Materie: | Scheda libro |
Categoria: | Generale |
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Data: | 18.12.2000 |
Numero di pagine: | 36 |
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Testo
Giovanni Verga
Mastro-Don Gesualdo
L’AUTORE
Giovanni Carmelo Verga nasce il 31 agosto 1840 a Catania (la data e il luogo saranno fonte di incertezze alimentate in parte dallo stesso Verga), primogenito dei sei figli di Giovanni Battista Verga Catalano e di Caterina di Mauro. Originario di Vizzini, il padre, di tendenze liberali, discende dal ramo cadetto di una famiglia nobile. La madre appartiene invece alla borghesia catanese. Giovanni trascorre l’infanzia in condizioni di agio e di serenità fra Catania e Vizzini, dove la famiglia possiede delle proprietà. Compie i primi anni di studi con Carmelino Greco e Carmelo Platania.
Dal 1851 segue le lezioni di Antonio Abete, letterato e patriota catanese, la cui influenza culturale è assai larga nella Sicilia di questi anni: è da lui che il Verga riceve i primi incitamenti a scrivere. Alla sua scuola legge i classici, ma anche le opere di scrittori siciliani, come il mediocrissimo Domenico Castorina, di cui l’Abate è un deciso fautore. E’ alunno del canonico Mario Torrisi fra il 1853 e il 1857, anno in cui termina il suo primo romanzo, “Amore e Patria”, intrapreso a soli quindici anni sotto l’influenza dell’Abate, acceso repubblicano, e delle letture del Castorina: lo scenario è quello della Rivoluzione Americana. Su consiglio del canonico Torrisi non pubblica il lavoro.
Lasciati gli studi di legge per entrare, nel 1861, nella Guardia Nazionale, manifesta fin da giovane un grande interesse per la letteratura, pubblicando a soli 22 anni il romanzo storico "I carbonari della montagna". Già in quest'opera è visibile l'ardore patriottico dell'autore, e il suo impegno politico per l'annessione della Sicilia al Regno d'Italia; questi si fanno più evidenti con il secondo romanzo, "Sulle lagune" (1863) e con la fondazione del giornale "Roma degli Italiani". Nel 1865 si trasferisce a Firenze, pubblicando i romanzi "Una peccatrice" (1866) e "Storia di una capinera" (1871), quest'ultimo di grande successo. Si sposta poi a Milano, dove entra in contatto con scrittori del calibro di Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Federico De Roberto; pubblica i romanzi "Eva" e "Tigre reale" (1874), "Eros" (1875) e la raccolta "Primavera e altri racconti"(1876). In una lettera del 1878 espone il suo progetto di un ciclo di romanzi, il cui comune denominatore sarebbe dovuto essere la teoria evoluzionistica darwiniana e il cui modello i romanzi di Zola, dal titolo "I vinti". Nel 1880 esce la raccolta di novelle "Vita dei campi"; l'anno successivo il primo romanzo del ciclo dei vinti e il suo capolavoro, "I Malavoglia"; nel 1882 il romanzo "Il marito di Elena"; nel 1883 le raccolte di novelle "Per le vie" e "Novelle rusticane". Nel 1884 ha la soddisfazione di veder rappresentata in teatro una sua novella contenuta in "Vita dei campi", la "Cavalleria rusticana", che Pietro Mascagni tramuterà in opera lirica nel 1890. Nel 1888 esce il secondo romanzo del ciclo dei vinti, il "Mastro don Gesualdo". Raggiunta l'agiatezza economica e la tranquillità sentimentale, dopo alcune relazioni anche adulterine, nel 1894 si ritira a Catania e pubblica ancora una raccolta di novelle, "Don Candeloro"; nel 1903 esce il dramma "Dal tuo al mio", nel 1911 inizia il terzo romanzo del ciclo, "La duchessa di Leyra", che però rimane fermo al primo capitolo. Nominato senatore nel 1920, muore nel 1922.
