Il terzo mondo.

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Testo

Il benessere è un privilegio. Oggi nel mondo tre persone su quattro vivono tra stenti e privazioni. E le previsioni non promettono nulla di buono: i grandi problemi del futuro, quali la sovrappopolazione, la riduzione delle risorse, l’inquinamento, colpiranno le zone più povere del pianeta. Le nostre coscienze non possono rimanere indifferenti.
“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia”. Così stabilisce l’articolo 25 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Purtroppo, alle soglie del Duemila, tale principio resta ancora una pura affermazione teorica e non trova concreta applicazione in alcune zone della Terra.
Esistono oggi al mondo più di 180 Stati indipendenti. Un capillare decentramento politico è succeduto al crollo dei vecchi imperi coloniali. Tuttavia questa moltiplicazione di identità particolari non ha tolto valore alle demarcazioni più generali ed elementari, come quella fra paesi e continenti «ricchi» e «poveri», fra un «Nord» e un «Sud» del mondo, fra un «primo» e un «secondo» mondo sviluppati (i paesi industriali del Nord America, dell'Europa occidentale, il Giappone, l'Australia, ecc. da un lato, e la Russia e i paesi dell'Europa orientale dall'altro) e un «terzo» mondo poco o mal sviluppato.
L'espressione «Terzo mondo» fu coniata nel 1952 da uno studioso francese, che voleva così distinguerlo dal Primo mondo dei paesi industriali a economia di mercato e dal Secondo dei paesi comunisti a economia di piano; e voleva soprattutto evocare l’analogia col Terzo Stato dell'Antico Regime, protagonista della Rivoluzione Francese. Altri preferiscono parlare di «paesi in via di sviluppo», formula che può sembrare troppo ottimistica; altri di «sottosviluppo», formula che rischia di suonare razzista... Come si vede, dietro ogni scelta terminologica si affaccia una posizione politica. Si parla anche di un “Quarto mondo”, per definire quella quarantina di paesi più sfavoriti che non solo non hanno conosciuto uno sviluppo industriale, ma non dispongono neanche di petrolio o di altre materie prime pregiate da esportare. Di recente ha preso più piede la formula che oppone il Nord del mondo (Canada, USA, Europa, blocco sovietico, Giappone) al Sud.
L’espressione “Terzo Mondo” è comprensiva delle situazioni socio-politiche entro le quali operano più o meno faticosamente, alla ricerca del proprio volto storico e di una condizione umana di vita, i popoli dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia che si dicono sottosviluppati o in via di sviluppo. Si tratta di una dizione generica ed imprecisa, poiché non tutti i popoli e gli stati dei tre continenti presentano condizioni di uguale debolezza economica, di incertezza o instabilità politica, di contrasti non risolti di carattere nazionale e sociale. Non tutti gli stati del “Terzo Mondo” muovono da una recente situazione di soggezione coloniale: quelli dell’America Latina, poi, sono guidati da classi dirigenti locali, da dittatori e da colonnelli espressi dalle forze presenti negli stati. Altrove c'è una più varia sfaccettatura politica: si va da forme di democrazia occidentale a forme di governi quasi tribali. In tutti i paesi c’è una situazione di grave tensione, dovuta a stati di miseria e di sfruttamento recente e lontano, alla volontà di migliori condizioni di vita, quasi sempre bloccata da interventi esterni e da cricche locali, al bisogno di far presto e di recuperare occasioni storiche perdute per manovre di varia provenienza; c’è ugualmente in tutti una sempre più precisa presa di coscienza che lo stato di sottosviluppo e di arretratezza deve e può essere superato.
