Un amore senza confini : Orfeo ed Euridice

Materie:Tema
Categoria:Epica

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Testo

Un’ amore oltre i confini:
ORFEO ed EURIDICE
Era una mattina meravigliosa nella regione dell’Attica. Il sole splendeva alto nel cielo, sgombro di nuvole. Le colline si estendevano a vista d’occhio e su di esse cresceva rigogliosa una fitta vegetazione d’ulivi. Le gazze volteggiavano alte nel cielo, lanciando il loro canto sgraziato. Orfeo, grande musicante e cantore famoso in tutta l’Attica, sedeva all’ombra di un ulivo. Con la schiena poggiata sul ruvido tronco dell’albero, il poeta suonava una lira d’oro, e cantava una melodia soave ed armoniosa. Al suo fianco, accucciati per terra, si trovavano due feroci sciacalli ed una lince aggressiva. In effetti, i tre animali non attaccavano l’uomo, che tranquillamente suonava il suo amato strumento. Difatti il suono melodioso e gradevole della lira e del suo canto avevano un effetto miracoloso: riuscivano ad ammansire le bestie più feroci, e riuscivano per giunta a smuovere le montagne. Orfeo suonò a lungo, sembrando quasi incurante del magnifico evento che da lì a poco si sarebbe dovuto svolgere. Infatti, quel giorno si sarebbero dovute svolgere le sue nozze fastose con la bella ninfa Euridice. In effetti, Orfeo mascherava l’enorme contentezza che lo pervadeva, al solo pensiero di sposare la donna che amava. Dall’altra parte d’Atene, l’Agorà era in fremito. Chi correva di qua e di là, gente che si accalcava e bambini che schiamazzavano. Difatti, nella piazza, accompagnata dalle sue graziose ancelle, la bella ninfa Euridice si dirigeva verso lo sfarzoso tempio d’Atena. La bella giovane indossava un lungo abito bianco. Il suo capo era coperto da un velo color arancione ed indossava una corona di ciclamini. Da sotto il velo sfuggivano i suoi lunghi capelli corvini. Mentre la fanciulla si accingeva e salire la scalinata del tempio, dall’altra parte dell’Agorà arrivò correndo un giovane barbuto che le corse incontro con uno sguardo minaccioso. Era Aristeo, da tempo innamorato della ninfa Euridice, e non le aveva perdonato il suo matrimonio con Orfeo. Era un giovane con abiti da pastore, che, arrivato ai piedi del tempio, afferrò la ninfa per il polso e la strattonò. La ragazza lanciò un urlo di terrore e tutta le folla, anziché avvicinarsi per aiutarla, si allontanò. “Cos’è questa storia che sposi quel nullafacente di Orfeo? Vieni con me!” affermò brusco Aristeo. La fanciulla cadde a terre. Riuscì a liberarsi dalla stretta dell’uomo e scappò via. Dopo, Euridice si addentrò in una foresta di faggi, ma ciò non fermò per nulla l’impeto di Aristeo. Presa dal fiatone la ninfa corse più veloce che potè, ma inciampò nel suo candido vestito e cadde per terra. Malauguratamente, per frenare la caduta, la ninfa mise la mano su di una radice di un faggio. Ma quella non era una radice: era una vipera, che fulmineamente si avventò sul braccio dalla ragazza. Il serpente si avvinghiò al braccio di Euridice e sferrò un unico ma mortale morso al polso della ragazza. Euridice lanciò un urlo di spavento, mentre il braccio si faceva sempre più sanguinolento. Il veleno scorreva inesorabile, il sangue sgorgava, e la ninfa si accasciò su di un letto d’edera. Appena giunto al corpo disteso d’Euridice, Aristeo, in preda al panico, fuggì verso l’Agorà. In preda al terrore, il ragazzo gridò parole troncate “ Euridice… una vipera… nella foresta… presto!” I presenti compresero l’accaduto e qualcuno corse verso l’abitazione d’Orfeo ad avvertire il cantore dell’incidente accaduto ad Euridice. “Orfeo” gli dissero con voce allarmata ” Euridice è stata morsa da una vipera nel bosco, corri presto!” In preda al panico, Orfeo, non riuscì a spiccicare una parola, riuscì solo a correre come il vento al posto dove gli avevano detto si trovasse Euridice. Giunto nel bosco, in lontananza, il povero Orfeo corse come il vento verso quel letto d’edera. Li trovò solo una vipera che si dileguava e delle foglie d’edera sciupate, come se qualcosa vi fosse caduto sopra. “Euridice! Euridice dove sei?” urlò Orfeo. Invocò il nome della ninfa più e più volte, mentre delle lacrime gli rigavano il volto. Invano, il poeta chiamò per l’ultima volta la sua sposa, che non rispose alle sue parole. Le lacrime gli scesero dalle guance fino ad inumidire