TRAMA DELL’OPERA
Pubblicato in una prima redazione, dal luglio al dicembre del 1888, nella “Nuova Antologia” e
apparso in volume nel 1889, dopo un vasto rifacimento, questo romanzo, secondo (dopo “I
Malavoglia”) del ciclo dei “Vinti”, doveva, nel programma del Verga, rappresentare il momento in cui,
soddisfatti i bisogni materiali, la ricerca del meglio diviene “avidità di ricchezza”. In realtà, così
come essa si configura nelle vicende del romanzo, nella dura vita e nel triste destino del
personaggio che ne domina l’azione e l’atmosfera, questa “avidità” va intesa in un senso più vasto e
anche più nobile di quel che l’espressione lasci intendere nel suo significato letterale: e cioè come
ricerca di un benessere economico che, conseguito attraverso fatiche, pene, rischi, sacrifici, diviene
desiderio di elevazione sociale, conquista materiale e morale, tutela della ricchezza raggiunta con
tanto sudore e patimento. Mastro don Gesualdo, attorno al quale si muove tutto il piccolo mondo
di un centro siciliano (Vizzini) non è, in sostanza, un ingordo, un accaparratore dl beni, chiuso al
senso della socialità. Al contrario, in lui opera la religione del lavoro: del lavoro che è continuità di
volere, di sacrificio, ma nello stesso tempo legge di intelligenza e di prudenza, di saggezza e di
difesa. Quando l’azione del romanzo comincia, in una famosa notte di trambusto che riunisce
attorno alle fiamme di un incendio i personaggi principali della vicenda e li caratterizza già nei loro
tratti essenziali, Gesualdo Motta non è più il manovale che aveva iniziato la sua fortuna con le
mansioni più umili e più pesanti. E’ già proprietario di case e di terre; attivo imprenditore di opere
pubbliche. Il suo processo di imborghesizzazione non è una frattura violenta e tanto meno (come lo
accusa Il padre) un tradimento verso le sue origini e le sue condizioni popolane. Egli resta, infatti,
un lavoratore, un operaio tra i suoi operai; sempre in moto tutto il giorno, a dorso di mulo, tra le
sue proprietà e le sue imprese; sempre in allarrne contro gli uomini e le cose per difendere la “roba”;
instancabile, sempre, sotto la pioggia e i solleoni, a incitare, a dar l’esempio, a evitar guai. Ma,
com’è naturale, egli ha coscienza della sua forza e della sua personalità; sa di rappresentare un
valore.
Quel “don” ormai definitivamente premesso al suo nome e col quale ormai la società di civili e di
“baroni” lo riconosce dei propri, in omaggio alla sua ricchezza e alla sua potenza, è in fondo la
sanzione di tale valore, anche se egli sa misurarne il metro e i sottinttesi ipocriti. E’ la sua stessa
ricchezza che insensibilmente lo costringe a uscire, non già dalla mentalità conservatrice e dalla
eticltà della propria classe, ma dalla immobilità delle sue consuetudini e dai suoi atteggiamentI di
vita; perché la ricchezza crea non soltanto desideri e ambizioni, ma anche necessità sociali. Il
giorno in cui Mastro don Gesualdo, amareggiato dalle angherie del suoi consanguinei, padre,
fratello, sorella, cognato, nipoti, che gli succhiano Il sangue, campano alle sue spalle e gli avvelenano
perfino il boccone della cena frugale, cede ai ragionamenti e alle prospettive di accorti mezzani e
sposa Bianca Trao, il triste e quasi evanescente fiore di una nobile famiglia in rovina, ancora
sostenuta dai vincoli della solidarietà di casta con la “elite” del luogo. Agisce indubbiamente in lui il
compiacimento del proletario arricchito che può offrire agi e benessere materiale a una
aristocratica decaduta e povera, la soddlsfazione dell’uomo di umili origini di potersi concedere
finalmente un oggetto di lusso, la speranza dell’uomo burbero, ma istintivamente buono e generoso,
di godere nella propria casa li conforto dl un affetto sicuro e di sentimenti delicati; ma In realtà
agisce altrettanto e forse più profondamente il senso dl questa necessità sociale, che dà alla
ricchezza una funzione. Purtroppo, nel momento stesso in cui, attraverso il matrlmonio che è al
centro della sua vita di lottatore, egli crede di celebrare urna vittoria sulla fortuna, è la fortuna che
gli gioca le tragica beffa. Entrato per un ingresso secondario nel ceto aristocratico, questo, non
potendo sfruttarlo, gli si coalizza contro con acredine maggiore. Non alleanze, dunque, non
solidarietà sociale; ma ancora ostilità e lotte a rancori. Non amore, non attimi di piacere, come
come quelli datigli dalla silenziosa e devota serva Diodata, ma neppure serenità con una moglie che
è andata al matrimonio come a un sacrificio, per necessità, per riparare a un fallo commesso con
un “baronetto” cugino e che languisce come una vittima rassegnata al proprio destino, triste,
desolata, ubbidiente, ma di una ubbidienza esangue a passiva, ammaIata nell’anima e nel corpo,
condannata alla disperazione, al deperimento, alle morte di consunzione.
