassegnato da una maggiore praticità degli interessi. Interessante è notare come qua e là i docenti di giurisprudenza risultino legati ancora un po’ alle vecchie arti liberali.
PLURALISMO = questo termine, col tempo, sarà definito come PARTICOLARISMO, ma di questo termine possiamo già parlarne nel 400-500, in pieno medioevo.
D’altra parte, però, sappiamo che il medioevo è un’età pluralistica (particolarismo vuole dire che ognuno pensa al suo particolare e c’è una tonalità spregiativa): PLURALISMO è una SEMPLICE CONSTATAZIONE NEUTRA DEI FATTI.
Il pluralismo già lo abbiamo incontrato nell’alto medioevo, quando abbiamo visto il pluralismo del mondo delle consuetudini, però questo pluralismo si articola in maniera strepitosa soprattutto nel basso medioevo, dall’anno 1000 in poi, perché entrano in scena dei nuovi soggetti giuridici, cioè i comuni (con i loro statuti particolari: all’interno degli statuti urbani ci sono le corporazioni con i loro statuti, ci sono le confraternite con i loro statuti, ci sono le università degli studenti con i loro statuti), quindi la stessa città che contribuisce al pluralismo ha al suo interno un mondo plurale; poi ci sono i regna, ma anche all’interno dei regna c’è il pluralismo, perché c’è la chiesa, ci sono le città (che magari non hanno i loro statuti, ma solo le consuetudini). C’è un pluralismo spontaneo, quello che è tipico del PLURALISMO GIURIDICO medievale: tanti istituzioni, tanti diritti, tanti gruppi sociali.
Il medioevo è l’età delle libertà: per noi, oggi, la libertà è singolare, in quanto siamo abituati ad attribuirla all’uomo astratto (cioè l’uomo titolare di diritti); qui invece è un concetto pluralistico, perché vediamo gli studenti con la loro constitutio habita, c’è la città di Modena con il suo statuto, altre città con i loro diversi statuti. Quindi, diciamo “le libertà”, cioè libertà di tipo pluralistico, in cui ogni gruppo cerca di costruirsi la sua sfera di libertà e di privilegi.
UNIVERSALISMO = L’universalismo che ci interessa è quello di carattere imperiale (in realtà, però, non è solo quello imperiale, ma è anche quello religioso). Sappiamo che c’è un imperatore, ma ora è stata posta alla luce una legislazione complessa, che risale a 600 anni prima, che articola il diritto privato in modo molto raffinato e che può risolvere alcuni problemi commerciali nei rapporti giuridici con le città, ma al suo interno ha anche una visione universalistica, cioè non è tipica della città o della corporazione, ma riguarda tutto il mondo allora conosciuto.
Universalismo vuole dire che esiste un’autorità che esercita la sua supremazia al di là dei confini, al di là del pluralismo, al di là del particolarismo. C’è un piano universale.
L’universalismo imperiale è un’entità suprema che insieme al pontefice governa il mondo: il pontefice guarda alle cose spirituali (come ci aveva insegnato Gelasio), mentre l’imperatore guarda alle cose secolari. Questo guardare alle cose secolari si forma in un’attività di governo che può essere benissimo spiegato dal diritto romano attraverso, ad esempio, le regalìe del 1158.
Quindi, il rapporto tra universalismo imperiale e particolarismo istituzionale è molto presente nel medioevo.
Come funziona tutto questo? Già l’imperatore fa fatica ad affermarsi in Italia e quando si afferma deve combattere una guerra, però come fa ad affermarsi un diritto imperiale che afferma una sua matrice universalistica, sapendo che poi quello che è concreto non sono altro che le realtà pluralistiche?
Prendiamo, ad esempio, uno statuto italiano qualsiasi: nelle consuetudini c’è una parte molto interessante che è quella della transazione delle fonti, cioè quella in base alla quale il giudice italiano applica lo statuto, il quale però non può prevedere tutte le fattispecie: allora troviamo delle norme che ci dicono quale diritto applicare. Di solito troviamo questa formula: i giudici devono applicare gli statuti; e manca una norma esplicita si può ricorrere alle consuetudini (in realtà le consuetudini sono già state scritte negli statuti, però non tutte le consuetudini stanno ferme negli statuti); al terzo posto, il diritto comune o il diritto romano (Pisa e Venezia al terzo posto mettevano l’equità, perché diffidavano del diritto romano).
I GLOSSATORI:
Il primo grande glossatore è Irnerio, cioè colui che riscopre la compilazione giustinianea e attua l’autonomia della scienza giuridica (prima non si studiava specificamente la giurisprudenza, ma c’erano solo le arti liberali e all’interno di queste arti liberali c’era qualche nozione di legge. Una volta che viene fuori il corpus iuris giustinianeo viene fuori anche la possibilità di una scienza autonoma regolarizzata, cioè sottratta al monopolio della chiesa).
Ad un certo punto Irnerio diventa il primo giurista: comincia a studiare le leggi e, studiandole, comincia ad insegnarle mediante l’operazione che si chiama LEGERE, cioè prende il corpus iuris e legge dalla prima all’ultima parola per vari settori (questo è un testo difficile e la prima cosa da fare è, appunto, la lectura).
In un’aula c’è un docente con un leggio, dove ci sta il corpus iuris, e attorno c’è un gruppo di studenti: questi studenti (soci) stanno in piedi attorno al maestro e guardano il testo. Gli studenti non hanno un testo e guardano il testo del maestro, perché è un testo rarissimo, ce ne sono poche copie, non si è diffuso e costa moltissimo. Ogni tanto il maestro si ferma su una parola e dice “cioè” (=in latino “id est”) e un’altra cosa (spiega cosa vuole dire o cosa sia quella determinata parola).
ESEMPIO: leggendo una legge Irnerio trova la parola “prefectur urbis” (il prefetto della città – magistratura romana): il glossatore, accanto a questa parola, mette la glossina e scrive “id est potestas”.
La GLOSSA è una SPIEGAZIONE LETTERALE, cioè attaccata alla litera (singola lettera).
Questo esempio ci fa vedere che la glossa non è solo un’operazione di spiegazione, ma è anche una spiegazione di attualizzazione. Per loro il diritto romano è una cosa vera, viva e se incontrano un’antica magistratura vogliono subito vederci l’attualità (e l’attualità, in questo caso del prefectur urbis può benissimo essere il potestas). E’ un’operazione di attualizzazione, ma allo stesso tempo è anche di rispetto, perché loro lo fanno inserendo, ad esempio, “cioè”.
Un altro tipico modo di fare le glosse è, ad esempio, alla parola “lectura” di mettere “f.f. de ecclericis leges…” = f.f. è l’abbreviazione di digesta; poi, vengono dette le prime parole della legge e l’eventuale paragrafo, ecc.
Questo tipo di glossa assomiglia molto ai PARATICLA giustinianei, che sono delle note fatte da Giustiniano, con dei rinvii interni. Infatti, il tipico modo di fare glossa è quello di fare rinvii.
Quindi, o una spiegazione letterale o un rinvio di leggi: queste sono le glosse più antiche e le più elementari.
LA GLOSSA E’ UN’ESEGESI, UNA SPIEGAZIONE LETTERALE DEL TESTO GIUSTINIANEO, RIFERITO ALLA SINGOLA PAROLA (non alla legge e non al titolo). La glossa prende diversi nomi: a volte c’è solo un segnetto ed è attaccata alla parola (GLOSSA INTERLINEARE, appunto perché la si trova nelle righe), oppure se la glossa è più grande si mette un asterisco vicino alla parola e la si scrive ai margini (GLOSSA MARGINALE).
Questo è il primo approccio con cui i giuristi affrontano la compilazione giustinianea, attraverso i rinvii, attraverso alcune forme di attualizzazione, ma anche attraverso delle spiegazioni crude, cioè si spiegano degli istituti.
Questo è quanto fa il maestro.
Arriviamo ora alla generazione successiva. Nascono gli STAZIONARI, una categoria professionale che nasce con l’università: gli stazionari sono degli imprenditori che hanno fatto un investimento, comprando un corpus iuris intero e, o con degli assistenti, o usando gli stessi studenti, li fanno ricopiare (per intero come operazione
finale) facendo le cosiddette PECIAE = copiavano un singolo fascicolo, che corrispondeva ad una parte del programma del professore, così gli studenti potevano comprarli a rate, oppure li copiavano loro, tenendosi una copia per sé e dando una copia allo stazionario. Quindi, loro avevano il vantaggio che non le pagavano, ma allo stesso tempo facevano un servizio allo stazionario che rivendeva poi ad altri. Insomma, esisteva un mercato per eludere il costo di questi libri: così poi finalmente questi studenti possono andare al posto, dove hanno una copia pulita del corpus iuris giustinianeo che, all’incirca, si presenta così:

Si presenta scritta in due colonne, scritta molto fitta, ogni tanto c’è una lettera maiuscola (che vuole dire che inizia la legge); la prima lettera, di solito era scritta in rosso (dal latino “rubro” = rubrica).
Quei piccoli segni testimoniano la spiegazione del docente. Avere un manoscritto solo col corpus giustinianeo è rarissimo, perché vuole dire che è stato in un monastero, dove è stato copiato e non è stato più usato all’università: appena un manoscritto entrava all’università veniva subito annotato. Questi manoscritti più annotati sono e più valgono, perché c’è la testimonianza dei docenti.
Ci sono però delle difficoltà.
ESEMPIO: Pillio da Medicina ha fondato a Modena l’università, spiega alcune cose e le sue glosse vengono segnate a lato del testo. Lo studente prende il suo titolo e quel testo glossato passa al figlio o a un amico, il quale va all’università con quel testo glossato e, a sua volta, seguirà le lezioni di un altro maestro, magari a Padova, e ci aggiungerà delle altre glosse. Poi nuovamente rivenduto e troviamo un terzo studente, e così via.
Qui sorgono le difficoltà. Noi capiamo i problemi dalla scrittura: vediamo che ci sono due scritture diverse e capiamo che sono appartenuti a due generazioni di studenti diversi, quindi a due maestri diversi.
Questi studenti, purtroppo, non sempre ci dicono chi sta parlando, cioè non sempre troviamo queste sigle nelle glosse:
Y. (Irnerio); Py. (Pillio); M. (Martino); ecc.
Quando non è segnato è un problema, perché non si sa a quale docente lo studente stia facendo riferimento, (a meno che non ci siano dei riferimenti all’interno).
A volte le glosse finiscono “secundum B.”, che vuole dire secondo l’opinione di Bulgaro: ma questo non vuole dire che lo studente sta ascoltando Bulgaro, ma sta ascoltando un maestro che sta riferendo l’opinione di Bulgaro.
Così, molte volte non c’è nemmeno la sigla, ma basta che ci siano una o due o sigle, perché così si può andare a vedere la scrittura a chi corrisponde e qualcosa si può capire.
Ammettiamo, però, che questo manoscritto, con tre generazioni di studenti, vada a finire davanti ad uno stazionario: questi si ricopierà tutto, cioè un copista ricopia tutto e così si trovano tre scritture diverse copiate da un unico copista. Così il problema: non c’è nemmeno più la scrittura diversa. Quindi, se non ci sono le sigle non si riesce più a capire nulla, perché non c’è più nemmeno la grafia diversa.
Ogni giurista non fa altro che avvicinarsi alla verità: non è una verità di Pillio o di Irnerio, quindi non è importante se l’opinione di Irnerio viene ripresa da Pillio ed è
identica, perché egli non sta facendo un’operazione di ricopiatura o di plagio, ma sta semplicemente trasmettendo una tradizione. La tradizione è il trasmettere di generazione in generazione una verità, un insegnamento, che non è frutto del cervello, ma è frutto di uno sforzo per avvicinarsi ad una verità che però è una.
ESEMPIO: Jacopo Baldovini (giurista di origine bolognese) scopre che nella compilazione giustinianea ci sono due norme che non vanno d’accordo. Questo giurista dice che con il suo sforzo mentale non riesce a capire il mistero di questa apparente contraddizione: Baldovini, allora, si chiude nella sua cappella privata per tutta una notte, si inginocchia e prega davanti all’icona della Madonna (atteggiamento normalissimo per l’uomo medievale), cioè chiede l’ispirazione a Dio, perché è uno strumento dell’intelletto solo se illuminato da Dio. In effetti la mattina dopo Baldovini ha l’intuizione (attribuito a Dio) e risolve brillantemente la questione davanti agli studenti.
Il corpus iuris è la verità e non può essere oggetto di opinioni dottrinali come le intendiamo noi.
In realtà ci sono delle divergenze dottrinali, è ovvio: ad esempio, è rimasta una famosa operetta – DISSENSIONES DOMINORUM = i dissensi dei domini (cioè dei maestri). Siamo nell’epoca di Martino e Bulgaro: si tratta di registrazioni di modi di interpretare diversi, però sempre con la stessa logica, cioè di un mistero di questi dissensi, che però non tolgono nulla alla verità della compilazione giustinianea.
Un accenno alla rivalità Martino/Bulgaro. Martino e Bulgaro sono passati alla storia come due rivali, pur essendo allievi di Irnerio. La leggenda dice che, Bulgaro nelle sue spiegazioni del corpus iuris adotta più spesso un’interpretazione di tipo letterale, cioè non si discosta dalla lettera del testo; invece Martino è più vicino all’equità.
ESEMPIO: la compilazione giustinianea è opera dell’imperatore Giustiniano. Però nell’alto medioevo ci sono anche altri imperatori (come Federico Barbarossa), che di solito non legiferano quasi mai, anche se ogni tanto lo fanno, come le costituzioni a vita. Ad un certo momento Federico Barbarossa sanziona una famosissima costituzione (famosa perché c’è appunto questa divergenza dottrinale) che si chiama SACRAMENTA PUBERUM (=i giuramenti dei minori). Il problema è che, se una persona conclude un contratto, essendo un minore di 25 anni, e lo trova esoso, può rescinderlo? Oppure, un minore di 25 anni conclude un contratto e non lo trova esoso, però il venditore, che sa di concludere con un minorenne, si tutela e chiede
un giuramento supplementare nel quale il minore giura che, anche se minore di 25 anni, non può più rescindere da quel contratto.
Secondo Bulgaro il minore di 25 anni è fregato, perché se ha fatto un giuramento si è tolto dalla scappatoia di poter rescindere dal contratto e, quindi, di avvalersi del privilegio di minorità.
Però Martino dice che l’aequitas vuole che il minore sia sempre tutelato, sennò si elude la tutela che la legge ha voluto dargli.
La sacramenta puberum risolve il problema: l’imperatore interviene e da ragione a Martino e dice – “i giuramenti degli impuberi non impediscano al minore stesso di rescindere dal contratto, pur se ratificato da un successivo giuramento”.
Così, vince Martino, detto “il campione dell’equità”.
AEQUITAS: “Aequitas in rebus ipsis percipitur, quae, cum descendit ex voluntate, forma accepta fit iustitia” = L’equità si percepisce nelle stesse cose, la quale (cioè l’equità), quando deriva da un atto di volontà racchiuso in una determinata formalità, diventa giustizia.
EQUITA’ = “si percepisce nelle cose stesse…” le cose stesse rappresentano l’ordine delle cose naturali volute da Dio, cioè l’ordine del creato. L’ordine del creato è una forma di giustizia, cioè la giustizia che Dio ha voluto: è una legge naturale, nel senso che è l’ordine naturale voluto da Dio e che ha dato una certa direzione alle cose stesse del creato.
Quindi, AEQUITAS = GIUSTIZIA DI DIO – ordine del creato.
L’ordine delle cose deve anche corrispondere all’ordine delle cose che gli uomini danno a se stessi: se in alto c’è un Dio e, sotto, gli uomini fanno la sua volontà, così
in terra deve esserci un comando con gli altri uomini, in forma piramidale, che eseguono.
Come si può vedere, si tratta di un’equità molto diversa dalla nostra: l’aequitas è una delle fonti dell’ordinamento giuridico interno, ma per noi, però, è una fonte poco importante, perché di solito il giudice è vincolato all’osservanza formale della legge.
Qui stiamo parlando di qualcosa di assolutamente universale.
L’aequitas non è solo quella canonica. Non riguarda il giudice in quanto tale. Non riguarda la legge. E’ un qualche cosa che precede tutto questo: non c’è nessuna cosa giuridica, perché si percepisce nelle cose, quindi l’equità è presente nella vita di ognuno di noi (nel medioevo), perché segna l’ordine del mondo.
Si aggiunge poi: “la quale equità, quando discende da un atto di volontà, una volta ricevuta una certa forma, diventa giustizia” Irnerio qui ci spiega come l’equità diventa qualcosa di giuridico.
Come fa questa equità (pregiuridica – naturale – universale – divina) a diventare qualcosa di reale e di vincolante, cioè diventi giustizia? Questa equità deve discendere in un atto di volontà, il quale non può essere l’atto di volontà di un privato: questo atto di volontà deve essere la volontà di una persona autorevole.
L’unica persona autorevole che può fare diventare l’equità una norma è l’imperatore (l’unico che può fare la legge): è lui l’unico che può tramutare l’equità, come ordine universale, sostanziale, in una norma formale.
La norma formale è “forma accepta”: cioè, l’equità dall’ordine del creato scende in un atto di volontà, che è quello dell’imperatore (che ha la rivelazione e può dare forma), gli da forma attraverso un atto autoritativo di volontà (perché la norma imperiale è un atto autoritativo di volontà) e in questo modo l’equità diventa giustizia, cioè diventa norma giuridica (si cala nella giustizia).
Dobbiamo distinguere:
- AEQUITAS RUDES (=rozza) = quella che possiamo sapere tutti quanti, cioè l’equità senza forma. Questa forma può diventare
- AEQUITAS BURSALIS = l’equità che si tira fuori dalle tasche per convenienza: quando l’aequitas non è scritta, si presta ad interpretazioni di opportunità o di convenienza (a volte persino di frode). Perché diventi giustizia occorre l’imperatore col suo atto di volontà, che dia una forma alla norma equitativa e si parla, in questo caso, di
- AEQUITAS CONSTITUTA = giustizia = costituita in una norma.
In altre parole, la norma deve racchiudere l’aequitas.
La norma è vera e giusta perché è equa, non perché la fa l’imperatore in quanto tale: l’imperatore è l’unico abilitato a darle forma, ma nient’altro.
Quindi, la norma è razionale, perché racchiude la RATIO: per l’uomo razionale, la ratio corrisponde alla natura e la natura è quella che crea Dio. Qui, l’equità e la ratio si identificano.
ESEMPIO: per S. Tommaso d’Aquino la razionalità è proprio questo: è l’accordo all’universo. Se compio un atto che si accorda con la legge universale, quello è razionale.
Mentre in una facoltà di giurisprudenza, la ratio è un’altra cosa: è la causa, ad esempio, di un negozio giuridico.
Una norma che non ha come causa l’aequitas divina, per l’uomo medievale, non ha fondamento.
Qui si apre un grosso problema.
Norma = aequitas – la norma sta in mezzo all’aequitas e alla giustizia, cioè deve essere il tratto d’unione e questo tratto d’unione è fatto dall’imperatore. Punto debole di tutto questo: ipotizziamo che l’imperatore si alzi una mattina e dica che se Tizio da una cosa a Caio, quest’ultimo deve dare in contraccambio una bastonata, e mette questo nel corpus iuris. Questo non può essergli negato da nessuno e, quindi, si avrà una norma iniqua. Ci sono qui due linee interpretative: una (di minore importanza) scritta in un trattatello (di Piacentino) “le questioni sulle sottigliezze del diritto”, il quale tratta il giurista come se fosse chissà che cosa, il quale ci vuole dire che il giurista, secondo lui, ha la possibilità di cancellare la norma iniqua. Ma questo vorrebbe dire che il giurista è titolare di un potere che va ben oltre l’imperatore.
Altri giuristi, invece, dicono come dice ANDREA D’ISERNIA, giurista del XIV sec., che insegna a Napoli, il quale dice: il giurista ha il dovere di segnalare la norma iniqua all’imperatore o al sovrano. E se l’imperatore, o il re, insiste per mantenere questa norma iniqua, allora Andrea D’Isernia risponde “TAMEN PECCAT” = il giurista non può fare niente, tuttavia l’imperatore commetterà un peccato e andrà all’inferno.
In altre parole, il giurista non può prendere una posizione autonoma: egli non può fare altro che segnalare il problema al sovrano, al legislatore, e prendere eventualmente atto che quel sovrano o quell’imperatore ha commesso un peccato mortale, del quale risponderà davanti a Dio.
Questa è l’aequitas che ci tramandano i civili, cioè l’aequitas civilistica.
Dobbiamo vedere adesso l’AEQUITAS CANONICA e vediamo anche dei punti di grande diversità con l’aequitas civilistica.
Due esempi di aequitas canonica:
1. NUDA PACTA (=patti nudi) = quei patti che non sono vestiti da una forma prevista dalla legge romana (che all’inizio erano soprattutto le leggi delle XII Tavole). Colui che risolve il problema è il pretore: il pretore è il giudice, o il magistrato, che fa quest’opera (editto perpetuo). Se c’è un nudo patto e non c’è una tutela formalistica, il pretore concede all’attore un’ACTIO UTILIS, un’azione utile, pratica, perché l’attore raggiunga il suo scopo. Questo è il rimedio pretorile per tutelare i nuda pacta. Per i canonisti non c’è problema: se c’è un nudo patto e non si trova nella compilazione giustinianea, o da nessuna parte, una norma che tutela un patto formalizzato in un modo che non abbia, quindi, una causa tutelata dall’ordinamento, siccome il patto presuppone una promessa, la promessa va mantenuta, sennò si commette peccato e si viene puniti da Dio. Quindi, tutte le promesse vanno mantenute: qualsiasi patto, qualunque forma abbia, a meno che non sia un patto che abbia un oggetto illecito, il fatto che sia stata fatta una promessa, quella promessa è già una ragione sufficiente per rispettare il nudo patto. Quindi, l’AEQUITAS CANONICA VUOLE CHE I NUDI PATTI SI OSSERVINO SEMPRE E COMUNQUE.
2. EXETER (cittadina inglese) = La chiesa ha sempre avuto problemi di moralità, o meglio, diventano problemi di moralità, perché alcuni ecclesiastici approfittano di alcune situazioni. Il vescovo di Exeter scrive a Roma al papa Alessandro III (il quale risponderà con una epistola decretalis), per un problema riguardante i suoi sub-diaconi i quali convivono: però alcuni convivono in forme discrete, altri invece folleggiano come pazzi (sub-diaconi crapuloni). E questo rappresenta un grave problema di discredito per la chiesa di Exeter. La risposta di Alessandro III è un caso di aequitas canonica che ci lascia molto perplessi. Alessandro III dice che, certamente, questa è una situazione peccaminosa che va estirpata, però bisogna stare molto attenti: poiché i sub-diaconi discreti sono stati discreti e, quindi, manifestano una capacità maggiore di essere puniti, loro vanno puniti più duramente, perché attraverso la punizione loro potranno capire il loro errore e sicuramente non faranno più altri peccati; bisogna stare attenti ai sub-diaconi crapuloni, perché se saranno puniti duramente, questi reagiranno, usciranno dalla chiesa e faranno ancora peggio e non si gestiranno più. Quindi nel caso di quei crapuloni si usa la DISSIMULATIO, cioè si deve far finta di niente, bisogna prenderli con le buone, per evitare di averli nemici e di creare materia di scandalo, che per la chiesa si creerebbe un discredito, un cattivo esempio per i fratelli, con reazioni a catena imprevedibili.
DIRITTO CANONICO:
Sembra che a Bologna, negli stessi anni in cui insegnava Irnerio, ci fosse anche uno studente di nome Graziano, nato a Camaldoli, che si formò, poi, nel monastero di Classe (in periferia di Ravenna).
Irnerio muore intorno al 1125.
Nel 1140, quindici anni dopo la morte di Irnerio, Graziano scrive un’opera – CONCORDIA DISCORDANTIUM CANONUM (=la concordia dei canoni discordanti), nota come DECRETUM (di Graziano).
Si tratta di un’opera monumentale, divisa in tre parti.
Graziano utilizza un criterio ed una metodologia completamente nuova, che ci dice che si è aperto il basso medioevo (il nuovo medioevo). Egli fa una sorta di “mosaico” del materiale giuridico pontificio esistente, ma per fare questo Graziano usa un metodo nuovo, cioè usa 4 criteri, che lui chiama RATIONES:
1. RATIO TEMPORIS – (che applichiamo anche adesso) = la legge posteriore deroga la legge anteriore.
2. RATIO LOCI = una decretalis pontificia fatta in Normandia e una decretalis pontificia fatta in Sicilia non si può pensare che abbiano lo stesso contenuto: se non coincidono è perché una ha efficacia in Normandia e l’altra ha efficacia in Sicilia.
3. RATIO SIGNIFICATIONES = due norme contrastanti in realtà non sono contrastanti: basta guardare al significato di tutte le parole e il contrasto non c’è. Attraverso il vocabolario ricaviamo il significato e, a volte, si possono sciogliere delle apparenti discordanze.
4. RATIO DISPENSATIONES = due norme apparentemente contrastanti non sono contrastanti, perché hanno un legame logico, uno di regola ed uno di eccezione: quindi, non sono contrastanti, ma sono in funzione subordinata.
Per la prima volta Graziano, un monaco, usa criteri da giurista che useremmo anche noi, oggi, ma li usa in una compilazione di brani canonistici, che spesso non sono giuridici, ma a volte sono solo religiosi, e gli da una valenza religiosa.
Rispetto a Burcardo di Worms il risultato di tutto questo si capisce meglio ricordando i libri penitenziali: se compio un omicidio, compio un peccato; se penso di commettere un omicidio, per S. Colombaro è un peccato, ma per il diritto non è un reato. E questa è la differenza che fa Graziano: lui distingue, grazie alla sua mentalità giuridica, i peccati dagli atti giuridicamente rilevanti. Questo non vuole dire che lui i peccati non li considera gravi e non li voglia punire, ma attraverso questa operazione (critica logica da giurista) distingue, per la prima volta:
TEOLOGIA DIRITTO CANONICO
Si deve occupare di tutte Si occupa solo degli atti
le azioni umane e di tutti giuridicamente rilevanti.
i pensieri umani: non fa
differenza se sono
giuridicamente rilevanti
o meno.
Con Graziano nasce il diritto canonico, proprio perché usa criteri giuridici a materiale canonistici: è il primo ad utilizzare criteri giuridici.
Graziano non distingue il diritto canonico dal diritto civile: DISTINGUE LA TEOLOGIA DAL DIRITTO CANONICO, cioè è una distinzione interna al mondo della chiesa.
Graziano è un monaco e con lui succede un fenomeno straordinario.
Graziano fa una compilazione privata, che ha un successo straordinario: la si glossa, la si studia quasi come se fosse una compilazione giustinianea.
I pontefici cominciano a capire che devono offrire anche loro un materiale simile a quello giustinianeo.