ciò che era diventato il letto di morte della ninfa. Ma il giovane non si perse d’animo. Vagò per giorni per il faggeto ed oltre, ma non trovò alcuna traccia d’Euridice. Ormai sfinito per l’estenuante e inconcludente ricerca della ragazza, avvilito, Orfeo fece per tornare a casa. In preda alla commozione non riusciva a trattenere le lacrime, quando all’improvviso vide un nugolo di pipistrelli svolazzare tutti da una parte. Li seguì con lo sguardo e vide che entravano in una “foresta a galleria”, dove i faggi intrecciavano le loro fronde fino a formare una sorta di passaggio d’alberi. Più ci si addentrava più l’aria diventava pesante e più diventava buio. Orfeo aveva sentito parlare di quell’entrata. Era la porta per gli Inferi, per il regno d’Ade. Ormai non più spaventato dal luogo per il pensiero che lo pervase, Orfeo, in preda alla trepidazione, si addentrò nell’Erebo. Le sue intenzioni erano chiare: sarebbe entrato nell’Ade e avrebbe riportato a casa la sua sposa. Il pavimento era una fanghiglia acquitrinosa e si avvertiva un forte odore di bruciato. Più proseguiva e più l’odore di bruciato si faceva intenso. Orfeo arrivò ad uno scenario orribile. Davanti ai suoi occhi si snodava un fiume fangoso e malsano, dalle acque nerastre. Quello era lo Stige, il fiume degli Inferi. Ad un certo punto, sulla riva opposta del fiume, un’enorme figura era appostata, di guardia. Appena la creatura lo scorse, uscì dall’oscurità. Era Cerbero, il mostruoso cane a tre teste dal pelo corvino, che gli abbaiò violentemente. Sulla riva dello Stige, si trovava un’imbarcazione malandata, ormeggiata sulla sponda fangosa. Di fianco ad essa vi era un uomo anzianissimo, vestito di un tunica nera e logora che lo scrutò intensamente. Orfeo dedusse che quel vecchio era Caronte, il traghettatore delle anime dell’Ade. Gli si avvicino e chiese ” Devo incontrare Ade”. “Ade?” chiese con una voce cavernosa e rotta. “Ne sei sicuro?” chiese nuovamente Caronte. Orfeo fece cenno di si. “Bene” disse il vecchio “ a tuo rischio e pericolo”. Nonostante le parole del vecchio, Orfeo, determinato a riavere Euridice, sospirò. “Ad ogni modo, devi pagare una dracma per arrivare da Ade” disse brusco il vecchio. Orfeo tirò fuori dalla sacca una dracma che, con sfrontatezza, porse a Caronte. “Il vecchio guardò e riguardò più volte la moneta e disse “Sali a bordo”. Il giovane salì sull’imbarcazione traballante e il vecchio Caronte, remò per lo Stige. Le esalazioni del fiume gli davano la nausea e Cerbero continuò ad abbaiargli furiosamente. Dopo poche remate, Orfeo giunse ad una collinetta che si trovava sulla riva opposta. Cerbero continuava a ringhiare rabbiosamente e Caronte lo fece scendere con una spinta dall’imbarcazione. Si riuscivano persino a sentire le urla strazianti dei dannati. In cima alla collinetta che sembrava fatta di cenere, si trovava un trono di pietra nerastra. Sulla cima svettava un enorme corvo, mentre sul trono non vi era Ade, come il ragazzo pensava, bensì Proserpina, sua moglie. Nonostante fosse la regina dei morti, Proserpina era una bella donna. Aveva dei lunghi capelli neri che le raggiungevano le ginocchia e due occhi neri penetranti. Vestita di una lunga tunica nera, Proserpina stringeva in mano una melagrana, segno del suo supplizio. “Chi sei tu, tanto sciocco o tanto coraggioso da addentrarti nell’erebo?Rispondi!” Disse la donna con una voce armoniosa. “Io sono Orfeo, figlio d’Eagro e Calliope. Vengo qui per riportare la moglie che mi è stata ingiustamente tolta.”. “Quale dio mai sarai tu per osare così tanto da chiedermi una cosa simile? Sparisci, affinché non possa ucciderti” disse brusca Proserpina. “E me ne andrò” disse calmo Orfeo “ ma lasciate che suoni il mio strumento, solo una volta”. Dopo che la dea acconsentì, il giovane prese la sua amata arpa che teneva legata alle spalle come una faretra. Prese lo strumento e suono una melodia indescrivibile, così soave e struggente. A quel punto, il mostro Cerbero smise di ringhiare e sia si accucciò per terra, come un docile agnellino. Le urla lancinanti dei condannati cessarono all’improvviso, e una lacrima d’argento rigò il volto di Proserpina. “E va bene” affermò la dea con voce rotta ”per il tuo canto così commovente ti concedo di riavere la tua amata. Ma corri, prima che cambi idea!”