Eutanasia

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Eutanasia: sì o no?
L’articolo Eutanasia: sì o no? di Giorgio Tosi, - apparso su l’Ateo nr. 3/98, pag.6, nella rubrica L’Argomento - è tratto dal quindicinale “Questotrentino”, diretto dal nostro direttore responsabile Ettore Paris.
Esiste o no il diritto di morire, “the right to die“, come si esprimono gli inglesi? La domanda può essere formulata in altro modo: è giustificato che “l’omicidio per pietà” sia punito, e così l’aiuto all’altrui suicidio? Credo che in questi interrogativi sia contenuto tutto il dibattito sull’eutanasia.
Sull’esatto significato del termine esistono biblioteche, ma ai nostri fini è sufficiente stabilire che per eutanasia deve intendersi il dare la morte a chi la richiede perché affetto da malattia inguaribile e dolorosa ed è prossimo alla fine, per abbreviare le sofferenze. In altri termini: omicidio per pietà, o per amore.
Anche il suicidio di chi si trova nelle medesime condizioni costituisce eutanasia; ma poiché il suicidio non è reato, non esiste il problema. Esso nasce invece da due norme penali, l’art. 579 che punisce l’omicidio del consenziente e l’art. 580 che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio.
Al di là delle scelte pratiche di politica criminale, esistono valide ragioni sul piano logico-giuridico per giustificare le due norme penali nei casi di eutanasia? Va osservato innanzitutto che il movente è determinato dal sentimento altruistico di compassione e di umana solidarietà: la volontà del soggetto si muove in direzione opposta a quella che caratterizza l’omicidio volontario, il cui movente è sempre egoistico. Questo è uno dei motivi per cui i casi di eutanasia rientrano a fatica nello schema delle due norme penali indicate. Inoltre nessun interesse pubblico sembra essere leso, se il malato sofferente sceglie di accelerare il momento della sua morte.
Sul piano tecnico si potrebbe osservare che il diritto alla vita è un diritto soggettivo assoluto che fa capo appunto ad un soggetto, cioè ad una singola persona fisica. Solo questa ne sarebbe titolare. L’ordinamento giuridico dello Stato ha l’obbligo di garantire tale diritto “erga omnes”: di qui le norme penali incriminatrici dirette alla tutela della integrità fisica di ciascuno. Deve tale tutela essere mantenuta anche oltre e contro la volontà del titolare? Se così fosse, contitolare del diritto alla vita sarebbe anche lo Stato con poteri addirittura più ampi della singola persona fisica. Tale conclusione può essere accettabile in uno Stato totalitario; ma certo lo è molto meno in una democrazia.
Va osservato che il contenuto del diritto alla vita è l’istinto di vivere (pulsione vitale) che preesiste all’ordinamento giuridico. Questa volontà diventa diritto nel momento in cui l’ordinamento giuridico la riconosce e la garantisce. Il suo contenuto reale però non cambia e rimane la naturalistica volontà di vivere. Se questa viene meno, dovrebbe cadere anche lo scudo protettivo dell’ordinamento giuridico, venir meno cioè l’obbligo dello Stato alla tutela.
Un ragionevole indizio che le cose stanno così potrebbe essere il fatto che il suicidio o il tentato suicidio non costituiscono reato per l’ordinamento giuridico italiano. Se taluno perde la voglia di vivere, o decide comunque di porre fine alla propria esistenza, tenta di uccidersi e non vi riesce pur procurandosi lesioni gravissime e permanenti, lo Stato non lo punisce. E’ come se lo Stato dicesse: non tutelo la tua vita oltre e contro la tua volontà. Ciò significa che ogni soggetto può porre fine al bene della vita quando vuole senza incorrere in sanzioni (disponibilità manu propria).
Perché ciò non dovrebbe valere se il soggetto, ammalato di male incurabile e doloroso, chiede espressamente a un terzo (disponibilità manu alius) di accelerare la sua morte?
Al di là delle indicazioni di politica criminale, la conclusione di non punire il suicidio sembra corretta sul piano teorico se si considera che il diritto alla vita è un diritto soggettivo e assoluto, del tutto simile agli altri diritti della persona: diritto alla libertà di espressione, a organizzarsi in partiti politici, a votare ed essere eletto, diritto alla salute, diritto al lavoro, ecc.
Si tratta come è noto di facoltà, anche costituzionalmente garantite, non di obblighi. Sembra ovvio che nessuno possa essere costretto a esercitare quei diritti: nessuno per esempio può essere obbligato a curarsi o a lavorare. Perché dovrebbe essere costretto a vivere contro la sua volontà? Perché il diritto soggettivo alla vita dovrebbe avere una natura diversa dagli altri diritti? Non obbedisce forse anch’esso al più generale principio personalistico dei consenso sancito dall’art. 13 della Costituzione’? Credo sia difficile provare una ragione plausibile del divieto sul piano meramente giuridico.
La verità è che il solo ostacolo dell’eutanasia è di natura religiosa. Secondo le principali religioni, ad esclusione del Buddismo, l’unico titolare della vita è Dio e non la singola persona, che quindi non può disporne. Già nel 1957 Pio XII aveva affermato che “uno dei principi fondamentali è che l’uomo non è signore né proprietario, ma solo usufruttario del suo corpo e della sua esistenza”: posizione ribadita dalla Congregazione per la dottrina della fede con la dichiarazione sull’eutanasia dei 5 maggio 1980. Se la vita umana appartiene a Dio, solo autore e padrone, la conseguenza necessaria è la proibizione dell’eutanasia. Si tratta di una proibizione indistinguibile e insuperabile per i fedeli. Sembra dunque di poter concludere che l’origine vera del divieto è extragiuridica.
Sul piano giuridico invece, se titolare del diritto di vivere è la singola persona fisica, in base al principio personalistico del consenso le conseguenze teoriche e pratiche sono inevitabilmente diverse, e diverse le conclusioni.
In ogni caso si pone l’esigenza, de iure condendo, di una revisione profonda del regime esistente, che da un lato urta la coscienza giuridica della collettività e dall’altro è inefficace contro l’eutanasia, sempre più largamente praticata di fatto, sia in privato che nelle strutture medico-sanitarie.
Giorgio Tosi

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