Dopo Graziano:
- GREGORIO IX – LIBER EXTRA (o LIBER DECRETALIUM, cioè il libro delle decretali – 1234) = contiene tutto ciò che sta fuori il decreto di Graziano, organizzato in cinque libri.
- BONIFACIO VIII – LIBER SEXTUS (1298) = è come se fosse il sesto libro, rispetto ai cinque libri. E’ interessante notare che questo libro non ha il libro IV: è sempre diviso in cinque libri, ma il libro IV non c’è.
- CLEMENTE V – CLEMENTINAE (1327) che però non riesce a pubblicare in vita, allora la pubblica GIOVANNI XXII, suo successore, il quale, a sua volta, aveva fatto altre norme, le EXTRAVAGANTES.
Tutto ciò forma la compilazione canonistici.
Nel 1500 un editore francese, JEAN CHAPPUIS, prende il decretum di Graziano, il liber extra, il liber sextus, le clementinae e tutte le extravagantes, e tutto questo diventa il CORPUS IURIS CANONICI, anche questo diviso in cinque libri.
Quando si parla di “utrunque ius” (=tutti e due i diritti), si intendono i principi tratti dal diritto civile e dal diritto canonico.
Però, questa espressione, in questo modo, vuole dire soltanto l’uno e l’altro diritto, ma assume un significato più pregnante se lo consideriamo sotto due punti di vista:
1. all’inizio ha prestigio soprattutto la laurea in diritto civile, che di regola non è formalizzata ma dura per circa 8 anni, mentre in 6 anni la laurea di diritto canonico (ma all’inizio il diritto canonico è visto come una scelta di prestigio interiore e i civilisti lo vedono con un certo distacco);
2. successivamente nelle facoltà di giurisprudenza si studia sia il diritto civile che il diritto canonico, per cui, alla fine, si prende l’addottoramento in DOCTOR IN UTROQUE IURE, cioè chi si laurea, si laurea in entrambi i diritti.
Tutto questo è importante sotto un altro punto di vista: nel bagaglio culturale conoscitivo dei giuristi medievali dell’età moderna fa sì che tutte le costruzioni logiche dei principi siano tratte dall’utrunque ius.
Quindi, l’utrunque ius è importante perché indica, da un certo momento in poi, il corso normale degli studi dei doctores, che è appunto un bagaglio di formazione ampio e il più completo che ci sia.
GLOSSA = esegesi puntuale applicata alle singole parole della legge.
Nella prima metà del 1200 emergono due grandi giuristi (sempre a Bologna): ACCURSIO e ODOFREDO.
Perché li ricordiamo entrambi e insieme? Perché una leggenda ci racconta un fatto: le glosse erano aumentate a dismisura. Accursio e Odofredo erano rivali: tenevano due scuole differenti. Si dice che ad un certo punto Accursio finge di stare poco bene e si chiude in casa per un certo periodo di tempo. Successivamente Accursio esce di casa con la sua opera che, in effetti, lo tramanderà nei secoli successivi: la cosiddetta MAGNA GLOSSA (o GLOSSA ACCURSIANA).
Siamo nella prima metà del 1200: Accursio e Odofredo avevano entrambi il problema di selezionare, in qualche modo, tutte le glosse che si erano venute a creare, che erano troppe e in qualche modo andavano selezionate.
Provvidero ad eliminare questi inconvenienti utilizzando i loro metodi, profondamente differenti:
• ACCURSIO usa il metodo dell’ APPARATUS: per “apparatus” intendeva un insieme di glosse preparate per quella determinata parte del corpus iuris (=insieme di glosse omogenee in una parte del corpus iuris).
• ODOFREDO usa il metodo della LETTURA = (leggere e spiegare il testo giustinianeo, spiegazione che poi rimane nella glossa).
Vediamo tutto questo attraverso un disegno:

ACCURSIO ODOFREDO
Apparato di glosse alla Per praticità, scompare il
compilazione giustinianea testo giustinianeo e ci
che sta all’interno: le glosse sono tutte le glosse copiate
contornano il testo su due colonne. Queste due
giustinianeo, il quale resta colonne non sono altro che
sempre presente al centro. la LETTURA al corpus iuris.

Sono due modi per risolvere la congestione di glosse sul testo.
In questa “guerra” di rivalità vincerà Accursio, tant’è vero che da questo momento in poi la Magna Glossa diventerà il testo ufficiale degli studenti che si porteranno nelle aule universitarie, non solo il corpus iuris, ma attorno la glossa accursiana: i docenti spiegheranno non solo il corpus iuris, ma anche la glossa accursiana, che è diventata talmente importante da essere considerata come parte integrante del testo giustinianeo.
Notiamo poi anche una differenza: Accursio rimane sempre su principi generali e astratti, non fa esempi pratici, ma questo forse è il motivo per cui ha avuto successo, perché questa sua generalità e astrattezza lo rende più idoneo ad integrarsi con l’astrattezza della norma giustinianea; Odofredo, invece, fa molti esempi tratti dalla vita pratica, cioè cerca un collegamento con la realtà.
In questa panoramica sono venute fuori delle parole nuove:
• APPARATUS = insieme di glosse dove la centralità della compilazione giustinianea rimane sempre presente.
• LETTURA = non è altro che leggere il testo giustinianeo, quindi è un termine molto generico, però con un’accezione più stretta vuole dire un sistema di approccio al testo, che è quello odofrediano, che è incentrato soprattutto sulla spiegazione del maestro.
Facciamo ora una rapida panoramica di altri strumenti che usano i giuristi per spiegare il testo:
• SUMMA = concentrato di spiegazioni: anche questa non ha la compilazione giustinianea in mezzo, è su due colonne ed è un concentrato di alcune parti del corpus, di regola si tratta del codice: infatti, si parla della “summa codicis” = sono dei piccoli manuali concentrati, che riportano una sintesi di quanto contenuto nel codice.
• BROCARDA = parole mnemoniche che servono al giurista per enucleare alcuni principi: ad esempio, “la legge posteriore deroga la legge anteriore” = servono al giurista per le sue argomentazioni.
• RACCOLTE DI DISTINCTIONES = Modo di ragionare: quando si fa un certo ragionamento giuridico si usa l’aut aut (che vuole dire o, o). Esempio: per interpretare una norma di Giustiniano ci sono due ipotesi, o l’attore si presenta prima o si presenta dopo: se si presenta prima, o da la cauzione, o non la da……. = si forma una specie di albero, dove con tanti “aut” la fattispecie unica e complessa viene smembrata in tante ipotesi più semplici e più adattabili alla realtà = sono appunto le “distinctiones” consistenti nell’aut aut.
Di particolare importanza dobbiamo vedere:
• QUESTIO = molto simile all’aut aut (ma questo mette le cose su un piano uguale), questa è la forma del “sic e non”: presa una domanda, per la soluzione positiva ci sono una serie di argomentazioni favorevoli; per la soluzione negativa ci sono una serie di argomentazioni negative; alla fine c’è una soluzione di questi due poli contrastanti. Questo modo di ragionare lo ereditano i giuristi, ma diventa interessante, perché diventa un modo di lavorare tra docente e studenti all’università, attraverso le QUAESTIONES PUBLICES DISPUTATE: i docenti erano obbligati a fare, nel corso dell’anno, delle questioni pubbliche con gli studenti, perché bisognava leggere il corpus iuris e gli statuti universitari obbligavano il docente a rispettare il programma: ogni giorno bisognava affrontare un argomento, così non c’era lo spazio per dibattere. Allora, a parte, quando non c’era lezione (es.: al pomeriggio o al sabato) il maestro comunicava in anticipo il problema, un QUID IURIS, e gli studenti si preparavano: studiavano il testo giustinianeo e si dividevano in due categorie, quelli per le argomentazioni “pro” e quelli per le argomentazioni “contra”. Ogni opinione, per entrambe le due categorie, andava suffragata con le norme del corpus iuris. Quindi, si venivano a creare delle opinioni “pro” e delle opinioni “contra” e alla fine il maestro dava la “solutio”, che poteva essere per i pro, o per i contra, o poteva trovare una diversa soluzione. Dopo la lectura, la questio è la cosa più importante che si fa all’università, perché specialmente con la magna glossa accursiana c’è poco spazio per la realtà esterna: il corpus iuris viene da molto lontano, 600 anni prima, e non c’è posto per una soluzione che faccia presente la realtà specifica della vita quotidiana e, soprattutto, degli statuti. Attraverso lo strumento della questio i giuristi fanno entrare la realtà di tutti i giorni nella compilazione giustinianea. (Esempio: QUAESTIONES DE FACTO – queste hanno per presupposto un problema giuridico, riguardante non un fatto della compilazione giustinianea, ma un fatto della vita: quindi, si parte dal presupposto che nella compilazione giustinianea manchi la fattispecie specifica, cioè che ci sia una lacuna dell’ordinamento. I giuristi medievali, però, non accettano che ci sia una lacuna nella compilazione giustinianea, perché la compilazione giustinianea è un sistema perfetto. Con il sistema dell’apparatus e della lettura non se ne viene a capo. Allora c’è la questio, la quale parte da un presupposto: siccome la questione, quello che si dibatte, può avere varie opinioni, oggetto di queste opinioni non può essere la compilazione giustinianea: se si fa una questio su una norma del corpus iuris, vuole dire che si può avere un’opinione favorevole ed un’opinione contraria, e questo non è possibile, perché il corpus iuris corrisponde alla verità e la verità è una: la verità può essere oscura, ma per i limiti dell’uomo, quindi, non si può dibattere sulla verità. Al limite, di una norma si può fare un CASUS = spiegazione della fattispecie prevista dalla norma giuridica. Quindi, le quaestiones de facto hanno per oggetto un fatto della vita quotidiana). Ancora più importanti le QUAESTIONES STATUTORUM = hanno per oggetto uno statuto: lo statuto non è compilazione giustinianea, quindi se ne può discutere, con il sì o con il no, utilizzando la compilazione giustinianea. Questo è un altro bel modo in cui la compilazione giustinianea, per la prima volta, incontra gli statuti, perché finora le due entità erano rimaste molto separate: la compilazione giustinianea è di pertinenza dell’imperatore ed è una norma universale; dall’altra parte gli statuti sono una cosa particolare, ma attraverso la questio i fatti della vita e gli statuti vengono, a tratti, nella compilazione giustinianea. Infine, ci sono le QUAESTIONES FEUDORUM, che hanno per oggetto le consuetudini feudali: ad un certo punto le consuetudini feudali vengono messe per iscritto e vengono inserite nella compilazione giustinianea (anche se è un’operazione assurda, questa operazione avviene perché un giudice milanese mandò suo figlio a studiare a Bologna e si stupì del fatto che suo figlio non dovesse studiare il diritto feudale e scrisse una lettera nella quale metteva tutti i principi di diritto feudale che, secondo lui, dovevano essere studiati: quelle prime lettere non sono altro che la redazione rozza dei principi di diritto feudale – REDAZIONE OBERTINA. Ci sono poi altri giuristi che decidono di fare questo). Nel 1200, proprio negli anni in cui Accursio fa la sua magna glossa, questi giuristi mettono per iscritto le consuetudini feudali e, con la scusa che gli imperatori avevano fatto qualche constitutio imperiale, dicono che in fin dei conti il diritto feudale è imperiale, quindi pensano di inserirlo nella compilazione giustinianea: fanno questo perché sanno che il diritto feudale è una cosa molto importante e non vogliono rimanere fuori dalla possibilità di gestire, di spiegare e di farsi interpreti di questa parte importante del diritto vigente, come non vogliono rimanere fuori dai fatti della vita e dagli statuti. E lo fanno attraverso lo strumento della questio.
• REPETITIO (=ripetizione) = In aula non si riesce a fare tutto, non si riesce a dibattere (e per questo c’è la questio), non si riesce ad approfondire alcuni istituti, perché si è troppo impegnati a leggere le norme. Allora si approfondisce con la repetitio: almeno una volta l’anno i docenti erano obbligati a fare una repetitio = si parla, in questo caso, di REPETITIO NECESSARIA. Ci sono poi le REPETITIO VOLONTARIE, che sono quelle che il docente fa a piacere. La repetitio non è altro che un trattato monografico: partendo da una norma giustinianea, si approfondisce e, sempre utilizzando altre norme giustinianee, mettendole in combinazione, o facendo argomentazioni valide, si approfondisce. In qualche modo, è un piccolo trattato monografico, riguardante un istituto tratto dalla compilazione giustinianea. Si chiama repetitio, ma non si chiama trattato, perché il trattato per i medievali è un’altra cosa.
I COMMENTATORI:
Glossatori e Commentatori hanno stili molto diversi, però tra queste due scuole non c’è frattura, ma c’è continuità.
Tra gli elementi di continuità che possiamo vedere…... Già gli stessi glossatori avevano capito che la glossa era uno strumento limitato, perché era uno strumento letterale: questo spiega perché i glossatori usavano le summae (=grandi sintesi del codice che servono ad uscire fuori dalla ristrettezza della glossa). La glossa è una cosa molto utile, perché spiega parola per parola, ma manca quella visione sintetica generale, visione che da, invece, la summa, pur partendo dalla glossa. Quindi, possiamo dire che già gli stessi glossatori avevano una sensazione di insoddisfazione nei confronti della glossa.
Inoltre, la magna glossa non si afferma in tutte le università: oltre Bologna, la magna glossa fa fatica ad arrivare, e questo soprattutto perché Accursio nelle sue glosse ha eliminato quasi tutti i casi pratici: invece, nelle università minori si trova un larghissimo uso di fatti della vita, e c’è anche la “lectura” di Odofredo, la quale è piena di casi pratici.
Queste sono tutte insoddisfazioni dei glossatori nei confronti della glossa, così vediamo che, progressivamente, si afferma un’esigenza diversa e, per esempio, Martino da Fano o Alberto Gandino, i post-glossatori, sono giuristi che vengono subito dopo Accursio e che sono legati alla pratica.
Tutte queste esigenze (insoddisfazione nei confronti della glossa, adesione alla pratica, ecc.) fa sì che si affermi l’esigenza di superare un’esegesi meramente letterale, per arrivare a qualcosa di “logico/sintetico”.
Adesso c’è bisogno di una comprensione più sintetica e più ampia, che la glossa non può più dare: questo lo può dare il COMMENTO = spiegazione logico/sintetica (non esegetico/letterale).
La glossa è attaccata alla parola, cioè spiega le singole parole del corpus iuris civilis, quindi la sua spiegazione non può che essere grammaticale.
Il commento è qualcosa di più: si riferisce alla singola legge. Quindi, io posso glossare una parola del testo, ma se è un commento, commento una legge intera.
Però, IL COMMENTO non spiega più il significato della legge, ma SPIEGA LA RATIO, cioè il senso profondo della norma.
COMMENTO GLOSSA
LEX LITERA
RATIO SIGNIFICATO
= Il commento si riferisce alla legge per scoprirne la ratio, mentre la glossa si riferisce alla litera per scoprirne il significato.
Quindi, già graficamente non si trova più lo schema a cornice, ma si trova lo schema della lettura di Odofredo: il giurista dice solo quali sono le parole della legge che vuole commentare, poi ad un certo punto inizia a fare il commento.
Si trovano solo le due colonne del testo del giurista.
L’oggetto dell’analisi è sempre la compilazione giustinianea, ma gli strumenti utilizzati sono diversi. Strumento molto diverso, ma che nasce nella “culla” della glossa.
In pratica il commento si presenta così:

GIURISTI PIU’ IMPORTANTI DI QUESTA SCUOLA…… Il primo fondatore che ricordiamo è CINO DA PISTOIA, (che oltre che essere giurista è stato anche un grande poeta nella generazione precedente a Dante Alighieri), il quale scrive una LETTURA SUPER CODICE (intorno al 1312).
Altri grandi commentatori sono: BARTOLO DA SASSOFERRATO e BALDO DEGLI UBALDI.
La glossa si afferma intorno al 1240: dopo circa 50 anni si arriva al commento come forma esegetica.
STRUMENTI USATI DA QUESTI GIURISTI:
In questi anni (1200) in Europa si scopre il cosiddetto ARISTOTELE MAGGIORE: questi portava in vita uno strumento, che già era conosciuto dai giuristi, ma Aristotele utilizzava al massimo, cioè la DIALETTICA.
“… de similibus ad simila” = da fattispecie simili ne traiamo conseguenze simili, oppure “ubi est ladem ratio, ibi idem ius” = dove vi è la stessa ratio, lì c’è lo stesso diritto = PRINCIPIO MADRE DELL’ANALOGIA E DELL’APPLICAZIONE ESTENSIVA DELLE NORME: se troviamo una norma, non pensiamo solo alla fattispecie concreta, ma individuiamo anche la ratio; individuando la ratio, la sua forza rispetto alla fattispecie concreta è che la ratio si può estendere a casi simili.
ESEMPIO: Jacques de Rèvigny – “se la moglie muore, il marito deve seppellirla anche se non ha dote, quindi a maggior ragione la deve mantenere quando è in vita” = questo è stato possibile usando il sistema della ratio: hanno individuato la ratio nella norma (quella norma dice che il marito deve qualche cosa alla moglie), quindi quella ratio si può estendere a fattispecie simili, con l’argomentazione “… a maggior ragione….”.
Quindi, vediamo che usare la ratio è una cosa ben diversa dal significato, perché il significato lo posso usare in un’altra norma, però quando c’è la stessa parola.
La ratio, invece, ha tratto qualcosa che possiamo utilizzare sempre, perché individuando la ratio nella norma, con la ratio posso spiegare tante altre fattispecie che non sono previste dalla norma.
Questo è importante soprattutto per gli IURA PROPRIA, cioè i diritti particolari (non il diritto imperiale, che è UNUM IUS, cioè è diritto universale), che sono gli statuti delle varie città (Modena, Bologna, ecc.), le consuetudini germaniche, ecc. Iura propria può essere solo al plurale, perché non può mai esserci un ius proprio (mentre ius comune sempre al singolare, perché lo ius comune è solo uno, quello dell’imperatore).
Grazie alla ratio, estrapolandola dal testo giustinianeo, si possono spiegare e commentare anche gli iura propria, perché, ad esempio, tra la norma di Giustiniano e lo statuto di Bologna c’è incompatibilità, come norme: ma se dalla norma si prende la ratio, cioè il principio istituto, grazie a questo istituto si può spiegare anche una norma di diritto particolare non previsto da Giustiniano.
COME FUNZIONA IL COMMENTO: (SISTEMA DI CINO DA PISTOIA).
Il commento si applica alla legge:
1. DIVISIO LEGIS/EXPOSITIO = la legge va divisa per singole unità logiche, perché a volte la legge ha tante prescrizioni (divisio legis) e poi si fa la spiegazione sintetica della norma (expositio).
2. POSITIO CASUUM = dove si usano i casus: il casus è la spiegazione della fattispecie pratica prevista dalla norma. Quindi, “positio casus” = preparazione dei casi pratici.
3. COLLECTIO NOTABILIUM (NOTABILE) (raccolta delle cose notevoli) = il giurista enuclea i casi più importanti.
4. OPPOSTITIONES = problemi che potrebbero nascere, pareri contrastanti.
5. QUAESTIONES = fatti pratici: si prendono in ipotesi i fatti della vita, rispetto ai quali si può applicare la norma in questione.
Con questo sistema la norma viene smontata pezzo per pezzo, poi viene rimontata, vista sotto tutte le angolazioni, perché emerga la RATIO.
Grazie alla ratio, questa norma la si potrà applicare a tutte le fattispecie teoricamente prevedibili, anche al di fuori del corpus iuris.
E’ con il commento che si riesce a dare nuovo slancio alla compilazione giustinianea.
Attraverso il genere letterario del TRATTATO i giuristi post-accursiani sistemano con intenti soprattutto pratico-forensi alcuni importanti settori del diritto, che trovano, da questo momento una prima elaborazione organica ed autonoma.
Alcuni esempi li possiamo trovare in ROLANDINO DE’ PASSEGGERI (in materia notarile), autore della SUMMA ARTIS NOTARIAE e in GUGLIELMO DURANTE (in materia processuale).
Di particolare importanza è ALBERTO GANDINO, autore della famosa raccolta QUAESTIONES STATUTORUM e anche autore del primo trattato di diritto penale, cioè TRATACTUS DE MELEFICIIS (sui reati) e TRATACTUS DE TORMENTIIS (sulle torture).
Il trattato di Alberto Gandino è molto importante, perché lui è un giudice, quindi abbiamo una visione diversa del diritto penale dalla visione che avevano nell’alto medioevo: con Gandino si afferma l’idea che la giustizia deve essere esercitata in monopolio dai comuni, contro l’idea tipica dell’alto medioevo, cioè che siano le parti a farsi giustizia da sole.
ORLEANS:
Nel 1235 Gregorio IX (quello del liber extra) fonda a Orléans un’università.
Si ricorda perché il re francese aveva vietato a Parigi lo studio del diritto romano, perché era un diritto dell’imperatore e non voleva che l’imperatore accampasse pretese anche in Francia.
A Orléans la situazione è un po’ diversa e il papa riesce a fare un’università di diritto per ecclesiastici: infatti i giuristi più importanti sono tutti ecclesiastici e, due in particolare sono i più importanti:
- JACQUES DE REVIGNY
- PIERRE DE BELLEPERCHE
La caratteristica è che sono entrambi ecclesiastici e passano alla storia come giuristi dialettici (in realtà la dialettica la usano tutti, però loro usano un modo molto massiccio di fare dialettica).
ESEMPIO: “il mantenimento della moglie”. Se la moglie ha la dote, il diritto giustinianeo ammetteva il mantenimento della moglie: ma se la dote non c’era, o era insufficiente, la compilazione giustinianea non tutelava la moglie.
Questi giuristi, allora, prendono una norma che dispone che il marito è obbligato a seppellire la moglie, quando questa muoia, anche nel caso che non abbia dote, oppure la dote sia insufficiente.
Cioè, prendono una norma che c’è, anche se per un caso diverso e dicono: se il marito è obbligato a mantenere la moglie quando muore, a maggior ragione è obbligato a mantenerla quando questa è in vita.
In altre parole, vanno a dire a Giustiniano, con un ragionamento dialettico, quello che Giustiniano non ha mai detto, quindi colmano una lacuna dell’ordinamento attraverso l’uso della dialettica.
Questo della dialettica è uno strumento potentissimo che utilizzeranno tutte le generazioni successive.
CHE RAPPORTO HA IL DIRITTO ROMANO CON I SINGOLI DIRITTI PARTICOLARI, cioè CHE RAPPORTO HANNO I SINGOLI GIURISTI CON GLI ORDINAMENTI PARTICOLARI STESSI (con i comuni dell’Italia centro-settentrionale):
All’inizio esiste una sorta di estraneità reciproca tra i docenti e i comuni. Questo ha fatto dire ad alcuni che i giuristi del basso medioevo (Irnerio e successori) fossero dei sognatori completamente estranei alla realtà del loro tempo, ma è assolutamente falso e citiamo come prova Bulgaro (allievo di Irnerio) il quale a casa sua, non solo teneva scuola, ma ospitava spesso rappresentanti istituzionali del comune, nella sua casa si riunivano i riformatori dello statuto, cioè era un luogo importante nella Bologna dell’epoca, dove avvenivano riunioni anche politiche, oltre che scolastiche, di grande importanza.
Dal punto di vista di interesse reciproco, esiste comunque una sorta di parallelismo tra i docenti e i comuni: si disinteressano l’uno con l’altro, cioè c’è una forma di indifferenza.
In un secondo tempo, invece, assistiamo ai primi attriti tra i docenti e i comuni, che vediamo da quando cominciano ad esserci le prime emigrazioni dei docenti: cominciano ad esserci delle vere e proprie conflittualità e cominciano ad esserci dei veri e propri dissidi derivati, in qualche modo, dalla possibile utilizzazione del diritto romano nei confronti dello statuto. Lo statuto è la legislazione dei comuni e i comuni non vedono troppo bene il fatto che questi giuristi, attraverso il diritto romano, possano in qualche modo “mistificare” il contenuto dello statuto stesso.
Un altro modo di dialogare che hanno i giuristi con il comune, in particolare con il comune consolare, è quello del “consilium sapientis iudiciale”, cioè quel parere giuridico che i sapienti del diritto danno ai consoli di giustizia, che sono “ignoranti” del diritto romano: quindi, una forma di collaborazione dei giuristi nei rapporti con il comune.
I primi dissidi, però, nascono quando comincia a dialogare il diritto romano con il diritto statutario e il problema di base è che, secondo la logica dei giuristi di diritto romano, al di là di queste collaborazioni, i comuni, in quanto tali, non sono abilitati a fare legge, perché l’unica legge la può fare l’imperatore.
Già con Irnerio troviamo questo principio: “SOLUS IMPERATOR POTEST FACERE LEGES”, cioè SOLO L’IMPERATORE PUO’ FARE LE LEGGI.
Ora possiamo capire come mai da una prima fase di indifferenza si passa ad una fase di attrito: come facevano gli organi comunali ad accettare nelle loro mura una dottrina o una scuola di diritto dove si facevano affermazioni del genere, perché era lesiva dell’autonomia comunale. Inoltre, a questo punto cos’erano gli statuti?
Comunque, per i glossatori il diritto statutario non è legge, perché i comuni non possono fare legge: possono mettere per iscritto tutte le consuetudini, o possono fare tante altre cose, ma non possono fare leggi. E questo agli organi comunali pesava parecchio ed era fonte di dissidi e di incomprensioni.
Dopo Irnerio, ad esempio, con Cino, troviamo addirittura delle espressioni di profondo disprezzo nei confronti degli statutari: Cino definiva “asini” gli autori di statuti, perché diceva che gli autori di statuti non conoscono bene il diritto, non conoscono bene la terminologia, un giorno fanno uno statuto e il giorno dopo lo cambiano. Per questo, quindi, a volte i giuristi hanno manifestato anche delle posizioni di grande disprezzo nei confronti degli statuti.
D’altra parte, però, questo tipo di atteggiamento così rigido non va male anche ai comuni, ma va male anche ai giuristi, i quali se ne accorgeranno ben presto, perché in questo modo i giuristi rischiano di rimanere fuori dal mondo: insegnano il diritto romano universale, poi sanno che fuori c’è un altro diritto e di questo diritto non se ne occupano, anzi, questo diritto non lo definiscono neanche legge; cioè, rischiano di perdere tanti avvenimenti della realtà quotidiana. Fanno tanti tentativi per reagire: ad esempio, inseriscono nella compilazione giustinianea i “liber feudorum”, i quali diventano la decima collatio, dopo le 9 collationes delle novelle di Giustiniano: anche se i liber feudorum non c’entrano assolutamente nulla con Giustiniano, è lo stesso un loro tentativo di accaparrarsi la spiegazione, l’esegesi e il monopolio di un diritto importantissimo nel medioevo, come quello feudale.