Non il figlio, sognato erede del patrimonio e continuatore del nome e della creazione paterna; ma una figlia, Isabella, sola depositaria ormai delle ambizioni del povero deluso, che a un certo momento, per non farla vergognare con le aristocratiche compagne, le sacrifica fin il proprio nome, ma destinata anch’ella a esser fonte di nuovi dolori, anch’ella, come la madre, condannata più tardi a scontare un peccato di passione, con una vita grigia di lustro apparente e di interiore desolazione; e, quel che è peggio, anch’ella, più Trao che Motta, nemica del padre, per incompatibilità di sangue e di istinto. Un “cattivo affare”, insomma; di tutti il peggiore, perchè irreparabile. Quella che sino allora era stata per Mastro don Gesuaido l’ostilità naturale degli uomini, ostilità nella quale egli aveva potuto cimentare e far trionfare la sua forza e la sua tenacia, diviene ormai avversità delle cose, incoercibile inimicizia delle leggi che regolano il sopravvenire e lo svolgersi degli eventi. La sua febbre di azione e di costruzione si muta in ansia e in febbre di difesa: difesa di quella “roba” che è stata il poema della sua vita, la sua creazione, il suo mondo morale, il solo possesso del suo cuore e del suo spirito. Costretto a dare un po’ a tutti: a parenti legittimi e a figli illegittimi, a ricattatori, al genero duca sopravvenuto a coprire dignitosamente del proprio blasone l’avventura di Isabella; il lottatore cede a poco a poco, sia pure coi denti stretti, alla inflessibile fatalità che lo piega. Roso dai dispiaceri e da un cancro, che è come la sintesi fisiologica di tutto il fiele che ha dovuto inghiottire, Mastro don Gesualdo chiude nella desolazione una vita trascorsa nella dura macerazione della fatica quotidiana. Abbandonato in una stanza appartata del palazzo della figlia duchessa, nella grande città, lontano dalla sua casa e dalla sua terra, dalle belle campagne, fiorenti di messi, dalle sudate tenute, fonti di tanta ricchezza. Sino all’ultimo istante ha implorato la figlia perché difenda la “roba”, perché si opponga alla alienazione delle proprietà; ma poi ha capito l’inutilità di ogni parola e di ogni speranza. E finisce così, solo nella morte, come solo era stato nella vita. Forse, nella desolata miseria di questa morte, un unico ricordo di bontà e di tenerezza devota, capace di rendergli meno vivo lo strazio: quello di Diodata, la serva fedele, la madre dei suoi figli illegittimi sacrificata alla “aristocrazia”, la sola disinteressata, venuta a dargli il “buon viaggio” al momento della sua non voluta partenza per Palermo. Sotto la pioggia, a capo scoperto, umile come sempre e semplice, in atto dl accompagnare le scarse parole con i cenni del capo.
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PERSONAGGI PRINCIPALI
Mastro-Don Gesualdo
Se mastro-don Gesualdo è il protagonista del romanzo omonimo, le quattro parti in cui si articola la narrazione descrivono le diverse fasi attraverso le quali si svolge l’intera e complessa parabola della sua esistenza. La prima parte infatti definisce le doti e le aspirazioni di mastro-don Gesualdo, l’ambiente entro cui egli si muove; la seconda ne esamina il difficile rapporto con Bianca, la moglie di origini aristocratiche (e dunque il fallimento del matrimonio come stratagemma per facilitare i suoi affari con i ceti benestanti del paese); la terza il non meno problematico rapporto con la figlia Isabella; la quarta infine il declino e l’inesorabile sconfitta segnata dalla morte.
Fin dalle battute iniziali del romanzo, il movente che sorregge l’azione di mastro-don Gesualdo è l’accumulo frenetico della “roba”. Nell’arco di una giornata Gesualdo compie una ricognizione totale dei suoi cantieri e delle sue proprietà: dal frantoio di Giolio in costruzione, ai lavori della strada, fino ai poderi della Canziria, dove finalmente l’occhio trova riposo e serenità nella prospera solidità della “roba”. Per accrescere la sua ricchezza Gesualdo controlla tutto ed esige una devozione al lavoro quasi religiosa, come la sua. Egli è infatti personaggio che non si ritrae di fronte alla fatica e alla sofferenza. A Giolio trova gli operai oziosi per colpa della pioggia e dunque li rimprovera, ma poi, pur di far procedere i lavori e di non accumulare ritardi, non esita a sottoporsi personalmente allo sforzo fisico e al rischio personale per sollevare la pesante macina del mulino e collocarla nella sua posizione. Gesualdo è ben consapevole del legame inscindibile fra ricchezza e rischio: come si dirà nel finale del romanzo, per fare “la pappa” egli non si è certo risparmiato; le sue mani di lavoratore ne sono la testimonianza più palese.
