ENEIDE

Materie:Appunti
Categoria:Ricerche

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Testo

DIDONE

Nel IV libro dell’Eneide, Didone è un grande figura, che ci aiuta ad indicare il motivo più intimo della lirica di Virgilio. Il poeta aveva concepito per lei un dramma: essa ama un uomo che non dovrebbe amare, e che da parte sua non la deve amare. Essa deve lottare prima con il suo animo, dove il sentimento del dovere è ben saldo, e poi, quando ha vinto sé stessa, deve lottare inutilmente con l’animo di Enea, dove il sentimento del dovere si è risvegliato proprio allora.
Didone è studiata molto finemente dal poeta: per spiegare il sorgere dell’amore in lei egli aveva usato il fato, ma poi volle trovare cause visibili, come l’Amore che si sostituisce ad Ascanio, o i doni preziosi di Enea.
Dei vari discorsi che ella fa con la sorella prima e con Enea poi, il più bello è il primo, perché è il più ambiguo. La regina ha il cuore ferito senza rimedio: ma della irreparabilità non si accorge, anzi è certa di non pensarci. Alla immagine non dimenticata dello straniero ella contrappone la sicurezza della sua fedeltà al proprio marito e la fermezza di una decisione di castità che ormai è già morta in lei.
I discorsi che fa con Enea sono eloquenti: dicono tutto ciò che una donna può dire per scuotere o intenerire un uomo. Il loro nobile difetto è appunto questo: che dicono tutto. Inoltre il rimpianto di non avere almeno un figlio da Enea nasce da un profondo sentimento femminile.
Enea parla per difendersi, ma già da molto tempo la regina non lo ascolta più, è smarrita come se davanti a lei ci fosse un altro uomo. Essa è donna, ma insieme regina: ha pregato, ha pianto, ha cercato di impietosire; ora ascoltando le parole di Enea ella non sente che l’oltraggio; lo scoppio di collera che segue alla pausa è giustificatissimo, e i passaggi sono calcolati alla perfezione.
Tutto ciò che segue a quel colloquio del libro IV è meraviglioso. Didone ora è veramente la cerva ferita, con la freccia nel fianco, di cui Virgilio aveva un po’ anticipato la descrizione. Cominciano le allucinazioni, cominciano i sogni pieni di affanno: l’immagine di Enea, ricacciata durante il giorno, si fa strumento di tortura durante il sonno. La decisione di morte, le suggerisce astuzie complicate che aveva disdegnato nell’amore.
Una donna qualsiasi si sarebbe accontentata di morire; Didone, una regina, vuole essere vendicata e sogna un vendicatore della sua razza e del suo grado: per lei i troiani sono tutti colpevoli, nessuno escluso. È umano che ella odi l’Italia, la rivale che non si poteva vincere solamente con le semplici arti di donna.
Prima di morire, la tenerezza femminile la riprende, la conduce a pensieri più composti, più ordinati, e la vita che ha spregiato le ricompare non priva di qualche gioia e di qualche gloria: solo un punto fu quel che la vinse. Il suo ultimo sguardo e le sue ultime parole vanno tuttavia alle spoglie di Enea, alle quali, pur dopo tante parole d’odio, raccomanda la sua anima.
Alla lunga agonia di Didone pone fine, impietosita, Giunone stessa, che invia Iride a strapparle il biondo capello della vita che Proserpina, ignara della sua morte immatura, non le aveva ancora reciso. L’intervento del soprannaturale con cui si chiude il libro, ha qui una sua viva ragione di essere, perché crea quell’atmosfera di solennità che è propria del sacro mistero della morte.

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