L'inizio dell'era telematica e l'espansione dei confini delle comunicazioni

Materie:Tesina
Categoria:Multidisciplinare

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Testo

I.T.I.S. ind. Informatica
L’inizio dell’era telematica e l’espansione dei confini delle comunicazioni.
ALUNNA: Roberta R.

ANNO SCOLASTICO 2001/2002
INDICE:
• Italiano:
- Il neorealismo degli anni ’45,
- Carlo levi;
- Il cinema del neorealismo.
• Storia: rivoluzione elettronica documento storico
• Informatica: database distribuiti
• Sistemi: le reti
• Elettronica: mezzi trasmissivi nelle reti e fibre ottiche;
• Calcolo: il problema del trasporto
• Matematica: gli integrali
• Ed. Fisica: il gioco della pallavolo
IL NEOREALISMO
Il termine venne usato per la prima volta alla fine degli Venti da Arnaldo Bocelli, per significare un’intenzione diversa e nuova di affrontare la realtà e di rappresentarla in modo realistico (nella letteratura,nell’arte figurativa e poi nel cinema) superando le strettoie della maniera verista. Il tratto comune nell’esperienza di alcuni artisti era la volontà di restituire l’immediatezza e la crudezza della realtà, per denunciare gli innumerevoli mali sociali del paese e opporsi alle narrazioni addolcite e edificanti, alle esaltazioni retoriche dei buoni sentimenti. Il movimento letterario, artistico e cinematografico che ne derivò fu certamente la manifestazione della cultura italiana più importante e caratteristica del dopoguerra e dominò la scena fino alla fine degli anni ’50. Il Neorealismo riprende il Realismo ottocentesco – di qui il nome – ma in mutate condizioni culturali, politiche e sociali. Di esso possiamo distinguere due momenti: il Neorealismo degli anni ’30, sorto in pieno periodo fascista, e quello, più cospicuo, che si svolge dopo la Seconda Guerra mondiale, tra il 1945 e il 1955. Ovviamente, per motivi biografici, non è possibile segnare una netta linea di demarcazione fra gli autori che rientrano nei “due” neorealismi: molti di essi, infatti, vissero lungo tutto l’arco del ‘900.
Il Neorealismo degli anni Trenta sorge soprattutto nell’ambito degli scrittori di « Salaria», la rivista fiorentina fondata nel 1926 da Alberto Carocci. Esso venne così chiamato dal critico Arnaldo Bocelli per caratterizzare una nuova narrativa, sorta in quegli anni, volta a descrivere p gli ambienti borghesi della città, o gli ambienti umili e provinciali.
Autori neorealisti degli anni Trenta
Alberto Moravia (Gli indifferenti,1829), Corrado Alvaro (Gente in Aspromonte, 1930), Ignazio Silone (Fontamara, 1930), Carlo Bernari (Tre operai, 1934), Elio Vittorini (Conversazione in Sicilia, 1941), Cesare Pavese (Paese tuoi, 1941); li troviamo tutti, comunque, in attività e impegnati anche nel Neorealismo del secondo dopoguerra.
Il Neorealismo del secondo dopoguerra fu, invece, il frutto delle grandi esperienze storiche di quegli anni: la guerra, la Resistenza, l’occupazione straniera, gli anni duri e difficili della ricostruzione.
In quegli anni si assunse un atteggiamento di condanna verso la letteratura precedente, accusata, con l’eccezione dei neorealisti degli anni trenta assurti subito capiscuola, o di aver collaborato col Fascismo o di averlo subito passivamente.
La « proposta di Vitttorini »
Principale interprete di questa condanna fu Elio Vittorini, che attraverso « Il Politecnico» (1945-1947), auspicava l'avvento di una nuova letteratura e di una nuova arte, l'una e l’altra non più concepite come consolazione delle sofferenze delle "offese del mondo", ma come azione e strumento di liberazione dell'uomo dallo sfruttamento, dalla schiavitù e dal bisogno, e come contributo per cambiare la vita, per trasformare la società in senso progressivo e democratico.
Ma ponendo alla base della nuova cultura l'ideale della trasformazione della società, Vittorini deve affrontare il problema del rapporto tra cultura e politica. Egli lo risolve, senza tentennamenti, rivendicando la libertà e l’indipendenza dell’artista e dello scrittore in genere, perché l'artista e lo scrittore devono essere al servizio esclusivo delle esigenze dell'uomo, non degli interessi dei partiti. Lo scrittore che si pone al servizio di questi ultimi, fosse anche per «suonare il piffero della rivoluzione», tradisce la sua missione di apostolato di libertà e di verità.
La polemica con Togliatti
La tesi di Vittorini della indipendenza della cultura dalla politica urtava sia contro la teoria - elaborata da Gramsci – dell’intellettuale “organico”, inserito cioè nel blocco delle forze popolari e impegnato nella conquista dell'egemonia culturale e del potere, sia contro la politica del P.C.I., che era il finanziatore stesso della rivista. Sulle pagine di «Rinascita», Palmiro Togliatti, allora segretario del partito, polemizzò con Vittorini sostenendo la tesi opposta della dipendenza della cultura dalla politica, e irridendolo per aver scambiato i comunisti per liberali. I due punti di vista erano inconciliabili e «Il Politecnico» cessò le pubblicazioni nel dicembre del 1947.
I precedenti culturali
La concezione della letteratura e dell'arte come strumenti di liberazione dell'uomo dalle sue sofferenze risale al surrealismo (Andrè Breton, che nel 1924 scrisse il «Manifesto», Paul Eluard, Louis Aragon, ecc.), che può considerarsi il remoto progenitore del neorealismo italiano. Ispirandosi a questo concetto, Jean-paul Sartre (1905-1980) scrisse il romanzo La nausea (La nausèe,1938), in cui affronta il problema della funzione dell’intellettuale nella società.
Un intellettuale di provincia, Antoine Roquentin, vive un'esistenza grigia e soffocante, fino a provare il disgusto, la nausea della vita. Ma lungi dall’inaridirsi, riconosce la necessità di dare uno scopo e un significato alla propria esistenza attraverso l'impegno per cambiare la vita e la società.
Nel dopoguerra Vittorini avverte la stessa esigenza; gli «astratti furori» e l’esigenza di «più alti doveri», di cui parla il Gran Lombardo in Conversazione in Sicilia, si concretano per lui nell'impegno di creare una letteratura e un'arte nuova al servizio dell'uomo e non di un'ideologia o di un partito – dirà poi Leonardo Sciascia – è «un dimissionario dell'intelligenza e un burocrate della peggior burocrazia».
Il nuovo intellettuale
Questa nuova concezione della letteratura e dell'arte, intese come mezzo di indagine della condizione umana, come contributo alla risoluzione dei problemi concreti della società ed eco dell'ansia di riscatto morale, civile e sociale del popolo, diede un nuovo volto e un nuovo prestigio allo scrittore italiano. «Uomini come Vittorini o Levi - scrive Franco Fortini - e, in misura minore, molti altri, si trovarono ad avere una autorità morale che nessuno scrittore aveva più avuto dai tempi del bardo della democrazia (Felice Cavallotti) e del poeta soldato (Gabriele D'Annunzio)».
Oltre al Surrealismo, all'esempio dei neorealisti degli anni Trenta, al realismo documentario degli scrittori anglosassoni e all'impegno culturale di Vittorini sul neorealismo del dopoguerra influì anche la teoria di letteratura nazional-popolare elaborata da Gramsci nei Quaderni dal Carcere pubblicati in quegli anni: la letteratura non deve rispecchiare le esigenze e i sentimenti di una élite cosmopolita - come aveva sostanzialmente fatto l’intera tradizione italiana - ma i problemi e i sentimenti del popolo, rivissuti e fatti propri dallo scrittore.
I temi
Sotto l’influenza di tali teorie, gli scrittori neorealisti attingono i temi dall’Italia reale, umile, misera e segreta del loro tempo o degli anni immediatamente precedenti: l’oppressione fascista e l’occupazione tedesca e alleata, gli episodi della Resistenza, le impiccagioni e le fucilazioni, i campi di concentramento, l’occupazione delle fabbriche e delle terre, i baraccati delle "bidonvilles", gli "sciuscià", le "segnorine", ecc.
Neorealismo e cinema
Il Neorealismo comprende una stagione del cinema che va dal 1945 al 1949 caratterizzata dall’ambizione superiore di far parlare le cose, allargare lo spazio del visibile, mostrare gli interni delle case, le distruzioni della guerra, le esperienze quotidiane della Resistenza.
Le caratteristiche fondamentali del Neorealismo cinematografico sono: 1) il teatro di posa viene abbandonato a vantaggio della strada, punto privilegiato di osservazione; 2) città e campagne delle diverse province dell’Italia post-bellica diventano gli strumenti attraverso i quali la macchina da presa del Neorealismo amplifica quella che Italo Calvino definì «la voce anonima dell’epoca».
Il popolo, fino ad allora sconosciuto all’immaginario cinematografico, diventa il vero protagonista dello schermo. La macchina da presa lo avvicina, ne mostra la schiettezza e originalità, resa ancor più viva dall’utilizzazione di attori non professionisti che, privi di capacità recitative, sono però in grado di far parlare il corpo e le sue espressioni. Inoltre, con il neorealismo, per la prima volta il cinema «abbandona i personaggi con nomi e cognomi altisonanti e pone al centro della scena una folla di figure dal nome comune... »
La lingua è quella della gente comune, priva di regole grammaticali, che permette di dare espressione alla regionalità dialettale e di respingere la letterarietà artificiosa del linguaggio cinematografico precedente. La narrazione, semplice ed immediata, riducendo fin dove possibile la finzione e il montaggio, riproduce il ritmo della quotidianità piuttosto che quello filmico.