Gesualdo è una sorta di eroe: il suo riposo alla Canziria al termine della giornata è il riposo del guerriero che finalmente può contemplare il meritato frutto di una dura battaglia. Nondimeno già il capitolo quarto sottolinea la problematicità e la fragilità della “roba”, la lotta continua per difenderla dalle aggressioni del caso e soprattutto dei dissipatori: insomma da quella sorta di “entropia” che sembra connaturata al concetto stesso di “roba”.
Sotto questo profilo, la famiglia è uno dei pricipali ostacoli sul cammino del protagonista: il cognato Burgio, il fratello Santo, suo padre stesso, mastro Nunzio sembrano solo preoccupati di mandare in rovina ciò che Gesualdo costruisce. Con la famiglia si innesca dunque una conflittualità che attraversa l’intero romanzo: dopo la morte del padre, Speranza intenterà una guerra spietata, subdola, per cercare di impadronirsi della “roba”. Ma è nel capitolo quinto della prima parte che i termini del conflitto sono enunciati in tutta evidenza.
Il crollo del ponte in costruzione a Fiumegrande è effetto del caso (le piogge torrenziali), ma anche dell’imperizia di mastro Nunzio che ha tolto i ponteggi anzitempo. Mastro Nunzio infatti vorrebbe imporsi ancora come pater familias autoritario, pur essendo incapace di amministrare saggiamente il patrimonio. Gesualdo, per converso, si sente espropriato di una ricchezza che è frutto esclusivo della sua fatica. La lacerazione insanabile: da una parte i valori tradizionali, dall’altra la fame dirompente di “roba” che conduce ad infrangere ogni valore troppo vincolante.
Come si comprende meglio anche a partire dall’episodio dell’asta, Gesualdo è sempre più escluso dal suo ambiente originario (è ancora il conflitto con il padre a dimostrarlo). Ma d’altra parte la sua intraprendenza lo pone in un duro contrasto con le classi agiate e aristocratiche dei proprietari terrieri. Classi nei confronti delle quali il possesso della “roba” non è garanzia di sicuro successo, tantomeno di integrazione sociale. Di fronte al privilegio del sangue sul quale si fonda la consorteria aristocratica Gesualdo rimane sempre un ibrido, un “mastro-don”. A ben vedere una simile mancanza di identità sociale, saldata all’ossessione della ricchezza, è il punto debole del protagonista, ciò che lo renderà facile preda dei complessi e convergenti disegni della Sganci e del canonico Lupi per dare un marito non troppo pieno di pretese a Bianca, rimasta incinta nella relazione con don Ninì Rubiera. Sapientemente allettato dal canonico Lupi, suo alleato negli affari, Gesualdo non sa rifiutare una proposta che, oltre ad essere la sanzione del suo nuovo status, sembra aprirgli la strada ad un più proficuo rapporto con i benestanti del paese. Ma quanto un calcolo del genere sia illusorio risulta subito evidente nel disprezzo che continua a circondare Gesualdo durante il ricevimento in casa Sganci, come nella totale assenza degli invitati il giorno della cerimonia delle nozze.
All’inizio della seconda parte Gesualdo, in nome del suo miraggio economico e sociale, ha compiuto delle scelte che sono comunque drammatiche. Nel capitolo quarto della prima parte ha infatti rinunciato alla sola donna che lo ami veramente e che gli ha dato due figli, Diodata in nome della “roba”, in nome dei modelli etici e sociali imposti dalle classi dominanti, ha ripudiato l’unica traccia di un’autenticità di affetti e di sentimenti che circoli nell’universo ipocrita e mistificatore del Mastro-don Gesualdo. In cambio ha ottenuto una moglie che non lo ama e che per tutta la vita gli celerà il segreto sulla vera paternità della figlia e non è riuscito ad acquistare il favore dei grandi latifondisti: la sua sconfitta, si può dire, comincia da qui.
La sconfitta dei progetti di mastro-don Gesualdo è evidente nel momento in cui si apre la gara d’asta per l’appalto delle terre comunali ed egli si trova di fronte l’ostilità coalizzata degli Zacco, dei Rubiera, dei Margarone, ecc., persino quella di suo padre mastro Nunzio. E’ comunque vero che questa seconda parte non si configura completamente negativa per il protagonista. Attraverso la riunione segreta della Carboneria, egli getta comunque le basi per un’intesa economica col barone Zacco, il suo principale avversario, che rimarrà operante per circa un trentennio (dal ‘20 al ‘48). Non solo: sfruttando abilmente le avventure sentimentali e le spese folli di don Ninì, invaghito dell’ambigua cantante Aglae, riesce a porre una seria ipoteca, attraverso un prestito molto oneroso, sul matrimonio dei Rubiera. Successi ai quali dovremmo aggiungere anche la nascita di Isabella, erede “legittima”, finalmente, di una fortuna accumulata in tanti anni di fatiche e il suo battesimo, a cui partecipano tutti i parenti nobili.
