Obbedienza versus Coscienza

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Testo

OBBEDIENZA VERSUS COSCIENZA
APPROFONDIMENTO PLURIDISCIPLINARE
Per il colloquio orale dell’Esame di Stato
a cura di D. Monica
SOMMARIO
INTRODUZIONE
LO SVILUPPO DELLA MORALITA
Come nasce e come si sviluppa la moralità?
OBBEDIENZA ALL’AUTORITA’
L’interiorizzazione dell’obbedienza
Lo stato eteronomico
Il conflitto tra disciplina e coscienza
Assegnazione di responsabilità da parte di soggetti ribelli e obbedienti
I meccanismi d’adattamento
Il testo “CIVIL DISOBEDIENCE” di Henry David Thoreau
Accenni a Orwell's Nineteen Eighty-four
Quando il responsabile scompare
LA DISOBBEDIENZA OGGI
Insomma…
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE

Qualche mese fa ho avuto occasione di assistere con la scuola a uno spettacolo di teatro sperimentale dal titolo “Alma Rosè”. La rappresentazione era tratta dal libro C’era un orchestra ad Auschwitz di Fania Fenelon, sopravvissuta al famigerato campo di sterminio appunto per il suo ruolo nell’orchestra delle detenute, che aveva il grottesco compito di accompagnare musicalmente la vita del campo. Ciò che ha svelato in me l’interesse sul tema dell’obbedienza all’autorità, che sto qui per trattare, è stato il dibattito cui abbiamo partecipato a fine spettacolo. La questione centrale era come potevano uomini come noi, padri di famiglia, amare la bella musica, i fiori, l’arte e la poesia e allo stesso tempo compiere massacri come l’olocausto.
C’è chi dice che i nazisti erano semplicemente pazzi e che persone sane di mente non commetterebbero mai atrocità simili. Altri sostengono che questa sia una criminalizzazione semplicistica, un modo per trovare un capro espiatorio concreto e punibile su cui proiettare la crisi di certezze conseguenti le brutalità della seconda guerra mondiale e dunque esorcizzare le nostre paure.
Nel dopoguerra un celebre lavoro di ricerca dal titolo La personalità autoritaria, voleva dimostrare con un approccio incentrato sulla psicologia della personalità, che se il nazismo è stato un fenomeno storico crudele, tale crudeltà è legata al fatto che i nazisti erano crudeli e le persone crudeli hanno la tentenza ad abbracciare ideologie come quella nazista. In tal modo il cerchio si chiudeva e noi (non crudeli, non nazisti) avevamo la coscienza tranquilla.
E’risaputo che ai processi di Norimberga la maggiorparte degli accusati si difendeva asserendo di aver solo fatto il proprio lavoro, di avere obbedito agli ordini. Come del resto è successo ai processi degli ufficiali americani per i massacri di civili in Vietnam. Certo, questo non li giustificò, ma stimolò nuove ricerche, che guardavano alle atrocità di massa non come risultato di perversioni demoniache bensì di particolari situazioni di perdita di responsabilità per sottomissione a un’autorità.
A ognuno di noi nella vita di tutti i giorni capita di obbedire. Quindi di trovarsi in situazioni in cui è necessario scegliere tra seguire le regole che ci vengono imposte, anche nel caso in cui le si trovasse ingiuste, e il ribellarsi. Appunto il ribellarsi, secondo queste ricerche, sarebbe più difficile di quanto sembri, perché, nel prendere una strada propria, ci si sente carichi di responsabilità. Ed è questo il fatto curioso che mi ha spinto ad approfondire la mia ricerca: perché quando si seguono degli ordini ci si sente meno responsabili delle proprie azioni di quando si fa di testa propria? L’obbedienza è dunque pericolosa? Quando obbediamo agli ordini la nostra coscienza funziona o meno?
LO SVILUPPO DELLA MORALITA’
Per comprendere se e come il senso morale agisca in situazione di obbedienza, è primaditutto necessario capirne la genesi
Come nasce e come si sviluppa la moralità?