Neorealismo e letteratura
Più lento e travagliato e con risultati artistici più limitati fu il Neorealismo nella letteratura, che si trovò di fronte a notevoli difficoltà.
Mentre nel cinema i nuovi contenuti balzarono sullo schermo per l'evidenza realistica delle immagini, la semplicità di attori improvvisati presi dalla strada, e le scene girate all'aperto, perché Cinecittà era inservibile, nella letteratura non bastava proporre i nuovi contenuti, ma occorreva accompagnare la narrazione, come avevano fatto i grandi narratori realisti dell' '800, Balzac, Manzoni e Tolstoj, con una profonda analisi storica dell'epoca, cosa che generalmente mancò agli scrittori neorealisti, onde gran parte delle loro opere ha solo carattere di cronaca, di testimonianza e di documento.
Inoltre l'estrazione borghese di gran parte degli scrittori, costituiva una remora costituzionale a sentirsi compartecipi del mondo contadino e operaio, al quale spesso i neorealisti si avvicinarono solo con animo paternalistico e condiscendente, misto cioè di simpatia e di distacco.
Un'ulteriore difficoltà, infine, era la ricerca di un linguaggio alla novità dei contenuti umani e sociali. Questo linguaggio doveva essere formato da un impasto nuovo, fatto di lingua tradizionale e di forme dialettali storicamente più efficaci e diffuse, capaci di concorrere alla formazione di una medietas linguistica che escludesse sia le forme dotte della tradizione letteraria sia le forme gergali e strettamente locali dei dialetti, per effetto dell'allargamento della coscienza nazionale alle grandi masse popolari dopo la caduta del Fascismo, e della loro partecipazione alla vita democratica del Paese.
Gli scrittori neorealisti del secondo dopoguerra
Tra gli scrittori neorealisti del dopoguerra ricordiamo oltre ad Elio Vittorini (Uomini e no) e Cesare Pavese (La casa in collina), Giacomo Debenedetti (16 ottobre 1943), Carlo Levi (Cristo si è fermato ad Eboli), Primo Levi (Se questo è un uomo; La tregua), Beppe Fenoglio (I ventitré giorni della città di Alba), Carlo Cassola (La ragazza di Bube), Renata Viganò (L'Agnese va a morire), Francesco Jovine (Le terre del Sacramento), Domenico Rea (Spaccanapoli), Giuseppe Marotta (L'oro di Napoli), Italo Calvino (Il sentiero dei nidi ragno), Vasco Pratolini (Metello), Leonardo Sciascia (Gli zii di Sicilia).
CARLO LEVI
Vita
Carlo Levi nacque a Torino il 29 novembre 1902 da agiata famiglia ebraica; la madre Annetta, era figlia di Claudio Treves. Si laureò in medicina, ma per le sue condizioni agiate non esercitò la professione di medico, poichè si dedicò a una feconda attività di pittore (fece parte del gruppo dei « Sei pittori di Torino» ), e sin dal 1923 ebbe un notevole successo in questa professione. Intellettuale di sinistra, partecipò alla vita politica, aderendo al gruppo di Piero Godetti e di «Rivoluzione Liberale». Antifascista, fu amico di Carlo e Nello Rosselli e insieme a Carocci collaborò attivamente per la diffusione delle idee «Giustizia e libertà» e a Torino animò il centro interno «G.L.». Con Nello Rosselli dirigeva un giornale clandestino «Lotta politica». Questa preparazione di base determinerà il suo orientamento culturale e le sue future scelte, e in un certo senso preparerà quella profonda etica politica e umana che è al fondo dei suoi libri migliori e più impegnati. Per questa sua attività di antifascista fu più volte arrestato, e nel 1935 fu confinato a Gagliano (l’attuale Aliano), un oscuro paesino della Basilicata (allora Lucania per decisione del regime fascista). Nel 1936, nell’euforia fascista della conquista etiopica, veniva graziato. Ma subito riprese il lavoro politico ed emigrò in Francia, rimanendovi fino al 1942. Nel ’43 rientrò in Italia per prendere parte alla Resistenza e fu arrestato per la seconda volta. Nel ’44 dirigeva «La nazione del popolo» di Firenze, organo del C.T.L.N.. Nell'immediato dopoguerra, nel ’45, era a Roma come direttore del giornale del partito d'Azione «Italia libera», e dopo il suo scioglimento militò sempre nelle forze della sinistra, tanto che nel 1963 e nel 1968 fu eletto senatore come indipendente nelle liste del Partito Comunista. Alla sua morte fu sepolto a Gagliano.
L’opera Cristo si è fermato ad Eboli
Carlo Levi, grazie ad un suo libro subito famoso e tradotto in tutto il mondo, aprì, soprattutto presso il grosso pubblico, la questione meridionale, portando un contributo di testimonianza diretta alla conoscenza delle misere condizioni delle popolazioni del Sud.
Il titolo del libro che lo rese famoso, Cristo si è fermato ad Eboli (1945), ne sintetizza mirabilmente il contenuto. Eboli è una cittadina della provincia di Salerno, attraversata dalla strada e dalla ferrovia Napoli-Reggio Calabria; da Eboli si svolge una diramazione che porta in Basilicata. Cristo si è fermato ad Eboli significa che il cristianesimo, la religione fondata sul rispetto della persona umana, si è fermato ad Eboli, non è penetrato cioè nell’interno della Basilicata, dove la gente vive in uno stato ancora preistorico di abbandono e di miseria secolare. « Noi non siamo cristiani, dicono a Levi gli abitanti di Gagliano, non siamo uomini, non siamo considerati uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che bestie…, perché noi dobbiamo subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte e sopportare il peso e il confronto» .
Levi si avvicinò a questa realtà così di diversa dal suo Piemonte e con tocchi rapidi ed incisivi, avvalendosi anche della sua esperienza di pittore, descrisse i tipi umani, gli ambienti, le tradizioni primitive di questa antica civiltà contadina, chiusa ed immobile nei suoi costumi arcaici.
Non si tratta di un romanzo, anche se la dimensione narrativa vi rilevante: è piuttosto un complesso intreccio di documento memoriale e di saggio sociologico e antropologico. Levi racconta la sua scoperta della realtà meridionale e vi traccia un ritratto di tagliente crudezza della locale borghesia, ma si concentra soprattutto sui contadini: un mondo remoto dalla realtà moderna, ancora pagano, immerso in una dimensione primordiale, magica e superstiziosa, che popola la realtà di potenze misteriose, di spiriti e folletti, e non vede separazione tra il mondo umano e quello degli animali e dei mostri fantastici; un mondo estraneo alla storia e ad ogni coscienza politica, chiuso in un’atavica rassegnazione e in una cupa passività.
Il documento di Levi suscitò forte impressione nel clima del dopoguerra, dominato da istanze progressiste e dal gusto neorealistico, perché segnava la scoperta dei problemi di un’Italia pressoché ignorata dalla cultura fra le due guerre, che restava arroccata nella “torre d’avorio” di una squisita letterarietà. Il libro sembrava rispondere ai bisogni di una letteratura nuova, sostanziata di realtà vera e aperta ai problemi sociali più urgenti.
E certo la prospettiva da cui Levi guarda il mondo contadino è quella dell'intellettuale progressista, di sinistra. Ma questo intellettuale rivela pure chiaramente il fondo irrazionalistico della sua cultura: infatti resta attratto e conquistato proprio dal primitivo e dal magico, subendo una fascinazione che non si differenzia poi molto da quella sentita da D'Annunzio dinanzi al suo primordiale Abruzzo pastorale e contadino. Il mondo rurale, più che essere studiato con l'atteggiamento scientifico dell'etnologo, viene mitizzato e vagheggiato come una dimensione esotica che suggestiona l'intellettuale per la sua profonda irrazionalità. A questa mitizzazione, che ha evidenti radici nel terreno decadente, si unisce poi quella populistica: il "popolo" contadino primitivo appare portatore di tutti i valori, spontaneità, autenticità, solidarietà, generosità, bontà, fervida fantasia, contro una borghesia gretta, egoista, ottusa, ignorante, conformista. Il Cristo di Carlo Levi è quindi uno dei documenti più significativi di quel filone dominante nella cultura del dopoguerra che è il populismo. Tra il "popolo" primitivo e l'intellettuale si crea un rapporto privilegiato. In primo piano, nella narrazione, vi è sempre l'artista, con il suo egocentrismo, con la sua ambizione a porsi come guida delle masse passive e ignare (a volte con un atteggiamento di paternalistica superiorità), ma in quel mondo arcaico l'intellettuale riconosce stratificazioni primordiali che si depositano anche al fondo del suo inconscio. Dietro l'interesse per i problemi politici e sociali, pur vissuti con sincerità e profonda, autentica partecipazione, vi è quindi, da parte dello scrittore, un'esplorazione di se stessa, una volontà di autoconoscenza, un soggettivismo esasperato. Nel mondo contadino l'intellettuale ritrova il se stesso più autentico, giunge ad una forma di "salvezza" identificandosi con un'umanità elementare, in una sorta di oscuro vitalismo. Questo impasto complesso e contraddittorio per un verso costituisce il limite dell'opera, per un altro ne garantisce invece la vitalità e la stimolante originalità, impedendole di restare nell'ambito di una letteratura paramente documentaria, quale era tanta produzione neorealistica, piattamente aderente ai "dati" oggettivi della realtà. Il fascino del libro è poi costituito anche dall'eccezionale abilità stilistica dell'autore, che dà vita ad una prosa ricca di colore, incisiva proprio per la sua esuberanza. Cristo si è fermato a Eboli rimane così una delle opere più significative di quella stagione letteraria.