Gesualdo sembra al culmine del suo successo: in realtà è soltanto una pia illusione. Isabella, al di là della verità sul nome di suo padre, si rivela immediatamente una fonte di nuove conflittualità e una minaccia alla “roba”.
In primo luogo la presenza di Isabella acuisce il contrasto fra Gesualdo e Bianca. Gesualdo per dare un’educazione alla figlia vuole mandarla in collegio: Bianca, sia pure senza risultato, si oppone con ogni mezzo. E ancora: Gesualdo tenta in ogni modo di impedire l’amore tra Isabella e Corrado La Gurna, ma anche in questo caso si trova di fronte una Bianca che difende la figlia con una violenza quasi ferma.
La delusione e lo scacco di Gesualdo sono dunque cocenti. Isabella, per essere accettata dalle compagne in collegio, non si fa chiamare Motta Trao, ma solo Trao: l’esile traccia della paternità di mastro-don Gesualdo se ne va dunque in fumo. Nè ciò soltanto è cagione di dramma, Gesualdo ha dei grandi progetti per la figlia: erede di una immensa fortuna, ella dovrà contrarre un matrimonio che sia degno della sua nuova condizione. In questo Gesualdo proietta quel desiderio di avanzamento sociale che nella sua esistenza si è realizzato solo imperfettamente. Nondimeno anche questa prospettiva nella terza parte entra rapidamente in crisi.
Isabella si lascia circuire da Corrado La Gurna, grazie anche all’abile mediazione di donna Sarina Cirmena e cerca di ribellarsi in ogni maniera alla volontà del padre pur di sposarlo, finendo persino per rimanerne incinta. Gesualdo, stretto dal precipitare della situazione, è costretto ad accettare il matrimonio con il duca di Leyra, disposto a tacitare qualsiasi scandalo, ma in cambio di una dote esosa: la “roba”, le terre accumulate con enorme sacrificio personale nel corso degli anni, cominciano da questo momento ad andare disperse. L’avidità del duca sarà senza fine: pur di mantenere in piedi il matrimonio Gesualdo dovrà sborsare cifre non indifferenti. Inizia così quel triste declino che avrà il suo epilogo nella quarta parte. Nella quarta parte i segni della fine incipiente si accumulano in modo vertiginoso: il dissidio fra Isabella e il marito, la malattia e poi la morte di Bianca, i moti del ‘48 che minacciano direttamente l’incolumità di Gesualdo, fonte di tutti i mali. Di fronte ad una simile congiura mastro-don Gesualdo appare sempre più debole, incapace di reagire: tanto che concretamente la debolezza prende corpo nel tumore allo stomaco che lo conduce in breve giro di tempo alla tomba. Il Personaggio coraggioso e sprezzante che abbiamo conosciuto nella prima parte del romanzo è definitivamente scomparso. AI suo posto non c’è che una pallida figura, interamente assorbita dall’avanzare della malattia, ormai incapace di controllare il corso dei suoi affari. Gesualdo, dopo la morte della moglie, è ormai completamente solo; anche Diodata, che pure nel momento del bisogno non ha esitato a riavvicinarsi a lui, è stata allontanata. Intorno al protagonista ruotano soltanto le figure avide ed interessate del barone Zacco, che vuole dargli in moglie una figlia e della sorella Speranza.
Gesualdo non ha più la forza di reagire a nulla, è preda dei medici che si alternano infausti al suo capezzale. La sua unica speranza è il contatto diretto con la terra, con la “roba”: vuole essere condotto al podere di Mangalavite. Ma anche questo tentativo si rivela inutile: il viaggio è una sofferenza senza fine. Gesualdo avverte ormai nettamente l’estraneità di tutte le cose che lo circondano; il vincolo che legava il padrone alle sue proprietà appare definitivamente spezzato. Come Mazzarò ne La roba, Gesualdo tenta una inutile ribellione al suo destino di morte: in un raptus di follia vorrebbe portare con sé, nella morte, anche quelle ricchezze che sono state l’unica ragione della sua vita. Tutto si rivela dunque vano, ogni risorsa cade e il tramonto di Gesualdo non potrebbe essere più straziante.
Strappato al paese e chiuso nel palazzo dei Leyra egli attende la morte in una spaventosa solitudine. Il genero lo assedia con le continue richieste di una delega per l’amministrazione delle sue proprietà. La figlia non gli comunica mai i suoi veri sentimenti, è completamente rinchiusa in se stessa.