Nell’opera Al di là del principio del Piacere del 1920 Freud presentò per primo una teoria sulla nascita del senso morale, che si svilupperebbe nel bambino durante la fase fallica, intorno ai quattro anni. Il bambino, cominciando a sentirsi inconsciamente attratto dalla madre come oggetto sessuale, si sente frustrato accorgendosi che deve dividerne l’affetto con il padre. Questa frustrazione lo porta a vedere nel genitore del medesimo sesso un rivale, che tuttavia è una figura potente e invincibile. Come reazione di difesa, per vincere l’ansia che deriva da questa rivalità, s’identifica col padre e lo asseconda, così da assumerne la forza. Secondo questo processo, chiamato Complesso di Edipo, nascerebbe il rispetto dell’autorità e delle sue imposizioni, che verrebbero interiorizzate come norme morali.
I dati empirici oggi però, individuano il momento in cui il bambino diventa recettivo agli insegnamenti morali a due anni, anziché a quattro come diceva Freud. E’significativo che sebbene i genitori spesso rimproverino i bambini anche prima, non riescano fino ai due anni a farli sentire in colpa, né a inculcare in loro norme. Il fatto che universalmente, in tutte le culture e i popoli del mondo, la coscienza compaia a quest’età, conferma l’ipotesi che il suo sviluppo dipenda dalla comparsa, programmata biologicamente, di determinati requisiti psichici necessari, come la capacità di valutare la desiderabilità delle cose e stabilire nessi causali, quindi di prevedere le conseguenze delle proprie azioni.
Nell’ambito degli studi su come evolve la moralità nell’arco della vita, da questo presupposto parte il filone dello sviluppo cognitivo-morale, che cerca d’individuare stadi sequenziali di ragionamento morale e di ricondurli appunto all’acquisizione di specifiche capacità cognitive.
L’opera iniziatrice di questo tipo di ricerca fu Il giudizio morale nel fanciullo scritta da Piaget nel 1932. L’opera fu però ignorata fino agli anni 60, causa l’egemonia comportamentista di quel periodo. La scuola comportamentista infatti, si occupava più che altro di stabilire come i bambini apprendono a conformarsi alle norme e quali motivazioni possono spingerli ad obbedire o trasgredire. Non si interessava al lato mentale e ai ragionamenti morali che potevano esserci dietro il rapporto manifesto con le norme. L’idea che un bambino, anche se in condizioni di apprendere una regola morale e ben motivato, non vi si conformasse semplicemente perché non in grado di capirne la logica, era impensabile.
Per indagarne il ragionamento morale Piaget osservava i bambini durante i giochi di gruppo, badando a come si attenevano alle regole e poi li intervistava.
Secondo le sue conclusioni il bambino passa per tre stadi successivi di pensiero morale. Durante il primo, il premorale, non comprende norme e non è in grado di esprimere giudizi morali. Nel secondo, caratterizzato dal realismo morale e dall’assolutismo morale, il bambino è convinto che le norme provengano sempre da fonti esterne indiscutibili, autorità potenti, come i genitori o Dio, di conseguenza pensa che siano fisse (anche se si è tutti d’accordo non si possono modificare) e assolute (non sono ammesse eccezioni). Quando il bambino passa dall’esperienza di un rapporto privilegiato con l’adulto, a una vita relazionale in cui sono presenti sempre più i coetanei, si rende conto che è il gruppo a codificare le regole, a cambiarle e a decidere sanzioni e ricompense. L’assolutismo cede allora il posto al relativismo morale, meno duro e più immanentista.
Circa trent’anni dopo il lavoro di Piaget, seguendo un approccio simile, L. Kohlberg individuò, estendendo l’analisi all’adolescenza e all’età adulta, un nuovo stadio di pensiero morale, che in realtà solo in pochi raggiungerebbero, in cui il soggetto capisce che il sistema normativo è solo il prodotto di un contratto sociale e che le sue regole vanno valutate in riferimento a principi di etica universale.