Le altre opere
I libri che Levi scrisse successivamente sono altre testimonianze del suo impegno di intellettuale militante, di critico attento e severo della società contemporanea. La sua prima opera è stata Paura della libertà, scritta nel 1939 e pubblicata nel gennaio del 1946. Si tratta di una raccolta di saggi che nel complesso vogliono essere una descrizione generale della crisi contemporanea.
«Vi affermava l’avversione allo stato astrattamente feroce, che fa degli uomini una unità materiale e indistinta, che può soltanto vivere riducendo gli individui in schiavitù, e insieme l’avversione alla religione che fa dei miti, riti: atteggiamenti in cui apparivano evidenti l’impressione suscitata nell’autore dalle dittature contemporanee e quel profondo rispetto per la libertà degli individui e dei piccoli gruppi che saranno costanti in tutte le sue opere».
Questi saggi costituiscono le premesse fondamentali per la comprensione delle sue opere perché indicano il duplice aspetto con cui egli si accostava al mondo contadino e meridionale: quello storico-politico e quello psicologico-sociale, motivi che costituiscono le caratteristiche di ogni suo saggio, che è sempre opera d’arte e di politica sociale.
Il suo terzo libro, certamente più organico e più costruito degli altri, il romanzo L’orologio (1950), dipinge la crisi del fervore resistenziale nella corrotta capitale del dopoguerra; la distinzione fra contadini e borghesi appare più chiara nella contrapposizione degli uomini in Luigini e contadini. I Luigini (dal nome del podestà di Gagliano) sono
La grande maggioranza della sterminata, informe piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi di inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure.
Ed egli aggiunge anche i burocrati, gli statali e i bancari, gli impiegati di concetto, i militari, i magistrati, gli avvocati, i poliziotti, i preti, i parassiti, ed ancora, politicanti, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali,democristiani,azionisti,qualunquisti, neofascisti, rivoluzionari, conservatori, e infine gli eterni letterati dell’eterna Arcadia. I Luigini sono la maggioranza purtroppo, perché ogni Luigino per vivere ha bisogno di un contadino per succhiarlo e nutrirsene.
Per contadini Levi intende tutti coloro che svolgono un ruolo effettivo di produttori; quindi, non solo quelli che stanno in campagna, ma anche i medici, gli artigiani, i pittori, gli intellettuali progressisti, anche i baroni e gli industriali che sanno creare una fabbrica, insomma
Quel poco di borghesia attiva e moderna che, malgrado tutto, c’è ancora nel nostro paese.

Con questa distinzione socio-culturale economica della società Levi intende sostituire gli schemi tradizionali delle opposte tendenze Comunismo- Vaticano, proletariato-borghesia; infatti conduce una serie di gravi obiezioni al marxismo:
Non avete mai pensato alla lentezza, alla pigrizia, alla incredibile immobilità di un pensiero che, dopo cent'anni, è rimasto quello che era? In qualunque altra epoca un secolo è sempre stato un tempo troppo lungo per conservare così fresca l'energia di un libro. Non si tratta del libro, ma di quelli che avrebbero dovuto leggerlo e della loro sordità e ottusità mentale. Di un secolo di pensiero che cosa è rimasto... in tutti coloro che pretendono di difendere queste idee, nei cosiddetti militanti, negli uomini politici? Alcune formulette catechistiche. Lotta di classe, sta bene: ma in loro è una nozione vaga, generica, vecchia come il mondo, una semplice frase del comune buon senso […] Dicono: borghesia e proletariato: una formuletta che forse, in altro tempo, era stata vera, e che oggi cos'è? Un luogo comune. Dove sono? Guardiamoci attorno: non lì troviamo o li troviamo in mezzo a altre cose, sparse e come ramificate nella realtà. Sappiamo benissimo che dovremmo dire: non ci sono due forze, due poli, ma molti, moltissimi in una civiltà così differenziata.
Sono critiche queste, che potrebbero sembrare qualunquiste – e forse tali sono apparse ai politici che le hanno rigettate - ma in realtà esse, con grande senso pratico, riflettevano e riflettono la crisi della classe politica italiana in questi ultImi quarant'anni. Del resto, questo che è il libro in occasione della caduta del governo Parri e quella crisi che caratterizzò l'Italia quando venne meno il Partito d'Azione e fu messa in crisi la stessa Resistenza. Secondo Levi, la Resistenza si era scelto un presidente contadino, ma l'ha travestito da Luigino.
Si sente in ogni pagina che questo non è un libro qualunque, ma un lavoro molto impegnativo nella storia di Levi, uno di quelli che nascono da decisioni fondamentali e da scelte definitive, e, quindi, uno dei suoi più costruiti e unitari.
Il romanzo prende il titolo da un fatto incidentale: il vetro del proprio orologio, un caro ricordo di famiglia, si è rotto, con la conseguenza che il narratore è rimasto per tre giorni privo di esso; il che sta a significare che è impossibile per quei tre giorni procedere secondo il tempo matematico e, quindi, gli è necessario affidarsi al tempo soggettivo.
Tra gli altri libri tra il saggio e il resoconto lirico, troviamo Le parole sono pietre (1956), dedicato ala Sicilia, premio Viareggio, constano di tre saggi, scritti rispettivamente nel 1951, nel 1952 e nel 1955, in seguito a tre viaggi compiuti in Sicilia. Si tratta di saggi-inchiesta a carattere politico-sociale sulla situazione e sulla condizione dei contadini e degli operai siciliani, le cui aspirazioni vengono infrante dalla mafia, con la complicità del potere politico.
E’ uno dei più coraggiosi libri del nostro Realismo del dopoguerra, ed anche uno dei più autentici libri di vita vissuta. Documento e polemica qui fanno corpo unico; si direbbe che questo documento sia al fondo stesso dell'ideologia polemica del libro; e, nonostante l'apparente frammentarietà, nel complesso risulta unitario per la ricerca della coscienza, che i contadini e gli operai siciliani hanno dimostrato, nei valori della Resistenza e della rivoluzione sociale.
Del libro rimane vivo il ricordo dei contadini siciliani i quali dichiarano di « essere considerati come cani rinnegati, come al tempo dei Saraceni»; rimane vivo il ricordo dei mafiosi e del martire Carnevale, caduto per difendere le giuste rivendicazioni sociali dei compagni-contadini, in mezzo all'ipocrisia della giustizia dello Stato. Si tratta di pagine che fanno parte della migliore letteratura meridionale, quella che ha contribuito moltissimo alla causa della rinascita del Mezzogiorno.
Il futuro ha un cuore antico (1956) fu scritto da Levi al ritorno del suo vaggio in Russia. Anche questo viaggio, come i precedenti, lo porta direttamente all'indagine della vita del popolo, al di là di quelle che possono essere le sue strutture politiche. Il titolo stesso del libro ci dice che il futuro del mondo, anche quello ritenuto più progressista, non potrà non tener conto del suo antico passato. E questo è tanto più evidente se riferito alla Russia Sovietica. Per Levi, nonostante le trasformazioni grandiose subite, nonostante la sua enorme evoluzione tecnologica e industriale, la Russia rimane sostanzialmente un paese di origini e di tradizioni contadine; e, proprio per questo fondo contadino, quella rivoluzione
è l’unica ad avere la possibilità di portare l'uomo al livello della consapevolezza di inferirgli la capacità di rendersi libero.
Scopo del viaggio di Levi non era quello di verificare il coefficiente di rivoluzionarietà o il progressismo dovuto al regime comunista, bensì di avvicinarsi alla più autentica realtà umana e sociale del popolo russo, al di là delle sue strutture politiche. Pertanto in tutte le sue visite ai bagni - alle fabbriche, agli alberghi - nei suoi incontri con personaggi ed editori e ufficiali e gente comune, la sua attenzione è sempre rivolta al popolo russo, al modo in cui esso vive la sua esperienza sociale e politica. Levi si reca più volentieri nei paesi in cui il pericolo mortale della tecnologia non ha ancora inaridito l'uomo dalla sua vera natura. Del resto i suoi viaggi sono anche la conferma della sua ideologia politica espressa in Paura della libertà.
Tutto il miele è finito (1964), dove compare un altro mondo arcaico, quello sardo, è un libro nato da appunti sommari su di un viaggio in Sardegna compiuto dall'autore nel 1952, a cui si sono aggiunti o sovrapposti resoconti di altri viaggi effettuati successivamente nella stessa regione.
Il titolo deriva da un canto funebre, in cui una madre allude alla morte del figlio, che per lei era il miele della casa.
La doppia notte dei tigli (1959)è il resoconto di un viaggio nella Germania Occidentale. Anche qui egli vede una conferma delle sue teorie politiche, indicando chiaramente che la Germania, dopo questa guerra, vive in una doppia oscurità, come quella che provocano i tigli nella notte (secondo un verso di Goethe). La Germania è rimasta sotto choc, il trauma del nazismo non è stato superato.
Questa di Levi è una diagnosi psicologico-politica che ha trovato conferma nella realtà di quel paese che è vissuto nel rifiuto del nazismo, per un’innaturale incapacità di investirsi di un consapevole senso di colpa. La Germania invano tenta di staccare le sue responsabilità criminose dalla politica di Hitler, essa dovrebbe invece riconoscere le sue colpe, per potersene veramente liberare del tutto.
La forza del suo messaggio
Come si può constatare, l'opera di Levi è estremamente coerente col suo ideale di solidarietà umana, con la sua ansia di redenzione dei popoli ingiustamente oppressi; perciò egli è uno dei più autorevoli scrittori psicologici-politici dei nostri tempi, in quanto ha esaltato sempre, in ogni occasione, l’autenticità dei valori del popolo dei contadini (intesi nella particolare accezione di produttori reali della società). In questa sua indagine egli ha portato la sua umanità di scrittore religioso e cantore di una speranza di rinnovamento morale del mondo. Qui è la forza del suo messaggio, qui è il coraggio con cui ha potuto attaccare la mafia e la prepotenza dei politici, qui è l'autenticità della sua parola poetica, la forza del suo stile semplice e penetrante di giornalista-poeta. Carlo Levi è morto nel gennaio 1975.
