mi chiamo rigoberta menchù

Materie:Scheda libro
Categoria:Letteratura

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Testo

“mi chiamo Rigoberta Menchù”, scritto circa vent’anni fa da Elisabeth Burgos sotto dettatura della stessa Rigoberta, è un viaggio alla scoperta delle atroci sofferenze che il popolo indigeno guatemalteco, (più esattamente dell’etnia Quiché), subisce da generazioni. Raccontando la sua personale esperienza di vita, Rigoberta Menchù affronta le tematiche comuni a tutto il suo popolo, quali lo sfruttamento da parte dei proprietari terrieri e dei ladinos (ovvero i meticci, che derivano dall’unione degli indios con gli spagnoli), la sofferenza per la fame, i sacrifici dovuti affrontare nel tentativo di rivendicare i propri diritti, sacrifici fra i quali sono inclusi la perdita di persone care, che avevano preso parte a lotte e manifestazioni e sono state brutalmente uccise. Insieme al racconto delle sofferenze, Rigoberta narra anche delle tradizioni del suo popolo, delle cerimonie che vengono effettuate, del significato di ciascuna di esse, ci parla del nahual, che è legato al giorno della nascita e molto spesso è un animale, ci parla della cerimonia del matrimonio, e di come avviene il fidanzamento, con il ragazzo che si presenta a casa della ragazza con offerte che il padre può accettare o declinare in caso voglia dare in sposa la figlia o meno. Rigoberta racconta inoltre delle differenze di linguaggio anche fra gli stessi popoli indigeni, e di quanto sia straziante non potersi capire, di quanto questo aspetto renda più difficile anche l’organizzarsi per ribellarsi allo Stato e alle imposizioni dei proprietari terrieri, e di come gli indios si siano separati da sempre dai ladinos, anche quelli poveri, perché in molti casi anche questi ultimi si sentivano comunque superiori, nonostante avessero la stessa situazione economica, subissero lo stesso sfruttamento. Colpisce il racconto della morte dei fratelli nelle fincas, uno per denutrizione, l’altro per avvelenamento, poiché i proprietari terrieri cospargevano la terra delle piantagioni di concimi velenosi per l’uomo, anche quando gli indigeni vi lavoravano; colpisce ancora di più, il racconto della tortura e dell’uccisione del fratello sedicenne accusato di essere comunista, e della madre di Rigoberta, figura autoritaria e combattiva. Il padre di Rigoberta, con il quale essa aveva un rapporto migliore che con la madre, morì nella presa dell’Ambasciata di Spagna, con la quale il popolo indigeno cercava di far conoscere al di fuori del Guatemala la sua situazione. Il padre e la madre di Rigoberta erano gli eletti della comunità. Ciò non significa che prendessero decisioni o che le imponessero al popolo, anzi, ne discutevano tutti insieme ed organizzavano tutti e tutto in modo che esse potessero essere messe in atto.
I bambini di questo popolo sono di una straordinaria maturità. Quando hanno tre anni, sono già capaci di compiere molti dei lavori compiuti dai loro genitori, comprese le fatiche non indifferenti dell’alzarsi ogni giorno alle tre di notte e di lavorare, quando nelle fincas, quando nelle aldeas. All'età di otto anni ragionano già come ventenni della nostra cultura. Fin da piccoli vengono educati al lavoro, alla fatica e preparati ad una vita di sofferenze; sono quindi privi di quel infanzia che a noi sembra così scontata.
L’alimentazione di questo popolo è basata sul mais mescolato alla calce, con il quale fanno le tortillas e i tamal. Qualche volta mangiano fagioli, ma in genere evitano di comprare alimenti al mercato, perché ritengono il mercato dei ladinos, e non è giusto mangiare il cibo dei ladinos.
Il popolo indigeno ha un amore sconfinato per la natura, e prova disgusto nell’uccidere qualunque animale. Fu quindi con immenso dolore che decisero di mettere in pratica le trappole segrete dei loro antenati per uccidere i soldati che li avrebbero sequestrati, torturati e uccisi, seppure fossero consapevoli che non ci fosse altra soluzione. Rigoberta parla anche dell’Azione Cattolica, dice che per loro la Cristianità rappresenta un ulteriore modo di esprimersi, che non la vedono come un’imposizione, perché la interpretano secondo le loro tradizioni. Fa una distinzione infine fra la Chiesa dei ricchi e la Chiesa dei poveri. Della prima dice che erano quelli che non volevano avere problemi e utilizzavano la fede per tenere buoni gli indigeni e tentare di distruggere la loro cultura, la loro unità di popolo. Della seconda dice che furono quelli che si resero conto che il popolo non era sovversivo, non era comunista, semplicemente lottava per riacquistare la propria dignità, le proprie condizioni, non per avere chissà cosa, ma per poter avere il necessario per vivere: da mangiare, da bere, e un posto dove stare e dove coltivare la terra; capito ciò, si allearono dalla loro parte, e furono chiaramente scomunicati dalla Chiesa. Rigoberta Menchù ci apre le porte della cultura indigena, preservandone tuttavia i segreti. Ad esempio, non ci dice qual è il suo nahual. Rigoberta è nubile, e ciò le crea un conflitto interiore. Non vuole avere figli perché ha visto sua madre soffrire quando le hanno torturato il figlio, e perché vuole, in caso la dovessero uccidere, sapere di non lasciare nessuno che soffre come ha sofferto lei quando ha saputo che i suoi genitori erano morti. D’altra parte le dispiace non lasciare il suo seme, il suo contributo al proseguo dell'esistenza del popolo indù.
I conflitti non sono quindi all’interno della comunità, all’interno del popolo indù, non sono loro i barbari; i conflitti derivano dall’esterno, i barbari sono i ladinos, non tutti, certo, come scoprirà Rigoberta vivendo a contatto con alcuni ladinos “buoni”, i barbari sono i soldati, e barbaro è l’organo che comanda l’esercito, barbaro è lo Stato, che tenta di distruggere la dignità del popolo indù.