OBBEDIENZA ALL’AUTORITA’
Che questo stadio sia raggiunto da pochi è stato dimostrato da fenomeni di obbedienza acritica, appunto, nel corso della storia.

Già nel 1921 Freud nell’opera Psicologia delle masse e analisi dell’Io aveva sviluppato la teoria che una persona sopprime le funzioni del proprio Super-Io delegando ai leaders i pieni poteri di decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
L’esperimento condotto dallo psicologo Stanley Milgram nel 1974 su più di mille soggetti, ci da l’idea di quanto sia difficile, una volta delegata la propria autonomia a un’autorità, trovare le risorse necessarie per ribellarsi, anche quando ci si accorge di compiere atti malvagi, in contrasto con le più elementari norme morali.
L’esperimento: Ci sono due soggetti. Uno è un signore di mezza età dall’aria bonaria e simpatica e è in realtà un complice dello sperimentatore. L’altro è il vero soggetto sperimentale, ignaro, all’oscuro dell’effettivo disegno della ricerca. Lo sperimentatore dice che si tratta di un esperimento sugli effetti delle punizioni nell’apprendimento. Uno dei due farà l’allievo e dovrà imparare a memoria una lista di coppie di parole in modo da rispondere con l’altra parola della coppia quando gliene viene detta una. L’altro farà l’insegnante. L’allievo viene fatto accomodare su una sedia e gli vengono applicati ai polsi gli elettrodi per mandargli le scariche elettriche. All’insegnante invece viene mostrato il pannello di comando con le leve per erogare le scariche. Si va dai 15 volts ai 450 volts. Su ogni leva, oltre al voltaggio, è indicata la pericolosità della scossa. Si parte dalla scritta “shock leggero”, si passa per scritte come “shock pericoloso” e si arriva in fondo a un misterioso “XXX”. Affinché l’insegnante possa rendersi conto di persona gli viene fatta provare una scossa da 45 volts, che risulta piuttosto dolorosa. Ovviamente –gli viene raccomandato- più l’allievo sbaglia, più bisogna aumentare l’intensità delle scariche. L’esperimento ha inizio e l’allievo presto sbaglia, per cui il soggetto sperimentale deve infliggere shock sempre più forti. L’allievo (è un attore e recita bene) a 75 volts si lamenta, a 150 si rifiuta di proseguire l’esperimento urlando per il dolore, a 330 non dà più segni di vita Ogni volta che il soggetto sperimentale si mostra incerto e ha il dubbio che non sia il caso di continuare, lo sperimentatore con autorevolezza lo esorta a portare avanti la procedura.
I risultati ottenuti da Milgram sono agghiaccianti: il 62 per cento dei soggetti, seppure a disagio, ha obbedito fino alla fine (450 volts), oltre l’80 per cento ha raggiunto i 150 volts e il livello medio di scariche somministrate è stato di 368 volts.
I soggetti di un gruppo di controllo, lasciati liberi di decidere, non superarono i 150 volts. Il comportamento del gruppo di controllo del resto era in linea con le previsioni fatte da 40 psichiatri, che evidentemente avevano in mente l’individuo libero dall’influenza dell’autorità.
Al termine dell’esperimento Milgram si preoccupò di raccogliere dei dati sulla storia personale di ogni soggetto. I risultati mostrarono le seguenti tendenze. Repubblicani e democratici non differivano sostanzialmente quanto a livelli d’obbedienza; i cattolici si mostravano più obbedienti degli ebrei e dei protestanti. Le persone con un maggior livello d’istruzione erano anche quelle più disposte a ribellarsi. Coloro che si dedicano a professioni morali, quali legge, medicina, insegnamento, si sono dimostrati più propensi a ribellarsi di coloro che hanno degli impieghi più tecnici, come ingegneria e scienze fisiche. Quanto più a lungo i soggetti erano stati sotto le armi, tanto più si dimostravano obbedienti, con l’eccezione di quanti avevano prestato servizio come ufficiali: essi erano meno obbedienti dei soldati semplici, indipendentemente dalla durata del loro servizio.