Ormai prossimo alla morte, Gesualdo sembra avvertire con piena lucidità la vastità della sua sconfitta. Una sconfitta in cui il dubbio sulla vera paternità di Isabella, tenuto lontano per anni, in questi momenti irrompe con una forza devastante. Gesualdo non conoscerà mai la verità (con Isabella non riuscirà a parlarne), ma, come Bianca, porterà con sé nella tomba, i suoi segreti e i suoi dubbi: testimonianza estrema della solitudine e dell’inganno in cui egli ha trascorso l’intera sua vita. Gesualdo, se mai ne occorreva la conferma, è stato tradito da tutti e in tutto.
Bianca
La vicenda di Bianca, nelle sue strutture essenziali, non si svolge dissimile da quella di molti altri paradigmi femminili verghiani, verificabili soprattutto nella ricca trama delle novelle. In non pochi pezzi di Per le vie si assiste infatti alla storia di una giovane donna sedotta e poi abbandonata dall’amante: premessa questa ad un triste declino esaminato attraverso la lente spietata dello scrittore naturalista. Nel Mastro-don Gesua/do questo esile archetipo, che tuttavia resiste, si complica in una maniera tutt’affatto peculiare.
Discendente da un’antica stirpe aristocratica ormai in miseria, Bianca vive in una sorta di condizione carceraria entro le mura cadenti del palazzo avito, insieme ai due fratelli, Diego e Ferdinando, isolati in una dimensione in cui è difficile distinguere cieco orgoglio e follia, minacciati dall’incombere della malattia, la tisi. Entro simili coordinate per Bianca la relazione con il cugino Ninì Rubiera rappresenta dunque l’amore, l’evasione dall’angusto universo dei Trao. Evasione che però ha una durata assai effimera e che comporta un amarissimo disinganno. La sera dell’incendio don Diego scopre infatti Ninì nascosto nella camera della sorella: da questo momento comincia il duro calvario di Bianca. Dapprima, alla festa in casa Sganci, ella si affanna per parlare con Ninì: è un vero fallimento. Di fronte alla sofferenza autentica della ragazza, Ninì non sa mettere in mostra che la sua facciata ipocrita e perbenista, preoccupato soltanto di non dare troppo scandalo fra i parenti.
Il destino di Bianca è comunque già deciso, nell’attimo in cui la baronessa Rubiera, madre di Ninì, ha respinto in nome della “roba” la proposta avanzata da don Diego delle nozze riparatrici e la zia Sganci, con l’ausilio del canonico Lupi, ha avviato le complesse manovre per combinare il matrimonio con mastro-don Gesualdo. Ad una simile pressione, cui del resto contribuisce anche l’entrata in campo dello stesso Gesualdo, ella non può che cedere, oltretutto consapevole di essere in attesa di un figlio. Non che nella sua scelta traspaia una scelta utilitaristica: c’è solo l’obbedienza ad una necessità che non lascia alternative.
Con il matrimonio Bianca viene a trovarsi in una situazione psicologicamente contraddittoria e paradossale. Ripudiata dai suoi famigliari, subisce la vicinanza di un marito che non ama. Con il fratello Diego ella riesce a ristabilire un legame solo all’approssimarsi della morte di costui. Con l’altro fratello, Ferdinando, cerca di essere continuamente prodiga di aiuti, ma senza mai superarne la diffidenza.
Più complesso, ovviamente, il rapporto con il marito. Fin dalla prima notte di nozze è chiara la repulsione di Bianca verso Gesualdo: ella chiaramente è ancora innamorata di Ninì Rubiera. Ella è piena di premure per il coniuge, col tempo si affeziona a lui che la ricambia, ma gli rimane fondamentalmente una estranea. Sul piano dei sentimenti e degli affetti Bianca non può comunicare con Gesualdo: il suo rapporto è solo fittizio, ipocrita. Bianca è nella più completa solitudine. E si comprende bene quale inconfessabile tormento psicologico debba rappresentare per lei il segreto sulla vera paternità della figlia, nascosto per tutta l’esistenza, fino alla morte. Bianca vive dunque una perenne lacerazione interiore, una assoluta impossibilità di raggiungere un equilibrio con se stessa. In verità ella rinuncia a vivere per se stessa, il suo unico scopo diviene la figlia Isabella e il legame fortissimo che la unisce a lei. Quando Gesualdo decide di mandare la figlia in collegio per farle avere una buona educazione ella, già segnata dalla presenza devastante della tisi, cerca di opporsi in ogni modo ad una simile prospettiva. Chiede persino aiuto ai parenti, ma infine è costretta a cedere. Per lei è come perdere la ragione della sua esistenza: da questo momento è preda sempre più indifesa della malattia.