NEOREALISMO E CINEMA
Il Neorealismo nel cinema fu più valido e artisticamente più efficace, non soltanto per la genialità di registi famosi, balzati subito alla notorietà mondiale, come Roberto Rosselini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, ecc., ma anche perché il cinema era un’arte giovane e non aveva problemi di dipendenza con la tradizione. Soprattutto esso poté valersi delle esperienze naturalistiche del cinema francese – celebre per le opere dei registi come Jean Renoir, Marcel Carné e Julien Duvivier – e degli studi teorici dei registi russi Pudovkin e Einsenstein.
La stagione del cinema italiano compresa nel Neorealismo va dalla fine delle seconda guerra mondiale ai primi anni Cinquanta. Il movimento nasce nel clima di liberazione sia dal conflitto bellico sia dalla dittatura fascista e si esaurisce quando le speranze di rigenerazione della vita italiana si scontrano con una nuova fase politica. Il Neorealismo rappresentò l’espressione di un particolare modo di osservare la realtà italiana, ancora legata al ricordo della guerra appena conclusa. I soggetti dei film neorealisti, infatti, sono tratti dai ricordi e dall’esperienza di tanta parte della popolazione italiana.
Si è soliti considerare con Roma città aperta (Rossellini, 1945) il momento d’avvio del cinema neorealista, di quella tendenza presto definita come “scuola italiana” che suscitò grande eco in tutto il mondo e contribuì non poco a orientare nuovi sviluppi dell’estetica del film che portarono poi al fenomeno del nuovo cinema degli anni Sessanta.
Insieme a Roma città aperta, film come Paisà (1947) sempre di Roberto Rossellini (1906-1977), Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica (1901-1974) e Cesare Zavattini (1902-1989), La terra trema (1947) di Luchino Visconti (1906-1976) e altri diretti da De Santis, Zampa, Lattuada, contribuirono, sebbene in modi e forme assai diversi fra loro, a definire un nuovo modo di fare cinema lontano dagli studi e dalle modalità di rappresentazione dominanti, girato per le strade e in ambienti reali, senza l'uso di attori professionisti, con l'idea di riuscire a rappresentare la realtà senza manipolarla. Certo non tutti i film citati si adeguano perfettamente a questi modelli, anche Roma città aperta contiene almeno una sequenza, realizzata attraverso quel montaggio alternato che rappresenta una delle forme di drammatizzazione più tipiche del découpage classico.
Sta di fatto che con la "scuola italiana" nasce comunque un nuovo modo di concepire il cinema caratterizzato complessivamente da quei caratteri prima indicati. Un nuovo modo che ebbe soprattutto il merito di saper rappresentare con grande autenticità il disperato paesaggio sociale, prima ancora che politico, della tragica realtà italiana che usciva dal fascismo, viveva l'esperienza dell'occupazione tedesca e iniziava fra mille contraddizioni la propria ricostruzione resa difficile da un'endemica arretratezza.
Sebbene il Neorealismo abbia rappresentato una radicale novità nel panorama del cinema italiano, la storiografia più aggiornata non dimentica tuttavia come già negli anni del fascismo il cinema non vivesse solo di "telefoni bianchi" - così come erano chiamate le commedie dell'epoca - e che certi richiami al quotidiano, al regionale, al paesano, alla difesa di un cinema nazionale, popolare e realista fossero già presenti nel dibattito culturale interno al fascismo, in particolare nei suoi ultimi anni. Così non solo film come La nave bianca (1941), L'uomo della croce (1943) di Rossellini e Ossessione (1943) di Visconti, possono essere considerati a tutti gli effetti film anticipatori dello stile e della poetica del Neorealismo, ma anche certe opere di Blasetti e Camerini, indiscussi registi di primo piano del fascismo, presentano scorci di un realtà "umile" e "dimessa" per certi versi anticipatrice di ciò che avverrà nel cinema del dopoguerra.
Un altro importante elemento di cui è necessario tener conto è di come certe scelte di fondo del Neorealismo più radicale, il rifiuto degli attori professionisti e, soprattutto, la scelta di girare in ambienti reali, erano dovute non solo, o forse non tanto, a una consapevole scelta espressiva ma anche al disastroso stato dell'industria cinematografica italiana e dei suoi studi di Cinecittà, gravemente danneggiati dal conflitto.
In quello che oggi definiamo Neorealismo convivono in realtà diverse tendenze, legate a poetiche d'autore e di genere differenti. Sebbene l'elemento di partenza sia sempre strettamente connesso a dati cronachistici e documentari, esso assume però elaborazioni che mutano di caso in caso. Rossellini privilegia il dato interiore e la reazione morale, De Sica e Zavattini i toni dimessi e crepuscolari, talvolta patetici, talvolta grotteschi, Visconti dà libero sfogo alla sua arte della messa in scena rifacendosi alla tradizione letteraria, musicale, pittorica e teatrale. Per non parlare poi dei rapporti col cinema americano di genere (De Santis, Lattuada), del “Neorealismo rosa” (Castellani, Comencini) e di quello melodrammatico (Matarazzo). In sostanza il fenomeno neorealista appare nel suo complesso come un insieme assai composito, che tuttavia testimonia così dell'esigenza di aprire la cultura del paese a quei nuovi orizzonti - Ossessione è ad esempio tratto da un romanzo dell'americano James Cain - che per troppo tempo il fascismo aveva precluso.
La scelta, o la necessità, di girare in ambienti reali ebbe non poche conseguenze sullo stile del cinema neorealista. Inquadrature e movimenti di macchina appaiono molto più improvvisati e disponibili al caso di quanto ciò non accade nel cinema tradizionale. La volontà di
maggiore aderenza al reale comporta un uso meno accentuato del montaggio, la cui funzione primaria, pur con tutte le sue eccezioni, diventa quella di accordare semplicemente fra loro le inquadrature, nel tentativo di dar vita a un tempo filmico più vicino al tempo della realtà. L'illuminazione non è più usata per fini di intensificazione drammatica e gli ambienti rappresentati appaiono così in tutta la loro naturale desolazione. Su un piano narrativo i nessi causali si allentano e i film si fanno più disponibili; ad eventi casuali, come nel famoso incontro del protagonista di Ladri di biciclette con un gruppo di preti, che non ha nessun funzionalità nello sviluppo della narrazione. Ancora più radicale, da questo punto di vista, un film come Paisà, costruito su cinque diversi episodi, in cui spesso non ci vengono mostrati gli esiti di un certo evento, le conseguenze di una determinata causa. La voluta ambiguità dei più radicali film neorealisti rinuncia a un'istanza narrante onnisciente, fatto che si traduce in finali spesso aperti, i quali piuttosto che concludere una storia, ne lasciano sospesi gli esiti e li aprono a diverse possibili alternative opponendosi radicalmente ai modelli del cinema classico.
Un film come Ladri di biciclette evidenzia bene alcune delle principali caratteristiche del Neorealismo così come alcune delle sue contraddizioni. Il film nasce dalla feconda collaborazione fra De Sica e Zavattini (iniziata con I bambini ci guardano, 1943, e proseguita con Sciuscià, Miracolo a Milano, 1952, e Umberto D.). Alla base del film l'idea del pedinamento, che avrà pur con tutti gli inevitabili sviluppi una profonda influenza nel cinema moderno.

NOUVELLE VAGUE
Nel corso degli anni Cinquanta un gruppo di giovani critici cinematografici - Truffaut, Rivette, Rohmer, Godard, Chabrol - si era raccolto intorno alla rivista «Les Cahiers du Cinéma» («I quaderni di cinema»), e al suo direttore spirituale André Bazin, ed aveva incominciato ad attaccare duramente il cosiddetto "cinema di qualità" francese, accusandolo di essere eccessivamente letterario e incapace di esprimersi in termini autenticamente cinematografici. Del cinema del loro paese, essi salvavano solo quegli autori che, come Renoir, Bresson e Tati, si erano mossi lungo percorsi lontani da quel cinema di sceneggiatura allora imperante. Soprattutto, questi giovani critici iniziarono un sistematico recupero critico dell'opera di registi del cinema hollywoodiano, come Hawks, Preminger, Fuller, Minnelli, Ray e Hitchcock, considerati tutt'al più, sino a quel momento, come bravi artigiani. Truffaut, Godard e i loro amici diedero così vita a quella che fu definita la «politica degli autori», tesa a dimostrare come i registi appena citati - ed altri - seppero imporre il marchio della loro personalità ai film che avevano realizzato, nonostante le rigide imposizioni del sistema produttivo hollywoodiano, le ferree regole del découpage classico, i codici standardizzati del cinema di genere. Quello che veniva proposto era un modo nuovo di vedere il cinema, in cui la figura dell'autore emergeva non tanto dalle dichiarazioni programmatiche presenti nella sua opera, fossero esse di tipo etico o ideologico, quanto dalla sua capacità di esprimersi in termini autenticamente cinematografici.
Parallelamente erano quelli gli anni in cui si diffondevano, a livello teorico, alcuni modi nuovi di intendere il cinema. Bazin attaccava i modelli del cinema sovietico rivoluzionario e del découpage classico colpevoli di instaurare un rapporto di coercizione con lo spettatore che avrebbe potuto cessare solo con un nuovo tipo di cinema in grado di essere fedele alla sua più autentica vocazione realistica, un cinema che si liberasse dalle pratiche manipolatorie del montaggio, per affidarsi invece a figure come quelle del piano sequenza e della profondità di campo.