Secondo quanto messo in luce dagli studi, all’interno di una società complessa, l’obbedire agli ordini dell’autorità senza discuterli è non solo l’atteggiamento della maggioranza, ma un meccanismo spesso inconscio, in realtà biologicamente adattivo, funzionale al mantenimento della specie.

L’interiorizzazione dell’obbedienza
L’obbedienza infatti ha un ruolo chiave nella sopravvivenza della specie umana, perché permette di formare raggruppamenti gerarchicamente organizzati che rappresentano un enorme vantaggio nel far fronte alle insidie dell’ambiente fisico e ai pericoli di distruzione provenienti dall’interno. Infatti l’organizzazione sociale procura stabilità e armonia alle relazioni fra i membri del gruppo: con la posizione di ogni membro chiaramente definita e riconosciuta da tutti, i conflitti vengono ridotti al minimo, proprio come nelle specie animali evolute.
Lo sviluppo, nell’animo umano, di questo comportamento, oltre ad essere filogeneticamente programmato è rafforzato da regole che interiorizziamo dalla nascita. Già il primo rapporto sociale consiste infatti nel riconoscimento e nella sottomissione ai consigli dell’autorità, anche perché le condizioni iniziali di completa dipendenza non offrono molta scelta e l’autorità si presenta generalmente al bambino sotto forma benevola e protettrice.
A causa di regole e imposizioni dettate dall’autorità nel bambino si sviluppano gli imperativi morali. Tuttavia un genitore che insegna al figlio a seguire una regola morale, fa in realtà due cose. In primo luogo, propone un contenuto etico specifico che il bambino deve accettare. In secondo luogo, istruisce il bambino a conformarsi agli ordini dell’autorità in quanto tali. Ogni ordine specifico è accompagnato da un imperativo implicito costante: “Obbediscimi!”. Appena il bambino emerge dal bozzolo della famiglia, si trova trasferito in un sistema d’autorità istituzionale, la scuola, dove impara la sottomissione alle regole dell’insegnante e il rispetto per la sua autorità. Sul posto di lavoro, poi, impara che, anche se in certe occasioni può discretamente esprimere la sua disapprovazione, deve mantenere, nell’insieme, un atteggiamento sottomesso nei suoi rapporti con i superiori. Per quante iniziative secondarie siano lasciate al singolo, ciò che caratterizza la situazione nel suo insieme è l’esecuzione dei compiti prescritti da qualcun altro. Attraverso queste esperienze l’individuo è continuamente sottoposto a un sistema di premi e di castighi in cui l’adesione ai voleri dell’autorità viene generalmente compensata, mentre il rifiuto viene normalmente punito. Il risultato finale è l’interiorizzazione dell’ordine sociale, cioè l’interiorizzazione di una serie di assiomi che permettono il perpetuarsi della vita sociale; di questi assiomi il principale è: fa’ quello che le persone che comandano ti dicono di fare.
Il problema emerge quando una persona, venuta a far parte di un sistema d’autorità, conformando il suo comportamento alle direttive del superiore, non si considera più libera di agire di sua propria iniziativa e, di conseguenza, non si considera più responsabile delle sue azioni.
Lo stato eteronomico
Milgram sostiene che nel momento in cui un individuo viene inserito in una struttura gerarchica tende in generale a subire una radicale trasformazione della sua attività mentale, almeno per quel che riguarda le situazioni sociali, per entrare così in uno stato eteronomico. Mentre, come singolo, l’individuo è portato a controllare il proprio comportamento con la coscienza, secondo i propri principi morali, una volta inserito in una struttura gerarchica tale comportamento è regolato dagli ordini emanati dall’autorità. Viene percepito come moralmente positivo non più un comportamento coerente con i propri principi, ma un comportamento coerente con gli ordini dell’autorità. In conseguenza a ciò, l’individuo non si considera più responsabile delle proprie azioni.