Il personaggio principale del racconto è, ovviamente, la protagonista; Rigoberta Menchù è un’indigena appartenente all’etnia quichè, è nata e cresciuta nell’aldea di Chifel, del municipio di San Miguel de Uspatàn.
È la sesta figlia di un contadino e vive e lavora con la famiglia fino a quando non diventa la domestica di un ladino, quindi si trasferisce in città. A 20 anni diventa militante del CUC (comitato di unità contadina) e a 23 decide di raccontare la sua storia.
Un altro personaggio della storia, molto importante per Rigoberta, è suo padre Vincente Menchù, eroe contadino morto il 31 gennaio 1980 nel rogo dell’ambasciata di Spagna a città del Guatemala. Rimasto orfano presto, appena sposato, si trasferì con la moglie in un altopiano su una montagna dove fondò un’aldea, diventandone subito il capo (l’eletto). Aveva 6 figli ma manifestava chiare preferenze per Rigoberta, in quanto riteneva che avesse grandi potenzialità per poter gestire l’aldea al suo posto.
Il racconto è quindi ambientato in Guatemala; in un primo momento all’aldea sulla montagna, dove vive con la sua famiglia ed il suo villaggio, poi alle fincas, dove lavora in condizioni disumane per molto tempo, ed in seguito in città, dove lavora come domestica e dove si svolge la ribellione degli indios al governo Guatemalteco.
L’ambientazione temporale è, purtroppo, contemporanea; la durezza e la disumanità delle condizioni di vita di queste popolazioni, indurrebbero a pensare che si tratti di un tempo lontano, quando le leggi sui diritti umani non esistevano e quando c’erano ancora delle persone che si sentivano superiori ad altre, e perciò in pieno diritto di “giocare” in tutti i modi con la loro vita; e invece il racconto è di solo vent’anni fa, e sicuramente, ad oggi, la situazione non è molto mutata…
la storia è un’autobiografia fatta scrivere da una giornalista solo per necessità, in quanto Rigoberta non era in grado di scrivere in spagnolo, visto che da poco aveva imparato a parlarlo.
I temi sono principalmente due: il primo riguarda il maltrattamento della popolazione indios, la situazione di sfruttamento in cui si trovano, la completa assenza di diritti che li preservino e l’indifferenza di uno Stato che si comporta in modo sordo e violento; il secondo riguarda la loro cultura, la dolcezza con cui Rigoberta racconta i segreti della sua gente, un mondo fatto di antiche credenze, di rituali tramandati di padre in figlio, di piccoli gesti simbolici e soprattutto di un immenso amore per la vita e per la natura. Esistono anche temi minori, come il valore della famiglia, del matrimonio ed il tema della religione Cattolica, ma passano in secondo piano rispetto ai due temi principali, sui quali si basa tutta la storia.
Lo scopo del libro è, quindi, quello di far conoscere queste problematiche che a noi sembrano così lontane, così incomprensibili; di condividere con noi la sua storia, la storia del suo popolo, nella speranza che magari qualcuno si decida a fare qualcosa, anche nel suo piccolo, perché tanti piccoli tutti insieme diventano qualcosa di grande!
Il linguaggio di Rigoberta è semplice, e, come dice la stessa Elisabeth Burgos nell’introduzione, sembra di sentirla parlare. Parla la lingua dell’oppressore, lo spagnolo, ma gli e la rivolta contro. Il suo linguaggio è incerto, ma ci si rende conto sin dalla prima pagina della sua efficacia. Rigoberta non fa niente per tentare di appassionare il lettore o coinvolgerlo, tuttavia il suo modo di raccontare ottiene l’effetto opposto ed in modo più diretto, colpisce più nel segno di un linguaggio studiato per colpire nel segno. Ad esempio, quando racconta del fratello morto, il capitolo inizia con la frase: “Fu nel 1979, ricordo, che cadde il mio fratellino.”, senza tenere in sospeso, senza disorientare; chiaro e forte il segnale di Rigoberta si riconosce anche nel suo linguaggio così poco astratto, che non ha tuttavia bisogno di astrazioni per appassionare ed indurre il lettore a continuare la lettura. Una prova, è che l’ho letto in neanche una settimana, in tre, quattro giorni. Questa, per me, è l’ennesima prova di ciò di cui ero convinta da tempo, e cioè che non necessariamente per comunicare grandi messaggi è necessario un grande linguaggio, inteso come linguaggio articolato, elevato, o con uso di figure retoriche. Con questo non voglio certo sminuire