Astruc - nel suo celebre saggio Nascita di una nuova avanguardia: la cinepresa stilografica (Naissance d'une nonvelle avant-garde: la caméra stylo, 1948) - si faceva sostenitore di un cinema personale, in grado di poter esprimere la soggettività dei suoi autori, dove la macchina da presa doveva essere utilizzata con la stessa immediatezza e spontaneità con la quale uno scrittore usa la sua penna stilografica. L'immissione sul mercato di nuove cineprese assai leggere e maneggevoli sembrava davvero poter rendere reali le profezie di Astruc.
Il clima culturale dell'epoca non poteva che trovare uno sbocco in una nuova generazione di cineasti che avrebbe di lì a poco sovvertito cinquant'anni di storia del cinema. Alcuni dei giovani critici dei «Cahiers» iniziarono, facendosi prestare dei soldi dai loro amici e utilizzando quelli che possedevano, a girare alcuni cortometraggi, sino all'arrivo di quel 1959 che può essere considerato l'anno del riconoscimento ufficiale della Nouvelle vague (Nuova ondata), con la conquista del premio per la miglior regia che I quattrocento colpi (Les quatre cents coups) di Francois Truffaut (1932-1984) ottenne al Festival di Cannes. L'anno prima Claude Chabrol (1930) aveva esordito con Le beau Serge, nel '59, insieme al film di Truffaut, esce anche Il segno del leone (Le signe du lion) di Eric Rohmer 1920) e l'anno successivo è la volta di Parigi ci appartiene (Paris nous appartient) di Jacques Rivette (1928) e, soprattutto, di Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1930), il film che suscitò più scalpore. I cinque registi citati lavorarono tutti negli anni successivi con grande intensità, realizzando ben 32 film fra il '59 e il '66 (Godard e Chabrol ne girano addirittura 11 a testa). Nonostante gli intenti dissacratori di quel cinema, l'industria francese, duramente provata dalla diffusione della televisione, non reagì in modo negativo. La politica dei bassi costi, la rapidità delle riprese, l'aria di novità che in quelle opere circolava poteva essere un buon antidoto alle difficoltà del momento. Anche se i principali registi della Nouvelle vague avevano dato vita a loro case di produzione, l'industria cinematografica francese si assunse spesso l'onere di distribuire i loro film e talvolta di parteciparvi anche sul piano della produzione.
Ma quali erano gli elementi di novità della Nouvelle vague? Innanzitutto ci si ritrova di fronte a una generazione di registi che del cinema e della sua storia conosce tutto, dove i limiti fra attività critica, riflessione teorica e pratica registica tendono a scomparire (in precedenza il fenomeno si era verificato solo nell'ambito del cinema rivoluzionario sovietico). Lo sguardo che quei film gettano sulla realtà, il modo in cui essa viene organizzata e diventa cinema, appare caratterizzato da una leggerezza, spontaneità e casualità che non aveva sino allora avuto precedenti. Come già era accaduto per il Neorealismo - i registi della Nouvelle vague amavano soprattutto Rossellini - le riprese in studio vengono sistematicamente sostituite da quelle in ambienti reali. All'illuminazione artificiale si preferisce quella naturale. I dialoghi sono spesso improvvisati. I movimenti di macchina vengono usati con grande frequenza, anche per girare delle scene di dialogo in alternativa al modello del campo/controcampo. Le panoramiche si spingono sino a ruotare su se stesse disegnando angoli a 360°, anche se il movimento di macchina più frequente è quello di seguire a lungo due personaggi che dialogano mentre camminano per strada. Alle elaborate attrezzature del cinema degli studi si preferiscono mezzi leggeri e più flessibili, come ad esempio le cineprese portatili, che gli operatori sono in grado di usare con grande maneggevolezza e in modo spregiudicato: un lungo movimento di macchina a seguire il protagonista di Fino all'ultimo respiro è stato realizzato da un operatore che teneva fra le mani la cinepresa seduto su di una sedia a rotelle che un suo collaboratore spingeva.
Frequente è il ricorso ai piani sequenza e ai long take realizzati in modo molto meno costruito di quanto accadeva in Welles e ampiamente disponibili all'irruzione del caso: alcune inquadrature girate all'aperto finiscono ad esempio col comprendere gli sguardi incuriositi di passanti casuali, che certamente comparse non sono. Non mancano poi espliciti gesti di rottura, violazioni di alcuni dei tabù chiave del cinema americano classico, come testimonia ad esempio l'uso dello sguardo in macchina e dell'interpellazione diretta dello spettatore da parte di un personaggio: come ad esempio si diverte a fare il Belmondo di Fino all'ultimo respiro. Quest'atteggiamento ironico nei confronti del mezzo cinematografico - quello della Nouvelle vague è cinema tanto quanto è meta-cinema, cioè cinema che parla al cinema stesso - è evidente anche nel frequente ricorso alle citazioni, tanto delle opere dei maestri del cinema che quei registi più amavano, quanto dei loro stessi film.
Sul piano narrativo, i film della Nouvelle vague rifiutano la stretta causalità che governava il cinema classico, dando vita a una narrazione giocata sul casuale, l'imprevisto, il gratuito, il paradossale. In Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, Truffaut, 1960), un personaggio esclama: «Possa mia madre morire se io non dico la verità», ed ecco seguire l'immagine di un'anziana donna che cade improvvisamente a terra. La prima sequenza dello stesso film è costruita su un dialogo di due personaggi, in cui uno di essi si sofferma a lungo sui suoi problemi coniugali che tuttavia non avranno nessun peso nello sviluppo del racconto. Molti dei protagonisti dei film della Nouvelle vague mancano di un qualsivoglia fine intorno a cui la storia possa costruirsi. La gran parte di loro si limita ad andare di qua e di là, facendo quel che di volta in volta il caso gli fa fare, passando gran parte del tempo a chiacchierare, bere o andare al cinema. Alcune delle loro azioni, spesso le più importanti, appaiono gratuite e prive di reali motivazioni. Il montaggio non obbedisce assolutamente ai principi della continuità, giocando, al contrario, su stacchi assai bruschi, raccordi volutamente sbagliati che non possono non disorientare lo spettatore. I finali, per concludere, sono quasi sempre aperti, incerti, ambigui e talvolta ironici. Il giovane protagonista di I quattrocento colpi fugge da un riformatorio e raggiunge correndo il mare. L'ultima inquadratura ferma l'immagine sul viso perplesso del personaggio senza che nulla ci venga più detto dell'esito della fuga e del destino del giovane.
E certo che al di là di alcuni tratti accomunanti ognuno dei maggiori registi della NouvelIe vague si è caratterizzato per una propria poetica e un proprio stile personali. Godard, fra tutti il più radicale, anche politicamente, ha portato alle estreme conseguenze la sua critica all'illusionismo cinematografico. Truffaut ha privilegiato temi autobiografici, soffermandosi, con misurata eleganza, su motivi come quelli dell'amore, dell'adolescenza e del rapporto fra arte e vita. Alain Resnais (1922), che a differenza degli altri non proviene dall'attività critica dei «Cahiers», darà vita in film come Hiroshima mon amour (1960) e L'anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad, 1961), scritti il primo da Marguerite Duras e il secondo da Robbe Grillet, a un cinema assai originale sul piano dello stile dove il tempo del racconto, attraverso un montaggio molto ardito, diventa un tempo tutto interiore giocato sulla memoria, il ricordo e l'incertezza fra realtà e immaginazione.
La Nouvelle vague francese non rappresenta in realtà che il fenomeno più appariscente di un generale rinnovamento che in forme assai diverse attraversa gran parte delle cinematografie degli anni Sessanta: da quella americana a quella inglese, da quella dei paesi dell'Est europeo sino a quella giapponese e latino americana. Tutte queste “nuove ondate” pur nelle loro specificità che notevolmente le differenziano, trovano i loro tratti accomunanti nel rifiuto dell'intreccio romanzesco tradizionale, nell'assunzione di procedimenti di messa in scena e regia "antinaturalistici", nell'affermazione della soggettività dell'autore, nel ricorso a una pratica semantica e ideologica più sfumata e indiretta di quella che caratterizzava il cinema precedente, nella ricerca di nuove soluzioni produttive e di distribuzione.
Trame dei film
Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica
Narra di due ragazzi che, nell'immediato dopoguerra, si guadagnano da vivere lustrando le scarpe agli Alleati. Coinvolti in un furto finiscono in riformatorio, dal quale uno dei due tenta di fuggire da solo. L'altro, volendo punire l'amico per il tradimento, finisce per ucciderlo involontariamente.
La descrizione dei drammi dei due ragazzi e l’indagine sul loro mondo interiore, si traducono in un duro atto d'accusa al contesto sociale in cui essi vivono, fatto di maltrattamenti e di miseria.
Ladri di biciclette (1948) di Vittorio de Sica
Al centro del film è il problema della disoccupazione. E’ la storia di un uomo che, dopo un lungo periodo di disoccupazione, trova un posto da attacchino. Recuperata la bicicletta che aveva dovuto dare in pegno, l'uomo accompagna il figlio al distributore di benzina dove il bambino lavora e poi si avvia al nuovo lavoro. Proprio mentre sta attaccando il suo primo manifesto, viene derubato della bicicletta. Il mattino dopo l’uomo vaga con il figlio per la città, cercando bicicletta, divenuta per lui l’unico mezzo di sussistenza. Quando riuscirà a trovare il ladro sarà troppo tardi: questo ha ormai venduto la bicicletta. Mentre si avviano verso casa, padre e figlio vedono una bicicletta incustodita. L'uomo non resiste alla tentazione di rubarla, ma, sorpreso e subito catturato, viene svergognato sotto gli occhi del figlio. L'originalità del film sta nell'avere fatto di un episodio in sé poco significativo come il furto di una bicicletta la funzione narrativa per descrivere una condizione sociale e umana di miseria e solitudine. Il film ebbe molto successo in tutto il mondo; in Italia i conservatori espressero il loro disappunto sull'opportunità di dare all'estero un'immagine così desolante del nostro paese.