Il conflitto tra disciplina e coscienza
Molte persone osservate nel corso dell’esperimento non sono entrate del tutto in stato eteronomico e perciò erano in qualche modo contrarie al proprio modo di comportarsi nei confronti dell’allievo. Molti soggetti benché obbedienti, protestavano. Si rendevano conto di fare qualcosa di sbagliato ma non avevano la forza psichica di ribellarsi all’autorità. Per passare dal dissenso alla ribellione è decisiva la capacità di tradurre opinioni e valori in azioni. La ribellione costa un’enorme forza psichica: disobbedendo, il soggetto è convinto di aver rovinato la prova, di aver frustrato gli scopi della ricerca e di essersi mostrato inferiore al suo compito. E’ lui, e non il soggetto obbediente, a subire le conseguenze delle sue azioni.
Ciò è dimostrato dai risultati del test sull’assegnazione della responsabilità da parte di soggetti ribelli e obbedienti che avevano partecipato all’esperimento.
Assegnazione di responsabilità da parte di soggetti ribelli e obbedienti

n
Sperimentatore
Insegnante
Allievo
Soggetti ribelli
61
38,8%
48,4%
12,8%
Soggetti obbedienti
57
38,4%
36,6%
25,3%
La scoperta più significativa è che i soggetti ribelli reputano di essere loro stessi i principali responsabili delle sofferenze inflitte all’allievo, assegnando il 48 per cento della responsabilità globale a se stessi e il 39 per cento allo sperimentatore. La proporzione si modifica leggermente nel caso dei soggetti obbedienti i quali non considerano se stessi più responsabili dello sperimentatore e, anzi, sono pronti ad assumersi una parte di responsabilità leggermente inferiore alla sua. I giudizi divergono maggiormente nell’attribuire la responsabilità all’allievo. I soggetti obbedienti gli assegnano una responsabilità circa due volte maggiore, per le sue stesse sofferenze, dei soggetti ribelli. In tal modo i soggetti disobbedienti, più frequentemente dei soggetti obbedienti, si considerano direttamente responsabili e tendono anche ad attribuire una minore responsabilità all’allievo.
I meccanismi d’adattamento
Quando il soggetto entra in stato eteronomico si attivano meccanismi di adattamento che reprimono l’intenzione di ribellarsi all’autorità e riducono l’ansia prodotta dal conflitto (fra disciplina e coscienza) che sorge durante l’esperimento.
Il primo meccanismo è la tendenza a concentrarsi tanto sull’aspetto tecnico dell’attività, da perdere di vista le sue conseguenze finali. Invece di preoccuparsi del contenuto delle azioni, il criterio etico diventa la diligenza con cui, eseguendo i compiti assegnati dall’autorità, ci si conforma alle sue aspettative. In tempo di guerra, un soldato non si domanda se sia bene o male bombardare un villaggio, egli prova invece orgoglio o vergogna per il modo in cui ha portato a termine le azioni che gli sono state ordinate.
Il secondo meccanismo può essere definito “controantropomorfismo”. Si tratta della tendenza che fa attribuire qualità impersonali a forze prettamente umane. Nel corso dell’esperimento avviene che, quando lo sperimentatore dice: “L’esperimento esige che lei continui”, il soggetto ha la sensazione di trovarsi di fronte a un imperativo trascendente ogni comando puramente umano. Non riesce a rendersi conto che colui che vuole che si vada avanti è un uomo come lui.
Altro fattore che durante l’esperimento ha rafforzato l’obbedienza è il meccanismo per cui il significato della medesima azione può cambiare a seconda del contesto in cui è collocata. Il bombardamento di villaggi di fango e ospedali, la somministrazione di scosse a un soggetto indifeso, isolatamente appaiono all’unanimità atti condannabili. E’ allarmante però capire che le stesse azioni, inserite in contesti come la lotta al terrorismo o il contributo alla ricerca scientifica, acquistano per l’uomo un significato totalmente diverso. Ma permettere che un’azione venga denominata dalle circostanze, senza più curarsi delle sue conseguenze umane, può divenire tragicamente pericoloso. Anche perché la nostra visione del contesto è facilmente manipolabile attraverso propaganda politica e mezzi d’informazione.