Un altro fenomeno lo vediamo con gli statuti stessi: è vero che c’è questo atteggiamento di disprezzo, però ad un certo punto succede un fenomeno abbastanza strano.
• JACOPO BALDOVINI - Statuti di Genova del 1200
• RICCARDO MALOMBRA - Statuti di Venezia del 1300
• BALDO DEGLI UBALDI - Statuti di Pavia del 1300
• PAOLO DI CASTRO - Statuti di Firenze del 1400
E’ una cosa abbastanza strana: giuristi che, a partire dal 1200, diventano redattori di raccolte consuetudinarie che diventano statuti.
Al di là di questa collaborazione, laddove i giuristi non considerano legge gli statuti, oppure dove i giuristi manifestano disprezzo nei confronti degli statuti, i comuni reagiscono INSERENDO NELLO STATUTO IL DIVIETO DI INTERPRETARE LO STATUTO STESSO, perché, secondo loro, in questo modo mettevano in difficoltà i giuristi.
Questa è la situazione di fatto.
Vediamo adesso la situazione di diritto, cioè in che modo i giuristi si avvicinano piano piano a giustificare la capacità dei comuni di darsi delle leggi.
Uno dei primi giuristi che ci prova, uno degli allievi di Martino e di Bulgaro, è ALBERICO DI PORTA RAVENNATE il quale fa un’equazione: CONSUETUDINE = PACTA, di conseguenza SERVANDA SUNT = le consuetudini sono dei patti che la collettività stringe tre sé stessa: se è vero che le consuetudini sono uguali ai patti, di conseguenza sono vincolanti. Quindi, c’è una prima affermazione di obbligatorietà, non degli statuti, ma delle consuetudini.
Inoltre, abbiamo PILLIO DA MEDICINA dice la stessa cosa di Alberico, però fa un’altra equazione: STATUTA = PACTA. Si dice solo che gli statuti sono dei patti: quindi, l’autorevolezza dello statuto non viene dal comune, ma viene dal diritto privato: si elude il problema della potestà normativa dei comuni, e lo si fa rimanere nell’ambito del diritto privato.
Abbiamo poi anche AZZONE (maestro di Accursio): prende una constitutio dell’imperatore Costantino, dove si dice: “CONSUETUDO NON VILIS AUTORICTATIS EST” (=la consuetudine non è da disprezzare). Ma la cosa importante che fa Azione non è tanto prendere questa constitutio, ma estenderne il suo valore anche alle consuetudini contra legem: quindi, Azione ci ricorda la constitutio di Costantino, poi ci dice che questa constitutio può valere anche per le consuetudini contra legem, cioè anche le consuetudini che sono contrarie alla legge non sono di vile autorità, cioè bisogna.
Infine arriviamo ad ACCURSIO: ci sono solo alcuni passi dove lui cita, tra le fonti di diritto, anche gli statuti, però poi non spiega da nessuna parte qual è il fondamento legittimante di questa affermazione: quindi, recepisce tutte le istanze provenienti da Alberico, da Pillio e da Azione, però poi non dice niente di più.
A partire dal XIV secolo (1300) cominciano ad affermarsi le vere teorie legittimanti della potestà normativa dei comuni: già alla fine del 1200, primi del 1300, si dice che i comuni sono legittimati e hanno potestà normativa.
Qual è la fonte di legittimazione? PACE DI COSTANZA (1183): la pace di Costanza è una norma imperiale, è un patto tra l’imperatore e i comuni, con delle concessioni imperiali: infatti la pace di Costanza, come forma di costituzione imperiale, sarà inserita nelle novelle.
Però dobbiamo dire alcune cose: innanzitutto, la pace di Costanza è certamente un pretesto, perché se la pace di Costanza avesse veramente legittimato i comuni, i giuristi dal 1184 avrebbero cominciato a sfornare le loro teorie: invece, nel 1183 siamo in piena epoca dei glossatori, i quali, con la loro visione letterale, non si possono schiodare da quello che dice l’imperatore e l’imperatore romano dice che lui è il solo che può fare le norme, al limite, la consuetudine non è di vile autorità o, al limite, la consuetudine è un patto, ma niente di più.
La pace di Costanza, poi, non dice neanche che i comuni possono fare le leggi, prima cosa perché Federico Barbarossa non lo avrebbe mai pensato, ma anche perché, se lo avesse detto, non capiremmo i motivi di tanto imbarazzo dei glossatori.
Alberto Gandino dice: “Lombardi habent exspetiali privilegio concesso in pace Constantiae quod unaquaequae civitas possit sibi facere statuta” = I LOMBARDI (cioè l’Italia settentrionale) HANNO PER SPECIALE PRIVILEGIO CONCESSO NELLA PACE DI COSTANZA CHE CIASCUNA CITTA’ POSSA FARE A SE STESSA DEGLI STATUTI. Gandino affermava che le città centro-settentrionali avevano il potere di fare degli statuti grazie alla pace di Costanza.
Ma la pace di Costanza non dice niente a questo proposito: la pace di Costanza dice solo due cose a favore dei comuni, cioè autonomia fiscale (i comuni dell’Italia centro-settentrionale si possono dare autonomamente delle proprie tasse, al di là di quello che debbono all’imperatore); inoltre, i missi imperiali quando vengono mandati nelle città per dirimere alcune controversie in ultima istanza, possono giudicare secondo le leggi e le consuetudini della città.
Però 50 e 100 anni dopo l’atmosfera cambia, i giuristi hanno passato la fase della litera romanistica, cominciano a collaborare con le città, quindi sono pronti ad accettare la capacità normativa dei comuni: fanno questo appunto utilizzando la pace di Costanza come mero pretesto.
La teoria che parte dalla pace di Costanza è detta TEORIA DELLA PERMISSIO, perché si basa sull’idea che i comuni si possono dare gli statuti, perché c’è l’imperatore che glielo ha permesso (gli ha dato un privilegio).
Qual è lo svantaggio di questa teoria per i comuni? Con la permissio il comune è a posto, perché l’imperatore gli ha dato il permesso di fare lo statuto, però come l’imperatore gli ha dato il permesso, glielo può anche togliere e il comune si trova daccapo.
Questo problema è stato avvertito da molti giuristi, in particolare è stato avvertito da BARTOLO il quale ha inventato la teoria della IURISDICTIO: bisogna evitare che l’imperatore, di punto in bianco, tolga la permissio, quindi bisogna ancorare la potestà normativa a qualcosa di stabile. Questo si fa con un modello piramidale e si dice: la massima iurisdictio nel mondo l’ha l’imperatore, ma il fatto che l’abbia lui, non significa che gli altri non l’abbiano. L’imperatore ha la massima iurisdictio per tutto il mondo, però a livelli inferiori possono averla anche altre autorità, per esempio, il rex, il comune, persino il pater familias: il rex ha la iurisdictio nell’ambito dei confini del suo regno, il comune l’ha all’interno delle mura o del distretto urbano, il pater familias l’ha all’interno del suo fondo agricolo e della sua famiglia. Quindi, la iurisdictio non è altro che un modello che si può adattare a scale inferiori, come delle scatole cinesi: la iurisdictio è la stessa, cambia solo l’ambito di applicazione.
Qual è il vantaggio di questa teoria? Per togliere la potestà normativa al comune bisogna ammettere che cada l’imperatore, perché la iurisdictio l’ha l’imperatore, e questo non è possibile. L’imperatore non può togliere la iurisdictio, semplicemente perché la iurisdictio è la sua, anche se lui l’ha più grande e gli altri l’hanno più piccola, ma non si può negare che anche gli altri l’abbiano, anche se in ambiti territoriali e contenutistici molto più piccoli.
L’ultima teoria è quella di BALDO: “Omnes populi sunt de iure gentium” = TUTTI I POPOLI SONO REGOLATI DAL DIRITTO DELLE GENTI. Tutti i popoli, come se fossero degli organismi animati, cioè delle persone, hanno bisogno di un’anima che si chiama REGIMEN: questo regimen non può essere regolato se non dal diritto delle genti.
Baldo dice che non c’è bisogno neanche dell’imperatore come modello, perché tutti i popoli hanno diritto ad autoregolarsi in virtù del diritto delle genti, quindi salta addirittura il modello imperiale.
CONCLUDENDO……
Bartolo afferma la iurisdictio nel 1343 a Perugia, la città dove insegnerà per tutta la vita. Perugia è un comune popolare, cioè governato dalle corporazioni e Bartolo fa parte della corporazione più importante, che è quella dei giuristi.
Per cui capiamo come Bartolo, nella sua Perugia, si è interessato ad affermare una teoria che sganci il suo comune dai problemi della permissio.
Nel 1355 il maestro di Bartolo, RANIERI ANSENDI si trova a Padova, dove si è affermata la signoria e c’è la famiglia dei Carraresi. Così Ranieri Assendi sconfessa l’allievo e riprende la teoria della permissio.
Bartolo è in un comune popolare e quindi deve affermare una teoria che dia autonomia al suo comune.
Ranieri Assendi si trova sotto la signoria, la quale è interessata che la potestà normativa dei comuni venga limitata e, siccome i signori Carraresi sono legittimati dall’imperatore, ci tengono a che il comune possa legiferare solo dietro ad un’esplicita permissio imperiale.
La stessa cosa è fatta da Baldo: dopo la sua affermazione egli va ad insegnare a Pavia, che è sotto i Visconti del ducato di Milano, quindi Baldo è nella stessa condizione di Ranieri Assendi. Perciò si dimentica della sua teoria e troviamo delle altre opere dove afferma la teoria della permissivo.
In altre parole, DOVE C’E’ LA SIGNORIA I GIURISTI TENDONO AD AFFERMARE LA TEORIA DELLA PERMISSIO per tenere limitato il potere comunale.
RAPPORTO TRA L’UNIVERSALITA’ DEL DIRITTO COMUNE (diritto universale) E I DIRITTI PARTICOLARI (iura propria):
Abbiamo visto come i giuristi dell’Italia centro-settentrionale arrivano, con molta fatica, a giustificare la potestà normativa degli ordinamenti particolari.
Com’è possibile che i comuni si possano dare delle norme se le norme le può fare solo l’imperatore? I glossatori all’inizio fanno un po’ di fatica, pensando ai pacta o alla consuetudo costantiniana, poi dalla teoria della permissio in avanti c’è un vero e proprio sistema di idee che giustifica questa potestà normativa.
Lo stesso problema lo abbiamo anche la sud, dove c’è un grande elemento differenziatore rispetto al nord, che è il regnum, in particolare i regni di due grandi sovrani (Ruggero II fondatore del regno di Sicilia e Federico II, il più grande sovrano svevo che è stato anche imperatore).
Al nord il problema si pone soprattutto per quello che riguarda gli statuti, perché gli statuti sono quelle norme che vengono prodotte dagli ordinamenti comunali.
Al sud, dove non ci sono gli statuti, ci sono solo delle consuetudini locali, le quali, al limite, vengono approvate dal sovrano. Quindi, la vera importanza al sud è delle LEGGI REGIE, cioè le ASSISE di Ariano, promulgate nel 1140 da Ruggero II e, nel 1231 il LIBER COSTITUTIONUM (raccolta organica di leggi regie fatta da Federico II).
Le leggi regie di Ruggero II e di Federico II sono norme universali o norme particolari? Sono norme particolari, perché il regnum anche se è un territorio più grande del comune, però concettualmente, rispetto all’impero, è la stessa cosa, perché è particolare rispetto all’impero: il diritto universale è solo quello imperiale pontificio. LA LEGGE DEL REGNO E’ UNO IUS PROPRIUM, TRA I TANTI IURA PROPRIA che in quel momento sono presenti in Italia e in Europa.
Dal punto di vista della scienza giuridica del tempo il diritto universale è sempre uno: il diritto comune (o utrunque ius).
Quindi, concettualmente come risolvevano il problema?
Al nord si creano gli studia e il primo studium è quello di Irnerio (1100). Negli anni in cui muore Irnerio, Ruggero II diventa re di Sicilia.
In questo periodo al sud non si studia il diritto come al nord, perché la prima università meridionale è quella del 1224 a Napoli, fondata da Federico II.
Tra il 1130 e il 1224 però ci sono dei funzionari, come sempre, che hanno un po’ di cultura giuridica e aiutano il sovrano nella sua attività legislativa. Comunque, in questi anni ci sono dei personaggi importanti che sono dei giuristi, che vediamo però in veste di giudici, o in veste di collaboratori del re, ecc. = in altre parole, sono quel gruppo di funzionari che aiutano il re ad esprimere la sua volontà legislativa.
A livello locale, vediamo un esempio molto importante che è BARI: attorno al 1200 vi è la redazione per iscritto delle consuetudini, fatta da privati, in particolare due giudici baresi ANDREA, il quale mette per iscritto le consuetudini di matrice latina, e SPARANO, il quale mette per iscritto le consuetudini longobarde (sempre in latino).
Quindi, anche se nel sud l’università è stata fondata nel 1224, non vuole assolutamente dire che nel sud non ci siano scuole giuridiche, perché la produzione di norme giuridiche ci fa pensare che ci siano dei funzionari ben istruiti: inoltre, guardando poi le norme normanne e sveve, vediamo che sono spesso intrise di diritto romano, il che vuol dire che bene o male il diritto romano lo conoscevano.
La conoscenza del diritto romano è presente nel meridione d’Italia, anche se non ufficialmente, cioè non abbiano tracce sensibili.
Abbiamo anche visto come ha funzionato la dominazione normanna…… I normanni arrivano al sud, conquistano, poi quando fanno il regno cercano di farsi la loro legittimazione, chiedendola al papa, poi un po’ litigano con la chiesa, ma poi si mettono d’accordo. Un accordo importante è con le città, le quali avevano la loro autonomia e bisognava riconoscergliela: questo tipo di accordo è detto CARTE DI RESA, cioè una carta con la quale le città si arrendono al sovrano e il sovrano promette di rispettare le istituzioni locali, le leggi locali (in particolare, le consuetudini), i commerci locali, ecc. E’ dubbio se i re, poi, mantengono queste promesse, però LA CARTA DI RESA E’ UN ACCORDO DIPLOMATICO CON CUI LE CITTA’ E IL RE COMINCIANO A STABILIRE I LORO RAPPORTI.
(re = garante delle libertà altrui: non sono i sovrani assoluti).
Questo si trova espresso anche nelle Assise di Ariano del 1140, dove si afferma il programma di tutela delle libertà:
“reformare … iustitie simul et pietatis itinera, ubi videmus eam et mirabiliter esse distortam”… = Vogliamo riformare i percorsi, simultaneamente, della giustizia e della pietà, dove vediamo che pietà e giustizia sono state straordinariamente distorte: il re vede che ci sono delle cose che non vanno bene, allora dice che il suo compito è di eliminare il distorcimento della giustizia e della pietà.
Ma questi sono solo i principi: la carta di resa dice che bisogna rispettare le città, nel 1140 il re vuole riformare la giustizia e la pietà.
Cosa succede, però, se confliggono il diritto regio con le consuetudini? Questo è già un primo problema, ed è soprattutto un problema all’interno degli iura propria: il conflitto tra una legge regia ed una consuetudine è un conflitto tra due iura propria, anche se il diritto regio è più ampio. Ovviamente il sovrano risolve il problema dando la prevalenza al diritto regio, però non può cancellare le consuetudini e vediamo:
“Leges a nostra maiestate noviter promulgates… generaliter ab omnibus precipimus observari, moribus, consuetudinibus, legibus non cassatis pro varietate populorum nostro regno subiectorum, sicut usque nunc apud eos optinuit, nisi forte nostris his sanctionibus adversari quid in eis manifestissime videatur” = comandiamo che siano osservate le leggi promulgate da poco dalla nostra maestà, da tutti in generale, insieme alle consuetudini stesse, leggi pregresse degli ordinamenti pregressi, sempre che non siano state cassate, secondo la varietà dei tanti popoli a noi soggetti, che fino ad adesso sono state ottenute, a meno che, per qualche ipotesi, sembri che contrastino con le nostre leggi, in qualche cosa, in modo assolutamente evidente.
Quindi: in primo luogo si applicano le leggi del re; se manca una legge del re si possono applicare le consuetudini locali, ma a condizione che queste consuetudini locali non contrastino maniera evidente con la legge del re. Qui stiamo parlando, però, di ipotesi di lacuna della legge del re, cioè se la legge del re non prevede la fattispecie, allora si può applicare la consuetudine locale, però quella consuetudine locale non deve avere una ratio che sia assolutamente contraria alla legge del re.
Possiamo vedere molto bene come, in questo caso, le carte di resa non sono state osservate, perché non è vero che il re osserva pedissequamente le consuetudini locali: anzi, bisogna dire che le osserva solo in secondo grado.
Federico II ci dice la stessa cosa, nella CONSTITUTIO PURITATEM del 1231ed è una norma riferita ai giustizieri e ai camerari, cioè i funzionari provinciali del re che vanno in giro a giudicare nelle terre e gli si chiede quale diritto applicheranno:
“… quod secundum constitutiones nostras et, in defectu earum, secundum consuetudinas approbatas, ac demun secundum iura communis, longobarda videlice et romana, prout qualitas litigantium exegerit, iudicabunt” = giudicheranno secondo le nostre costituzioni (quelle del 1231); in mancanza di quelle, in caso di lacuna normativa, si giudicherà secondo le consuetudini locali che siano state approvate dal sovrano; al terzo posto, se manca la consuetudine, applicheremo gli iura communia… (gli iura communia non possono essere usati al plurale, perché lo IUS COMMUNE è solo uno, perché è un diritto universale: probabilmente questa espressione è stata inserita da dei pratici, dopo Federico II, che si riferiscono alle consuetudini territoriali e sono diventate leggi generali in un determinato territorio).
Quindi: al primo posto si applicano le leggi di Federico II; al secondo posto, le consuetudini da lui approvate; se mancano, ci si può rivolgere alle consuetudini orali del luogo, che possono essere, o quelle longobarde, o quelle romane.
Per concludere… “iura communia” è un’espressione impropria, che non va attribuita a Federico II e ci indica la persistenza territoriale di consuetudini longobarde, generali, nel senso che si sono territorializzate (sono generali rispetto ad un determinato territorio).
Infine, ultima citazione – ADDITIO (=glossa alla glossa) DI NICCOLO’ RUFOLO, allievo di Benedetto d’Isernia:
“Audivi dominum Benedictum dicentem quod multum displicuit domino imperatori ut ita puniretur qui cum telo ambularet sicut qui homine, interficeret , et tunc interrogavit eum cum alios legistas ibi astantes, inter quos erat iudex Manbrus de Baro, que fuit racio que movit legislatore hoc facere. Qui predictus Manbrus de Baro respondit: racio fuit ut tolleretur materia delinquenti. Unde, cum displiceret ei, precepit quod ex hac materia fieret constitutuionem in qua cavetur quod alio modo puniatur qui portaret, alio qui extraret, alio qui percuteret” = Ho ascoltato il mio maestro, Benedetto, che diceva che dispiaque molto al signor imperatore (Federico II) che fosse punito allo stesso modo sia colui che gira con una spada, sia colui chi ammazza un uomo. Allora interrogò il maestro Benedetto, insieme agli altri giuristi che stavano lì, tra i quali giuristi c’era anche un giudice (Mambro di Bari), qual era la ratio che mosse il legislatore a fare quella norma. Sennonché Mambro da Bari risponde così: la ratio fu togliere la materia di delinquere, cioè la causa del reato. All’imperatore quella ratio non piacque, allora comandò che, di questa materia, fosse fatta una nuova costituzione nella quale si stabilisse che, in un modo venisse punito chi portava la spada, in un altro modo quello che la estraeva per minacciare e in un altro modo ancora quello che percuoteva, cioè quello che affondava la spada.
Quindi, da una norma che puniva tutto, ne fa tre, perché questa ratio intera a lui non piace.
Allora qui capiamo a cosa servono i giuristi: se il giurista è un giudice, deve applicare la constitutio puritatem, primo le leggi regie, secondo le consuetudini approvate e terzo il diritto longobardo e romano. Ma il giurista non è solo un giudice: il giurista può essere anche un legislatore e insieme all’imperatore e qui, Benedetto e Mambro di Bari sono legislatori e, in questo senso, usano il diritto romano, perché sanno questi meccanismi delle rationes.
Federico II fa l’università perché vuole dei funzionari per il suo lavoro di legislatore.
Il legislatore si fa studiando le rationes del diritto romano: il diritto romano non è solo un diritto da applicare, ma il diritto romano è una fucila di rationes, di principi e di istituti.
Concludiamo il discorso sul rapporto tra ius commune e iura propria, vedendo i giuristi più importanti e, in particolare, BARTOLO DA SASSOFERRATO, uno dei più grandi giuristi di tutti i tempi, il quale vive alla metà del 1300, ed è il più grande commentatore, proprio perché porta una particolare maturità a tutto questo discorso, che all’inizio era molto complesso per i glossatori.
Prima di Bartolo, però, prendiamo in considerazione un altro giurista che si era posto questo problema, ma senza riuscire a risolverlo: GIOVANNI BASSANO, allievo di Bulgaro e maestro di Azzone e Accursio (siamo alla fine del 1100, quindi si tratta di un glossatore).
Giovanni Bassiano cerca di risolvere questo problema riferendosi ad un esempio in particolare, che è quello della PARS FILII = la parte del figlio: secondo il diritto romano i figli, finché sono tali, non hanno nessuna autonomia giuridica e, ancora meno, hanno autonomia patrimoniale. Quando si riscopre il diritto romano, con Irnerio, ci sono esigenze diverse, perché nascono le città, i comuni, c’è una crescita commerciale, demografica, ecc.: quindi, i figli, in questo contesto, hanno perfetta autonomia patrimoniale, perché spesso sono agenti dell’azienda familiare e, naturalmente, devono avere capacità patrimoniale. Questo vuole dire che nel patrimonio della famiglia, ai tempi di Bassiano, i figli hanno una parte di patrimonio familiare, cioè la PARS FILII = parte di patrimonio familiare gestito autonomamente dai figli, nel medioevo mercantile.
Come possiamo vedere c’è una frattura netta con il diritto romano, perché il diritto romano ci fa vedere i figli dipendenti dal padre senza autonomia, mentre nel medioevo la pars filii è un’altra cosa. Da notare, però, che la pars filii non è un istituto giuridico particolarmente elaborato, ma è la realtà: la realtà e la vita del medioevo vedono i figli impegnati, se non al pari del padre, ma certamente con forte autonomia, nell’esercizio di attività commerciali, fondiarie, imprenditoriali, finanziarie, ecc. Sta di fatto che il giurista si trova dei giovani, nell’alto medioevo, che gestiscono un proprio patrimonio, senza che il diritto romano preveda delle norme che regolino questo aspetto. E questo è un problema grosso.
Di solito i giuristi risolvono il problema dei fatti della vita con le quaestiones: di regola si parte da un fatto della vita non regolato dal diritto romano. Però qui è una cosa diversa, perché si tratta di un istituto, ma più che altro è una realtà quotidiana, economica e commerciale che, non solo non è regolata dal diritto romano, ma a volte può anche contrastare con la visione del pater familias, previsto da Giustiniano.
Allora Bassiano va in profonda crisi, nel senso che non riesce bene a qualificare questa pars filii: il suo tentativo potrebbe essere definito un po’ “rozzo”, perché pur di giustificare la pars filii, o istituti del genere, che non sono previsti dal diritto romano, si inventa un termine che non esiste da nessuna parte, ma che secondo lui vuole trarre dal diritto romano, cioè il QUODDAM IUS NATURALE PRIMAEVUM = un certo diritto naturale primordiale: Bassiano dice che è vero che cose come la pars filii non ci sono nel diritto romano, però dal diritto romano si può dedurre che esista una sorta di diritto naturale primordiale, che precede lo stesso diritto naturale previsto dal diritto romano, nel quale si fanno rientrare queste cose che non sono espressamente previste. Quindi, si tratta di una sorta di principi che vengono da sempre e che ci aiutano a incasellare questi istituti.
E’ solo un tentativo di Bassiano che nessun giurista, dopo di lui, riprenderà più.
Vediamo che, poi, dell’autonomia patrimoniale dei figli troviamo spesso riferimento negli statuti cittadini, i quali a volte ci parlano dei figli come soggetti dotati di una certa autonomia patrimoniale: quindi, un appoggio normativo in realtà c’è, ma è negli statuti, non nel diritto romano.
Come mai Bassiano, alla fine del 1100, invece che inventarsi questa teoria non si rivolge agli statuti comunali della sua epoca? Per il principio che troviamo nella compilazione giustinianea, il quale stabilisce che solo l’imperatore può fare le leggi, cioè il principio della LEX ROMANA DE IMPERIO: il primo imperatore è Augusto e prima di lui la legislazione spettava al popolo e la senato: ad un certo punto Augusto, l’imperatore, diventa tale perché si fa delegare il potere dai comizi popolari e dal senato per fare delle leggi. Da quel punto in poi la legge passa all’imperatore: questa impostazione è passata nella compilazione giustinianea e da qui i glossatori sono vincolati, in quanto sono glossatori e guardano al significato della litera, non guardano ancora alla ratio. Quindi, se si trovano la pars filii negli statuti devono fare finta di niente, inventandosi questa categoria che per loro è tratta dal diritto romano, pur di non dire che c’è lo statuto e che è lo statuto che regola questo istituto, perché non possono fare un ragionamento del genere, perché per loro lo statuto non è norma giuridica.
Dopo Bassiano, prima di Bartolo, abbiamo i cosiddetti “giuristi orleanesi”, cioè REVIGNY, BELLEPERCHE, ricordati come giuristi dialettici (che usano la dialettica): questi facevano un’estensione analogica della norma.
Ad esempio, DURAND GUILLAUME (Guglielmo Durante) tira fuori la quota legittima ereditaria, dicendo che siccome i figli hanno diritto a una legittima quando il padre muore, quindi si considera la pars filii come una sorta di legittima anticipata, pertanto nel possono disporre.
Questo modo di vedere il diritto, e il diritto romano in modo particolare, è detto SISTEMA LEGUM = le leggi del diritto romano interagiscono tra di loro: se questo sistema ha una lacuna, si estende una legge analogicamente per colmare la lacuna = corpo di leggi organizzato sistematicamente in cui le eventuali lacune sono colmate da una interpretazione estensivo-analogica delle singole norme.
Questo è un primo passo e Bartolo fa un successivo passo che avrà un successo enorme.
BARTOLISMO = dura da dopo Bartolo sino a quasi il 1700 ed era attribuito a Bartolo da Sassoferrato.
Bartolo muore nel 1357 (piena epoca dei commentatori).
Con Bartolo abbiamo la piena risoluzione di questo problema. Egli eredita l’aequitas (come principi della giustizia di Dio) e, infatti, nel suo sistema abbiamo la presenza forte dell’aequitas, anche se non centrale: ha ereditato anche la dialettica, che usa per il suo fine, con moderazione. E’un maturo esponente del commento: è un allievo di Cino da Pistoia, quindi sa bene come si usa il commento.