All’errare del personaggio è totalmente subordinata la macchina da presa, che lo segue talvolta da vicino per isolarne il dramma, talvolta da lontano per collocare la sua realtà individuale in un contesto più ampio di cui egli è parte. Proprio l'insistita presenza di questi ampi punti di vista, una delle caratteristiche essenziali del film, che collocano i personaggi nel loro ambiente e fanno risaltare il contesto così come è, senza smontarlo, selezionarlo, fa di Ladri di biciclette un film molto lontano da certe modalità di rappresentazione tipiche del cinema a découpage classico. Il montaggio, più che creare effetti drammatici, si limita a mettere le inquadrature in fila l'una dopo l'altra, in un tentativo di rispettare la reale durata degli eventi rappresentati. La stessa presenza nel film di una storia narrata (il lavoro trovato, il furto, la vana ricerca, il tentato furto finale) è in realtà subordinata a una volontà quasi documentaria di rappresentazione di una Roma che non è semplice cornice, ma a tutti gli effetti protagonista del film. Allo stesso modo, Antonio Ricci, il protagonista (interpretato, come il figlio, da un attore non professionista) è continuamente rapportato - evidentemente dai campi lunghi di cui abbiamo già detto ma anche dall'uso del montaggio - all'ambiente che lo circonda e alla massa di cui è parte. Il suo destino, la sua storia, la sua tragedia perdono così la propria individualità per diventare emblema di una realtà collettiva ripresa anche sul piano della struttura della storia.
Pedinamento, uso di attori non professionisti, privilegio dei campi lunghi, utilizzo del montaggio in semplice funzione di raccordo, rispetto del tempo reale, contestualizzazione del personaggio e dell'azione in un orizzonte sociale ben determinato, subordinazione del racconto a una volontà quasi documentaria, disponibilità all'evento casuale: sono queste alcune delle caratteristiche più radicali del film che fanno di Ladri di biciclette una delle opere più rappresentative del Neorealismo. Tuttavia sono in esso presenti, come del resto in tutto il movimento, anche degli aspetti contraddittori, ben testimoniati, ad esempio, dalla sequenza finale. Qui l'istanza narrante, nascosta e subordinata per quasi tutto il resto del film all'azione del protagonista cha veniva semplicemente pedinato, finisce con l'assumere un ruolo di primo piano. La sua funzione diventa quella di drammatizzare l'epilogo, affermando la soggettività dei protagonisti e cercando di coinvolgere emotivamente lo spettatore. L'istanza narrante del film sceglie, attraverso l'uso del montaggio, di porre in primo piano la soggettività dei personaggi, di spingere lo spettatore a viverne in prima persona i sentimenti di fatica, dolore e umiliazione in piena sintonia con lo spirito del cinema classico.
Miracolo a Milano (1951) di De sica e Zavattini
Con questo film, i due registi presentano una polemica sociale di tipo neorealista, ma si affidano più al sogno e alla metafora che non all'asciuttezza documentaria tipica del Neorealismo. Il film racconta di una signora che trova un bimbo sotto un cavolo e gli mette un nome: Totò. Ma la signora muore e il bimbo finisce in un orfanotrofio. Una volta uscito, senza un lavoro, va ad abitare alla periferia di Milano. Qui conosce alcuni barboni e sceglie di vivere nelle loro baracche, edificate su un terreno che il proprietario, un ricco industriale, ha messo in vendita avendo scoperto che è ricco di petrolio. I barboni devono sgomberare; ma quando, i furgoni su cui vengono caricati passano per Piazza del Duomo, ecco il miracolo: appare una colomba inviata dalla madre di Totò e al suo intervento i poveri riescono a liberarsi e a volare in cielo a cavallo di scope.
A questo intreccio fantastico il film affida un messaggio chiaro e realistico, che consiste nella denuncia della disuguaglianza sociale nella Milano dei primi anni Cinquanta, del contrasto tra le due anime della città, tra il denaro e l'industria e la realtà dei poveri e dei baraccati.
Umberto D. (1952) di De Sica
La mancanza di solidarietà è anche il tema di questo film. Il protagonista, in questo caso, è un vecchio pensionato che vive in una camera ammobiliata che a stento riesce a pagare. La difficoltà di vivere con 18.000 lire al mese, l'indifferenza da parte delle istituzioni, la tentazione di chiedere l'elemosina per strada, l'incontro con vecchi colleghi di lavoro, che con ipocrisia fingono di non riconoscere la sua condizione, delineano un quadro che è una sorta di manifesto dell'emarginazione in cui versa un'intera categoria di persone.
Ossessione (1943) di Luchino Visconti
Tratto da un romanzo di James Cain, il film è ambientato nella provincia padana e ha per protagonisti due coniugi, gestori di un distributore di benzina. Lui è un uomo sereno e soddisfatto di sé e delle sue scelte; lei, dal temperamento esuberante e ribelle, è stanca del marito che ha sposato solo per sfuggire alla miseria della sua famiglia di origine, e si sente oppressa dalla quotidianità del lavoro e dalla scialba e monotona vita di provincia. La donna si fa un amante, e di lui si serve per liberarsi del marito. Il film crea un clima di ansie e di attese nel quale si consuma questa storia squallida, fatta di sentimenti meschini. Ma il significato del film consiste proprio nell'avere portato alla luce una realtà inesplorata di torbide vicende, di sentimenti oscuri e terribili, a copertura della quale si erge il moralismo perbenista dell'ideologia fascista.

Bellissima (1951) Di Luchino Visconti
Basato su una sceneggiatura di Zavattini, Bellissima ha come interprete principale Anna Magnani nel ruolo di una mamma che sogna per la propria figlia un avvenire di successo nel mondo del cinema, che invece si rivela fatto di falsità e corruzione. Raggiunto l'obiettivo, che significherebbe anche la tanto agognata tranquillità economica, la donna rinuncia a tutto.
Ma con Bellissima siamo già dentro gli anni Cinquanta. La società italiana è cambiata e non nel senso che sperava il Neorealismo: le distanze tra città e campagna sono rimaste le stesse e ancor più drammatiche appaiono le differenze tra nord e sud. L'industrializzazione che si espande e che pone le premesse del boom economico non colmerà queste distanze, ma le aggraverà.
Anche il Neorealismo, a questo punto, inizia la sua fase discendente spogliandosi dei suoi caratteri peculiari per scivolare nel bozzettismo, nella cronachismo, nella tipizzazione dei personaggi.

Questa è la mia vita (1962) di Godard
E’ un film che bene rappresenta molte delle caratteristiche di fondo della Nouvelle vague, del suo modo nuovo e spontaneo di fare cinema al di fuori dei modelli di rappresentazione dominanti. Nel raccontare la storia di una giovane donna che decide di prostituirsi e finisce col rimanere uccisa durante uno scontro fra bande rivali, Godard ricorre con molta frequenza all'utilizzo di piani sequenza, che gli permettono di dar maggior peso al momento "caldo" delle riprese, rispetto a quello a "freddo" del montaggio, conferendo così agli eventi rappresentati una maggiore freschezza e spontaneità, una più efficace resa dell'immediato e del casuale. Allo stesso modo il racconto non procede sugli artificiali modelli della narrazione classica, privilegiando a un concatenamento consequenziale una più semplice e spontanea successione di eventi. Il film si limita così a rappresentare alcuni momenti della vita e della realtà quotidiana della protagonista, a offrircene determinati scorci, rifiutando ogni idea di organicità dell'opera, dando vita a un movimento per così dire centrifugo, dove ogni elemento del film sembra voler rinviare a qualcos'altro che non è dentro il film, ma fuori da esso. In questo senso si possono leggere le diverse citazioni presenti in Questa è la mia vita, che vanno da La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer a Il ritratto ovale di Poe, passando attraverso il romanzo sentimentale e la cartellonistica pubblicitaria. Assai significativo anche l'uso della parola scritta che diventa una delle materie d'espressione dominanti il film - attraverso didascalie, sottotitoli e scritte diegetiche di varia natura - che se da un lato tematizzano il rapporto fra parola e immagine, dall'altra conferiscono al film un sapore in immagini esplicitamente brechtiano, caratterizzato dalle forme dello straniamento e dal rifiuto dei codici illusionistici del cinema classico.
Già assai significative sono le immagini che accompagnano e intervallano i titoli di testa del film: le tre inquadrature ravvicinate di Nanà, che ce ne mostrano il volto di fronte, poi il profilo destro e infine quello sinistro, esplicitano l'intento più antropologico che narrativo del film. Lo stesso Godard ebbe del resto a dire: «Io non invento niente, compilo dei prospetti. Dico ecco come si compone una donna e la mostro a pezzi staccati». La sequenza d'esordio, poi, potrebbe essere letta come un vero e proprio manifesto della volontà della Nouvelle vague di rompere con gli schemi tradizionali. Il dialogo in un bar fra Nanà, la protagonista, e il suo ex-fidanzato è ripreso in modo tale da negarci l'immagine dei volti dei due personaggi di cui invece non vediamo che le nuche. E’ evidente così il rifiuto dei più consueti modi di drammatizzazione, che proprio all'espressività del volto dell'attore affidano un compito di primo piano. Non solo, ma la scelta di disporre i due attori di spalle alla macchina da presa, contraddice anche quel principio essenziale del cinema classico che fa sì che il punto di vista che ci viene offerto della realtà rappresentata sia sempre il più efficace. In tale cinema i personaggi sono disposti davanti all'occhio della cinepresa così da poter agire nel modo che è più funzionale allo spettatore. Al contrario, nel cinema di Godard, i personaggi non fanno che vivere la loro vita e mostrarcene frammenti casuali, che noi possiamo cogliere solo da un punto di vista altrettanto casuale, quello di un osservatore non privilegiato bensì qualsiasi, che, come nel caso qualsiasi della scena in questione, si trovi ad esempio alle spalle dei due personaggi. Questa casualità si ritrova anche nella scelta di avviare la sequenza a discussione già inoltrata, di ricorrere a dialoghi chiaramente improvvisati, nel riferirsi dei personaggi a fatti e situazioni che non avranno poi particolare peso nello sviluppo del racconto, nel creare effetti di disturbo attraverso l'andirivieni dei baristi di cui, contrariamente a quel che accade per i due personaggi principali, vediamo gli ”inutili” volti.