Già Fromm, nel suo libro Anatomia della distruttività umana del 1973 indicava la suggestionabilità delle masse rispetto ai messaggi dei leader come una fra le cause della superiore aggressività nell’uomo rispetto all’animale.
Per scaricare l’ansia durante l’esperimento alcuni soggetti arrivavano a un vero e proprio disprezzo gratuito nei confronti della vittima. Il meccanismo psicologico è trasparente: se la vittima è una persona indegna, non c’è da preoccuparsi a farle del male. D’altra parte il sistematico avvilimento delle vittime come espediente per giustificare i trattamenti brutali a cui esse sono sottoposte, è sempre stato presente nel corso di massacri, progroms e guerre.
Il testo “CIVIL DISOBEDIENCE” di Henry David Thoreau
La fama di questo saggio è cresciuta soprattutto nel corso del ventesimo secolo: ignorato alla sua uscita, ha influenzato moltissimo personaggi del calibro di Gandhi e Martin Luther King. Il primo mise in pratica la disobbedienza civile su scala di massa nel Sudafrica ed in India, mentre il secondo applicò i principi del saggio nel movimento per i diritti civili negli Stati Uniti degli anni sessanta. Ma come nacque questo saggio?
Thoreau credeva fermamente nei diritti dell’individuo e proprio la convinzione che ogni persona dovesse rispettare prima i dettami della sua coscienza piuttosto che le leggi di un determinato governo lo portarono ad elaborare lo scritto Disobbedienza Civile (oltre che ad avere problemi con la legge).
Thoreau condannava il governo statunitense perché ammetteva l’istituto della schiavitù e perché si impegnava in una politica imperialistica di espansione, la cui diretta conseguenza fu la guerra col Messico. Per dissociarsi completamente da questi indirizzi politici egli si rifiutò di pagare le tasse governative sostenendo che il pagarle era sinonimo di assenso per la condotta del governo, per la qual cosa egli fu anche arrestato (anche se restò in cella solo per un giorno perché qualcun altro, probabilmente la zia, pagò la tassa). Proprio per spiegare le ragioni del suo arresto e della sua condotta, Thoreau scrisse il breve saggio qui di seguito trascritto.
…Must the citizen ever for a moment, or in the least degree, resign his conscience to the legislator? Why has every man a conscience then?
…Deve il cittadino - anche se solo per un momento, od in minima parte - affidare sempre la propria coscienza al legislatore? Perché allora ogni uomo ha una coscienza?
…It costs me less in every sense to incur the penalty of disobedience to the State than it would to obey. I should feel as if I were worth less in that case.
…Mi costa meno in ogni senso incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quello che mi costerebbe obbedire. Mi sentirei come se valessi meno in tal caso.
…I have paid no poll tax for six years. I was put into a jail once on this account, for one night;
…Per sei anni non ho pagato la "poll-tax". Una volta per questo fui imprigionato, per una notte;
…I saw that, if there was a wall of stone between me and my townsmen, there was a still more difficult one to climb or break through before they could get to be as free as I was.
Compresi che, se c'era un muro di pietra fra me ed i miei concittadini, ce n'era uno ancora più difficile da scalare o rompere prima che essi potessero arrivare ad essere liberi com'ero io.
If a man is thought-free, fancy-free, imagination-free, that which is not never for a long time appearing to be to him, unwise rulers or reformers cannot fatally interrupt him.
Se un uomo è libero nel pensiero, libero nella fantasia, libero nell'immaginazione, sicché ciò che non è non gli appare mai per molto tempo come ciò che è, i governanti o i riformatori stolti non possono ostacolarlo fatalmente.