In questa esigenza di mutamenti di strutture, di crescita morale e sociale è forse il fatto più rilevante e positivo delle popolazioni del “Terzo Mondo”. Ma questa esigenza quasi mai percorre una linea razionale: vi si frappongono interventi talvolta massicci di potenze straniere, di grossi capitali disposti a pagare ras locali e a mantenerli al potere anche con l’ausilio dei mercenari. Un elemento di violenza e di sopraffazione è all’interno degli stati e si definisce o come lotta tra tribù di varia cultura o come esasperazione nazionalistica o come regime di colonnelli e di gorilla. Nascono, allora, le rivolte tumultuose e destinate al fallimento per mancanza di chiarezza nei fini e nei mezzi, i frequenti cambiamenti e rovesciamenti di regimi, che spesso hanno la dimensione di rivolte di palazzo, di cambi di guardia, e nasce la convinzione che si tratti di situazioni irrimediabilmente marce e che nulla può essere mutato se non attraverso la rivoluzione e, quindi, un intervento violento contro le vecchie classi dirigenti, per la creazione di nuovi rapporti umani e sociali. In conseguenza di queste tensioni ed aspirazioni, in cui è da vedere un deposito di forze culturalmente e politicamente mature, le uniche in grado di avviare i loro paesi a vita libera e autentica, la situazione si muove: ma a questo punto insorge il problema dei modelli a cui bisogna riportarsi in questo itinerario verso la storia. Ai popoli del “Terzo Mondo” si pongono di fronte tre tipi di modelli: quello europeo occidentale, quello comunista e quello autoctono, là dove quest’ultimo sia ancora recuperabile. Quasi tutti avvertono che negli altri, occidentali o orientali, dietro le profferte di aiuti c’è una volontà politica di servirsi di loro per il grande gioco internazionale, di operare sopra le loro teste, di ricondurli ad uno stato di soggezione più o meno camuffata, di instaurare una nuova forma di colonialismo. Sorge di qui, oltre che la diffidenza verso chi viene da un mondo sazio, il bisogno di operare secondo linee di storia autoctona, di ritorno alle origini culturali del proprio popolo che gli occupatori mortificarono, distrussero, deviarono.
(Le cause del «sottosviluppo») Dopo la fine degli anni 50, le ineguaglianze tra paesi si misurarono sulla base di un solo indice economico: il Prodotto Nazionale Lordo. Il mondo apparve così diviso in due: I Paesi del Nord, ricchi e sviluppati, e quelli del Sud, in lotta per un destino migliore. All’inizio degli anni 90 le Nazioni Unite giunsero alla definizione di un nuovo e più articolato “stato del mondo”, fondato sull’indice di sviluppo umano. Compaiono nuove zone di povertà: oltre ai Paesi africani e a quelli del Sud-Est asiatico, anche molti Stati dell’ex-Unione Sovietica rientrano ora nelle valutazioni ufficiali.
La vistosa differenza tra Nord e Sud del mondo si basa su una serie di contrasti stridenti: nell’andamento demografico, nel reddito, nel consumo di calorie, negli indici di istruzione, di assistenza sanitaria, di impiego della tecnologia, di occupazione... Quali sono le cause di una così grande e profonda divisione del mondo?
La troppo rapida espansione demografica, se aggrava pesantemente i problemi del Terzo mondo, non ne è l'origine unica, né principale. È importante ricordare che questi paesi sono stati sottomessi a lungo al dominio coloniale delle potenze europee, guidate da mentalità irrispettose delle diversità e delle autonomie, quando non apertamente razziste e da interessi materiali che trovavano nelle colonie ricchi territori da saccheggiare.
Lo stesso sviluppo di infrastrutture, quali vie di comunicazione, edifici pubblici, attrezzature e impianti industriali basilari, ecc., quando c'è stato, è stato rigidamente dipendente dalle metropoli. Cosicché, una volta acquistata l'indipendenza politica, lentamente e spesso al prezzo di sanguinose lotte, i nuovi stati hanno continuato a dipendere economicamente in larga misura dagli apparati produttivi, finanziari, tecnici dei loro vecchi dominatori, o di nuovi «partner» del mondo industrializzato. A questa diversa forma di dipendenza si è dato il nome di “neocolonialismo”. In molti casi, gli stessi gruppi dirigenti dei nuovi stati hanno favorito questa dipendenza, lasciandosene corrompere, o usandola contro gruppi rivali o rivendicazioni popolari, o anche per l’influenza di una cultura straniera magari ricca ma distante dalla cultura tradizionale locale. Bisogna dunque guardarsi dall’immaginare un Terzo mondo unito nella coscienza e nella lotta contro le molte forme di oppressione esterna: il Terzo mondo è a sua volta attraversato da un intrico di privilegi, di faziosità, di settarismi ideologici, e insomma di divisioni profonde, e non semplicemente importate o strumentalizzate dall’esterno.
All’alba del XXI secolo, più di 840 milioni di esseri umani, quasi un abitante su sette del Pianeta, soffrono ancora di fame o di gravi deficit alimentari. Il numero di vittime è diminuito, ma non quello delle carestie. Un’autentica “cintura della fame” stringe d’assedio il Pianeta: due miliardi di persone ne sono più o meno minacciate. L’Africa rimane il continente più colpito dai problemi legati all’alimentazione; l’India ha invece ottenuto significativi successi con nuove politiche agricole, e ora la sua dipendenza dagli aiuti esteri è sensibilmente diminuita.