Il sistema legum a Bartolo sta troppo stretto, in quanto è sempre un sistema di leggi, e riesce ad andare avanti.
Per spiegare il rapporto tra ius commune e iura propria Bartolo usa una metafora: lui si immagina la terra e il sole. Il rapporto tra questi due astri è che il sole non ha vita, ma da la vita: la terra ha la vita, ma non avrebbe la vita senza il sole che la scalda.
Quindi: sole = diritto romano - terra = diritto statutario: il diritto statutario non potrebbe esistere se non ci fosse il diritto romano a dargli vita.
La formula di Bartolo è: VERITAS IURIS CIVILIS PER IMAGINEM IURIS STATUTORUM OBUMBRARI NON POTEST = la verità del diritto civile (romano) non può ricevere l’ombra dall’immagine del diritto degli statuti. La veritas è una: quella degli statuti è un’immagine, si tratta di un fantasma, anche se ha la vita.
ESEMPIO: siamo a Modena, dove c’è lo statuto di Modena. Per Bartolo lo statuto è la terra, un’immagine che non può dare ombra al sole, però ha la vita: quindi, per applicare il diritto prendiamo lo statuto di Modena.
Dallo statuto vediamo questa norma: “tutti i cittadini modenesi devono pagare le tasse”. Per noi questa norma è chiara, ma per Bartolo questa norma non è chiara: lo statuto non ci da una definizione di cittadinanza (cittadino), che troviamo nel diritto romano; inoltre “devono pagare le tasse”, ma non c’è nemmeno la definizione di tassa e di imposta e non è detto da cosa si distingue la tassa rispetto al prezzo di una compravendita, perché è sempre denaro che si da ad una persona, e anche queste definizioni ci vengono date dal diritto romano.
Quindi, è vero che lo statuto ha la vita, però Bartolo ci dice che non si può applicare nemmeno una virgola dei diversi statuti, se non si hanno ben presenti le categorie, le figure, i principi, le rationes, le griglie interpretative, che fornisce il diritto romano.
Allora capiamo anche il perché Federico II ha fondato un’università dove si studia il diritto romano, in un regno dove non si applica il diritto romano: il motivo è lo stesso che troviamo in questo caso, perché il diritto romano, per questa generazione, non è il diritto positivo: poteva esserlo per il glossatori, ma quando tutto è già più maturo e più complesso e il sistema è ormai perfettamente delineato, si sa benissimo che il diritto romano non può essere direttamente applicato e quando è direttamente applicato sono ipotesi rare, cioè succede quando gli statuti permettono l’applicazione del diritto romano in ultimo grado, se manca lo statuto, o la consuetudine, in terza istanza. Però se si considera il diritto romano come una fucina di categorie logico-giuridiche (cittadinanza, imposte, proprietà, locazione, ecc.) il giurista ha la possibilità di interpretare, non lo statuto di quella determinata città, ma qualsiasi norma ha a disposizione, perché le categorie sono sempre le stesse.
Con Bartolo non siamo più nel sistema legum, ma siamo nel SISTEMA IURIS.
La differenza: il sistema legum ci fa vedere il corpo di leggi sempre come un sistema, ma un sistema che si muove allargando e restringendo le leggi, considerandole come singole unità; il sistema iuris è visto come un unico corpo vivente in cui non sono tanto le leggi che si espandono o si restringono, ma sono i principi, le rationes, le categorie generali, che danno vita al sistema.
La differenza pratica: con il sistema legum si possono spiegare le cose che mancano nel corpus iuris di Giustiniano, ma spiegando, però, solo le lacune interne del sistema, mentre non può spiegare gli statuti; il sistema iuris, invece, ha una virtù espansiva, perché va fuori del sistema.
Considerando il diritto romano un sistema iuris, non è più solo un sistema che spiega le lacune interne al diritto romano, ma un sistema capace di espandersi al di fuori e di spiegare gli altri sistemi.
Tutti adotteranno questo sistema, perché è un sistema applicabile per qualsiasi tipo di legislazione.
Il codice è senz’altro un sistema legum, perché il legislatore l’ha pensato come sistema legum: il codice può diventare un sistema iuris? Sì. Il codice nasce come sistema legum: per diventare sistema iuris, non lo può fare il legislatore, ma, perché da sistema legum un corpo di leggi diventi sistema iuris, occorre il giurista e l’interpretazione. Da sistema legum a sistema iuris non si può passare senza il giurista, ed è questa l’operazione storica e culturale che c’è tra Bassiano e Bartolo: una nuova consapevolezza del giurista. Il giurista non è più così strettamente vincolato dalla imponenza del corpus iuris. I principi vengono fuori, perché c’è una SCIENTIA di giuristi.
GIURISTA/INTERPRETAZIONE:
Baldovini, e i glossatori in generale, hanno un atteggiamento passivo nei confronti del corpus iuris.
Bartolo ha un atteggiamento attivo e creativo, perché attraverso i principi lui crea, ma non crea norme giuridiche: crea delle interpretazioni, o per meglio dire, crea delle OPINIONES, (pareri autorevoli dei giuristi).
Qui i giuristi sono creativi, quindi i giuristi cominciano a diventare arbitri del sistema, della società del tempo.
Da questo deriva il prestigio enorme che hanno i giuristi nel medioevo e, in particolare, dal 1300, che godono di stipendi o di salari all’università che è dieci volte maggiore di quello di un docente di teologia o di medicina, perché sono i grandi mediatori della società.
Ma Bartolo diceva, poi, “oggi l’Italia è piena di tiranni” e con questa frase si rivolgeva alle signorie: lui sta ancora in un comune popolare, ma a Padova, a Milano, a Ferrara, c’è già la signoria e i signori alterano questo equilibrio. Grazie al sistema iuris che hanno elaborato, i giuristi hanno ormai una grande forza, ma questa forza ha bisogno di un supporto politico, che è l’autonomia e la libertà che c’è nei comuni: quando arriva il signore, questa autonomia e questa libertà crolla e i giuristi si devono “riciclare”, cioè non possono più basarsi sulla loro scientia che resta intaccabile, ma occorre che entrino in rapporto utile con il signore, quindi diventino o docenti delle loro università, oppure devono diventare dei giuristi consiglieri del signore.
Questo tipo di situazione si trascinerà per tutto il tempo successivo e si passerà al BARTOLISMO: questo vuole dire che dopo Bartolo c’è la crisi, però si trascina ugualmente come metodo, perché è un sistema attraverso il quale si può leggere qualsiasi norma giuridica, ma non ci sono più le condizioni politiche di autonomia che aveva Bartolo, quindi diventa un sistema tralatizio e un po’ passivo che si tramanda di generazione in generazione.
Dall’altra parte ci sono i signori, i quali turbano l’ordine comunale, senza cambiarlo, e si fanno eleggere dal popolo mediante un’acclamazione in piazza, ma non dicono che da ora in poi non ci sarà più l’ordinamento comunale.
E’ una situazione ambigua: c’è il signore e restano in piedi gli ordinamenti comunali, che però non hanno più potere, perché adesso c’è il potere del signore: il signore da la garanzia, ma a condizione che gli lascino fare quello che vuole, cioè ARBITRIUM.
Il signore ha bisogno di una legittimazione: quella popolare non gli basta, perché come gli viene data, gli può anche venire tolta, allora la chiede, o alla chiesa, o all’imperatore.
Si parla di VICARIATO (=essere vice): i signori, soprattutto nel 1300, ottengono il vicariato, che può essere:
• IMPERIALE quando è ottenuto dall’imperatore
• APOSTOLICO quando è ottenuto dalla chiesa.
CONCLUDENDO……
I signori non sono signori di una città: ci sono tre comuni che hanno lo stesso signore.
Quindi, non c’è più l’autonomia comunale, anche se i comuni si convincono di essere sempre autonomi, ma sopra di loro nasce lo STATO REGIONALE = un signore che tutela ordinamenti inferiori, in questo caso, i comuni.
Esiste, ad esempio, una signoria estense che comprende Ferrara, Modena e Reggio, ma le tre città rimangono autonome tra di loro.
I tardi seguaci dei commentatori saranno chiamati bartolisti. Il BARTOLISMO è identificato con la corrente chiamata MOS ITALICUS, cioè il modo italiano di fare giurisprudenza, ed è contrapposto al MOS GALLICUS, cioè il modo francese di fare diritto (=umanesimo giuridico).
SITUAZIONE ESISTENTE NEGLI ANNI SUCCESSIVI A BALDO E A BARTOLO = CRISI DEL DIRITTO COMUNE.
(Baldo muore nel 1400 e in Francia è la data di inizio dell’umanesimo, cioè si apre un’altra epoca: in Italia, però, l’umanesimo giuridico non attecchisce).
DIRITTO COMUNE = diritto romano e diritto canonico, perché è diritto comune a tutte le genti (lex generalis omnium = legge generale a tutte le genti cristiane).
Quindi, il diritto comune si identifica con il diritto imperiale universale contro gli iura propria.
Perché diciamo SISTEMA di diritto comune? Perché proprio con Bartolo questa idea del diritto comune diventa un vero e proprio sistema, cioè un sistema produttivo di principi e categorie (sistema iuris) e grazie a questi principi e categorie è possibile interpretare qualsiasi fattispecie pratica, non solo con l’estensione analogica delle norme romane (cioè con il sistema legum), ma proprio con l’enucleazione di principi che valgono astrattamente per una serie indefinita di fattispecie.
Questo sistema, però, va in crisi con la fine del 1300 e gli inizi del 1400 e questa crisi dura più di tre secoli.
In realtà, si parla di crisi, perché questo sistema del diritto comune è stato elaborato in un certo periodo particolare e dai giuristi, Bartolo soprattutto, e tocca l’apice di una certa fase storica in cui i giuristi sono gli arbitri della società (arbitri perché grazie all’elaborazione del sistema di diritto comune riescono a porsi come mediatori della società del tempo: questo, soprattutto, quando vive ancora il comune popolare).
Questo sistema va in crisi con l’avvento della signoria, perché il rapporto tra le corporazioni dei giuristi, e il nuovo potere (non più collettivo, ma monocratico e, in certi casi, tirannico) cambia il rapporto tra i giuristi e il potere, quindi cambia anche il modo di vedere il diritto comune rispetto alle forme di potere vigenti. Di conseguenza, questo sistema bartolistico comincia a non essere più adeguato alle esigenze del tempo e deve modificarsi, perdendo un po’ l’autenticità che aveva ai tempi di Bartolo: il bartolismo è una risposta tradizionale ai problemi nuovi.
In realtà, il diritto comune si trasforma nella pratica. Finora abbiamo visto i giuristi impegnati nelle università, tranne nel caso del consilium sapientis iudiciale, cioè quel parere giuridico che i sapienti danno al console di giustizia e, in generale, agli organi giudiziari del comune.
I giuristi, in questo periodo, non fanno solo i professori: essi sono anche “élite dirigente”, cioè fanno parte di una forte corporazione di giuristi che conta nelle scelte politiche della città, ma sono spesso scelti anche come ambasciatori, o come uomini di mediazione politica, anche perché spesso le loro corporazioni sono internazionali, nel senso che hanno un sapere che vale non solo per Bologna, o per Modena, o per Napoli, ma è un sapere che vale per tutte le città, quindi è un tipo di élite molto richiesta nelle mediazioni politiche.
Quando si afferma la signoria diventano, poi, consiglieri del signore e, a volte, entrano nelle corti dei vari signori, diventano cioè “uomini di corte”.
Insomma, si trasforma la società e anche il giurista si deve trasformare, ma rimane pienamente inserito nell’élite dirigente della società.
Per quanto riguarda l’attività giuridica vera e propria, in quest’epoca i giuristi si impegnano, in particolare, in due tipi di attività:
1. Attività professionale = giurista come patrocinatore forense, cioè il giurista che interviene nel tribunale. Gli strumenti con cui il giurista interviene nei tribunali sono ALLEGATIONES e POSITIONES = strumenti abbastanza simili con cui i giuristi allegano la posizione processuale del proprio assistito.
2. Attività consultiva = il giurista da dei pareri e si parla così di CONSILIA: il magistrato cittadino chiede un parere al giurista, poi questo parere viene sottoscritto e diventa sentenza (=consilium sapientis iudiciale = tipico consilium in cui il committente è un organo pubblico). I consilia possono anche essere dati a dei privati, i quali pagano parecchio per farsi dare un parere da un giurista autorevole: più il giurista è autorevole e più il consilium costa.
La differenza tra attività professionale e attività consiliare consiste nel fatto che i consilia vengono dati “proveritate” (=secondo la verità della propria coscienza). Quindi, nell’attività professionale il giurista è un patrocinatore, va in processo e rappresenta la parte con le allegationes e con le positiones. Nell’attività consiliare il giurista non va in processo, ma resta nel suo studio e il committente va da lui, paga una certa somma e gli chiede un parere su un determinato problema. Nell’attività professionale il giurista deve essere parziale, come tutti i buoni avvocati; invece il consilium deve essere emesso secondo la verità, cioè il giurista deve parlare secondo la propria coscienza (è come un perito).
Sostanzialmente, però, la differenza è meno chiara, perché il consilium si pone come un’attività imparziale, ma viene però poi pagato da una parte processuale, quindi non può essere più di tanto imparziale, proprio per questo motivo.
Questi consilia proveritate hanno una loro destinazione processuale: il parere viene speso processualmente, nel senso che il privato impegnato in un contenzioso processuale, non solo si serve di un avvocato che produce allegationes e positiones, ma fa notare al giudice il parere autorevole di un giurista. Naturalmente, però, per influenzare il giudice occorre che il giurista sia molto importante.
Quindi, vediamo che i consilia espressi da un giurista hanno influenza nell’emanazione della sentenza.
Comincia ad emergere, così, anche la spendibilità, da parte di un privato, dei consilia proveritate, che hanno un tale successo e qualificano il giurista importante, il quale comincia, con l’avvento della stampa (fine 1400), a raccoglierli e a pubblicarli: quindi abbiamo una notevole diffusione a stampa di questi consilia, che diventa un vero e proprio genere letterario.
L’invenzione della stampa incide profondamente sulla scienza giuridica: l’insegnamento all’università medievale è soprattutto orale e ci sono i vari manoscritti di glosse, di letture e di commenti. Questa produzione scritta, scientifica, si propaga a dismisura con l’avvento della stampa. Vediamo che si pubblicano:
• RACCOLTE DI COMMENTARIA = enciclopedie esegetiche su tutto il corpus. Sono dei volumi che rappresentano il commento di Bartolo da Sassoferrato e tutte le leggi del corpus iuris.
• TRACTATUS che, con la stampa, non sono più solo quaestiones con un argomento monografico, dove tutte le quaestiones sono state unite in un’unica materia. Adesso il tractatus comincia a diventare un “trattato monografico”, cioè una vera e propria monografia che approfondisce un determinato istituto giuridico.
• RACCOLTE DI CONSILIA.
Già con la magna glossa accursiana la compilazione giustinianea si era abbassata di un tono, nel senso che la glossa aveva assunto la stessa autorità del testo di Giustiniano.
Ora ci troviamo a qualcosa di diverso.
Vediamo che emerge potentemente la figura dell’interprete: è l’attività creativa e soggettiva dell’interprete che comincia ad avere la preponderanza.
ESEMPIO: secondo l’idea del medioevo, il testo è centrale e il giurista è secondario: la verità è quella del corpus giustinianeo e il giurista può solo avere una intuizione per giungere alla verità. Adesso è il contrario, perché il testo diventa un pretesto per l’attività creativa dell’interprete, il quale produce consilia (pareri pagati), tractatus (approfondimenti monografici) e commentaria (intere enciclopedie di esegesi al testo giustinianeo).
Quindi, l’attività creativa dell’interprete assume preponderanza rispetto al testo giustinianeo, che rimane sempre importante, ma comincia a diventare un pretesto, cioè qualcosa che sta dietro.
Così quello che viene prodotto dall’interprete è una OPINIO, cioè qualcosa di soggettivo: non c’è l’oggettività del testo giustinianeo dei primi glossatori, ma quello che viene ora venduto sul mercato è l’opinio autorevole di un giurista.
Bisogna dire che il diritto romano aveva un precedente all’opinio che è l’EXEMPLUM (=precedente giudiziario o di fatto a cui il giurista, avvocato o giudice, si poteva attenere per la risoluzione di una problematica giuridica o di un contenzioso). L’exemplum acquista una certa fortuna in questa seconda fase della scuola dei commentatori, appunto perché cambiano i rapporti tra i giuristi e il potere, ma cambia anche il rapporto tra il giurista e il testo giustinianeo e viene a risaltarsi la figura soggettiva del giurista.
Quindi, anche l’exemplum, come precedente, comincia ad assumere una forza importante che si vede verificata nella pratica.
In che modo i giudici si fanno influenzare dai consilia? I consilia hanno una mera probabilitas. Il testo giustinianeo è la veritas (come hanno insegnato i glossatori). Però questa verità è ormai appesantita da generazioni e generazioni di esegesi su questa verità. Allora, la verità scende un po’ in secondo piano e sale l’interpretazione dei giuristi su questa veritas.
L’interpretazione dei giuristi, attraverso le loro opioniones, è meramente probabile, cioè non ha la verità, perché l’interprete può solo esprimere la suo opinio, es. attraverso un consilium, e c’è la mera probabilitas, cioè è probabile che sia come dice il giurista, ma non è certamente la veritas. Però è noto che, in virtù della grande molteplicità delle fonti giuridiche del medioevo, questa verità non è sempre immediatamente raggiungibile: per cogliere la veritas, ormai l’opinione pubblica sa che questa veritas può essere colta attraverso un tecnico e questo tecnico è l’interprete. Quindi, non si può attingere direttamente alla veritas, se non attraverso l’interprete.
N.B.: L’interprete è il mediatore necessario, ma egli non produce veritas: produce un opinio che ha la caratteristica della mera probabilitas.
L’opinio, che pure è probabile, però paradossalmente diventa uno strumento di certezza: poiché la veritas ha bisogno degli interpreti, gli interpreti si moltiplicano, così alla fine il giudice, o il giurista, rimane interdetto.
Occorre, allora, un rimedio, che può essere un criterio qualitativo o un criterio quantitativo: ad esempio, si può dire che su quella determinata veritas l’80% dei giuristi ritiene una certa soluzione, mentre il 20% ritiene il contrario = si adotta, così, un criterio quantitativo e si adotta come probabile l’80% dei giuristi che dicono in un certo modo. Oppure il criterio qualitativo: non basta l’80%, ma si vuole che l’interpretazione provenga dai giuristi più autorevoli.
Però questi due criteri spesso vengono usati insieme e cominciano a coincidere, perché le opinioni più autorevoli diventano anche le opinioni maggioritarie, che a loro volta diventano le più autorevoli.
Tra i criteri per risolvere una controversia, un giudice ha anche del materiale normativo (leggi regie, principi di diritto romano, ecc.), ma tutto questo, spesso, può rappresentare un problema: allora questo giudice si servirà delle opinioni dei giuristi, che però non sono vincolanti, perché hanno la probabilità, ma di fatto cominciano a diventare vincolanti, perché il giudice si sente più sicuro di non sbagliare adottando l’OPINIO COMMUNIS (=opinione comune).
Siamo nell’epoca della COMMUNIS OPINIO: comune, perché l’opinione è stata appunto adottata dalla maggior parte dei giuristi, e dai giuristi più autorevoli.
Questa opinio communis, che pure è meramente probabile, può rappresentare un fattore di incertezza e, in questo sistema, rappresenta una cosa certa, perché di fronte al pluralismo delle fonti medievali e delle interpretazioni dottrinali, ora si ha qualcosa di certo che consiste nel guardare al fatto se un’opinione sia comune, o meno, cioè se è stata condivisa dal maggior numero dei giuristi più autorevoli.
Però, questo fattore di certezza può provocare incertezza, perché le opiniones tendono a modificarsi: di solito i giuristi sono abbastanza tradizionalisti e scelgono l’opinio communis, però ci sono giuristi autorevoli e particolarmente creativi che, a volte, vanno contro e scelgono delle opinioni minoritarie. Così, queste opinioni minoritarie, date da giuristi autorevoli, mettono in crisi il sistema: quindi, questo sistema prodotto per la certezza, a sua volta può produrre incertezza.
(quest’epoca delle opiniones communis è tipica dell’età del bartolismo).
Le interpretazioni dei giuristi, quando sono incanalate nell’opinio communis, possono rappresentare per tutti i giuristi, e per il giudice in particolare, un parametro di riferimento abbastanza certo, anche se, a sua volta, può produrre incertezza, nel lungo periodo.
Per i riformatori del 1700, l’opinio communis è stata vista come un male da eliminare, che si elimina con la certezza dei codici: il codice elimina l’opinio communis, perché il giudice non deve più giudicare in base alle interpretazioni dottrinali, ma deve giudicare solo in base a quella norma, e non si può nemmeno attaccare ai principi di diritto romano.
Qui, però, siamo in un sistema precodificato dall’antico regime e occorre qualcosa che orienti l’operato del giudice. Prima cosa è, appunto, l’opinio communis: è la prima, perché è direttamente collegata con l’attività dottrinale dei giuristi, che finora sono stati una corporazione potente nelle città e nelle università. Anche se adesso cominciano ad entrare in crisi, perché c’è un rapporto diverso con il signore, hanno sempre molto prestigio e molta autorevolezza.
Questo prestigio e questa autorevolezza sono dati sempre dall’insegnamento universitario, ma spesso è dovuto al fatto che questi giuristi sono dei giuristi di corte, quindi hanno una funzione pubblica e sono particolarmente prestigiosi.
PARTICOLARISMO GIURIDICO:
Il particolarismo giuridico è un fenomeno che abbiamo nel periodo compreso tra ‘400-‘500-‘600 e si trascina per tutto il ‘700 ed è quello che è chiamato ANTICO REGIME, cioè l’età che precede la rivoluzione francese e segna la chiusura del medioevo.
Il particolarismo giuridico descrive la situazione giuridica in questo periodo.
Che diritto si applica in questa fase?
IUS COMMUNE IURA PROPRIA
(universale) (particolari)
diritto romano statuti
diritto canonico consuetudini
diritto feudale diritti regi
Rispetto agli iura propria, lo ius commune ha una funzione sussidiaria: se per la fattispecie concreta non c’è una norma di ius proprium, rispettando la gerarchia delle fonti, si applica lo ius commune (a seconda delle città, perché vediamo che alcune città, come Pisa, dopo lo ius proprium applicano l’equità).
Lo ius commune può diventare prevalente rispetto agli iura propria, se è studiato come sistema iuris, cioè come grande matrice di figure, di principi e di istituti: non come diritto positivo (che sennò è sussidiario), ma come principi (come sistema iuris) = in questo caso è prevalente, perché questi principi sono applicati sempre e dovunque, in tutta Europa, ancora prima dell’applicazione della norma.
Per trovare questo sistema iuris, occorre l’interpretazione ad opera dei giuristi, la quale proviene da:
• Università, attraverso l’attività dottrinale (es. i commentaria).
• Attività consulente – consilia.
• Giurisprudenza – decisiones.
Quindi, il primo diritto che si applicava è il diritto romano, il diritto canonico e il diritto feudale, integrato dalle interpretazioni dottrinali, consulenti e giurisprudenziali.
Poi abbiamo gli iura propria (consuetudini, statuti, diritto regio, ecc: tutto ciò che non è universale rientra negli iura propria).
Tutto questo forma il PARTICOLARISMO OGGETTIVO.
Il particolarismo non è altro che il fenomeno, già visto nel medioevo, del pluralismo: non c’è uno stato unitario che produce tutto, ma ci sono tanti ordinamenti (regni, città, territori feudali) e ognuno produce il suo diritto. Questo sistema medievale è caratterizzato da una pluralità di fonti.
Particolarismo vuole dire pluralismo, solo che il pluralismo è un termine oggettivo, mentre il termine particolarismo è già venato di un giudizio negativo, perché evidentemente comincia ad essere considerato negativamente, in quanto produce troppi problemi.
Quindi, PLURALISMO OGGETTIVO = sistema caratterizzato da un pluralismo di fonti normative.
Precisazione: il diritto regio, da un punto di vista meramente medievale tecnico, è uno ius proprium, perché non è universale: il diritto regio vale entro i confini del regno stesso.
Quando si esce dal medioevo e, perciò, questa idea universalistica comincia ad impoverirsi, si comincia ad ammettere che il diritto regio possa diventare anche diritto comune, ma ciò vuole dire che si applicano sempre gli iura propria, però, qualora manchi una fattispecie normativa, come diritto sussidiario si applica il diritto regio (es.: Spagna). Quindi, in questo senso il diritto regio può diventare diritto comune, ma a due condizioni:
1. Ambito geografico (sempre all’interno del regno: non è diritto comune a tutte le genti cristiane, come nel medioevo).
2. Si parla sempre di diritto sussidiario, non di sistema iuris.
Le più importanti raccolte di diritto regio/sovrano sono:
• Liber constitutionum – 1231
• Constitutiones Marchie Ancontinae – 1357 (è il diritto sovrano per tutto lo stato della chiesa per tutto l’antico regime).
• Carta de logu – 1395 (diventa poi diritto territoriale per la Spagna. Logu = luogo).
• Decreta di Amedeo VIII (di Savoia) – 1430
• Novae constitutiones – 1541 (per Milano, sotto Carlo V).
Non c’è solo il particolarismo oggettivo (riferito alle fonti), ma c’è anche il PARTICOLARISMO SOGGETTIVO (riferito ai soggetti destinatari delle norme).
La società medievale era pluralistica, non solo perché esistevano tanti ordinamenti, ma anche perché era il periodo delle associazioni: ogni categoria professionale aveva la sua associazione, ma soprattutto c’erano le grandi categorie tipiche del medioevo, cioè l’aristocrazia nobiliare (di origine militare) e gli ecclesiastici (chiesa).
Quindi, la società è organizzata per ceti, cioè per organizzazioni sociali ben definite:
• Nobili
• Ecclesiastici
• Contadini
• Cittadini
• Mercanti
Perciò vediamo che non ci sono solo tanti diritti, quante sono le fonti, ma ci sono anche tanti diritti a seconda di quale ceto sociale ci si rivolge.
Quindi, il particolarismo soggettivo è un particolarismo che riguarda, non tanto le fonti normative, ma i ceti sociali che caratterizzano la società dell’antico regime.
Però, per tutti questi soggetti il particolarismo può essere visto sotto due punti di vista:
1. SOSTANZIALE, nel senso che c’è un diritto per ogni categoria sociale, cioè ogni ceto porta con sé un proprio diritto = riguarda la fonte normativa.