In those same years, George Orwell speaks about the same concept: freedom of thought is more important thann physical freedom.
In his succesful dystopic novel Nineteen Eighty-Four, Wiston, the protagonist, writes in his diary the sentence: “Freedom is the freedom to say that two and two makes four”, freedom of being able to see things as they really are. This is the freedom that don’t exists anymore in the totalitarian world of Oceania ‘cause there the information is controlled, the history is being re-written in order to suit the current policy whenever necessary and any sign of indipendent thought is punished with brainwashing.
The concept is really up to date ‘cause the political elites, with the power that mass-media haves today, can control the information and, as a consecuence the people’s view of reality.
Quando il responsabile scompare
In una variante dell’esperimento al soggetto non veniva richiesto di premere il pulsante della scossa, ma soltanto di compiere l’atto sussidiario, cioè di leggere le coppie di associazioni verbali, mentre un altro soggetto azionava il generatore. In questa prova il 93 per cento dei soggetti ha proseguito fino alla fine. Come ci si poteva aspettare, la giustificazione al loro comportamento è stata quella di scaricare la responsabilità sulla persona che compiva l’atto materiale di premere il pulsante. Questo può illustrare una situazione pericolosamente tipica in una società complessa: quando si è soltanto un anello della catena, è facile, dal punto di vista psicologico, giustificare il proprio operato, allorché si è lontani dalle sue conseguenze ultime. Anche Eichmann avvertiva malessere ispezionando i campi di concentramento, ma la sua partecipazione ai massacri collettivi si limitava a maneggiare incartamenti dietro una scrivania. Nel medesimo istante, l’uomo che, lontano da lì, immetteva il Cyclon B nelle camere a gas, poteva trovare una giustificazione alla sua azione nel fatto di stare semplicemente eseguendo degli ordini che venivano dall’alto.

Adriano Zamperini, in Psicologia sociale della responsabilità. Giustizia, politica, etica e altri scenari, si chiede fino a che punto in società complesse, come oramai sono diventate le nostre, l'assunzione di queste responsabilità sia davvero possibile:
Nelle società tecnologicamente avanzate, è difficile, se non addirittura impossibile, creare condizioni perché nasca un'etica della responsabilità. Infatti la divisione del lavoro che vigeva negli apparati di sterminio è del tutto simile a quello di ogni struttura aziendale. All'interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l'operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l'esito ultimo a cui porterà la sua azione.
In questo modo l'operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall'apparato, la sua azione approdi ad una produzione di armi o a una fornitura alimentare. […] Quanto più si complica l'apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni.
L’obbedienza dunque, celebrata da tempo immemorabile come virtù, si trasforma in colpa quando viene messa al servizio di una causa sbagliata?

Se si debbano seguire anche gli ordini che entrano in conflitto con la propria coscienza, è questione morale già dibattuta dagli antichi greci, presentata in forma drammatica nell’Antigone*, ripresa nelle analisi filosofiche di ogni epoca. I filosofi conservatori asseriscono che la disobbedienza minaccia l’esistenza dell’edificio sociale, e che quindi è preferibile eseguire un ordine moralmente inaccettabile piuttosto che distruggere le fondamenta stesse dell’autorità.
Hobbes giunge ad affermare che la responsabilità di un’azione compiuta in tali circostanze non ricade sulla persona che la compie ma sull’autorità che la prescrive. Altri, invece, proclamando la supremazia della coscienza individuale, sostengono che, in caso di conflitto fra autorità e giudizio morale dell’individuo, deve prevalere quest’ultimo.

LA DISOBBEDIENZA OGGI
La logica consumistica del mercato occidentale e l’imperialismo economico sono alla base di uno dei maggiori problemi etici attuali. Un terzo della popolazione possiede infatti il 75% delle risorse mondiali, a scapito dei paesi poveri, o per meglio dire impoveriti, la cui popolazione è sfruttata e costretta a un lavoro al di fuori da ogni norma di sicurezza.