«Fame» è, quindi, la parola che esprime genericamente e tragicamente la condizione di tanta parte dell'umanità contemporanea. In quella parte del pianeta detta “Terzo mondo” la mortalità nel primo anno di età supera di trenta volte quella europea, e i morti per sottoalimentazione toccano la misura spaventosa di 50 milioni all'anno. Alla fame si devono i corpi scheletrici o enfiati che ci siamo «abituati» a vedere nelle fotografie o in televisione, si devono l'anemia, la cecità, il rachitismo, lo scorbuto, il beribèri, e le altre terribili conseguenze della carenza di vitamine. In questi paesi, anche le calamità naturali tendono ad assumere proporzioni immani, contraddicendo uno sviluppo umano che appare via via meno dipendente dalla violenza della natura. Le aree tropicali sono le più soggette alla siccità nelle zone desertiche, alle rovinose inondazioni nei bacini dei grandi fiumi, alle epidemie umane e animali, al dissesto dei suoli. Legate a catastrofi naturali, a guerre oppure a crisi economiche, le carestie hanno provocato nel corso del Novecento la morte di decine di milioni di persone.
Un luogo comune è questo: la fame nel mondo è colpa delle poche risorse a disposizione e del clima bizzarro. Non è proprio così: se il 70 per cento della popolazione mondiale soffre di problemi legati all’alimentazione, questo dipende anche da fattori politici ed economici. Una verità sulla quale riflettere.
Nella seconda metà del secolo l’irrigazione e l’introduzione di nuove varietà di piante hanno favorito la crescita della produzione mondiale di cereali. Ciò ha permesso di rispondere, in parte, all’esplosione demografica che si è registrata negli ultimi decenni.
Il regime nutritivo, la «dieta» della grande maggioranza dei popoli del Terzo mondo si fonda su un alimento base di origine vegetale: il riso in Cina e nel Sud-est asiatico; il mais in America Centrale e in Messico; il frumento in Pakistan o in Afghanistan; la manioca in Angola e nello Zaire; il miglio, il sorgo, tuberi diversi, in altri paesi. Più di metà dell'alimentazione del pianeta proviene da tre sole piante: il frumento, il riso e il mais. Nei paesi ricchi la dieta è, invece, molto varia, e ai carboidrati unisce la frutta, la verdura, le uova, la carne. In questi paesi, compresa l'Italia, una crescente minaccia alla salute viene addirittura dall'eccesso e dall'abuso di proteine. Ma il paradosso più impressionante, quello che induce di più a riflettere, riguarda l'alimentazione degli animali da allevamento. Per allevare bestiame destinato a un'eccessiva e malsana dieta carnea, il «Primo mondo» destina una quantità di cereali crescente, che sta per superare il consumo complessivo di cereali per l'alimentazione del Terzo mondo. Dallo stesso Terzo mondo si importano per l'allevamento arachidi, soia, manioca. Gli animali delle nostre stalle-modello, destinati alle nostre tavole, sono dunque concorrenti diretti e favoriti di bambini, vecchi, donne e uomini del Terzo mondo. Non è forse una ragione nuova e sufficiente per rimettere in discussione le nostre abitudini e i nostri pregiudizi alimentari?
È possibile che un miliardo di persone del mondo industrializzato, che vive al di sopra della soglia del benessere e spreca alimenti, resti insensibile di fronte alle cifre allucinanti dei poveri che letteralmente muoiono di fame? È pensabile che milioni di persone si mettano a tavola ogni giorno senza pensare che nello stesso momento milioni di mamme nel Terzo mondo cercano tra i rifiuti un po’ di cibo per i loro bambini? È forse per questa nostra insensibilità addirittura a capire, ancor prima che a condividere, non un semplice stato di povertà ma una condizione di fame, che non ci possiamo sentire “esseri civili”?