Rispetto a queste coordinate già piuttosto complesse, la figura di Bianca ha modo di precisarsi ulteriormente nelle pagine del romanzo.
L’episodio del soggiorno a Mangalavite durante il colera è a dir poco sintomatico. Di fronte all’amore che sembra sconvolgere in una profonda passione l’esistenza di Isabella e quella di Corradino La Gurna, ella non compie nessun gesto; anzi, davanti alle sfuriate irose deI marito e alle minacce, ella si rivolta in una accanita difesa della figlia: come se in lei difendesse la libertà,
il diritto all’amore che la vita le ha irreparabilmente negato. Una difesa questa che non ha ancora una volta successo: Bianca esce di nuovo sconfitta, perché, attraverso un complesso maneggio, saranno di nuovo le convenienze e la necessità a sanzionare il destino coniugale di Isabella. Ma la sconfitta di Bianca è ancor più totale e straziante, è la perdita definitiva della figlia, la sua assenza proprio nell’attimo irrevocabile della morte.
Sentendo approssimarsi la fine, Bianca vive nell’attesa spasmodica dell’arrivo di Isabella, che invece non arriva. Tradita anche in questo affetto, ella sembra attaccarsi disperatamente a Gesualdo, l’unica presenza che resti accanto a lei. Diviene persino gelosa di Diodata, ne rifiuta l’aiuto, diviene sospettosa nei confronti degli Zacco che cercano di introdurre in casa del marito la figlia Lavinia. E tuttavia anche in questo estremo momento fra Bianca e il marito permane l’ostacolo di quel segreto inconfessabile che resta l’emblema sconsolato di una solitudine senza rimedio.
Isabella
La vicenda di Isabella non si sviluppa in modo molto dissimile da quella di sua madre Bianca, ed anzi converte anche nel romanzo il meccanismo iterativo che nella trama di non poche novelle sembra riprodurre un universo chiuso e immobile, nel quale si recita una commedia quotidiana sempre uguale a se stessa.
Anche Isabella, come la madre, vive in una perenne ambiguità: nel corso del Mastro-dan Gesualdo non sapremo mai se ella è a conoscenza della sua vera origine. Nel capitolo conclusivo infatti, di fronte allo sguardo interrogativo del padre che vorrebbe finalmente chiarire un dubbio così tormentoso, ella si ritrae, si richiude in se stessa come era solita fare sua madre: ancora l’incomunicabilità dunque, la solitudine, ma anche l’insincerità e la falsità sottese ad ogni legame.
Ad ogni modo, al di là di queste considerazioni generali, Isabella assolve un primo ruolo nel riproporre amplificato il disagio sociale, il senso di inappartenenza ad ogni classe, in cui vivono i suoi genitori. Ma se Gesualdo appare condannato, anche nell’appellativo di “mastro-don”, ad una perenne dissociazione, la figlia è alla disperata ricerca di una identità univoca.
Gli anni trascorsi in collegio, prima al paese e poi a Palermo, sotto questo profilo sono emblematici. Isabella per essere accettata dalle altre compagne aristocratiche è costretta a ridurre il suo doppio cognome di Motta-Trao al solo Trao, l’unico elemento che le consenta di stare sullo stesso piano delle altre fanciulle nobili. Un fatto questo che sembrerebbe essere solo il riflesso delle sclerotiche convenzioni sociali del Mastro-dan Gesua/do, ma che in realtà coinvolge implicazioni più profonde. Optando per il cognome materno ella infatti finisce per incarnarne, almeno in parte, lo stesso destino. L’episodio del colera e quello successivo del matrimonio ne sono la limpida riprova. Nel momento in cui il colera comincia a diffondersi, Gesualdo fa uscire Isabella dal collegi e la riporta al paese. La ragazza è vissuta per anni vagheggiando le sue origini aristocratiche, creando un alone fantastico intorno ai suoi pochi ricordi d’infanzia: la realtà effettiva delle cose agirà invece come il mezzo di uno spaventoso disincanto. Come si recherà a far visita allo zio don Ferdinando scoprirà che il palazzo dei Trao non è che un edificio in rovina, lo zio gli si rivelerà come un demente; nè meno crudo sarà l’incontro con il “nonno” paterno Nunzio e con la “zia” Speranza nella povera casa dei Motta. Per non parlare della vista dei polverosi poderi di Mangalavite, che Isabella aveva sempre immaginato come i palermitani Giardini della Favorita.