Varie associazioni si stanno muovendo da tempo al fine di limitare queste ingiustizie, ma purtroppo l’opinione pubblica tende a disinteressarsi del problema e preferisce obbedire alle leggi del mercato.
Alcuni consumatori hanno deciso di seguire, coerentemente alla loro coscienza, una via di disobbedienza silenziosa e quotidiana: il consumo critico ed il boicottaggio delle merci.
Quotidianamente, come consumatori, siamo di fronte ad una miriade di merci diverse, che possiamo scegliere di acquistare o meno. I nostri soldi, guadagnati con la fatica del lavoro, possono - inconsapevolmente - finanziare o sostenere delle industrie che promuovono atteggiamenti da noi ritenuti negativi.
La decisione di acquisto oggi, secondo questi movimenti, non può più essere presa solo in base a termini di convenienza economica, di piacere personale o di banale abitudine; in un mondo sempre più interdipendente dobbiamo saper guardare alle conseguenze globali dell'acquisto di un certo prodotto.
Questi metodi di disobbedienza derivano dalla consapevolezza del potere del consumatore di far girare in una maniera piuttosto che in un'altra la logica del mercato. La nostra scelta quotidiana di un prodotto equivale a un voto che può promuovere questa o quella impresa.
Sfruttando questo potere il consumo critico quotidiano permette di modificare le regole del mercato nel rispetto della vita e della natura, sopra ogni valore materialistico.
Il boicottaggio è un’azione straordinaria che consiste nell’interruzione temporanea organizzata dell’acquisto di uno o più prodotti e/o beni per forzare le società produttrici (multinazionali) ad abbandonare certi comportamenti che creano ingiustizia, impoverimento ed inquinamento.
Il boicottaggio è definito oggi una necessità storica per dare un futuro all'umanità.
Conclusioni

Ho iniziato la mia ricerca chiedendomi se e fino a che punto sia giusto obbedire a degli ordini, ed ora posso esprimere le mie conclusioni con le parole che Harold J. Laski scrisse in un articolo intitolato: “The Danger of Obedience” (i pericoli dell’obbedienza):
…civiltà significa innanzitutto volontà di non procurare sofferenze inutili. Nell’ambito di tale definizione, quanti fra noi accettano con leggerezza gli ordini dell’autorità non possono essere ancora considerati uomini civili.
…Se desideriamo vivere un’esistenza non completamente priva di valori e di senso, il nostro compito è quello di non accettare ciò che contraddice la nostra esperienza profonda per il solo fatto che la tradizione, la convenienza e l’autorità vorrebbero imporcelo.
…In ogni stato, uno scetticismo diffuso e coerente sulle norme imposte dal potere è la condizione della libertà.
Un passo avanti sarebbe già fatto se ogniuno fosse reso consapevole di quanto l’autorità influenzi il suo comportamento.
BIBLIOGRAFIA
Bianchi A., Di Giovanni P., La ricerca socio-psico-pedagogica, ed. Paravia, Torino, 1996;
Bianchi A., Di Giovanni P., Psicologia in azione, ed. Paravia, Torino, 1996;
Freud S., Al di là del Principio del Piacere, 1920 (trad. it. Boringhieri, Torino 1975);
Freud S., Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Edizioni del Secolo, Roma, 1947;
Fromm Erich, Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975;
Milgram S., Obbedienza all’autorità. Il celebre esperimento di Yale sul conflitto tra disciplina e coscienza.1974 (trad. it. Bompiani, Milano 1975);
Movimento “Gocce di giustizia”, Mini-guida al consumo critico e al boicottaggio, Vicenza, 1997;
Orwell G., Nineteen Eighty-Four, ed. Ferraro, 1979;
Piaget J., Le jujement moral chez l’enfant,1932 (trad. it. Il giudizio morale nel fanciullo, Giunti-Barbera, Firenze, 1972);
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Esempio