Ma in concreto, che fare? La risposta è, una volta ancora, culturale. Non si tratta di escogitare rimedi eroici, ma soltanto di avere contezza, o meglio “coscienza”, che ci sono anche “gli altri”. In un certo senso, il fenomeno della fame è, infatti, il più drammatico, ma non il solo effetto di una catena di comportamenti aberranti. Chi ha studiato il problema della crescita economica nei Paesi cosiddetti sottosviluppati, sa bene che di quella catena la fame è solo l'ultimo anello. Che dire, ad esempio, del fatto che questi Paesi sono i migliori clienti di quelli industrializzati nell'acquisto di armi? E il nostro è purtroppo ai primi posti del mondo nella classifica dei fornitori. I ricchi forniscono aiuti, non ingenti ma neppure trascurabili, ai poveri; ma proprio con la vendita di armi o, nella migliore delle ipotesi, di beni non adatti ai loro primitivi sistemi economici, se ne riprendono una grossa fetta.
Vediamo ora l'altro versante. La decolonizzazione - che, spiace dirlo, ma della fame nel mondo non è l'ultima causa - ha creato un nugolo di nuovi Stati sovrani, che hanno conquistato la libertà di decidere da soli. Il che poi vuol dire spesso essere indotti a copiare certi nostri atteggiamenti e difetti.
Agli inizi degli anni ‘60 Kennedy promosse un vasto programma di aiuti allo sviluppo; ma il suo finanziamento incontrò ostacoli crescenti quando si constatò che buona parte di questi aiuti finivano nelle banche dei Paesi ricchi sotto forma di depositi intestati ai ras locali. Il ricordo della dominazione coloniale genera una fattispecie di nuovo razzismo culturale che porta spesso a rigettare offerte di assistenza tecnologica. La fame è anche il risultato di metodi di coltivazione tradizionali, che solo in minima parte recepiscono le innovazioni della tecnologia agricola. La fame di tanti Paesi è anche figlia di un assetto della società dove predomina l'ignoranza e dove perciò hanno buon gioco le minoranze rispetto all'enorme massa di proletari. Manca quel cuscinetto che è la classe cosiddetta media, capace di lavorare, risparmiare, produrre, creare nuovo lavoro. L’aiuto, di qualsiasi genere, deve passare attraverso le oligarchie dominanti. Ed è irrealistico pensare che siano proprio queste oligarchie ad aiutare i proletari a uscire dallo stato di soggezione nel quale vivono. Tutto ciò ha un puntuale riflesso a livello politico e istituzionale. A parte le differenti condizioni culturali, il mondo occidentale è arrivato alla democrazia attraverso un travaglio di secoli; e, in una parte consistente del mondo ricco, ancora sette anni fa era ridicolo parlare di democrazia. Perché allora ci aspettiamo che essa fiorisca miracolosamente nei Paesi “arretrati”? Perché soprattutto la vogliamo imporre attraverso quell'odiosa arma che sono gli embarghi, che tra l'altro provocano ribellioni e fanno ulteriormente peggiorare la condizione dei più deboli?
C’è un personaggio emblematico di questa contraddizione, che ha incarnato un sogno di indipendenza ed è visto ancor oggi, in molti Paesi poveri, come il paladino che resiste ai soprusi degli yankees. Fidel Castro è stato un dittatore: ma nella faticosa evoluzione verso la democrazia non abbiamo avuto anche noi i nostri dittatori? E come non condividere il timore castrista che un'improvvisa ventata di libertà incontrollata produca gli effetti devastanti che si stanno osservando in alcune aree dell'ex socialismo reale? La lunga lotta contro la fame e la miseria deve andare oltre i pur necessari aiuti d'emergenza. Centinaia di milioni di persone muoiono di fame perché non sanno gestire le loro istituzioni politiche né le loro, spesso cospicue risorse materiali. Possiamo lottare contro la fame e la miseria non imponendo la nostra soluzione ai Paesi poveri, ma aiutandoli a cercare e a realizzare la loro. È chiaro che cosa occorre nell'immediato. Ma nella sostanza c'è una cosa più importante che possiamo offrirgli: tolleranza e rispetto.
(Le tecniche nei paesi in via di sviluppo) Il 98% della produzione mondiale di tecniche avanzate spetta a un piccolo numero di paesi industrializzati. La ricerca per lo sviluppo per abitante nel Terzo Mondo equivale a un centesimo di quella dei paesi industrializzati. Su 3 500 000 brevetti depositati, solo il 6% proviene dai paesi in via di sviluppo. Da qui il fondamentale problema del trasferimento di tecnologie al Terzo mondo. Ma quali tecnologie e per che farne? Il dibattito oppone due concezioni: una auspica l'adozione da parte dei paesi in via di sviluppo delle tecniche avanzate dei paesi industriali; l'altra considera più realista il semplice perfezionamento delle tecniche locali, ritenute «appropriate». Gli addebiti rivolti più frequentemente ai trasferimenti di tecnologia, compiuti soprattutto dalle società multinazionali, sono i seguenti: queste tecnologie fanno troppo appello all'automazione e al capitale; esigono una manodopera molto qualificata; costano molto care; utilizzano prodotti sintetici mentre il Terzo mondo è ricco di materie prime; creano una dipendenza nei confronti dei fornitori; trasmettono anche un modello di società e di organizzazione economica; non corrispondono spesso a un progetto globale di sviluppo.