. Proserpina prese un chicco di melagrana e lo gettò ai piedi della collinetta. Da questo si originò molto fumo e dal quale ne fuoriuscì la bella Euridice. Orfeo fece per abbracciare la sua sposa, quando la dea gli disse “Ma ad una condizione” A queste parole Orfeo si fece subito pallido. “Durante il cammino verso la terra” proseguì Proserpina “ non dovrai mai voltarti a guardare la tua amata. Se lo farai, questa volta non la riavrai mai più!” Orfeo fu in un certo senso rallegrato: pensava che la prova fosse più difficoltosa. “ E che ci vuole!” penso gioioso il poeta. Orfeo si incamminò a passo spedito verso un passaggio ombroso che conduceva verso la terra dei vivi, con la ninfa Euridice al seguito. Dopo un po’ di cammino, Orfeo avvertiva già il calore dei raggi solari, e sentiva i passi lievi della moglie alle sue spalle. Ad un certo punto riuscì a scorgere un’arcata d’alberi, che segnalava l’uscita dall’Erebo e l’entrata nel mondo dei vivi. Orfeo cominciò a sorridere, al pensiero di riabbracciare l’adorata moglie. Quando si trovò quasi sull’uscio dell’arcata, sempre più pervaso da quel desiderio, non riuscì a frenare la voglia di riabbracciare Euridice e con uno scatto veloce, si voltò. La ninfa lo guardò con gli occhi spenti, una lacrima le rigò il volto e mormorò “Orfeo…” In quel momento Orfeo, consapevole del suo enorme sbaglio, si gettò al collo d’Euridice, ma si ritrovò solo in una nube di vapore azzurrino. Il ragazzo spalancò gli occhi, trasalì e cadde con le ginocchia per terra. Non avrebbe mai più visto la sua amata Euridice. Così, si lasciò andare in un pianto doloroso e straziante, e non c’era modo di consolarlo. La sua vita risultava così vuota e priva di significato senza la bella ninfa Euridice al suo fianco. Riusciva ancora a vederla, nella sua mente: I suoi lunghi capelli corvini e quegli occhi di un azzurro intenso. Ma quella era solo la sua immaginazione, la sua mente che non riusciva a capacitarsi della perdita della ninfa. Vagò senza meta per mesi interi, senza trovare consolazione. Era terribilmente adirato con sé stesso per essersi voltato. Se solo avesse aspettato il tempo per fare qualche altro passo, ora Euridice sarebbe al suo fianco. Dopo mesi d’estenuante vagabondaggio per tutta la Grecia, il povero cantore giunse in Tracia, al tempo vincolata da Bacco. In un pomeriggio inoltrato, si soffermò sulle sponde dell’Ebro. Il sole stava calando dietro le montagne e già s’intravedevano delle stelle nel cielo. Orfeo sedette fra i canneti del fiume, mentre alle sue spalle si agitava una piccola folla. Questa moltitudine era costituita da delle Menadi, le sacerdotesse di Bacco, che erano in preda all’ubriachezza. Sedute intorno ad un falò, le baccanti, tracannavano quantità smisurate di vino. Non si poteva di certo sostenere che le Menadi fossero simili alle altre sacerdotesse. Avevano lunghi capelli scarmigliati, indossavano pelli di lupo o di lince, e si abbandonavano ad un linguaggio scurrile. Appena scorsero la figura d’Orfeo sulle sponde dell’Ebro, una di loro si rivolse verso di lui “Straniero, unisciti a noi! Tutti si possono unire ai culti di Bacco, nostro amato dio del vino e della vita naturale!”. Orfeo, da sempre rimasto devoto ad Apollo, rispose con fermezza “Può essere Bacco considerato veramente un dio, se inneggia all’ubriachezza delirante e alla violenza? E pensare che il venerato Apollo è costretto a condividervi il tempio a Delfi! Mai e poi mai mi unirei a voi!”. All’udire quelle parole, le Baccanti, in un impeto di violenza e pazzia, scattarono in piedi, e con un balzo, assalirono il povero Orfeo. C’era chi gli tirava i capelli, chi gli sbranava le gambe, chi gli azzannava il collo. Alla fine, il resto più riconoscibile del cadavere del poeta era solo la sua testa. Le sacerdotesse, afferrarono la carcassa del cantore con la sua amata lira e la scagliarono nell’Ebro. L’acqua diventò improvvisamente rossastra, e la testa d’Orfeo fluttuò nell’acqua. Quando le muse, che si trovavano in una grotta in prossimità del torrente, corsero in direzione del fiume, e Calliope, madre del poeta, prese la testa recisa del figlio insieme al suo strumento e la portò sulla riva. Tra mille lacrime, la Musa fece sì che la testa del proprio figlio e la sua lira diventassero una delle innumerevoli costellazioni del firmamento.

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