Ma non è solo questa scena d'esordio a testimoniarci la volontà di Godard di allontanarsi dai modi di rappresentazione propri del cinema classico. Quasi tutte le numerose scene di dialogo del film testimoniano ad esempio un esplicito rifiuto della tecnica del campo e controcampo, a cui si sostituiscono dei movimenti di macchina, talvolta laterali, talvolta in profondità, dei lunghi piani fissi, degli anomali utilizzi del fuori campo - come quando nel corso di una conversazione la macchina da presa rimane sempre su un personaggio senza mai mostrarci l'altro. E’ in sostanza come se Godard ci dicesse: « Sino adesso il cinema ci ha mostrato sempre allo stesso modo il dialogo fra due persone. Proviamo a vedere se esistono altre possibilità» .
Questa stessa vocazione sperimentale e di rottura è in opera anche su altri livelli, come nell'uso del montaggio che rifiuta i dettami della continuità mostrandoci ad esempio in due inquadrature, l’una immediatamente successiva all’altra, lo stesso personaggio in due pose nettamente diverse fra loro. Altrettanto trasgressiva è quell'inquadratura in cui Nanà e un suo amico escono di campo passando l'uno a destra e l'altro a sinistra della macchina da presa, a finendo così col rivelarne implicita-mente la presenza. Entrambi i procedimenti sono chiaramente tesi a conferire al film una dimensione straniante.
L'epilogo di Questa è la mia vita è infine un capolavoro di ironia anti-drammaticità. In un unico piano sequenza lo scontro fra le due bande e la morte di Nanà sono ripresi attraverso una serie di movimenti di macchina laterali che si limitano a seguire pigramente l'andirivieni dei personaggi senza mai mettere in evidenza, come sarebbe accaduto invece in un film découpage classico, la figura della protagonista e il suo tragico destino. Niente ci spinge così a identificarci con essa, a vivere i "suoi" sentimenti. L'andamento straniante dell'intera sequenza è inoltre rafforzato dalla paradossalità dell'intera situazione: la gratuità assoluta della morte della donna, il gangster che si è dimenticato di caricare la pistola, il caffè davanti a cui si svolge la scena il cui nome è significativamente quello di «Caffè degli studi" (cinematografici, ovviamente).

RIVOLUZIONE ELETTRONICA
Una nuova rivoluzione industriale; l’elettronica e i computer; l’evoluzione dei computer; computer e produzione di massa; informatica e cibernetica; la telematica.
Gli ultimi decenni del secolo XX saranno ricordati come un’epoca di grandi trasformazioni nell'economia e nella società del mondo industrializzato. Come alla fine dell' 800 l'emergere di nuove tecnologie e di nuovi settori produttivi - il siderurgico, il chimico, l'elettrico – aveva mutato profondamente le strutture economiche e la stessa vita quotidiana nei paesi più sviluppati, così ora si assisteva al declino di industrie che avevano svolto un ruolo centrale per oltre un secolo (prima fra tutte quella dell' acciaio, che vide bruscamente calare la sua produzione), all’affermarsi di nuove tecniche produttive, all' aprirsi di nuovi campi di attività che lasciavano intravedere una realtà economica e sociale molto diversa da quella che aveva avuto la sua massima espansione negli anni '50 e '60 di questo secolo. Il centro e il nucleo propulsore di questo processo di trasformazione sta certamente nell'elettronica, cioè in quella branca della fisica che studia il movimento degli elettroni e che, già nella prima metà del ‘900, era stata alla base di alcune fondamentali scoperte nel campo delle comunicazioni radiofoniche e televisive. Ma la più importante e la più rivoluzionaria fra le applicazioni della tecnologia elettronica fu attuata nel secondo dopo guerra nel settore della macchine da calcolo (computer): apparecchi capaci di riprodurre in qualche misura i meccanismi di funzionamenti del cervello umano, mediante l’apertura e la chiusura di una serie di circuiti elettrici; di eseguire operazioni matematiche senza margini di errore in tempi infinitamente più brevi di quelli consentiti all’uomo; di immagazzinare nelle loro una serie di dati da richiamare poi all’occorrenza; di reagire, se opportunamente programmati, a impulsi esterni e di comandare, in base a questi impulsi, l’attività di altre macchine. I primi calcolatori erano stati realizzati già durante la seconda guerra mondiale; ma, basati sull'uso di componenti elettromeccaniche (i relais, comunemente impiegati nella telefonia), erano soggetti a usura, oltre che estremamente ingombranti. La sostituzione del relais prima con la valvola, poi col transistor (inventato nel 1948) consentì, nel corso degli anni '50, di ridurre enormemente le dimensioni dei computer e di aumentarne la potenza di calcolo, l'affidabilità e la complessità. Un ulteriore salto qualitativo fu compiuto nel decennio successivo con l'introduzione del circuito integrato: una piastrina di silicio (di dimensioni anche ridottissime) all'interno della quale possono essere riprodotte, in forma miniaturizzata, le funzioni di un'intera rete di transistor. Nascevano così, anche sotto la spinta delle imprese spaziali, i computer della «terza generazione»: apparecchi che non solo vantavano, rispetto ai loro predecessori, dimensioni ancora più ridotte, velocità di calcolo ancora maggiore - oltre alla possibilità di collegare molti apparecchi «periferici» (terminali) a una sola memoria centrale -, ma avevano anche costi di produzione sensibilmente più bassi. E questo fu certo un fattore decisivo per far uscire il computer dall'ambito dei laboratori specializzati e degli istituti di ricerca e per farlo entrare nel mondo della produzione di massa. I successivi sviluppi della tecnologia hanno consentito di produrre processori sempre più piccoli e sempre più veloci e di elaborare programmi sempre più complessi. DeI resto, nell'industria del computer la parte «materiale» del prodotto (quella che in inglese si chiama hardware, alla lettera «ferramenta») è meno importante, sotto il profilo dei costi, rispetto al complesso delle informazioni e dei programmi (software) che servono a farlo funzionare. Un' industria che ha i suoi centri principali negli Stati Uniti (in particolare in California) e in Giappone e che ha invaso con le sue tecnologie tutti i principali comparti produttivi. Oggi i computer non solo sono oggetti abbastanza familiari per chi vive nelle aree sviluppate - nella forma del piccolo calcolatore tascabile, del personal computer, dei terminali installati in molti uffici, agenzie, magazzini - ma sono incorporati in una gran quantità di apparecchi di uso corrente: automobili ed elettrodomestici, impianti per il condizionamento termico e per la riproduzione del suono, orologi e apparecchi fotografici. La quantità di elettronica computerizzata contenuta oggi in una normale autovettura è superiore a quella delle prime navicelle spaziali.
I tre momenti fondamentali nella evoluzione della tecnologia elettronica: per la commutazione e l'amplificazione delle correnti elettriche, si è passati dagli ingombranti tubi termoionici (le delle vecchie radio), a (1948), ai (1971), blocchetti silicio di dimensioni millesimali che con ingombri e consumi di energia limitatissimi consentono agli attuali computer l'immagazzinamento e l'elaborazione rapida di miliardi informazioni.

Strettamente legata alla «rivoluzione dei computer» è la crescita di nuove tecnologie e di nuove branche della scienza applicata. Lo sviluppo dell' informatica (la disciplina che ha per oggetto l'elaborazione e la trasmissione dell'informazione, in particolare i linguaggi e i programmi delle macchine da calcolo) si è intrecciato con quello della cibernetica, scienza nata negli anni '40 che studia i processi di controllo e di comunicazione negli organismi viventi e cerca di riprodurli nelle macchine. Figlia della cibernetica è la robotica, che si occupa specificamente della costruzione di macchine capaci di sostituire l'uomo in una serie di operazioni anche molto complesse ed è stata largamente applicata nei processi di automazione del lavoro industriale.
Ancora più recente - e databile agli anni '70 - è la nascita della telematica: ossia l'applicazione delle tecniche dell'informatica al settore delle telecomuni-cazioni, che ha permesso tra l'altro (grazie anche all'adozione delle cosiddette «fibre ottiche» in luogo dei vecchi fili di rame) di usare una stessa rete telefonica per trasmettere non solo messaggi in voce, ma anche programmi radiofonici e televisivi, o testi e dati elaborati da computer Ciò ha consentito fra l'altro l'apertura di nuove reti di comunicazione, in cui ogni soggetto può inserirsi aprendo un proprio sito e collegarsi con altri siti in ogni pane del mondo. La più importante di queste reti si chiama Internet: è nata negli Stati Uniti, per iniziativa delle forze armate, come rete alternativa in caso di guerra nucleare e si è poi staccata dagli impieghi militari. Nel 1997 ha raggiunto un numero di utenti che si stima attorno ai 70 milioni.
DOCUMENTO STORICO:
Un mondo telematizzato
Nelle pagine qui riportate, lo storico Ernesto Galli della Loggia (nato nel 1942) descrive i cambiamenti indotti nella nostra società dalla tecnologia elettronica, e in particolare dalla sua applicazione nel campo della comunicazione. L'autore, dopo aver illustrato i nuovi traguardi resi possibili dalla rivoluzione elettronica, mette in guardia sui pericoli connessi a questa grande trasformazione. Pericoli che riguardano la stessa identità del soggetto e della sua esperienza, ma anche, più in generale, la libertà e la democrazia.