Il processo di globalizzazione dell’economia, che obbedisce esclusivamente alle leggi del mercato, inoltre, riduce sempre di più lo spazio per una maggiore giustizia nei rapporti economici tra i paesi e per una più forte attenzione verso i bisogni e le aspirazioni dei popoli. I paesi industrializzati danneggiano i poveri del Sud del mondo più con le risorse che pretendono per sé che con gli aiuti che negano. I popoli del Sud non si aspettano che noi diamo loro di più, ma che impariamo a prendere di meno. È una questione di giustizia; l’amore preferenziale per i poveri e la costruzione di una società più giusta, fraterna e solidale passano attraverso le nostre scelte e i gesti quotidiani.
Da qualunque punto prospettico lo si guardi, il problema, che è poi un groviglio di problemi, del “Terzo Mondo” è il più drammatico, ed anche il più moralmente esaltante, di tutti quelli che incombono sugli uomini. Ma, proprio perché terribilmente serio e fortemente intriso di sofferenze e di dolore, deve essere affrontato con estrema e vigile serietà e con concreta e nuova forma di partecipazione dai paesi che si dicono sviluppati: e questo non solo per ragioni morali, ma perché ormai tutta l’umanità è una ed ugualmente coinvolta nelle stesse trame e nelle stesse responsabilità. Ogni stato di agitazione, ogni tumulto, ogni ingiustizia che colpisce l’africano, ci riguarda, fa parte essenziale del nostro destino di uomini di cultura, interessati ad una più ordinata organizzazione del potere. Certo l’atteggiamento di sufficienza di certi tardi custodi della presunta superiorità degli europei è gretto e meschino: né si può impunemente convivere con chi ancora vagheggia spedizioni di riconquista.
Ci offendono coloro che si rifugiano dietro lo squallido pregiudizio razziale, ma anche quelli che con la destra porgono il pane e con la sinistra vendono i bombardieri. Non aiuta i popoli del “Terzo Mondo” chi rinfocola spiriti tribali o favorisce guerre nazionalistiche, né chi ad essi si accosta per “convertirli”. Ciò che invece deve essere tenuto presente con rigore dagli europei è che la stessa civiltà europea non si salva se non con loro, con i popoli del “Terzo Mondo”, non con le mitologie scorrette dell’esclusivismo eurocentrico. Giustamente è stato osservato (Fortini) che “bisogna uscire dalla demenza morale indotta dalla fase attuale del capitalismo, che ha toccato anche il comunismo sovietico: e sapere che l’operaio cinese, il negro minatore del Sud Africa e l’insorto contadino venezuelano non sono il nostro passato. Sono il nostro presente”.
Quando crollò il muro di Berlino, simbolo della separazione fra paesi occidentali e orientali, il mondo intero salutò con gioia l’evento. Oggi, la stessa gioia dovrà accompagnare la caduta di un altro, intollerabile muro: quello fra il Nord e il Sud del mondo e fra il nord e il sud di ogni paese del mondo. Il muro nord-sud va assolutamente abbattuto perché la divisione tra nazioni ricche e nazioni povere, tra occupazione e disoccupazione, tra profitto e sfruttamento, provoca morte, odio, ingiustizie, lavoro minorile, ignoranza e diffidenza: una situazione intollerabile per un mondo che sta per entrare nel terzo millennio.
Il futuro del mondo è nella solidarietà. Quando si parla di solidarietà, le dichiarazioni sono importanti, ma ancora più importanti sono le azioni concrete: le iniziative a livello internazionale che hanno l’obiettivo di favorire lo sviluppo umano ed economico dei popoli. La promozione del lavoro è l’unica forma di solidarietà capace di annullare le differenze che separano il Nord ed il Sud nel mondo, i paesi ricchi da quelli poveri e, in definitiva, l’uomo dall’uomo.

UN’EMERGENZA CHIAMATA TERZO MONDO
SVILUPPO, SOTTOSVILUPPO, FAME

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