2. GIURISDIZIONALE = riguarda il tribunale che deve giudicare gli appartenenti a questo ceto.
Come vediamo, questo è un sistema molto complesso, difficile da gestire e che produce INCERTEZZA (e questo è il motivo per cui, nel XVIII secolo arriveranno le grandi riforme illuminate).
Questa incertezza la si trova:
• Nella norma da applicare, perché all’inizio, quando sono davanti alla fattispecie concreta, devo vedere quale norma applicare e c’è molta incertezza.
• Nell’interpretazione, perché, ammesso che si riesca ad identificare una norma precisa, questa norma può essere interpretata in un modo, piuttosto che in un altro.
• Sulla giurisdizione, perché non si sa dinanzi a quale tribunale si sarà aditi.
• Esito, perché alla fine non si sa mai prevedere con certezza l’esito finale della sentenza, perché non c’è una norma predeterminata ed un percorso logico predeterminato che consenta di prevedere con una certa approssimazione l’esito della sentenza finale.
(da tenere presente che questo è un sistema che non prevede la motivazione
della sentenza).
Questa situazione di incertezza si può tramutare in ARBITRIO: i giudici, con questo sistema, hanno molta discrezionalità, perché non sono tenuti a giustificare le proprie sentenze, le norme sono difficili da individuare e da interpretare, come pure i tribunali e l’esito delle sentenze. Quindi, sostanzialmente siamo in un sistema in cui il giudice fa fatica, ma se vuole e ha fini poco chiari, può giustificare qualsiasi tipo di sentenza.
Ludovico Ariosto Muratori affermava: “I giudici possono fare quello che vogliono, con un linguaggio che conoscono solo loro, perché questo sistema che viene dal medioevo gli consente di avere una piena discrezionalità dello stesso sistema “.
A proposito dei mercanti……
I mercanti, proprio perché basano la loro attività sul commercio, sono del tutto riluttanti ad ogni lungaggine procedurale. Per questo si sono sempre costruiti un diritto molto disinvolto, la cui procedura è basata sulla rapidità e sulla tecnicità (infatti vediamo che i loro mercati erano fatti da mercanti stessi), basato molto sulle consuetudini e sulla prassi.
Caratteristica di questo sistema: all’inizio si parla di IUS MERCATORUM (=diritto dei mercanti). I mercanti sono un ceto sociale organizzato in un’associazione: tutti gli atti compiuti dai mercanti sono sottoposti allo ius mercatorum. Si tratta di un criterio di individuazione soggettiva: basta essere in quella corporazione che ogni atto che viene compiuto rientra nello ius mercatorum.
Col passare del tempo, soprattutto quando il sovrano comincia ad interferire con lo ius mercatorum, si passa allo IUS MERCATURE (=diritto dei mercati): si passa ad un criterio su base oggettiva. Non è diritto commerciale tutto quello che viene fatto dai mercanti, ma è diritto commerciale tutti quegli atti che hanno le caratteristiche del diritto commerciale.
Questo tipo di storia e l’assenza di vincoli formali e lungaggini procedurali, hanno fatto vedere sempre, lo ius mercatorum prima e lo ius mercature dopo, come un diritto esemplare, cioè un diritto alternativo alle lungaggini e alla complessità del diritto romano.
E questo spiega perché, da Napoleone fino al 1942, c’era il codice di commercio separato dal codice civile (oggi inserito all’interno dello stesso codice civile).
INFINE……
Esiste anche un PARTICOLARISMO REALE (=che riguarda le res). Mentre per noi le cose possono essere oggetto, o di diritti pieni ed esclusivi o di diritto limitati, a quell’epoca questa distinzione non esiste, perché la mentalità feudale fa sì che non esista la proprietà piena, né i diritti reali. Non vuole dire che non ci siano per niente, ma sono delle situazioni molto confuse, per cui una cosa ha delle qualità, come i soggetti: un bene mobile può essere allodiale, feudale, ecclesiastico, demaniale. Persino le cose hanno una loro qualità intrinseca che porta con sé una determinata normativa e può portare con sé anche una propria giurisdizione.
UMANESIMO:
Una prima critica al sistema del diritto comune e al sistema del particolarismo, viene dall’umanesimo giuridico.
L’umanesimo è una corrente di pensiero soprattutto letteraria e artistica che si afferma, a partire dall’Italia attorno al 1400: esiste anche un versante giuridico di questa corrente di pensiero, ma in Italia non attecchisce.
UMANESIMO = ritorno all’uomo, o meglio, RITORNO ALLA PERSONALITA’ UMANA.
L’uomo medievale è culturalmente proiettato verso il cielo, cioè verso una dimensione metafisica: egli guarda direttamente alla divinità e in questo rapporto con la divinità cerca di spiegare le realtà terrene.
Con l’umanesimo le cose cambiano e, per una serie di motivi, quella visione è andata in crisi e l’uomo comincia a riflettere sulla personalità umana, prende cioè fiducia dei suoi mezzi, comincia a non ritenere che tutto derivi da Dio e comincia ad esaltare l’intraprendenza umana.
La divinità comincia ad andare in secondo piano ed emerge il potere, le facoltà intellettuali e creative dell’uomo.
Dal punto di vista del rapporto tra giuristi e potere, vediamo anche qui dei cambiamenti: il giurista non è più solo un giurista di università, ma comincia a diventare un giurista di corte. Però, presso la corte del sovrano non ci sono solo giuristi, ma ci sono soprattutto letterari.
Il giurista e il letterario cominciano a diventare dei concorrenti alla corte del principe e sono su un piano di rivalità: intorno al ‘500-‘600 vinceranno i giuristi per il maggior peso tecnico che hanno nella conduzione del governo.
L’umanesimo nasce in Italia, ma nasce qui l’umanesimo letterario: l’umanesimo giuridico in Italia non attecchisce (ma lo troviamo, invece, in Francia).
Ricordiamo alcuno cultori della classicità:
• MAFFEO VEGIO = De verborum significatione – 1433
• LORENZO VALLA = Elegantia lingua latina – 1444
• ANGELO POLIZIANO
Questi sono solo dei letterati (non dei giuristi) e ce l’avevano, soprattutto, con i glossatori (ma anche con i commentatori). Con i glossatori, perché dicevano che questi non sapevano il latino, cioè parlavano solo un latino medievale che serviva soltanto per capirsi e, ai glossatori, non interessava sapere il latino classico di Cesare o di Cicerone.
Per questi letterati il latino è una lingua che è testimonianza del passato, quindi bisogna coltivarlo come lo parlavano i romani. Per i medievali, invece, (glossatori) il latino è una lingua viva e presente, cioè è una lingua che va discussa, parlata ed usata nel presente, quindi la si può usare come si vuole.
Addirittura, per questi letterati, il corpus iuris di Giustiniano era una testimonianza del passato: grazie al corpus iuris si può sapere qual era il diritto, o la cultura, o la lingua della romanità di Giustiniano, ma soprattutto dei giuristi più antichi, quali Ulpiano, Gaio, Modestino, ecc.
Mentre per gli uomini medievali il corpus iuris giustinianeo è diritto vivo e vigente, perché è un diritto fatto dall’imperatore, che per loro l’imperatore è sempre presente (in Federico I o in Federico II, ecc): non è che non avessero una visione storica, ma per loro questa visione storica era attuale, perché se trovavano un termine non attuale, lo cambiavano, in modo da attualizzarlo.
Altra cosa da notare: già i letterati criticavano i glossatori e i commentatori per il latino e per l’uso barbaro (e non filologico) che fanno del corpus iuris.
(Filologico = amore per la lingua, quindi amore per l’autenticità dei testi).
E vediamo che sorge un altro problema…… Il testo del corpus iuris usato da Irnerio in poi, veniva chiamato LITERA BONONIENSIS O VULGARIS (testo di Bologna o volgare, cioè il testo che si è diffuso da Bologna, ma nessuno ha mai controllato l’autenticità) e LITERA PISANO O FLORENTINA (quei testi antichi che gli umanisti sono andati a scoprire a Firenze o a Pisa) - (litera = testo).
In pratica, nella litera bononiensis o vulgaris, i letterari contestavano il fatto che i glossatori non avevano controllato l’autenticità di quei testi, perché dicevano che questa autenticità doveva essere controllata di persona: infatti, la litera pisano o fiorentina sono appunto i testi che loro stessi hanno scoperto a Firenze o a Pisa. Quindi, vediamo che ne fanno una questione filologica.
Questo è l’umanesimo letterario in Italia. Dobbiamo vedere ora l’umanesimo giuridico, perché non è che in Italia non ci sia per niente. Vediamo qualche nome:
• LUDOVICO PONTANO – fiorentino del 1400 che, ad un certo punto, lo statuto di Firenze, in Toscana, è diritto comune: è il discorso della regionalizzazione. Siccome Firenze diventa città capitale di tutta la Toscana, quando manca una norma dello statuto di Pisa o di Grosseto o di un’altra città, si applica in subordine il diritto comune di Firenze.
• MARIANO SOCINI
• LUDOVICO BOLOGNINI
• FELINO SENDEI
Questi sono alcuni nomi di giuristi che sono stati anche umanisti, ma in generale l’umanesimo giuridico vero e proprio in Italia non attecchisce.
Questa corrente dell’UMANESIMO GIURIDICO attecchisce in Francia: la cosa singolare è che a portare l’umanesimo giuridico in Francia è proprio un italiano, ANDREA ALCIATO (milanese che insegnerà a Bourges e muore nel 1550).
Perché in Italia è solo letterario e il giuridico va a finire in Francia, oltretutto portato da un italiano?
Questo accade per la differenza che esiste tra l’Italia e la Francia. La Francia si divide in due territori: paesi di diritto scritto, cioè di diritto romano, al sud, e paesi di diritto consuetudinario al nord, spesso integrato dalle ordonnance regie. Per la Francia, in generale, c’è un forte regno autonomo (nord), relativamente accentrato (relativamente perché non si può parlare di stato assoluto se non alla fine del ‘600), antico, con una forte tradizione di monarchia regia e con i diritti regionali (consuetudini).
In Italia, invece, abbiamo la frammentazione più assoluta: prima abbiamo gli statuti cittadini, poi arrivano i signori, stati regionali, e grande frammentazione.
Gli umanisti giuridici non vogliono abolire il corpus iuris di Giustiniano, ma lo vogliono studiare anche e soprattutto filologico, come testimonianza del passato. Se è studiato come testimonianza del passato non ha più un grande valore come diritto vigente. Ma questo si può fare in Francia, ma non in Italia, perché considerare il diritto romano non vigente può essere auspicabile in Francia, dove non ne vogliono sapere di diritto romano, o ne vogliono sapere solo come ratio scritta, perché hanno già un diritto nazionale, formato dalle consuetudini francesi e dalle ordonnances regie che integrano o modificano quel diritto nazionale francese.
In altre parole, in Francia esiste già un’alternativa al diritto romano, quindi ci si può permettere di studiare il diritto romano non come diritto comune, ma come una testimonianza del passato.
In Italia questo non può accadere, perché abbiamo una grande frammentazione: un antidoto a questa grande frammentazione è proprio il diritto romano, il quale da i principi, istituti e figure (sistema iuris) e grazie a questi principi, istituti e figure si può avere una sorta di unità che risolve la frammentazione italiana.
Quindi, sono le condizioni politiche che determinano questa diversità culturale tra la Francia e l’Italia.
ANDREA ALCIATO creatore del MOS GALLICUS = modo francese di fare diritto (modo di leggere il corpus iuris in maniera storica, filologica, erudita, guardando il prima e il dopo di quel giurista, sapendo che Giustiniano promulga la legge dopo, ma il piano veniva prima: tutte cose che ai glossatori e ai commentatori non interessavano per niente).
In Italia, rimane, per distinguersi, il MOS ITALICUS = modo italiano di fare diritto (bartolismo = utilizzazione del corpus iuris come sistema iuris).
Molto importante: FRANCOIS HOTMAN (+1570).
1567 scrive ANTITRIBONIANUS (pubblicata nei primi anni del ‘600): Triboniano è colui che ha scritto il corpus iuris, ma precisamente è il presidente della commissione legislativa che su incarico di Giustiniano ha redatto l’intero corpus iuris dalle istituzioni alle novelle.
L’ANTITRIBONIANUS (=un attacco diretto a Triboniano): se la prende con Triboniano e Giustiniano direttamente. E’ un’opera che fece scalpore.
Ce l’aveva con Triboniano, perché, se è vero che i glossatori non sapevano il latino e hanno mal compreso il corpus iuris, a maggior ragione bisogna prendersela con Triboniano, perché è stato lui il primo responsabile, perché lui ha preso Gaio, Modestino, Ulpiano, tutti i giuristi dell’età classica, li ha scomposti e ricomposti a mosaico, ed è lui il primo malfattore che ha mal compreso la giurisprudenza classica, anzi, l’ha resa irriconoscibile perché ha cambiato le parole.
Ma questo è ovvio, perché Triboniano doveva fare un corpo vivo, perché doveva fare un codice vigente: non stava facendo un’operazione filologica.
Quindi, questo attacco è del tutto ingiustificato, ma fa capire il clima in cui questo attacco viene compiuto.
A parte la parte distruttiva di quest’opera, la parte costruttiva può essere riassunta in qualche modo così:
• La proposta che fa l’antitriboniano di Hotman è di scrivere uno, o al massimo, due piccoli libri chiari, semplici e, soprattutto, in francese (non in latino) di diritto nazionale francese che elimini le controversie interpretative e giurisprudenziali, cioè è già un piccolo progetto di codice (quello che proporranno in Italia sono 200 anni dopo). Diritto nazionale francese = un diritto che prenda spunto soprattutto dalle consuetudini e dalle ordonnances (diritto regio).
• In questo piccolo codice andrebbe anche il diritto romano, ma solo un EXCERPTUM (=estratto), perché il diritto romano è inattuale (solo gli umanisti possono dire questo), cioè vuole dire che il diritto romano è un diritto vecchio, quindi non si può pensare che il diritto romano possa essere applicato oggi.
CONCLUDENDO……
Ricordiamo due giuristi italiani che reagiscono a Hotman:
• TIBERIO DE CIANI = scrive un’apologia pro iuris prudentibus (=a favore dei giurisprudenti).
• ALBERICO GENTILI = italiano protestante che insegna a Oxford.
Questi due giuristi rispondono a Hotman dicendo che forse è vero che il diritto romano che usano loro è storpiato, ma nei tribunali, ogni giorno, se non si utilizza il diritto romano, con i suoi principi e le sue figure, non ci si ritrova più, perché c’è quella congerie di diritti (particolarismo) che non fa vivere. Grazie al diritto romano si hanno delle bussole e dei binari. Quindi, anche se quello dei francesi è un bel discorso culturale, ma qui si deve vivere con il diritto romano.
Addirittura, in Germania, dove attecchisce un po’ di umanesimo, si sono verificate delle rivolte studentesche, perché gli studenti non volevano i docenti umanisti, perché facevano studiare le cose troppo astratte, mentre loro avevano bisogno di nozioni concrete da utilizzare nel foro.
GIUSTNATURALISMO:
Iniziamo a parlare della SECONDA SCOLASTICA.
La scolastica è quella che ha inventato S. Tommaso d’Aquino (filosofo medievale del XIII secolo, cattolico) che si basa sulla riscoperta di Aristotele. Nel 1200, grazie ad alcuni intellettuali islamici si ritraducono le opere maggiori di Aristotele, quindi c’è una riscoperta di questo pensatore. E qui S. Tommaso scrive la sua opera principale che è la “summa teologica”.
Seconda scolastica, perché nei primi anni del 1500, in un’università spagnola (Salamanca) si riprende la scolastica di S. Tommaso, una scolastica, però, rinnovata.
Siamo agli inizi del 1500; c’è la scoperta delle Americhe; c’è l’umanesimo giuridico, il quale produce una nuova visione del corpus iuris, non più come diritto caduto dal cielo, ma come un testo che ha una sua verididicità e che va ricondotto alla sua verità storica. In questo periodo si spezza l’idea dell’universalismo imperiale (l’imperatore c’è ancora, ma non è più quel mito di unità che era per gli uomini del medioevo), cioè manca l’idea universalistica.
Questo succede perché si spezza quella che è la peculiarità del medioevo, cioè la visione dell’unità religiosa: nel 1400 Lutero e Calvino cominciano a criticare profondamente alcuni aspetti della religione cattolica e nasce la RIFORMA PROTESTANTE, alla quale aderiscono molti paesi, tra cui l’Inghilterra, la Germania, la Svizzera, una piccola parte della Francia, ecc. Alla metà del 1500 la chiesa cattolica risponde con il Concilio di Trento, dove i vescovi di tutta Europa cercano di rintuzzare argomento per argomento tutte le critiche della riforma luterana.
Quindi, nel 1500 si deve abbandonare l’idea di unità religiosa; non c’è più l’unità dell’universalismo imperiale; non c’è più l’unità geografica, perché si scopre che la terra è rotonda, non più piatta e ci sono degli altri mondi sconosciuti; non ci si può più fidare della visione storica medievale perché c’è l’umanesimo che fa capire delle cose nuove; c’è il pluralismo delle monarchie, quindi quell’unità politica anche virtuale astratta dell’impero è contraddetta da monarchie ormai fortissime, radicate e ormai perfettamente autonome.
La stessa scoperta del nuovo mondo è un’iniziativa imperialista di due sovrani lungimiranti, come Ferdinando d’Aragona e Isabella di Pastiglia, che finanziano la scoperta del nuovo mondo e la colonizzazione di nuove terre. Tutte queste idee culturali cominciano a modificarsi.
Una data molto importante è quelle del 1453: CADUTA DI COSTANTINOPOLI (ex Bisanzio), capitale dell’impero d’Oriente, presa dai turchi, ottomani, una popolazione non cristiana.
Quindi, gli uomini del medioevo vedono cadere un altro mito: cade anche la capitale d’oriente, capitale della civiltà bizantina.
Perciò vediamo che con la seconda metà del 1400 il medioevo è tramontato definitivamente.
Per quanto riguarda l’aspetto che, culturalmente, influenza direttamente anche le idee del diritto, vediamo innanzitutto un filosofo, cioè FRANCISCO DE VITORIA (1492/1546) il quale studia a Parigi e si imbeve delle idee umanistiche (siamo infatti nel pieno periodo dell’umanesimo). Egli torna in Spagna, fa il suo mestiere di filosofo ed intellettuale a Salamanca, dove comincia a diffondere le sue idee. Le idee diffuse da De Vitoria hanno avuto molto successo e questo probabilmente perché nel suo ambiente erano pronti a recepire queste idee, sia come epoca (epoca dell’umanesimo, cioè epoca delle scoperte geografiche), ma anche come luogo geografico: infatti, De Vitoria lavora proprio a Salamanca e il successo di queste nuove idee, in Spagna, non è casuale, in quanto la Spagna è il primo paese colonizzatore, cioè il primo paese che si trova di fronte a questa nuova visione.
La nuova visione, in sintesi, è questa: finora noi abbiamo pensato che esiste un unico imperatore e un unico papa e dei testi (bibbia per i religiosi; corpus iuris per la società laica) unici e che valgono per tutto il mondo.
Il problema culturalmente cambia quando si va in un’altra parte del mondo, che si credeva non esistesse, e si scopre che una parte altrettanto grande del mondo non sa assolutamente nulla di impero romano, né di Giulio Cesare, né di Bisanzio, né tanto meno del corpus iuris e si tratta di un intero continente che va dall’Alaska alla Patagonia.
Quindi, questa scoperta mette l’uomo occidentale in una profonda crisi, perché tutto ciò in cui credeva o che faceva finta di continuare a credere, non esiste.
I punti di riferimento, che potevano essere Dio, o il pontefice, o l’impero, non è che non esistano, ma bisogna ripensarci, perché questo grande continente mette tutti in una contraddizione enorme.
Francisco De Vitoria non è solo un giurista, e la prima cosa che ci vuole far capire è che deve essere tutto collegato ad un programma di rigenerazione religiosa.
Lui dice: “l’ufficio è il compito del teologo e sono talmente ampi che nessun argomento, nessuna disputa e nessun luogo, sembrano estranei alla riflessione teologica “ = quindi, la teologia, per quelli della seconda scolastica, è la madre di tutte le discipline: il diritto non è altro che una sottospecie della teologia, perché solo la teologia può spiegare tutto.
Perché è importante il teologo?
Perché il teologo ha gli strumenti, che non può avere il giurista, di interpretare la natura (per questo parleremo poi di giustnaturalismo) intesa come volontà divina.
NATURA = VOLONTA’ DIVINA.
Qui siamo nel passaggio tra il medioevo e l’età moderna, perché il medioevo ci aveva insegnato che c’era la volontà divina, cioè l’aequitas (=giustizia divina). Qui si fa un discorso ancora più ampio: la volontà divina non è solo quella dell’equità, ma è la natura, l’intera creazione della natura e se guardiamo bene la natura, come teologi, possiamo vedere la volontà di Dio.
Se la natura è volontà divina, il diritto deve sottostare alla natura: quindi il diritto non è altro che espressione della volontà divina stessa, per cui per conoscere questo, dobbiamo essere innanzitutto dei teologi, secondo De Vitoria.
Inoltre lui dice: “la fonte e le origini delle città e delle repubbliche non sono state determinate dall’uomo e non sono da annoverare tra le sue opere, cioè le opere umane: derivano, invece, dalla natura che ha apportato questa misura razionale, cioè la ratio a tutela e preservazione dei mortali “ = in altre parole, dice che non è stato inventato nulla, perché ci si organizza a degli ordinamenti giuridici che non vengono da creazioni umane e neanche l’imperatore le ha inventate.
L’imperatore non ha mai imperato sulle Americhe, quindi tutta la costruzione medievale crolla e allora si deve alzare il livello della generalità: il diritto scende in basso, perché è un diritto imperiale e si è scoperto che questo diritto imperiale non è più universale, appunto perché le nuove Americhe non lo conoscono: allora bisogna alzarsi di un livello, cioè bisogna parlare di natura.
Quindi, quel punto di riferimento universale, che prima era il diritto universale, adesso è la natura, cioè il creato: il dominus non è più l’imperatore, ma è Dio stesso. Se è Dio il primo uomo politico che governa il mondo, capiamo perché il teologo è la professione principe rispetto al giurista.
Persino il diritto universale si è particolarizzato, perché si è scoperto che il diritto universale era solo un diritto europeo.
De Vitoria ha avuto successo, perché è un teologo che, prima di Grozio e di tutti gli altri, ha dato risposta ad un interrogativo che avevano tutti, cioè cosa fare ora che c’è il nuovo mondo.
Adesso arrivano i problemi e, in particolare, c’è il problema di legittimare la colonizzazione selvaggia che viene fatta dei nuovi mondi.
De Vitoria dice: “noi siamo teologi e sappiamo leggere la natura: Dio parla attraverso la natura “ = questa natura ci fa vedere che nel mondo naturale non tutto è uguale: ci sono persone che hanno certe virtù e devono esercitare queste loro virtù attraverso il comando, mentre ci sono altre persone che non hanno queste virtù, o che addirittura la loro razionalità è spenta dall’errore, da false credenze e quindi non hanno nessun diritto e devono essere soggette a rieducazione o ad assoggettamento.
Quindi, in natura ci sono, naturalmente, degli uomini inferiori.
Questo porta a due conseguenze:
1. Dal punto di vista del giurista: già il giurista è in crisi, come sono in crisi le università e, per riacquistare prestigio, il giurista deve dare dei consilia, o si deve far assumere dai grandi tribunali, o deve essere un giurista alla corte dei vari principi. Quindi, il giurista è talmente in crisi che può sorgere uno come Francisco De Vitoria e dire che il giurista conta meno del teologo. In Europa, perciò, si afferma l’idea che il discorso sulla natura sia un discorso preliminare a quello del diritto: è la natura che ci dice quali sono i fondamenti del diritto, i fondamenti dei regni, ecc.
2. Questo discorso sugli uomini inferiori avrà come momento particolarmente vivo una discussione con ripercussioni europee fra due polemisti, universitari di Salamanca e anche uomini intellettuali di grande livello, cioè IVAN DE SEPULVEDA e BARTOLOMEO DE LAS CASAS: entrambi vivono nel primo ‘500 e si combattono a suon di libelli. De Sepulveda scrive “Le cause della giusta guerra….. “ = in questo periodo c’è un dibattito sulla giusta guerra in cui combattono filosofi e giuristi. Questa è un’epoca di grandi carneficine, sia in America, sia in Europa, quindi uno degli argomenti preferiti dai giuristi era guerra giusta, perché la guerra si divide in giusta ed in ingiusta, perciò bisognava sempre giustificare la guerra, in qualche modo. La loro disputa si conclude in nulla: essi sono convocati dal pontefice, fanno una quaestio sui pro e i contra tra i due, però alla fine il pontefice non da una solutio, cioè non da ragione né all’uno, né all’altro.
Per concludere vediamo GROZIO, grande esponente del giustnaturalismo.
Quando si dice che Grozio è il fondatore del giustnaturalismo va bene, ma a condizione di sapere che Grozio veniva dalla seconda scolastica.
Grozio passò il suo maggior tempo in carcere, perché era perseguitato per le sue idee.
L’idea sulla natura non l’ha inventata Grozio, ma l’hanno riscoperta i secondi scolastici di De Vitoria.
Grozio è certamente un uomo geniale, che spunta nel luogo giusto e al momento giusto. Vive tra la fine del 1500 e i primi del 1600 in Olanda: l’Olanda, in Europa, oltre la Spagna, è la più grande potenza commerciale.
Pur essendo un piccolo stato, l’Olanda è riuscita a produrre una grande forza commerciale, tanto che le colonie olandesi sono sparse in tutto il mondo.
Oltre che una grande potenza commerciale, l’Olanda è anche un grande paese di libertà intellettuale: tutti i libri vietati nel resto dell’Europa vengono stampati in Olanda.
Una delle opere di Grozio è DE IURE BELLI AC PACIS – 1625 (=il diritto della guerra e della pace) e prima aveva scritto un’altra operetta che è MARE LIBERUM (=il mare libero di essere solcato dal colonizzatori) = qui nasce il diritto internazionale marittimo e se lo pongono gli olandesi, perché loro sentono il bisogno di una regolamentazione della navigazione quando si va a colonizzare.
Solo l’osservazione della natura ci può dare delle regole universali, cioè valide per tutto il mondo in materia di guerra, di pace e di scambi marittimi e commerciali.
Cosa cambia con Grozio rispetto a De Vitoria?
Grozio è laico: l’osservazione della natura non è necessariamente la volontà divina. Lui non lo nega e dice che la natura ce l’ha data Dio, ma ce l’ha messa già in testa, perché noi in testa abbiamo già le regole naturali. Quindi, ogni uomo, anche quello non cattolico e non civilizzato può, guardando dentro se stesso, sapere quali sono le regole di diritto naturale.