Quello che è il carattere peculiare dei nuovi traguardi resi possibili dall' elettronica, vale a dire l'aumento fantastico della velocità, della precisione e della complessità del trattamento dei dati, nonché della loro organizzazione e trasmissione, ha trovato modo di esprimersi con la massima compiutezza nel campo delle telecomunicazioni. Si tratta di uno degli ambiti più importanti e significativi della civiltà contemporanea: la sua espansione quasi s'identifica con quella di tale civiltà, e l'ideologia di questa risente potentemente e capillarmente dei mezzi cui essa affida la sua diffusione. L'elettronica ha apportato alle telecomunicazioni un'ampiezza ed una velocità solo venti anni fa inimmaginabili, ed insieme la molteplicità di usi e l'intelligenza propria dei calcolatori.
Da un punto di vista tecnico la distinzione tra computer e telecomunicazioni è ormai priva di senso, ed anche per ciò che riguarda gli impieghi l'integrazione sta diventando completa, sino al punto che è stato coniato un nuovo termine, telematica, per indicare l'unione delle due tecnologie. Proprio questa unione schiude orizzonti rivoluzionari per tutta l'organizzazione della vita quotidiana delle società industrializzate ed è giusto dunque muovere da qui per misurare le più generali prospettive di mutamento che si accompagnano alla diffusione dell'elettronica.
Da un lato, con l'abbandono del tradizionale codice analogico di trasmissione elettrica degli impulsi per quello digitale proprio dei calcolatori1, e dall' altro con la sostituzione delle vecchie centrali elettromeccaniche con quelle elettroniche, le reti telefoniche sono state non solo in grado di sestuplicare la propria velocità di trasmissione della voce, di dati, di telex, ma sono divenute, in sostanza, parte esse stesse dell'universo elettronico, e dunque possibili partners fruitrici, per così dire, del calcolatore. L'altra grande innovazione, che abbassando i costi di collegamento ed elevando la portata delle linee vale a conferire a quella precedente una strabiliante economicità e possibilità di diffusione, si annuncia quella delle fibre ottiche, già in fase di prima applicazione; grazie alle fibre ottiche, infine (e ciò che più conta), diviene possibile utilizzare il medesimo «filo» per i segnali telefonici e per quelli televisivi, realizzando l'integrazione assoluta dei due sistemi. Da ultimo, a partire dalla metà degli anni Sessanta tutte le reti telefoniche del pianeta sono collegate tra di loro da un sistema di satelliti artificiali di sempre maggiori capacità: il primo di essi, l'Early Bird, messo in orbita stazionaria sull'Atlantico nel 1965, aveva una capacità massima di 240 canali telefonici, quelli attualmente in funzione di circa 8.000, mentre è prevista entro il 1983 la messa in orbita di un satellite in grado di «veicolare» contemporaneamente 21.600 chiamate.
Come si vede, quella che si annuncia è in pratica la creazione di un sistema mondiale di comunicazioni e di trasmissione di immagini e di dati, in grado di collegare un qualsiasi utente con i più svariati tipi di calcolatore per accedere alloro uso o per riceverne i segnali. A ciò si deve aggiungere la panoplia2 di strumenti che la microcomputerizzazione già oggi rende possibile e che in parte già ha immesso sul mercato: dai telefoni «intelligenti» agli strumenti capaci di leggere i caratteri, ai centralini controllati da un computer (in grado di svolgere contemporaneamente compiti di contabilità e di smistamento delle telefonate), ai sistemi di teletrasmissione dei caratteri alle videocassette ed ai videodischi, i più moderni esemplari dei quali sono in grado d'incamerare un'informazione pari a due ore di trasmissione o 55.000 pagine di libro. Considerando questo strumentario per così dire individual-casalingo, e quello costituito dai calcolatori «centrali» installati in numero sempre crescente negli uffici, nei grandi magazzini, negli ospedali, nelle amministrazioni pubbliche, nelle industrie, si capisce come dall'unione dei due possano scaturire forme nuove sia nei rapporti economici che nella vita sociale. La sfera dell'intrattenimento e delle comunicazioni interindividuali appare destinata ad ampliarsi in misura enorme; ancora di più, con la contemporanea diffusione dell'informatica e della telematica, sorge la possibilità da un lato di fruire direttamente nella propria abitazione di tutta una lunga serie di servizi (insegnamento, consultazione di archivi e biblioteche, diagnosi mediche, ordinazioni ai negozi, servizi bancari) e dall'altro, almeno teoricamente, di svolgere una serie altrettanto lunga di mansioni lavorative non muovendosi da casa propria.
Tutto ciò illumina una delle conseguenze potenzialmente più importanti dell'avvento dell'elettronica: vale a dire il passaggio da una civiltà dei trasporti ad una civiltà della comunicazione, da una civiltà basata sul movimento delle persone ad una basata piuttosto sul movimento delle informazioni e dei dati, passaggio che comporta, tra l'altro, un consumo assai minore di energia ed è favorito dal fatto che mentre il costo dei trasporti tende continuamente a crescere (anche in termini sociali), viceversa quello delle telecomunicazioni tende a diminuire.
Se, come tutto lascia credere, le società industrializzate sono sul punto di entrare in una fase del genere, dominata dall'elettronica, dall'informatica e dalla telematica, allora non è azzardato prevedere che su queste società stanno per abbattersi trasformazioni profondissime. Ad esempio, il ruolo sempre più importante dell'industria elettronica come tale e delle sue applicazioni ai processi manifatturieri implica in prospettiva non solo una imponente redistribuzione della forza lavoro, ma forse un mutamento del concetto stesso di lavoro. Se è generalizzabile il caso dello stabilimento dell'Illinois della Western Electric, che passando dalla produzione di centraline elettromeccaniche a quelle di tipo elettronico ha visto il rapporto tra lavoratori in produzione da un lato, e tecnici ed impiegati dall'altro, passare da 3 a i ad i a 1, diviene legittimo pensare che nella fabbrica del futuro - futuro che però è in un certo senso già sotto i nostri occhi un numero sempre maggiore di addetti anziché cose maneggerà informazioni. Con quali conseguenze sull'immagine sociale ed il ruolo di quella che da 200 anni chiamiamo classe operaia non è facile immaginare. Inoltre, poiché è probabile che soprattutto in alcuni servizi un certo numero di mansioni conserveranno il loro carattere tradizionale «sporco e pesante», si prospetta una divaricazione crescente tra una categoria (è impossibile prevedere quanto numerosa) di lavoratori sfavoriti, ed il resto degli addetti alla produzione. Non solo, ma se questa prospettiva si afferma, è evidente che le distanze tra mondo industrializzato e non, già oggi notevolissime, cresceranno ancora fino a diventare incolmabili. Non per nulla da qualche anno si assiste ad un trasferimento massiccio verso i paesi del Terzo Mondo di lavorazioni «dure» che richiedono largo impiego di manodopera non specializzata e bassa tecnologia, nel quadro di una divisione internazionale del lavoro che minaccia di corrispondere nell' avvenire ad un ulteriore irrigidimento delle gerarchie mondiali anche in termini di potere politico. La crescente sofisticazione delle tecniche nei settori industriali di punta costituisce, insomma, un nuovo e gravissimo ostacolo al sogno di uno sviluppo geograficamente equilibrato.
Non c'è neppure bisogno di dilungarsi sulle novità che l'elettronica può introdurre nel lavoro d'ufficio e amministrativo in genere. Abbiamo già accennato alle novità inerenti gli aspetti operativi e le mansioni; ve n'è però un'altra, di portata ben più rivoluzionaria, rappresentata dalla possibilità, in un futuro non troppo lontano, che molti lavori del tipo di cui stiamo parlando siano eseguibili in unità e sottounità ultradecentrate, fino alla scomparsa di quei grandi uffici che con le loro immense costruzioni dominano da un secolo i moderni panorami urbani.
Come si vede, dall'avvento simbiotico di elettronica, informatica e telematica, buona parte dell'organizzazione sociale, familiare, dei tempi della giornata, cui siamo abituati (per non parlare dell' attività economica, del suo ambiente fisico e della sua ideologia) può uscire rimodellata in forme imprevedibili e con altrettanto imprevedibili effetti secondari. Di fronte a tali mutamenti, ormai a portata di mano, alla trasformazione della civiltà industriale in quella che è stata chiamata civiltà post-industriale, è facile provare una sorta di ebbra onnipotenza, dimenticando i problemi gravissimi - e diciamo pure i pericoli - che si annidano in questi mutamenti. E’ difficile, infatti, non accorgersi come essi mettano direttamente in gioco le categorie antropologiche stesse dell’individuo e della vita associata quali si sono venute costituendo in Occidente attraverso una storia millenaria. La rivoluzione elettronica sconvolge innanzi tutto – ed in misura incomparabilmente superiore a quanto non sia già successo da due secoli a questa parte – la dimensione dello spazio e del tempo. In 20 anni i calcolatori sono passati dal millisecondo (un millesimo di secondo) al nanosecondo (un miliardesimo di secondo); ciò significa che oggi, ad esempio, una collegata ad un calcolatore può battere qualcosa come 10-20 mila righe al minuto, ad una velocità cioè che è 200 volte superiore a quella massima di lettura consentita ad un essere umano. Questo si trova a vivere sempre più immerso in un mondo di meccanismi, di fatti, di immagini, che funzionano o si muovono non già più velocemente di quanto egli faccia, come avveniva con le macchine normali, ma di quanto quasi egli possa perfino pensare.

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