altre opere scritte in quella forma, voglio solo dire che “Mi chiamo Rigoberta Menchù” è un perfetto esempio di come si possa comunicare concetti importanti anche con il linguaggio di tutti i giorni, con uno spagnolo “incerto”. Rigoberta parla di certi aspetti collocati in un tempo, dopo di ché, nei capitoli successivi, riprende ciò che aveva già detto in precedenza, solo aggiunge altri particolari. In pratica, torna indietro nel tempo, dividendo la sua storia per argomenti. Una tattica semplice ma incisiva, che colpisce il lettore e non lo annoia, anzi lo induce ad immedesimarsi nella usa vita, riesce a fargli condividere i suoi stati d’animo e le sue avventure e, nel mio caso, lo convince ad interessarsi delle sue lotte e ad approfondire ulteriormente questi argomenti.
Questo libro mi è piaciuto moltissimo: mi ha stupita, tenuta in sospeso, mi ha sconvolta e, in certi casi, mi ha fatta vergognare; mi sono potuta rendere conto di quanto sono futili i problemi dei quali spesso ci lamentiamo, rispetto alle sofferenze sopportate in silenzio e vissute come condizione naturale dai popoli indigeni di cui si narra in questo libro. Un aspetto mi ha anche lasciata alquanto perplessa: fino a prima della lettura di questo libro sono sempre stata all’oscuro di questa realtà; voglio dire, ho sempre saputo della povertà dell’America centro-meridionale, ma mai delle condizioni disumane che soggiogano la popolazione locale. Perciò mi chiedo: come mai nessuno si è mai interessato di informare la gente di questi problemi? Come mai nessuno si è mai impegnato a sufficienza per portare l’attenzione su questi popoli? Come mai tutti se ne fregano? Beh, la risposta è chiara; ci sono persone, persone che contano parecchio, alle quali interessa che questi popoli rimangano nella povertà, che hanno convenienza nello sfruttarli e nell’approfittarsi delle condizioni in cui si adattano a lavorare e, di conseguenza, devono far si che tutto questo rimanga nascosto, che nessuno si interessi e che nessuno faccia niente per aiutarli! Ecco, io credo che questo libro sia servito a lanciare un messaggio: “Sveglia, gente!”, perché penso sia impossibile leggere la storia di Rigoberta Menchù senza rimanerne impressionati, senza pensare a quello che il libro vuole trasmettere, senza ammirare l’impegno e l’amore che questa donna mette nel suo lavoro, nel portare avanti la sua causa, che non ha altro scopo che aiutare il suo popolo che tanto ama.
Per quanto mi riguarda, è come se la protagonista mi avesse presa per mano accompagnandomi alla scoperta della cultura, delle gioie e delle sofferenze del suo popolo, ho condiviso le sue emozioni, la sua rabbia e le sue frustrazioni; ho trovato le sue parole così giuste e così consapevoli nella loro semplicità, che è mi è stato impossibile non rimanerne impressionata.
Posso affermare con sincerità che questo è uno dei libri più interessanti che abbia mai letto, di facile comprensione e ricco di contenuti. Durante la mia vita ho letto molti libri riguardanti storie di popoli o problematiche relative a situazioni di sottomissione, ad esempio ricordo con piacere “l’Islam spiegato ai miei figli” di T.B.Jelloun, “storie di un’India lontana”o ancora “io, ragazza incas”, ma sono tutti libri che, per quanto possano essere interessanti, sono adattati per essere letti da ragazzi, per cui affrontano questo tipo di tematiche in maniera meno diretta. La differenza fra questi libri è data anche dal fatto che forse ho affrontato la lettura di “Mi chiamo Rigoberta Menchù” in maniera più matura, più consapevole, anche perché sono un po’ più cresciuta, quindi ho avuto la possibilità di capirlo e di apprezzarlo maggiormente, nonostante la drammaticità e la durezza di alcuni argomenti trattati.
Adoro leggere libri che raccontano di popoli così diversi dal mio, infatti ricordo tutti i libri sopra citati come se li avessi letti ieri, e di certo continuerò ad approfondire l’argomento, leggendo tutto quello che mi sembra interessante su qualsiasi popolo, antico o contemporaneo, mi capiti tra le mani.
Voglio chiudere citando una frase che mi sembra il riassunto del messaggio che Rigoberta ha voluto dare al mondo: “…verrà un momento in cui le condizioni saranno differenti… senza più dover vedere le nostre terre coperte di sangue e di sudore”.

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