Quindi, i temi della natura non li inventa Grozio, soprattutto perché quello della natura è un concetto antichissimo che viene dalle prime riflessioni filosofiche aristoteliche e riprese da S. Tommaso d’Aquino, poi riportate, nei primi del ‘500, a piena luce dai teologi della scuola di Salamanca.
Perciò, quando parliamo di giustnaturalismo e vogliamo individuare le sue origini, possiamo ripetere gli stessi punti a proposito del momento del passaggio tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna.
Vediamo che in questo periodo si forma una nuova mentalità culturale e, innanzitutto, dobbiamo citare alcuni nomi importanti:
• CARTESIO con il suo pensiero della RAZIONALITA’: la razionalità umana diventa elemento centrale della riflessione cartesiana = da luogo metafisico, la ratio viene portata ad un luogo prettamente umano, tanto è che per noi, oggi, la razionalità è quasi sinonimo di umanità.
• NEWTON e GALILEI con un approccio SPERIMENTALISMO: le verità non si affermano in base a dei dogmi, ma si sperimentano nella natura (natura diversa da quella di tipo teologico).
Questa idea, razionalistica ed empiristica (sperimentalismo), fa cambiare anche l’approccio ai filosofi-politici, che cominciano adesso a riflettere in termini meno dogmatici.
Arriviamo così a Grozio e al suo giustnaturalismo.
Che cosa afferma il giustnaturalismo di tipo graziano? Afferma l’esistenza di REGOLE AUTOEVIDENTI: esistono delle regole autoevidenti, cioè delle regole che si evidenziano da sole e che non hanno bisogno di un’autorità trascendente o secolare, ma dotata di particolare prestigio, come l’imperatore o il pontefice, che le imponga in un atto passivo di obbedienza.
Esistono delle regole autoevidenti, cioè delle regole che tutti possiamo, in qualche modo, individuare.
Su cosa si fondono queste regole autoevidenti? Su valori etico-sociali, cioè su dei valori morali (es.: non fare ad altro quello che non vorresti fosse fatto a te stesso) e su dei valori sociali (es.: se siamo in una comunità, il mio interesse è preservare questa comunità, quindi evito tutto ciò che mette in crisi la mia comunità).
In base a questi valori si possono individuare delle regole, anche banali ed ovvie, autoevidenti. Queste regole autoevidenti che si fondano sui valori etico-sociali sono il frutto della razionalità umana.
Questa razionalità umana individua alcuni valori etico-sociali, di sopravvivenza, di buon vivere, di autoconservazione, quindi da ciò si possono dedurre alcune regole autoevidenti, cioè regole in base alla razionalità umana.
Qui vediamo finire il medioevo: in qualche modo la seconda scolastica era proiettata nel nuovo, perché c’era un mondo che metteva in crisi il medioevo, ma rispondeva in modo antico, cioè rispondeva alle esigenze nuove rimodellando le verità del medioevo, cioè che esistesse una natura ed una razionalità che era identificata con la volontà divina.
Per interpretare la volontà divina occorrono degli interpreti che, in questo caso, non sono dei giuristi, ma sono dei teologi, perché solo i teologi possono interpretare la volontà divina. Ma se si parte dalla razionalità umana, si può vedere bene che non esistono più intermediari, perché basta un uomo sano di mente e che abbia a cuore la propria sopravvivenza e la sopravvivenza dell’ambiente umano e naturale che lo circonda, perché quel singolo uomo senza aver bisogno, né di giuristi, né di teologi, possa individuare da solo quei valori etico-sociali, ma soprattutto le regole autoevidenti.
Qui non si parte da Dio, anche se si può arrivare a Dio, perché la razionalità umana può dimostrare l’esistenza di Dio, ma si parte sempre dalla razionalità umana.
E questo è il frutto di 2 o 3 secoli di crisi medievale che tocca il suo apice nel ‘400/’500 con l’umanesimo, quindi con la riscoperta della personalità umana, che porta alla razionalità umana, la scoperta dei nuovi mondi, la fine dell’universalismo religioso o imperiale, ecc.: insomma, un nuovo percorso che porta a questi nuovi punti di riferimento.
La conseguenza pratica di questo ragionamento è che, sottolineare l’elemento della razionalità, fa sì che la verità e, in particolare, la verità giuridica (quindi la norma e la regola), per essere conoscibile, non ha più bisogno di un interprete, né di un mediatore, ma semplicemente dell’intelletto umano: quindi, ogni singolo uomo può individuare autonomamente, senza interpreti supplementari, la norma etico-giuridica da seguire, attraverso un atto di intelletto, che è un atto di razionalità.
Quindi, si parla di SECOLARIZZAZIONE del fondamento del diritto: si riporta al secolo, cioè si riporta sulla terra il fondamento del diritto (che, nel medioevo, stava in cielo, perché l’aequitas era la giustizia divina). Partire dalla razionalità umana produce la secolarizzazione del diritto. In questo modo la norma giuridica diventa DICTAMEN RECTAE RATIONIS (=dettato della retta ragione).
Questa è l’epoca in cui la ratio diventa razionalità, cioè ragione umana, mentre per secoli la ratio era il senso profondo delle cose trasfuse nella creazione.
Adesso la norma diventa un semplice enunciato della ragione giusta.
Per quanto riguarda queste regole autoevidenti, e si vedrà meglio con altri pensatori, in particolare con LEIBNIZ, dobbiamo dire che le regole autoevidenti possono benissimo essere identificate con poche regole che troviamo espresse nel diritto romano, se togliamo dal diritto romano tutto ciò che è eccessivo e superfluo.
ESEMPIO: le regole “pacta sunt servanda”, o le regole in base alle quali bisogna risarcire i danni, sono regole autoevidenti che si giustificano.
Arriviamo ora al punto del CONTRATTUALISMO.
Abbiamo visto qual è il fondamento del diritto, il quale non viene da un’autorità o, meglio, viene da un’autorità razionale, che è l’autorevolezza che ognuno di noi ha dentro se stesso.
E qui cominciano i problemi.
Il giustnaturalismo è compatibile col positivismo?
(Positivismo = idea culturale del filosofo ottocentesco, ma è un atteggiamento che noi abbiamo verso la norma giuridica, per cui è diritto vigente tutto ciò che è norma positiva, cioè norma scritta vigente).
Il giustnaturalismo può benissimo essere in contrasto col positivismo, nel senso che io affermo una regola autoevidenti, poi vado nel ducato di Lombardia e mi trovo una norma positiva, vigente, che è contraria alla norma autoevidente.
Questo strano conflitto, in realtà, diventerà una specie di “santa alleanza” nel XVIII secolo, perché grazie a questa idea si affermerà il principio secondo il quale i sovrani illuminati (che hanno la razionalità) dovranno incorporare nelle loro norme le regole naturali: quindi, il sovrano, che prima era in conflitto con le regole autoevidenti, adesso deve farsi lui il campione delle regole autoevidenti e si autolegittima in questo modo. I sovrani hanno ragione di esistere in quanto pongono in essere le regole naturali, quindi fanno diventare positive le regole naturali, giustificando in qualche modo la loro sovranità.
I sovrani fonderanno la loro sovranità non più su un atto autoritativo, ma mettendo per iscritto le leggi di natura.
Il contrattualismo è il versante giuspubblicistico del giusnaturalismo, perché le regole autoevidenti sono autoevidenti, ma c’è bisogno di norme positive e le norme positive sono fatte dal legislatore, il quale presuppone uno stato. Di conseguenza, oltre a giustificare le regole autoevidenti, bisogna giustificare lo stato (e da adesso si può cominciare a parlare di stato).
Quindi, il contrattualismo è tutta una serie di idee che spiegano le origini dello stato.
Come si giustifica l’esistenza di un sovrano, di uno stato, di un regno, attraverso questo nuovo orizzonte conoscitivo politico?
Non basta più l’idea che il sovrano l’ha investito Dio, ma occorre un altro percorso, che non parta dall’alto. Quindi si tratta di rigiustificare tutti i sovrani che ci sono, però, invece che partire da Dio, bisogna partire dalla razionalità umana. E si parte dal CONTRATTO SOCIALE.
Il contratto sociale si basa su un’idea che precede il contratto sociale stesso, che è quella dello STATO DI NATURA. Si ritorna al concetto di natura, solo che prima la natura era la ratio, era la volontà divina e non ci eravamo mai chiesti molto su questo: adesso si dice che, se la natura è qualcosa che sta in terra e certamente adesso siamo in qualche modo usciti dalla natura, come ci immaginiamo ora questo stato di natura? Perché, evidentemente, prima di fare uno stato c’era qualcosa e questo qualcosa era l’assenza di stato e l’assenza di stato, a sua volta, era lo stato di natura.
Storicamente non sappiamo se è mai esistito uno stato di natura, razionalmente ce lo possiamo immaginare, cioè possiamo sapere che nel percorso della storia non tutte le cose sono così come le abbiamo adesso.
Quindi, prima cosa c’era?
E qui i filosofi della politica si sono sbizzarriti. Il primo a tirare fuori questa idea del contratto sociale è THOMAS HOBBES, un inglese, che nel 1651 scrive il LEVIATHAN (=un mostro che divora tutto) = si tratta di una sorta di incubo e questo incubo è lo stato moderno.
Lo stato di natura, per Hobbes, è uno stato di paura:
• Bellum omnium contra omnes = l’uomo lupo all’altro uomo.
• Homo homini lupus = l’uomo lupo all’altro uomo.
= Hobbes dice che l’uomo, dotato di razionalità, fa di tutto per uscire dallo stato di natura; quindi, si mette d’accordo e l’atto che sancisce questo accordo è il CONTRATTO SOCIALE (e questa è l’origine dello stato).
In cosa consiste la razionalità del contratto sociale?
Che se noi vogliamo evitare questo stato di paura è ovvio e razionale che facciamo un contratto sociale e che lo facciamo nel modo più evidente, più rapido e più netto possibile.
E qui arriva la genialità di Hobbes, perché lui ci dice: Chi fa il contratto sociale?
Il contratto sociale è il contratto stipulato da tutti meno uno, cioè meno il sovrano. In questo modo il sovrano, che viene investito mediante il contratto sociale, non risponde di nulla.
Quindi, si dice che Hobbes è il filosofo-politico che da le premesse all’ASSOLUTISMO. Hobbes insiste molto sulla terribilità dello stato di natura per giustificare l’assolutismo che deriva dal contratto sociale e assolutismo può essere solo se si fa contratto sociale di tutti meno uno, cioè meno il sovrano assoluto.
Vediamo che Hobbes, da una parte inventa questo sistema, da una parte è ispirato alla realtà: in questi anni si va verso lo stato assoluto (che c’è già), quindi occorre che alcuni filosofi e giuristi diano una costruzione tecnica a quello che c’è già. E questo è un punto di partenza.
Possiamo dire, quindi, che Hobbes certamente è un contrattualista, ma è anche un assolutista, cioè un filosofo della politica assolutista.
Ma Hobbes è anche un’altra cosa: è un fautore del GIUSVOLONTARISMO = Hobbes non parla di regole autoevidenti, ma a lui del giusnaturalismo interessa un aspetto, cioè l’aspetto del contrattualismo.
La legge, secondo Hobbes, è la manifestazione di volontà del sovrano, per cui “giusvolontarismo”, termine che indica che il diritto si identifica con la volontà del sovrano.
Quindi, la norma è un atto di volontà e tutto ciò che vuole il sovrano è diritto.
Da questa idea assolutistica del diritto nascono le nostre garanzie e nasce il primo germe, pur pallidissimo, dello stato di diritto, cioè nasce la premessa logica: il silenzio del sovrano corrisponde alla libertà. La libertà consiste nel fare tutto ciò che il sovrano non comanda, cioè un’idea di libertà negativa.
Questa è una cosa molto importante, perché è l’inizio della teoria moderna del diritto penale, perché il diritto penale consiste nel dare mille obblighi e questi obblighi, divieti e comandi, si devono conoscere in anticipo, poi si è liberi di fare tutto ciò che la legge non sancisce.
Che progresso è? Hobbes ci fa vedere che le nostre libertà cominciano con l’inizio delle legge, dove lo stato non arriva, però rispetto a prima, dove l’aequitas era la volontà divina, la differenza consiste in questo:
• Nel medioevo io non cesso mai di essere sottoposto all’aequitas, perché la volontà divina è dovunque, nella natura, nel creato, quindi io sono sottoposto in qualunque momento delle mia vita all’aequitas, quindi posso essere sempre passibile di condanna = non sono mai libero, perché sono inserito nel creato che ha le sue leggi.
• Con questa idea, per quando io abbia a che fare con un Leviathano, che mi fa ogni giorno mille divieti, alla fine ci sarà sempre un divieto che si dimenticherà di pormi, e lì comincia la mia libertà = Dio è lontano dal creato e la natura è una cosa completamente diversa.
PRECISAZIONE……
L’importanza di Hobbes è quella di aver affermato che la legge e, in generale lo stato, ha un fondamento razionale e ragionevole: le leggi saranno in tutti i casi utili, quindi hanno un fondamento di razionalità.
Secondo il ragionamento di Hobbes, la legge alla fine risulta un atto di razionalità: non c’è nulla però che ci assicuri la razionalità del comportamento del sovrano, se non almeno nel caso peggiore, che non è detto che debba avvenire, cioè il fatto che anche se il sovrano dovesse porre in essere qualcosa di “discutibile”, è pur sempre un atteggiamento, un atto, o una legge razionale, perché in ogni caso servirà ad uscire dallo stato di paura dello stato razionale.
Secondo Hobbes, la ragionevolezza è garantita dal fatto che, in ogni caso, ci serve: per quella volta che sragionerà, sappiamo che è il prezzo che dobbiamo pagare per uscire fuori dal terribile stato di paura.
Molto diverso è il contrattualismo di JOHN LOCKE (1632-1704), il quale scrive TWO TREATISES OF GOVERNAMENT (=i due trattati sul governo) nel 1690.
Mentre quello di Hobbes è un contrattualismo assolutista, quello di Locke è un contrattualismo liberale.
Il contratto sociale di Hobbes veniva stipulato tra tutti i futuri sudditi, tranne il sovrano, che restava esterno a questo fatto e il fatto di rimanere esterno è la base dell’assolutismo: il sovrano è assoluto proprio perché non è vincolato dal contratto sociale fondamentale.
Per Locke la situazione cambia: il contratto sociale è fatto tra tutti, nessuno escluso, nemmeno il sovrano. Da qui la visione liberale. Questo presupposto, apparentemente tecnico, ha delle conseguenze su un piano di diritto pubblico enormi, perché se il contratto sociale lo facciamo tutti è ovvio che la scelta del sovrano viene in un momento successivo al contratto. Ne consegue che il sovrano è vincolato al rispetto del contratto sociale, cioè deve assicurare ai suoi sudditi i beni fondamentali della libertà naturale che, per Locke, sono sostanzialmente tre:
1. Libertà
2. Uguaglianza
3. Proprietà
Questi sono i tre beni fondamentali che già avevamo nello stato di natura e che, se non anche in termini assoluti, vogliamo conservare anche nello stato civile, sennò la sovranità non avrebbe senso.
Mentre per Hobbes il sovrano non è obbligato al rispetto di nessun diritto naturale, perché svincolato dal contratto sociale e il suo bene lo produce lo stesso (secondo Hobbes il bene consiste nel fatto di avere evitato la guerra di tutti contro tutti).
Per Locke, invece, visto che il sovrano è parte integrante del contratto sociale, occorre qualcosa di più: il sovrano è vincolato al rispetto di questi tre beni fondamentali che ci vengono dallo stato naturale.
Per Locke la libertà non è una definizione negativa: non è il silenzio della legge, perché qui il sovrano si deve impegnare positivamente con la sua legge a garantirci questi tre beni.
Seconda conseguenza molto importante è che, secondo Hobbes, il sovrano compie, di regola, leggi utili e se questa utilità noi non la vediamo, non possiamo farci nulla, perché è un sovrano assoluto e dobbiamo accontentarci che ci ha tolti allo stato di guerra di tutti contro tutti.
Invece, secondo Locke, se il sovrano mi conculca assolutamente la libertà, o produce delle intollerabili disuguaglianze, o mi priva della mia proprietà, perde la legittimità: per questo qui lo stato è liberale, perché c’è un momento di garanzia dei sudditi, perché in questo caso cominciano a diventare quasi cittadini.
Come vediamo è stato usato uno strumento logico-tecnico uguale, il contratto sociale e si è arrivati a conclusioni diametralmente opposte.
Hobbes pensava ad un sovrano assoluto, quali quelli che stavano nascendo in tutta Europa, a cominciare dal sovrano francese, proprio in quegli anni.
Locke, al contrario, aveva a cuore una visione liberale dello stato, quindi sempre partendo dal contratto sociale, modificava le conseguenze.
Il giustnaturalismo ha una propaggine molto importante in Germania e parliamo, in particolare, di SAMUEL PUFENDORF (1632-1694) e ricordiamo due opere:
• De iure naturae et gentium – 1672 (=sul diritto naturale delle genti).
• De officio hominis et cives – 1673 (=sul dovere dell’uomo e del cittadino).
Con Pufendorf dobbiamo ricordare un evento importante nella storia dell’università europea, perché per la prima volta in Germania Pufendorf aprì una cattedra di diritto naturale. Si tratta di un’iniziativa molto importante perché ci fa vedere come siamo in pieno giustnaturalismo e si comincia ad insegnare il diritto naturale nelle università come materia monografica, assieme al corpus iuris di Giustiniano.
Negli stessi anni in Francia (1600) si apre una cattedra di diritto nazionale francese (soprattutto il diritto delle consuetudini regionali francesi, poi cristallizzate nella versione delle ordonnance regie).
Come si vede, quindi, il 1600 è un momento di sblocco e di novità, anche nell’insegnamento universitario.
Perciò Pufendorf e il diritto naturale è un binomio inscindibile, sia perché è un giustnaturalista, poi anche perché lo insegna all’università.
Il suo obiettivo, come poi quello di gran parte dei giusnaturalisti tedeschi, è quello di preoccuparsi di un problema a monte.
I tedeschi non si occupano di contrattualismo, ma si occupano proprio di diritto naturale, cioè diritto naturale come diritto produttivo di norme giuridiche, norme di diritto civile, o di diritto penale, ecc.
Come si fa a distinguere il diritto naturale dalla morale? E come facciamo a togliere alla chiesa l’autorità ecclesiastica e la possibilità di ingerirsi con delle valutazioni morali? Prima di affrontare cos’è il diritto naturale bisogna affrontare questo problema.
Prima di tutto, a partire dai tedeschi, il diritto naturale diventa oggetto di una precisa sistemazione scientifica.
DIRITTO NATURALE
DIRITTO CIVILE
Può essere conosciuto in due modi:
1. RIVELAZIONE = dato direttamente da Dio = conosco un precetto etico. Di questo se ne occupano i teologi.
2. RAZIONALITA’ = posso capirlo con la mia ragione = conosco una norma naturale. Di questo se ne occupano i filosofi-politici, i giuristi, ecc.
Legislatore = Dio.
Produce una
NORMA CIVILE
SANZIONE
Legislatore = Sovrano.
Differenza tra la norma naturale e la norma civile.
ESEMPIO: Se dico “non rubare”, questa è una norma etica; se dico “non rubare sennò ti do 5 anni di carcere”, questa è una norma civile.
Non che la sanzione non può esserci anche nel diritto naturale, ma è implicita, cioè non è detta da nessuno. Se non si rispetta il diritto naturale si disgregherà la società, ma certamente non si incorre in nessuna sanzione.
Con Pufendorf abbiamo una prima definizione di norma: la norma è un comando (=decretum) con cui qualcuno (in questo caso il sovrano), obbliga un soggetto (subordinato) di attenersi al comportamento prescritto.
La legge civile, per distinguerla dalla legge naturale, non è altro che un comando sanzionato.
Grazie a questo passaggio logico, nel ‘600, Pufendorf, partendo dal diritto naturale, riusciva a distinguere la competenza dei teologi dalla competenza dei giuristi:
• Teologi = diritto naturale.
• Giuristi = diritto civile.
Finalmente si individua che tutti i comandi sanzionati vengono fatti oggetto di indagine da parte dei giuristi e in questo campo i teologi non possono entrare: quindi, il sovrano potrà tranquillamente legiferare sapendo che la chiesa non può entrare nei comandi sanzionati, perché la chiesa si occuperà delle norme naturali che ci verranno rivelate attraverso i precetti etici.
Naturalmente il comando sanzionato non può essere in contrasto col diritto naturale.
La legge civile, non naturale, è quella che ci da il sovrano, però il sovrano ha l’obbligo morale di conformarsi al diritto naturale, cioè non può porre in essere comandi sanzionati irrazionali, innaturali.
Per affermare questo non si usa il contratto sociale, ma si usa un’argomentazione di razionalità, o di saggezza, tanto è vero che da quest’epoca in poi si parlerà di sovrani illuminati.
I sovrani vengono esortati a fare norme, ma norme razionali e naturali. Quindi, i sovrani se vogliono essere saggi e riconosciuti come tali dai “sudditi” devono adeguare i propri comandi sanzionati al diritto naturale.
La concezione di Pufendorf rispetto alla libertà è molto vicina, anche se non identica a quella di Hobbes.
Pufendorf non individua positivamente le libertà fondamentali dell’individuo, come fa Locke: la libertà è il silenzio della legge anche se con qualcosa in più.
Mentre per Hobbes era una sorta di vuoto pneumatico dove c’era proprio il silenzio della legge, Pufendorf dice che le libertà vengono garantite dal fatto che il sovrano non impone una sanzione: dove non c’è una sanzione si è liberi di fare quello che si vuole, ma questa libertà in cui consiste l’assenza di sanzioni riporta a quei godimenti che si avevano nello stato di natura.
Quindi, il silenzio della legge mi fa godere di quella libertà che godevo nello stato di naturale. Ciò vuole dire che Pufendorf non ha la stessa visione terribile dello stato naturale come aveva Hobbes.
Allievo di Pufendorf, CHRISTIAN THOMASIUS. La sua opera fondamentale è FUNDAMENTA IURIS NATURALIS GENTIUM – 1706 (=fondamenti di diritto naturale delle genti).
Thomasius aderisce in toto al maestro, però cerca di entrare un po’ più in profondità, perché ritiene che il pericolo consista sempre nella possibilità che il diritto naturale, in quanto ha un nocciolo profondo di eticità, possa essere oggetto di confusione ed ulteriore appropriamento da parte dei filosofi, dei teologi, della chiesa, ecc.
Per arrivare alle stesse conclusioni del maestro Pufendorf, Thomasius fa un altro percorso.
Qual è l’obiettivo dell’uomo?
La ricerca della felicità (che si aggiunge alla tranquillità e alla pace: questa è la felicità).
Partiamo dalla felicità e dalla pace. Questa pace può essere:
1. INTERNA = quella della propria coscienza. E’ assicurata dall’ONESTA’.
2. ESTERNA = quella per cui se rubo delle cose ad altri vengo perseguito perché altero l’equilibrio della collettività. E’ assicurata dalla GIUSTIZIA.
3. INDIFFERENTE = non riguarda né la pace interna, né la pace esterna, ma consiste nello stare bene con gli altri. E’ assicurata dal DECORO.
Se si vuole raggiungere direttamente la felicità, la felicità assoluta si ha con l’onestà, perché si fa quello che dice Dio e non ci si sbaglia mai.
Più modestamente, se non è questione di raggiungere la felicità, ma è questione di evitare i mali, prevale il giusto (la giustizia), perché è fatto di comandi sanzionati, i quali evitano il male, anche non ci fanno raggiungere la felicità.
Qui nasce la mentalità giuridica moderna.
GOFFREDO GUGLIELMO LEIBNIZ (1646/1716) autore, nel 1667, della NOVA METHODUS DISCENDAE DOCENDAEQUE JURISPRUDENTIA (=nuovo metodo di apprendere e di insegnare la giurisprudenza).
Leibniz è un grande filosofo, logico, matematico e scienziato. Egli si interessa anche della giurisprudenza e, in particolare, il suo problema è quello della CERTEZZA (uno dei punti critici dell’antico regime): poiché non siamo in un’epoca codificata e viviamo in un clima di particolarismo giuridico, di conseguenza i giuristi hanno bisogno di criteri di certezza (come la communis opinio, che però da una parte risolve la certezza, ma dall’altra porta anche incertezza).
Leibniz propugnava la certezza e la verificabilità delle scienze matematiche e delle scienze naturali e riteneva che anche la giurisprudenza ed il mondo giuridico dovessero subire lo stesso trattamento: gli dava fastidio il mondo dell’arbitrarietà e della discrezionalità tanto è che ne dava una valutazione negativa.
Ai tempi di Leibniz un giudice poteva emettere una sentenza di “non liquet”, cioè “non è chiaro”: in altre parole, un giudice che allo stato attuale non ritenesse un senso di chiarezza su un dato di fatto e su un dato di diritto, poteva emettere una sentenza di non liquet (cosa impossibile per un sistema a regime codificato come il nostro). Questo sistema di non liquet per Leibniz era un’assurdità, perché in un sistema certo, una sentenza di non certezza era impossibile.
Vediamo cosa propone Leibniz, perché questo suo modo di ragionare è un modo di vedere la norma che prelude direttamente al modo di vedere codificato della norma ed è molto vicino alla nostra idea di codice.
Cos’è la norma per Leibniz? La norma è una proposizione: la norma deve avere un soggetto, un predicato e in rapporto tra soggetto e predicato deve esserci un verbo (copula).
Questi sono gli elementi fondamentali per fare una norma giuridica: soggetto e predicato, mentre il verbo è un elemento ovvio, perché soggetto e predicato devono essere posti in una certa relazione.
Cosa comporta questo nel mondo giuridico? Comporta che il soggetto è inteso, per la prima volta, in un modo diverso da come lo intendevano i giuspolitici e i giusfilosofi. Finora il soggetto era il suddito, perché se io dico che una norma è la manifestazione di volontà del sovrano, allora i destinatari di questa norma sono i sudditi del sovrano stesso.
Per la prima volta, attraverso la definizione della norma come proposizione, il soggetto cambia denominazione: non è più visto come un subordinato, cioè come colui che subisce l’autorità giusvolontaristica del sovrano, ma diventa titolare della norma e diventa destinatario della norma.
Se la norma viene definita così, come una proposizione con una sua logica e una sua ragione di essere e perché, soprattutto, sia certa, allora il soggetto cambia connotazione: il predicato sarà o un obbligo o un diritto e il soggetto è titolare o di un diritto o di un obbligo, e la copula serve per porre in relazione questi due elementi.
Con questo sistema si ha una norma certa, ma una norma certa di cui ai tempi di Leibniz non esiste nessun esempio, perché in questo periodo le norme si facevano in un altro modo, cioè in maniera non geometrica. Questo è il “novo methodus” che lui chiamava anche MORE GEOMETRICO (=modo geometrico).
Cosa vuole dire usare questa idea di norma “more geometrico”?
L’ordinamento giuridico dovrebbe essere fatto non, ad esempio, di 2000 norme tutte orizzontali, ma dovrebbero essere poste in una costruzione geometrica a triangolo, dove al vertice vanno le norme generali, e via via, le norme particolari: questo perché ci sono alcune norme generali (regole fondamentali), che possiamo sempre esprimere attraverso questo sistema, che danno vita a delle sottonorme.
ESEMPIO: la norma “pacta servanda sunt” (=tutti i patti devono essere osservati) è una norma generale, ma da questa norma posso trarre delle sottonorme, come “se vendo una cosa devo consegnarla entro un certo termine”: quest’ultima è una norma più specifica rispetto alla prima, messa però in un ordine verticale, perché dipende sempre dalla prima.
Però more geometrico vuole dire anche un’altra cosa: non è detto che tutte le norme si pongano in questa idea triangolare, ma ci può essere anche una eccezione alla regola.
ESEMPIO: “i patti sono da rispettare”, ma c’è un minore: i minori possono fare eccezione, per tutelare la loro non piena maturità e consapevolezza dell’importanza di un certo tipo di negozio. Però, se si tratta di una norma di tipo eccezionale, questa norma non può trarre conseguenza: si tratta di un’eccezione che si ferma qui (non si possono creare delle sottonorme, così come le norme eccezionali non possono essere analogiche).
Quindi, in generale, le norme more geometriche si pongono in una situazione: dal generale, via via sempre più nel particolare. Dove c’è un’eccezione, quell’eccezione non può produrre norme più specifiche.
Con questo sistema, Leibniz ritiene che l’ordinamento può avere un sistema certo e, tendenzialmente, completo: basta che io individui le norme generali, grazie ad un lavoro di interpretazione posso fare delle sottonorme sempre più particolari e posso fare anche delle eccezioni, che non devono trarre conseguenze, quindi il sistema risulta completo. Il giudice non potrà più fare sentenze di “non liquet”, perché grazie a questo sistema logico tutto è perfettamente coordinato.
Leibniz è certamente un razionalista, perché per lui l’idea di una certa razionalità e di un certo ordine è preliminare ad ogni altro tipo di ragionamento, proprio per ottenere certezza e completezza dell’ordinamento. Non è, però, un giustnaturalista: in qualche modo egli è attraversato dal giustnaturalismo, ma lo contesta.
In che senso Leibniz è attraversato dal giustnaturalismo ma in qualche modo lo contesta? Lo contesta sul fatto che il giustnaturalismo, come sappiamo, si basa sull’esistenza di un ipotetico stato di natura: in questo di natura si può stare bene o si può stare male (v. Hobbes e v. Locke…).
Tutta questa idea teorica che serve solo per giustificare l’assolutismo del sovrano, per Leibniz è sbagliata. Non dice che lo stato di natura non esiste: è un giustnaturalista in questo senso, perché non può fare a meno di partire da un’idea comune a tutte le menti in quest’epoca, però non gli piace per tutte le conseguenze che nascono.
ESEMPIO: uno dei punti su cui era partito Pufendorf era quello di distinguere il diritto dalla morale religiosa, problema teorico, ma anche problema politico, perché si trattava di escludere la chiesa da alcuni aspetti giuridici e tecnici fondamentali.
A Leibniz non va l’idea di distinguere la giustizia dall’etica: secondo lui è un errore.
Per Thomasius il diritto di tutti i giorni è evitare il male: la felicità eterna ce la da soltanto Dio con la sua etica. In questo modo Thomasius aveva diviso i due ambiti. Questa operazione logica che serviva per sottrarre potere alla chiesa, per Liebniz è pericolosissima e forse ha ragione, perché individua uno dei mali che affligge la democrazia moderna, cioè il fatto che una nostra azione, oggi, può essere moralmente riprovevole, ma giuridicamente perfettamente legittima.
Quindi, per Leibniz, distinguere la giustizia dall’etica può essere pericoloso, perché potremmo avere delle norme ingiuste.
Per Leibniz la norma deve essere una proposizione e questa proposizione deve raccogliere una norma che sia anche equa.
Nel medioevo questo problema non c’era, perché c’era l’aequitas: l’aequitas per gli uomini medievali non era un’astrattezza, ma era l’impronta di Dio sul mondo, era l’ordine universale. Nel medioevo la presenza di Dio era totale ed unificante.
Questo si è perso, con la frattura del cristianesimo, con la scoperta del nuovo mondo: quindi, si è persa anche quell’idea che la giustizia corrisponda all’equità. E’ una frattura drammatica del mondo moderno. Infatti noi oggi abbiamo bisogno di rifarci ai diritti fondamentali, che non sono altro che un bisogno di recuperare i valori generali ed astratti di equità.
Cosa è cambiato oggi? Noi avvertiamo che questo modo di ragionare ha i suoi limiti, ma non siamo ancora riusciti ad elaborare una forma alternativa a questo sistema e viviamo anche noi in una sorta di “antico regime” in cui bisogna riscrivere e ripensare le fondamenta logiche della nostra cultura.
CHRISTIAN WOLFF (1670/1754) autore, nel 1748, dello JUS NATURAE METHODO SCIENTIFICA PER TRACTATUM (=diritto di natura trattato a fondo col metodo scientifico).
Vediamo la grande differenza con Leibniz: Wolff è un giustnaturalista e razionalista insieme.
Il diritto di natura è centrale nel pensiero di Wolff, ma siccome è allievo di Leibniz, usa la razionalità, gli strumenti razionali di Leibniz, ma parla del diritto di natura.
Wolff dice una cosa diversa da tutti gli altri: la libertà.
Cos’è la libertà finora per tutti i filosofi già visti? C’è una definizione negativa di libertà finora, perché è ovvio che se la norma è manifestazione della volontà del sovrano, di conseguenza la libertà non è altro che “dove tace il sovrano”.
Wolff da un’interpretazione più evoluta: la libertà non è solo negativa, ma è una libertà positiva, perché dal diritto naturale noi abbiamo dei valori fondamentali, quindi questi valori fondamentali non ci servono solo per uscire dallo stato di natura e fare il contratto sociale, ma devono essere positivamente realizzati anche nell’ordinamento giuridico, quindi il sovrano li deve realizzare.
Locke dice: “se il sovrano non mi da quei beni naturali di cui io godevo nello stato di natura, lo posso deporre”.
Wolff non può fare un’affermazione di questo genere, ma tira fuori un concetto molto importante e che noi ancora oggi usiamo: WOHLFART (=pubblica felicità o benessere generale) = letteralmente vuole dire BENESSERE DELLA COLLETTIVITA’. Si tratta dello stato di benessere, quindi dello stato sociale.
In altre parole, Wolff dice: il sovrano deve rispettare i diritti naturali che vengono dal diritto di natura, perché il sovrano ha questo obiettivo, cioè deve raggiungere la pubblica felicità (non lo si può deporre).
Questa è un’idea di sovrano illuminato.
JEAN DOMAT (1625/1696) autore di LES LOIS CIVILES DANS LEUR ORDRE NATUREL (=le leggi civili nel loro ordine naturale) pubblicata tra il 1689 e il 1694. Si tratta di un’opera scritta in francese e divisa in diversi volumi.
Qual è l’obiettivo di Domat?
“Il disegno che ci siamo proposti è di ridurre le leggi civili al loro ordine; di distinguere le materie del diritto e adunarle secondo la collocazione che esse hanno nel corpo che naturalmente compongono; di dividere ciascuna materia secondo le sue parti e disporre in ciascuna parte la serie delle sue definizioni, dei suoi principi e delle sue regole, nulla asserendo che non sia chiaro per sé … Non è dunque un compendio quello che ci siamo proposti di fare o una semplice opera istituzionale … Ci siamo proposti due primi effetti di quest’ordine: la brevità, col togliere tutto l’inutile e tutto il superfluo e la chiarezza, pel semplice effetto dell’ordine; sperando che per questa brevità e per questa chiarezza sarà facile l’imparare solidalmente le leggi in breve tempo e che lo studio, reso facile, diverrà anche gradito “.
= Brevità e chiarezza; con ordine naturale; da questo ordine naturale, una divisione per materie; le materie con delle sub-materie; ecc.
E’ la cultura del tempo, una cultura cartesiana, empirica, geometrica, scientifica che si impone nel ‘600 e anche le leggi sono sottoposte a questo tipo di operazione.
E’ importante notare subito alcune cose. Innanzitutto, brevità e chiarezza, uno degli obiettivi che era anche di Leibniz, obiettivi che saranno poi le grandi utopie del secolo successivo, prima che arrivino i codici: il codice è la realizzazione pratica di questo obiettivo e di questa utopia.
Perché nel ‘600 si avverte il problema della brevità e della chiarezza?
Perché c’è il particolarismo giuridico: quindi l’unica cosa che si ha in mente è come fare a raggiungere brevità e chiarezza, proprio perché il sistema giuridico è poco chiaro, è prolisso ed è ingestibile.
Perché gli uomini del medioevo non si pongono il problema della brevità e della chiarezza?
Perché avevano l’aequitas e tutto rientra in quell’ordine naturale.
Adesso che tutto si è sfasciato rimane un particolarismo giuridico eccessivo e poco chiaro ed ecco che questi signori, animati da spirito scientifico, cercano di dare un contributo.
Ancora importante da notare: l’ordine naturale. Siamo in un’epoca interessata al giustnaturalismo: c’è chi parte dal diritto di natura, chi ci arriva, chi lo critica, chi lo esalta, ma tutti hanno lo stesso problema.
Il diritto naturale è un punto di riferimento che può risolverci il problema della prolissità del particolarismo giuridico. Quindi, la naturalità dell’ordine ci riporta ancora una volta a quel filone, quello del giustnaturalismo.
Il problema, però, è che Domat non si interessa tanto del diritto naturale, ma ci parla di un ordine naturale. In altre parole, Domat non parte tanto dall’idea che questo diritto naturale deve essere scovato: questo diritto naturale c’è già, sappiamo come prenderlo, ma il problema è come metterlo in ordine.
Quindi, non è tanto identificare le leggi generali, ma mettere queste leggi generali in ordine.
Il materiale normativo già esiste ed è il diritto romano.
Nel diritto romano, però, c’è un problema di sistematicità, cioè si trovano le stesse cose in diverse parti, che si ripetono, alcune legate all’epoca di Giustiniano, alcune prima, alcune adattate, o altre addirittura in contraddizione.
Quindi, gli umanisti, i francesi, hanno subito identificato che quello è un problema: il diritto romano lo si poteva anche criticare, ma poteva anche essere utile, purché lo si sottoponesse ad un’opera di revisione, cioè ad un ordine di tipo sistematico.
I francesi, però, avevano già individuato un criterio sistematico sul diritto romano, che a sua volta avevano già individuato gli stessi romani, per loro stessi, e in particolare lo aveva individuato Gaio, il quale divideva il diritto romano in tre parti (cose, persone, azioni, cioè i rapporti che intercorrono le persone con le cose). Perciò, i francesi hanno pensato di utilizzare questo criterio per riprendere il diritto romano: non rinnegano il diritto romano, ma lo riscrivono mettendo tutte le norme, ad esempio, che riguardano le persone, da una parte, quelle che riguardano le cose, da un’altra parte, e così via.
Quindi, l’ordine naturale di Domat è il figlio di quell’idea sistematica del diritto romano: il diritto romano va criticato, ma non tanto nei contenuti, ma nella sistematicità.
A questo punto Domat ha un altro problema: come fare ad individuare un ordine naturale?
C’è una parola chiave che usa Domat che è ESPRIT (=spirito) = RATIO.
Secondo Domat, l’esprit delle norme ci aiuta a dividere le norme in due grandi categorie:
LEGGI NATURALI LEGGI ARBITRARIE
IMMODIFICABILI MODIFICABILI
(es.: pacta servanda sunt) (es.: chi fa un furto
scasso può essere
punito…..).
Diritto privato Diritto penale
Diritto pubblico
Procedure
Domat ci dice che si può stabilire un ordine naturale e questo ordine naturale si stabilisce grazie al criterio della ratio (con l’esprit), la quale ci dice se una legge è naturale o se è arbitraria: le leggi naturali sono tutte di diritto privato.
Per la prima volta un giurista, nella seconda metà del ‘600, riesce ad individuare un criterio oggettivo di individuazione del diritto privato.
Non solo grazie a questo criterio della immodificabilità Domat ci dice che cosa è diritto privato e che cosa non lo è, ma da una caratteristica di supremazia al diritto privato, perché se il diritto privato è un diritto naturale e non è modificabile, è ovvio che il diritto privato “vale” di più del diritto pubblico, o del diritto penale, o del diritto delle procedure, ecc.; perché tutti questi diritti possono cambiare col tempo, a seconda dei sovrani e delle circostanze, mentre il diritto privato non cambierà mai.
In quest’epoca di Domat non esiste un principio di diritto penale: nel ‘600 non si trova, o si trova molto raramente e appena accennata, una norma che definisca che cos’è l’omicidio, perché non esiste un’idea generale di omicidio, perché non esiste un’idea generale di persona, quindi non esiste ammazzare una persona, appunto perché non c’è.
Domat non divideva solo la legge naturale e la legge arbitraria, ma divideva anche gli STATUS: l’antico regime è un’epoca di status personali, non esiste la persona. Il soggetto non esiste.
Gli status si possono dividere da naturali ad arbitrari (molto importante per l’epoca).
ESEMPIO: la minore età o la maggiore età è uno status naturale: è arbitraria poi la fissazione della maggiore età. Questo lo si vede dal fatto che non si può essere contemporaneamente maggiorenni e minorenni: uno esclude l’altro.
Quindi Domat fa un’altra distinzione per cui il soggetto naturale che è titolare e destinatario di leggi naturali è proprio l’ambito perfetto del diritto privato naturale.
L’opera di Domat si divide in tre parti:
1. TRAITE’ DES LOIS e si trovano regole generali sul diritto, sulle cose e sulle persone.
2. LOIS CIVILES = obbligazioni e successioni.
3. DROIT PUBLIC = diritto penale, diritto amministrativo, diritto di governo, pubblici ufficiali, le procedure.
La proprietà, che sta alla base di tutti i codici moderni, in Domat non lo troviamo: Domat vive in un’epoca in cui la proprietà è un istituto assolutamente minoritario e che non ha quasi nessuna rilevanza. Questo deriva dalla cultura feudale, per cui esistevano più poteri sulla terra.
La proprietà era vista come una cosa astratta che non aveva molto senso, mentre era importante stabilire il soggetto e i beni: importanti sono i poteri del soggetto sui beni (potere di vendere, potere di acquisto, potere di disporne mortis causa, ecc.). Questo era quanto contava, non la proprietà in quanto astratta e le cose avevano tante qualità (tipico del particolarismo).
Il soggetto di Domat non è ancora il soggetto della rivoluzione francese e dei codici, ma è un soggetto che ha una volontà di consenso, cioè che attraverso la sua volontà può esprimere un consenso capace di modificare le proprie ricchezze e le proprie situazioni giuridiche.
Questo è importante, perché sono importanti le obbligazioni e le successioni, cioè i poteri dei soggetti e le qualità degli oggetti, cioè dei beni.
ROBER JOSEPH POTHIER (1699/1772) autore di tre opere importanti:
1. 1740 – LA COUTUME D’ORLEANS (=la consuetudine di Orléans).
2. 1748/52 – PANDECTAE IN NOVUM ORDINUM DIGESTAE (=le pandette articolate in un nuovo ordine).
3. 1772 – TRAITE DU DOMAINE OU DE PROPRIETE (=trattato sul dominio o sulla proprietà).
(=Domat e Pothier sono considerati i filosofi del diritto che danno un contributo ideale alla codificazione napoleonica).
La prima cosa fondamentale da notare è che tutte le opere di Pothier sono state scritte in francese, ma quando si tratta di parlare della compilazione giustinianea, si parla in latino. Questo, sicuramente, è dovuto a seconda dei destinatari dell’opera: quando un’opera deve essere destinata ad un pubblico di giuristi o di intellettuali francesi, si scrive nella lingua nazionale; quando, invece, si scrive un’opera che è destinata anche ad un pubblico che va oltre i confini francesi, si scrive nella lingua internazionale per eccellenza, cioè il latino.
LA COUTUME D’ORLEANS è molto importante perché è un’opera che riguarda la consuetudine d’Orléans, cioè è molto importante che un giurista faccia l’esegesi di queste consuetudini (vediamo infatti che nel nord della Francia si affermano le coutume, e questa è una delle tante consuetudini che si affermano). Finora i giuristi si sono occupati quasi esclusivamente di diritto romano, per criticarlo, per distruggerlo, per rifonderlo in una nuova sistematica: adesso, ma ormai già da qualche decennio, la dottrina comincia ad esplicare la propria attività scientifico-esegetico direttamente sulle consuetudini. Questo vuole dire che già nel ‘700 le consuetudini nazionali francesi, per i giuristi, sono un bagaglio normativo degno di essere fatto oggetto di operazione dottrinale.
Le PANDECTAE IN NOVUM ORDINUM DIGESTAE è un’opera di risistemazione della compilazione giustinianea. “Pandette risistemate in un nuovo ordine” ci fa pensare anche all’opera di Domat: esiste un ordine delle leggi civili (leggi romane) che può essere preso in considerazione al di là dell’ordine che ci aveva dato Giustiniano e Triboniano.
Domat aveva parlato di ordine naturale e la naturalità dell’ordine è quella di guardare all’esprit, cioè alla ratio: una legge immodificabile è una legge naturale.
Pothier ci parla di un nuovo ordine e l’importanza sta proprio nell’ordine, cioè nel fatto che la compilazione giustinianea possa essere recuperata solo se risistemata in nuovo ordine, naturale o meno che sia.
Infine, il TRAITE DU DOMAINE OU DE PROPRIETE : qui si spiega perché Pothier viene spesso messo vicino a Domat, perché in Domat mancava la parte relativa alla proprietà.
La proprietà come diritto pieno ed esclusivo, senza concorrenza di altri poteri, non esiste, se non in forme residuali, per almeno 1000 anni in Europa, cioè quando nell’alto medioevo si afferma il feudo. Per tutto l’alto medioevo, il basso medioevo, sino all’età moderna, soprattutto per i beni immobiliari (terra), i cosiddetti allodi, la proprietà è poco importante, mentre è giuridicamente importante il bene di grande estensione e di grande importanza economica che hanno più titolarità: questo deriva dal feudatario.
La proprietà è un concetto di pienezza e di esclusività: la mentalità feudale fa scomparire la pienezza e l’esclusività.
Per questo Domat, che pure distingueva il diritto privato da tutti gli altri diritti, non ritiene rilevante occuparsi della proprietà, perché è un caso quasi irrilevante. Per Domat sono importanti i poteri del soggetto, cioè qualità del soggetto e qualità della cosa: la proprietà per lui non vuole dire nulla.
Con Pothier non c’è ancora stata la rivoluzione francese. La rivoluzione francese è stata detta “la rivoluzione della proprietà borghese”, con la quale dei borghesi, degli imprenditori, auspicavano un nuovo diritto, fra cui l’affermazione di una proprietà piena ed esclusiva.
Pothier è morto prima di vedere questo risultato, però già raccoglieva i frutti della società francese del tempo.
Di proprietà già ne parlava qualcuno: già nel ‘500 DUMULIN ne aveva già parlato.
Sapendo che in antico regime non c’è la proprietà piena ed esclusiva, se non in forma residuale, quando DUMULIN nel ‘500 (o Pothier nel 1772) parlano della proprietà la auspicano? Di cosa parlano? Parlano di qualcosa di già esistente, perché nella storia non si possono inventare cose nuove, semmai si può dare un significato nuovo a quello che c’è già.
ESEMPIO: Abbiamo un pezzo di terra sul quale ci sono due poteri: abbiamo il titolare 1 che è colui che ha dato in concessione il terreno, godendone un censo (rendita) al 2, il quale è un altro titolare il quale fa coltivare la terra a dei braccianti, prende il frutto, fa operazioni commerciali e ricava un certo patrimonio 1000, del quale 1000 ogni anno deve darne 100 al titolare.
1 è un titolare di un certo tipo di dominio, cioè egli può disporre della terra ma fino ad un certo punto, praticamente dispone di un censo: il 2 viene chiamato utilista, perché gode della proprietà e può disporne, anche se fino ad un certo punto.
Allora, abbiamo il proprietario e l’utilista: chi è il proprietario secondo Pothier? Nessuno dei due è il proprietario, ma Pothier sceglie, per dare la qualifica di proprietario, l’utilista.
Quando nasce il feudo militare il personaggio predominante è il dominus, cioè colui che da: è lui che ha il potere, perché è un potere di tipo politico, un potere militare, fatto di potenza, di rispettabilità, di onore, ecc. Piano piano il feudo cambia e diventa un fatto di rendita, e questo quando lo si può trasmettere ereditariamente, quando lo si può vendere, quando si ha della rendita, ecc.: è, cioè, un investimento e questo fatto di investimento diventa talmente importante nella mentalità dell’uomo in antico regime, cioè dopo 1000 anni, che quello che conta è l’operazione economica di colui che ci mette creatività economica nel migliorare il terreno. Quindi, la cultura dell’epoca comincia a sentire come fattore importante la condizione dell’utilitario, non del titolare, perché è l’utilitario che viene sentito come colui che da un contributo di ricchezza e di miglioramento alla terra, alle cose e alla società.
E’ la cultura che cambia ed è la cultura che guarda al soggetto numero 2 come ad un nuovo protagonista.
Allora Pothier, sa che non è un proprietario, ma dice di chiamarlo proprietario e questo perché dietro c’è una società che dice: “se vogliamo migliorare la ricchezza dobbiamo dare dei poteri maggiori al numero 2, cioè all’utilista, perché il titolare è improduttivo, in quanto riceve solo la rendita: si chiamiamo proprietario il numero uno, il titolare, al numero due non interesserà più niente, e non gli interesserà più niente migliorare il terreno “. (numero 1 – titolare = rentier, cioè redditiero).
Si sta affermando una società in cui gli utilisti premono, perché si rendono conto che gli strumenti che la società dell’antico regime da a loro sono pochi e limitati.
Da qui a poco a tempo verrà dichiarata estinta la società feudale: siamo in piena epoca di illuminismo.
Tutto questo però non vuole dire eliminare il diritto romano: il diritto romano serve perché nel diritto romano troviamo, ad esempio, l’istituto della proprietà piena ed esclusiva che ci può servire.
La proprietà di cui parla Pothier e i romani ha una cosa in comune, che oggi è cambiata: si tratta della proprietà immobiliare, cioè riguarda la terra. Il proprietario è l’imprenditore agricolo. Questa idea verrà messa in crisi dall’industrializzazione a metà dell’800 e, oggi, con la finanziarizzazione dei mercati.
Restiamo in Francia: finora abbiamo parlato di due grandi giuristi francesi, Domat e Pothier.
Domat ci dice qual è l’ordine naturale, ci dice come distinguere il privato dal pubblico.
Pothier lo ricordiamo soprattutto per l’importanza che da alle consuetudini e per l’importanza che da all’istituto della proprietà.
La Francia è all’avanguardia da questo punto di vista, perché non ci sono solo i giuristi che operano in questo senso, ma ci sono anche i sovrani, i quali danno un grande contributo al processo di codificazione.
Cosa succede in Francia dal punto di vista della legislazione? La legislazione segue questo processo di ammodernamento?
Si e no.
Nord – coutume regionali
Già dal medioevo la Francia è divisa in due grandi aree:
Sud – diritto romano
Valenza politica di tutto ciò è che nel nord si afferma la presenza forte di una monarchia. Al sud c’è la forte presenza delle città che funzionano come le città in Italia.
Al nord il diritto romano non si applica mai, se non come ratio scripta, cioè come sorta di principio generalissimo, ma nessuno applicherà mai il diritto romano in ultima istanza, perché c’è una monarchia e tratta il suo diritto come diritto comune sussidiario, mentre al sud la monarchia è più lenta e più debole e non contrasta molto con le autonomie.
Il sovrano legifera, ma non come sovrano assoluto: il sovrano è garante delle autonomie. Assume queste garanzie all’interno delle sue leggi = ORDONNANCES = ordinanza = indica una norma proveniente generalmente dalla volontà sovrana.
Il sovrano può fare una ordonnance solo con efficacia dichiarativa, oppure con efficacia integrativa (consuetudine lacunosa), o anche con efficacia modificativa (si interviene sulla consuetudine, non perché la consuetudine non ha valore, o perché il re lo possa fare, ma si interviene perché si vuole rafforzare lo scopo della consuetudine al fine che la consuetudine raggiunga bene il suo scopo).
L’ordonnance è sempre collegata alla coutume.
ORDONNANCES:
La situazione che contraddistingue la Francia consiste nell’esistenza delle coutume nazionali e nell’aspetto di dichiarazione, di integrazione e di modificazione che i sovrani fanno con le loro ordonnances (=leggi sovrane che si pongono in un certo rapporto con le coutume, un rapporto di rispetto, ma anche di progressiva modificazione).
Questi interventi legislativi sono dei tentativi di carattere organico, cioè non si tratta di una singola ordonnance, ma di una raccolta di ordonnances: si tratta di un tentativo di “raccolta esaustiva”.
Le prime di queste raccolte, già nel ‘500, si chiamano CODE, anche se poi con i codici moderni non hanno niente a che fare: sono raccolte di ordonnances, ma in qualche modo ci indicano la volontà sovrana di compiere un’operazione di tipo sistematico.
Vediamo alcune di queste ordonnances:
1. CODE HENRI III (1587) = La prima ordonnance che possiamo ricordare: è la prima, perché ha una parvenza, una velleità di intervento organico ed è una ORDONNANCE DE REFORMATION (=ordinanza di riforma): da qui vediamo l’apporto di tipo modificativo delle consuetudini. Le consuetudini sono sempre l’oggetto delle ordonnances, ma qui si parla di riforma: l’intenzione del sovrano è quella di porre mano alle consuetudini per salvaguardare quel bagaglio delle consuetudini stesse. Questo code non ebbe mai promulgazione ufficiale, ma lo ricordiamo perché inaugura una prassi, che nasce in questi anni, e che avrà poi uno sviluppo memorabile nel 1789 con la rivoluzione francese: a BLOIS nel 1567 si riuniscono gli stati generali e compilano dei CAHIERS DE DOLEANCES (=quaderni di doglianze), con i quali esprimono al sovrano le cose che non vanno: non va bene l’amministrazione della giustizia, non vanno bene le tasse, ecc., e il sovrano interviene con le ordonnances. Quindi è una risposta politica, di salvaguardia delle coutume, ma integrato dalla richiesta dei cahiers de doléances.
Gli stati generali sono degli organismi di rappresentanza politica, di solito divisi in tre sezioni: nobiltà, chiesa, borghesia.
2. CODE HENRI IV (1603) il quale ebbe effettiva promulgazione. Caratteristica di questo codice: è una specie di prontuario di diritto giustinianeo integrato dalle coutume nazionali.
3. CODE MARILLAC (1629) redatto dal guardasigilli Michelle Marillac, anch’esso fatto dopo la riunione degli stati generali del 1614. Particolarità di questo codice: sono 461 articoli che precisano alcuni aspetti di diritto privato, diritto pubblico, diritto penale, diritto tributario, ecc.
Le ordonnances che dobbiamo ricordare bene sono le ordonnances della seconda metà del ‘600, cioè quelle promulgate da Luigi XIV (Re Sole), grazie al suo ministro Colbert (infatti si parla di ordinanze colbertine) e quelle del suo successore, Luigi XV, nei primissimi anni del ‘700, fatte dal cancelliere Daguesseau.
1. 1667 – ORDONNANCE CIVILE POUR LA REFORMATION DE LA JUSTICE (=ordinanza per la riforma della giustizia) = CODE LOUIS. Non si tratta, però, della riforma della giustizia civile, perché il diritto privato non è disponibile da parte del sovrano. Questa ordonnance è un aspetto di quello che Domat definirebbe “diritto arbitrario”, cioè di quello che il sovrano può cambiare e modificare. Il civile arbitrario che si può modificare e che, quindi, il sovrano può fare oggetto di ordonnance è la procedura civile: si tratta di una ordonnance di procedura civile. Infatti l’obiettivo è “établissement d’un style uniforme “, cioè lo stabilimento di uno stile uniforme (stile=procedura, cioè le regole di prassi che portano un giudice, un foro, un tribunale, a decidere in un certo modo, cioè le regole processuali). Sarà uno dei punti di riferimento del codice di Napoleone Bonaparte del 1806.
2. 1670 – ORDONNANCE CRIMINELLE (=ordinanza criminale): è la prima volta che un sovrano francese vuole mettere in una norma articolata tutte le norme di diritto penale vigenti nel territorio.
3. 1673 – ORDONNANCE DU COMMERCE = CODE SAVARY (12 titoli): Savary è un mercante che ha contribuito notevolmente alla redazione di questo codice. Il particolarismo giuridico è anche di tipo soggettivo, cioè tipico di una società divisa per ceti ed uno dei ceti più importanti è quello mercantile: i mercanti hanno sempre fatto parte di una corporazione molto potente. Da jus mercatorum si passa a jus mercature (v. particolarismo soggettivo…). Già dalla metà del 1500, in Francia, il sovrano contribuisce notevolmente al passaggio dallo jus mercatorum allo jus mercature, statalizzando progressivamente i tribunali dei mercanti. Questo processo, che comincia alla metà del ‘500, trova il suo compimento completo con questa ordonnance che raccoglie, appunto, questa lunga esperienza in materia di jus mercature.
4. 1681 – CODE DE LA MARINE (codice di diritto mercantile, della marina): è divisa in 5 libri e il suo obiettivo è di fissare la giurisprudenza dei contratti marittimi fino al momento incerto. Non importa che i contratti siano certi: l’importante è che quando si applicano in sede di contenzioso il contenuto di questi contratti da luogo ad una giurisprudenza incerta, cioè a sentenze di diverso colore.
5. 1685 – ORDONNANCE COLONIALE = CODE NOIRE: raccolta di ordonnances relative alle colonie soggette alla Francia.
Avvicinandosi al ‘700 c’è il problema di tutte queste raccolte, che si fanno già dal ‘600 e che sembrano dei codici, che però non sono dei codici.
Cavanna trova allora opportuno specificare che cosa si intende per codice.
Si dice che i francesi, siccome sono molti tradizionalisti, hanno visto in queste cinque ordonnances quasi dei codici che anticipano il codice napoleonico. Naturalmente questo non è vero, perché questi non sono codici, ma sono semmai CONSOLIDAZIONI.
La consolidazione indica il processo di consolidazione di materiale vigente in un determinato periodo: si prende il diritto vigente, lo si seleziona e lo si consolida.
Il vero elemento di novità è la NON ETEROINTEGRABILITA’: i codici moderni non sono eterointegrabili, perché se c’è una lacuna si applica l’analogia juris, con i principi dell’ordinamento. Se, invece, la compilazione è eterointegrabile, siamo di fronte alla consolidazione.
Le ordonnances sono eterointegrabili, cioè possono essere integrate, in caso di una lacuna, da altre fonti normative (si vedrà meglio nel ’700).
Quando si parla di come si applicano queste ordonnances Colbert ci dice: “abbreviamo tutte le ordinanze, consuetudini, leggi, statuti, regolamenti, procedure (stili) e usi differenti o contrari alle disposizioni ivi contenute” = Importante notare due elementi: all’interno delle ordonnances ci sono rinvii espliciti a fonti esterne; nelle ordonnances si trovano spesso rinvii a ARRETS DE REGLEMENT (=sentenze dei parlements francesi) = su tutte le materie trattate nelle ordonnances si applica solo l’ordonnance; sulle materie non previste dalle ordonnances si possono applicare le altre ordonnances e le costume. Questo perché l’ordonnance non è un sistema chiuso e completo, ma è un sistema eterointegrabile: sembra che abroghi tutto, ma abroga tutto in relazione alle materie contenute nelle ordonnances, ma se ci sono materie non previste espressamente nelle ordonnances, si applicano tranquillamente altre fonti che hanno esplicitamente trattato quell’argomento.
Quindi, la grande differenza tra una codificazione ed una consolidazione è la non eterointegrabilità.
La non eterointegrabilità è una qualità dei codici: solo i codici, dal 1804, non sono eterointegrabili, cioè ai giudici è fatto divieto di applicare altre norme che non siano contenute nei codici per estendere analogicamente la norma: al limite, chiede un’interpretazione autentica al sovrano legislatore.
Questo vuole dire FINE del PARTICOLARISMO, perché non ci sono più fonti concorrenti: il particolarismo oggettivo finisce nel 1804 grazie alla non eterointegrabilità e c’è il soggetto unico di diritto, quindi finisce anche il particolarismo soggettivo.
Questo non è solo un passaggio tecnico: è un passaggio di tipo culturale sociale, cioè quando cambia la società, la società ha bisogno di più fonti e quindi si manifesta anche giuridicamente nel particolarismo. Quando questa situazione va in contrasto con un indirizzo di tipo sociale, economico e culturale, cioè la nascita dell’uomo borghese, allora l’imprenditore utilista sente il bisogno di eliminare questo particolarismo e di creare una legge unica per tutti.
Quando un complesso di norme, invece, è eterointegrabile, siamo di fronte ad una consolidazione: prima del 1804 qualsiasi gruppo di norme che si chiami codice e che sembri un codice moderno, lascerà al giudice almeno una possibilità, che sono già due fonti concorrenti, il che vuole dire che quel corpo di norme è eterointegrabile da almeno un’altra fonte.
HENRI FRANCOIS DAGUESSEAU (1688/1751), avvocato generale nel parlamento di Parigi, poi diventato ministro guardasigilli, cioè ministro della giustizia.
Nel 1727 scrive un MEMOIRE, cioè una relazione: il sovrano fa presente ai suoi ministri una certa situazione e i ministri fanno relazioni dove indicano come può essere risolta una certa situazione. Il sovrano ha sempre il problema della uniformità, problema sempre pressante per i sovrani, perché la potenza politica dei sovrani comincia ad avere corpo, però questa sovranità ha un limite, cioè la disparità della situazione giuridica nei vari territori.
Daguesseau dice, pochi anni prima delle sue tre ordonnance: “le legislazione che deve essere prodotta, deve essere prodotta per questo motivo: affinché coloro che vogliono acquisire la conoscenza della scienza del diritto, sia per difendere gli interessi delle parti, sia per esserne giudici, abbiano una specie di codice che divenga oggetto fisso e certo. Mentre è presente la moltitudine e la varietà delle leggi vigenti, al punto che non se ne studia alcuna, data la difficoltà di conoscerle tutte”.
Daguesseau ha ho stesso obiettivo di Colbert, ma il passaggio ulteriore tra questi due e tra Luigi XIV e Luigi XV, e dalla fine del ‘600 ai primi anni del ‘700: passaggio importante consiste nel fatto che Colbert e Luigi XIV con 5 ordonnance modificano il diritto arbitrale, senza toccare il diritto privato. L’importanza delle ordonnance di Daguesseau è che per la prima volta il sovrano incide sul diritto privato.
Le ordonnances sono tre:
1. 1731 – donazioni
2. 1735 – testamenti
3. 1747 – fedecommessi
Fedecommessi = istituto di diritto romano, ormai abolito: è un istituto di diritto successorio su cui si basa fortemente la potenza e la ricchezza delle casate nobiliari.
Il fedecommesso è una disposizione successoria con cui il decuius vincola la linea ereditaria alla trasmissione di determinati beni.
La nobiltà usa un particolare tipo di fedecommesso, che è la PRIMOGENITURA = il decuius dice che tutti i beni di terra vanno al primogenito di ogni stirpe e questo si fa per non frantumare il patrimonio.
Sono tre istituti centrali del diritto privato che hanno in comune la trasmissione dei beni, inter vivos e mortis causa.
Il sovrano per la prima volta mette mano al diritto privato, mette mano su questi istituti e ci dice due cose: sono istituti importantissimi; il sovrano ha la forza politica e culturale per poter “aggredire” anche il diritto privato.
(siamo già alla metà del 1700).
Quali sono le fonti delle ordonnances?
Diritto romano, che rimane centrale quando si tratta di razionalizzare certi istituti e le consuetudini francesi, che però hanno un grosso svantaggio per i sovrani, perché sono spesso contrastanti tra di loro: quindi, fin tanto che le ordinanze devono soltanto dichiarare o integrare le consuetudini vanno bene, ma quando bisogna uniformare il territorio le consuetudini sono un problema, perché sono spesso in contrasto e possono dare luogo a diverse interpretazioni e diverse applicazioni giurisprudenziali: quindi il diritto romano può essere un riferimento forte.
Dal punto di vista contenutistico dobbiamo ricordare alcuni elementi importanti che vengono introdotti da queste tre ordonnances:
• la nullità delle donazioni non stipulate davanti ad un notaio;
• sono vietate le donazioni mortis causa (vietate anche dal diritto romano), cioè quando la donazione serve per eludere disposizioni testamentarie.
• sono vietati i testamenti congiuntivi (vietati anche dal diritto romano), cioè quei testamenti in cui due decuius si mettono d’accordo prima di morire con dei testamenti a favore l’uno dell’altro, obbligandosi vicendevolmente.
Un altro codice francese del 1752 – CODE PENAL (o CODE LAVERDY) = è una semplice raccolta di norme penali vigenti in Francia, a favore dei giudici, i quali si trovavano così in un solo volume tutte le ordonnances delle leggi penali vigenti, compresa l’ordonnace criminelle di Luigi XIV.
ILLUMINISMO:
Nel 1700 si ha l’idea di recuperare la ragione.
Francese (di tipo polemista)
L’illuminismo ha due grandi filoni europei:
Germanico (di tipo riformatore)
In Francia l’illuminismo è propugnato soprattutto dai liberi pensatori, con dei libelli, con delle polemiche, ecc.
In Germania l’illuminismo è propugnato dai sovrani: Maria Teresa, Giuseppe II, con delle riforme.
In questo contesto, anche se con l’illuminismo non c’entra molto, ma forse prelude l’illuminismo è MONTESQUIE = ESPRIT DE LOI (1748) (=spirito della legge).
L’epsrit de loi fa la famosa teoria della separazione dei poteri (legislativo – esecutivo – giudiziario): in realtà questa separazione dei poteri è la vulgata che ne recepirono i rivoluzionari francesi (è molto diversa da come l’abbiamo recepita noi).
Per noi la separazione dei poteri è recepita dalla nostra costituzione ed è un pre-requisito della democrazia.
Montesquie era un giurista, presidente del tribunale di Bordeaux, e nell’esprit de loi dice tutto il contrario di Domat.
Domat diceva che le leggi naturali erano immutabili.
Montesquie dice che le leggi sono tutte mutabili: le leggi mutano perché mutano i tipi di governo e a seconda del tipo di governo si ha un certo tipo di legge. Quindi, lo spirito della legge è lo spirito dei governi.
Esistono tre forme di governi: democratico (governo dei tanti perché si divide in aristocrazia, cioè il governo di alcuni, e democrazia propriamente detta); monarchico (governo di uno regolato dall’onore, perché la monarchia si da delle regole e le rispetta); tirannico (governo di uno contro tutti, regolato dalla paura).
Montesquie preferiva la monarchia, la quale, per lui, funzionava bene se era bilanciata da altri poteri: lui vedeva con inquietudine l’invadenza dei sovrani sui parlamenti francesi.
La divisione dei poteri in Montesquie esiste, ma non è finalizzata a principi democratici, proprio perché il regime che lui preferisce è quello di tipo monarchico, ma di una monarchia bilanciata da altri poteri, quale il potere giudiziario.
I veri illuministi sono altri, come VOLTAIRE.
Voltaire è un grande polemista e se la prende apertamente con la chiesa e i feudatari: per Voltaire il vero soggetto del futuro è l’imprenditore borghese proprietario. La chiesa e i proprietari sono dei parassiti che vanno aboliti e vanno abolite anche le leggi che li tutelano.
ROUSSEAU: egli fa alcune polemiche e dobbiamo sottolineare, in particolare, la sua polemica anti-puffendorfiana – il contratto sociale.
Rousseau diceva che il contratto sociale è una grande fregatura. L’errore di Puffendorf è che questi descrive il patto sociale partendo da una situazione di fatto, la quale vede “leoni” e “pecore”, ricchi e poveri, quindi il patto sociale sarà sempre un patto ingiusto, perché si guarda sempre alla situazione di fatto.
Il patto sociale, invece, non deve cristallizzare la situazione di fatto, ma deve realizzare una nuova uguaglianza, quindi deve azzerare la situazione precedente, perciò non deve essere un patto dichiarativo della situazione attuale, ma costitutivo perché riequilibra la situazione.
In questo senso la legge non può essere la legge del sovrano. Per Rousseau la legge è espressione della volontà generale, cioè della volontà di tutti.
IL ‘700 ITALIANO = LE CONSOLIDAZIONI (O TENTATIVI DI CODIFICAZIONE).
Alcuni sovrani italiani, assistiti dai loro politici lungimiranti, pongono mano ad una riforma generalizzata del diritto vigente.
Poiché nel ‘700 maturano tutta una serie di condizioni culturali, politiche, ecc., si forma un movimento di opinione, quindi anche una certa forza politica, capace di porre in essere la “riforma della legislazione vigente”.
Alcuni sovrani ci provano ma non riescono e probabilmente perché le condizioni economiche del loro paese non sono mature: altri sovrani riescono con successo, tanto che poi i loro progetti e le loro realizzazioni rimangono un punto di riferimento anche per altri sovrani, nello stesso periodo.
Il ‘700 è l’epoca dell’illuminismo.
L’illuminismo di matrice francese è l’illuminismo polemico, quello quasi pre-rivoluzionario, in qualche modo, radicale.
L’illuminismo di matrice germanica è l’illuminismo degli stessi sovrani, i quali si fanno loro stessi carico, per realizzare la pubblica felicità, di porre mano a delle riforme che hanno come destinatari i loro stessi sudditi.
L’Italia non è protagonista del movimento illuminista, riformatore, anche se ci sono centri avanzati da questo punto di vista, come Milano e Napoli: queste sono due grandi capitali dove si sviluppa un certo tipo di dibattito favorevole alle riforme politiche e, più in generale, alla riforma legislativa.
Abbiamo dei tentativi di riforma, per esempio, nel Regno di Napoli o nel Granducato di Toscana, i quali però rimangono dei meri tentativi. Mentre altrove, come in Piemonte e nel ducato di Modena, i tentativi hanno un principio molto importante di attuazione.
Questo, però, non vuole dire che i principi illuministici di tipo radicale vengono assunti in Italia, ma vuole semplicemente dire che sono maturi i tempi di una legislazione vigente.
In altre parole, quel sistema del particolarismo giuridico evidentemente non va più bene: la classe dirigente lo sente come un ostacolo al progresso del paese.
Questo vuole dire che, probabilmente, ci sono dei nuovi ceti che cominciano ad assumere un’importanza nel paese: questi nuovi ceti non sono più aristocratici, nobiliari od ecclesiastici, ma sono ceti che esistevano già da tempo, ma non hanno mai assunto la guida di un governo, e sono ceti di matrice proprietaria, imprenditoriale o pre-imprenditoriale, il che propugna un cambiamento dell’assetto della società del tempo, quindi anche un assetto delle istituzioni e della legislazione vigente, la quale è sentita come limitante della condizione nuova di quella società.
PIEMONTE:
La prima riforma viene sanzionata nel 1723 da parte di Vittorio Amedeo II.
Questo tipo di riforma non è dettata dall’illuminismo in quanto tale: nel ‘700 si formulano tutta una serie di condizioni che portano a maturazione questa possibilità e questo indipendentemente dalle idee più o meno acute, più o meno avanzate, più o meno radicali che, in questi anni, gli illuministi propugnano. Ci sono altre esigenze che portano i sovrani a realizzare questo tipo di riforma.
Da questo momento in poi il Piemonte comincerà a rappresentare una sorta di modello guida per l’Italia, questo perché questa riforma di Amedeo II sarà un punto di riferimento per tutti gli altri autori e per gli altri sovrani.
Il Piemonte è stato il protagonista del progresso unitario dell’Italia, tanto che si parla di “annessione dell’Italia da parte del Piemonte”: comunque sia, il Piemonte è diventato ben presto, come potenza diplomatica, come potenza militare e anche come modello istituzionale-legislativo, un punto di riferimento per le altre città italiane che hanno cominciato a vedere nel Piemonte un paese a cui guardare come un processo di ammodernamento dell’intero paese.
Vittorio Amedeo II è un sovrano, il quale vive una situazione particolarmente favorevole per le sue riforme, soprattutto perché negli anni ’20 e ’30, dopo la guerra di secessione austriaca e dopo la guerra di secessione polacca, l’Italia vive un periodo di grande instabilità e di grande incertezza, in cui i paesi italiani, in generale, fanno sempre la parte delle vittime, perché sono piccoli paesi, controllati dalle grandi potenze internazionali (Francia e Austria), pertanto è naturale che dopo un periodo di guerra e di pace le grandi potenze si spartiscano le varie zone, tra cui anche la penisola italiana. Vittorio Amedeo II esce da questo periodo di guerre in una situazione un po’inedita per l’Italia: con un certo prestigio egli è riuscito a compiere operazioni di tipo militare, diplomatico, strategico, che hanno fatto sì che il suo piccolo regno non sia stato “stritolato” in maniera decisiva dalle influenze internazionali.
Quindi, questo sovrano si trova nelle migliori condizioni per operare tutta una serie di riforme che sino a qualche decennio prima, in Italia, erano state impossibili.
Queste riforme legislative sono sempre precedute da un’altra serie di riforme di carattere istituzionale e di carattere socio-economico.
Ecco perché il ‘700 viene definito, più che col termine illuminismo, ma viene chiamato come “età delle riforme”: per cui se l’Italia non vive una grande stagione di illuminismo, certamente tutto il ‘700, per l’Italia, è l’età delle riforme = riforme legislative, ma riforme che non potrebbero essere compiute e non avrebbero senso se i sovrani non avessero attuato tutta una serie di riforme di tipo sociale e di tipo economico.
Vediamo le riforme che hanno preceduto le costituzioni di Vittorio Amedeo II:
• AMMODERNAMENTO DELLA BUROCRAZIA: la burocrazia è un insieme di funzionari organizzati in uffici al fine di perseguire determinati servizi o obiettivi di tipo pubblico. Sino al ‘700 una burocrazia moderna non era esistita, perché i sovrani si erano serviti sempre, per realizzare i loro obiettivi, di rapporti fiduciari (attorniati da persone di fiducia, alle quali vengono attribuiti determinati compiti, come la guida dell’esercito). Di solito questi incarichi fiduciari venivano dati a grandi personaggi dell’aristocrazia nobiliare. Fino ad un certo periodo questo avrà dei vantaggi, ma poi solo svantaggi e gli svantaggi sono, innanzitutto, che gli aristocratici nell’eseguire queste direttive perseguono anche gli obiettivi della propria categoria, ma anche il fatto che non sempre nell’aristocrazia abbiamo persone all’altezza della situazione. Nel ‘700 si comincia ad assumere un ATTEGGIAMENTO MERITOCRATICO = IL SOVRANO COMINCIA A SCEGLIERE I SUOI FUNZIONARI TRA LE PERSONE PIU’ CAPACI: alcune funzioni restano in mano all’aristocrazia, altre funzioni passano in mano a dei tecnici, cioè personaggi che si sono preparati a svolgere determinati compiti, e non che sono semplicemente nati da famiglie illustri. Quindi, ammodernamento della burocrazia, significa creazione di una burocrazia nuova, finalizzata a dei compiti istituzionali di tipo pubblico (che serva obiettivamente al sovrano e alla pubblica felicità) attraverso l’utilizzazione di una burocrazia di estrazione borghese (burocrazia di matrice non aristocratica).
• CONTROLLO DELLA MAGISTRATURA = ABOLIZIONE DELL’INTERINAZIONE: L’interinazione è uno dei poteri che tradizionalmente sono in mano ai grandi tribunali di antico regime e che consiste in una sorta di controllo di merito, da parte di questi stessi tribunali, rispetto alla legislazione sovrana: prima che l’editto del sovrano venga applicato nel regno o in una regione del regno, il grande tribunale responsabile di quella regione controlla che quell’editto sia compatibile con le consuetudine, con gli usi, di quella regione e può anche, eventualmente, bloccare l’applicazione. Vittorio Amedeo II riesce ad abolire l’interinazione, il che vuole dire che le magistrature vengono sottoposte direttamente al controllo del sovrano e non possono più esercitare quel blocco esercitato dall’interinazione.
• CONTROLLO NEI CONFRONTI DELLA NOBILTA’ E DELLA CHIESA, il che vuole dire “marciare” verso l’ammodernamento del paese. Il controllo della nobiltà, in particolare, Vittorio Amedeo II lo realizza favorendo la frantumazione dei possedimenti feudali, ad esempio, introducendo delle nuove norme di tipo successorio. Un esempio, tipico di molti sovrani in questi anni, è quello di produrre una nuova legislazione sui fedecommessi (=istituto successorio attraverso cui il decuius vincola gli eredi ad un certo tipo di linea successoria: es. maggiorasco – primogenitura, con cui il decuius obbliga il suo primogenito a fare altrettanto in linea retta, cioè vincola la successione ereditaria di tutti i suoi eredi in linea retta). Se i sovrani non colpiscono questo istituto i feudi rimangono sempre integri e la frantumazione feudale non si attua mai. Si fa una riforma di tipo compromissorio: con queste leggi si ammette sempre il fedecommesso, ma lo si limita solo alle famiglie nobili e sono entro il quarto grado (dopo quattro linee di successioni il fedecommesso decade), cioè il fedecommesso non si trasmette più in linea indefinita. Questo frantuma il feudo e da possibilità ai proprietari, in futuro, di acquistare questi beni a titolo di proprietà privata. Per fare un fedecommesso bisognava poi anche registrarlo in un ufficio pubblico, il che permette ai terzi di esserne informati con la pubblicità.
• CONTROLLO DI TUTTI I FEUDI: Vittorio Amedeo II vuole sapere se i feudi vigenti sono tutti legittimi, cioè vuole vedere i titoli. Se qualche feudo fosse illegittimo veniva devoluto al demanio, cioè tornava al sovrano.
• CATASTO: ufficio di cui si sa la consistenza immobiliare di un certo soggetto per sottoporlo a tributo.
Senza tutto questo non sarebbe stato assolutamente possibile fare una riforma legislativa.
L’alter ego di Vittorio Amedeo II in questa riforma è il suo ministro della guerra, PLATZAERT, il quale lo aiuto a porre mano alla riforma: scrive una relazione (“memoire”) e dice quali sono i punti per riformare la legislazione vigente. Tutto è contrastante al particolarismo giuridico, cioè semplicità, chiarezza, univocità, possibilità di non dare luogo ad interpretazioni equivoche: tutto il contrario della communis opinio, dell’arbitrio dei giudici, ecc.
Si arriva al 1723 e si riesce a sanzionare, cioè a dare pubblicazione ufficiale a questa riforma legislativa = COSTITUZIONI PIEMONTESI, in 5 libri.
Nel 1729 Vittorio Amedeo II ne fa una nuova edizione, in 6 libri.
Poi, nel 1770, viene fatta una nuova edizione, uguale a quella del 1729, però dal successore Carlo Emanuele III.
COSTITUZIONE PIEMONTESE DEL 1729:
CONTENUTO:
1. culto cattolico – ebrei
2. giurisdizione e organi giurisdizionali
3. procedure civile
4. diritto e procedura penale
5. alcuni istituti di diritto privato
6. regalìe, feudi, privilegi
IMPORTANTE NOTARE che c’è il diritto sostanziale e ci sono le procedure, c’è il diritto privato e c’è il diritto penale: c’è tutto, quindi non c’è una ripartizione nel senso moderno del termine, non c’è ripartizione tra diritto sostanziale e diritto processuale, tra diritto pubblico e diritto privato, anche se il diritto privato è solo parziale.
Questa è una consolidazione, non è una codificazione e lo si vede dalla struttura.
GERARCHIA DELLE FONTI: rispetto alle consolidazioni, un codice è tale quando realizza l’unicità della fonte normativa (esempio, quando dice: “la legge è solo quella dello stato”).
Libro III – titolo 29 – articolo II:
1. Costituzioni di Vittorio Amedeo II = solo costituzioni regie (costituzioni proprie e quelle dei suoi predecessori).
2. Statuti locali, se manca una norma e purché non siano in contrasto e siano vigenti, cioè abbiano avuto l’approvazione sovrana.
3. Legge comune (=diritto comune) = i giudici non potranno più allegare le opinioni dei dottori o le potranno adottare solo se compatibili alla ragione comune oppure alle sentenze dei grandi tribunali.
Qui, però, la vicenda è un po’ confusa.
Allora nel 1770 Carlo Emanuele III cerca di semplificare e dice che al punto terzo si applicheranno le decisioni dei grandi tribunali e, al quarto punto, la legge comune = DIVIETO DI CITAZIONE: in tribunale non si possono più citare le communis opinio, però in tribunale posso allegare una costituzione del re; se manca, uno statuto locale; se manca, una decisione dei grandi tribunali; se manca, una legge comune, cioè il diritto comune.
Di questi elementi qual è quello un po’ fuori posto?
Le decisioni, perché hanno natura giurisprudenziale, non sono norme: quindi, in questo sistema rimane una fonte non normativa. Viene abolita la fonte dottrinale (divieto delle citazioni), ma rimane una fonte giurisprudenziale, cioè i grandi tribunali.

Esempio