Di fronte ad uno scenario così grigio e triste, l’incontro con il giovane Corradino La Gurna a Mangalavite rappresenta di nuovo la possibilità di evasione, di sogno. L’Isabella innamorata di Corradino sembra dunque mimare alla perfezione, quasi come una costante genetica, il trascorso amore di Bianca per don Ninì. Nè l’analogia si ferma a questo punto. Come per la madre, si tratta di un amore senza prospettiva: l’ostacolo è ancora la “roba”. Isabella è infatti ricchissima mentre Corradino è uno spiantato. Anche per la ragazza comincia dunque un terribile calvario. Il padre la riconduce in paese e la chiude di nuovo in collegio: di qui ella tenta un’ultima strada, la fuga con Corradino. Nondimeno anche questo è un vicolo cieco, perché anche Gesualdo, come aveva fatto la baronessa Rubiera, rifiuta l’ipotesi del matrimonio riparatore. Isabella rientra in collegio e cominciano le manovre per combinare in fretta un matrimonio vantaggioso (anche la ragazza è infatti incinta).
Inizia così un pressante assedio intorno alla giovane per convincerla che, mentre il legame con Corradino sarebbe pura follia (Gesualdo non darebbe niente per la dote), la proposta di nozze con il duca di Leyra le può aprire insperate prospettive di lusso e di vita mondana a Palermo. Artefice di questa lenta opera di persuasione (che in tutto ricorda l’episodio della monaca di Monza nei Promessi sposi è lo zio marchese Limòli. Isabella, dopo lunghe esitazioni, pianti, disperate ribellioni, finisce per sottomettersi alla dura necessità che non lascia alternative. Ma si condanna così ad un legame ancora peggiore di quello contratto dalla madre, giacché il duca la sposa solo per le ricchezze di cui è la sicura erede.
Dopo il matrimonio Isabella non è che una infelice, in perenne lite con il marito, in definitiva straziata da una solitudine senza rimedio. Sofferente a ammalata anch’essa, secondo le notizie che invia suo marito, apprende della morte della madre solo dopo che tutto si è ormai concluso.
Gesualdo, negli ultimi tempi della sua esistenza ospite della villa dei Leyra, coglierà perfettamente sotto le apparenze di armonia che regolano i rapporti fra il duca e la moglie, la profonda insoddisfazione della figlia, il suo dolore inesprimibile. Egli cercherà di parlare con lei, ma anche Isabella, al di là delle affettuose lacrime per il padre, non può veramente comunicare con lui: anche lei è in definitiva una Trao e come la madre, forse, serba un suo inconfessabile segreto.
Diodata
Affine a certi protagonisti delle novelle di Vita dei campi, Diodata vive in una sorta di stadio presociale, di pura naturalità animale, in cui il meccanismo di mistificazione e ipocrisia, la stessa ossessione per la “roba”, che dominano le altre figure del Mastro-don Gesualdo, non sono ancora operanti. Nell’universo del romanzo ella è dunque un individuo eccezionale e anomalo, estranea com’è ad ogni calcolo utilitaristico.
Non che il personaggio abbia una presenza molto distesa nelle pagine dell’opera: ma certo negli episodi in cui compare, Diodata incarna con forza straordinaria un universo di valori e di purezza cui mastro-don Gesualdo ogni volta rinuncia in nome del suo sogno della “roba”.
Trovatella, come già il suo nome s’incarica di sottolineare, Diodata è raccolta e allevata da mastro-don Gesualdo. Con lui ella finisce per stabilire un solido rapporto sentimentale dal quale nasceranno anche due figli. Un rapporto però del tutto squilibrato. Se infatti per Diodata c’è una sorta di devozione, di fede cieca per l’amato, nel caso di Gesualdo il discorso suona molto più problematico. E’ sintomatico che fra i due, nonostante la presenza dei figli, non si sia stabilito un legame matrimoniale e che gli stessi figli siano stati affidati ad un onfanotrofio. Per Gesualdo, insomma, Diodata non è più che un’oasi di ristoro, esente da qualsiasi complicazione, nella quale trovare una sosta alle battaglie ingaggiate per il predominio nell’esistenza quotidiana. Un’oasi che ha comunque uno spazio marginale, confinata com’è nel podere di Mangalavite, e che può anche essere condannata al sacrificio, nel caso prevalga il supremo interesse della “roba”.
La prima comparsa di Diodata è sulla fine del capitolo quarto della prima parte. Gesualdo ha già deciso che si sposenà con Bianca, ne parla come se fosse un fatto totalmente indifferente per Diodata, come forse lo è anche per lui. Di fronte ad una simile scelta la donna non tenta nemmeno di ribellarsi, la sua sottomissione a Gesualdo è totale, indiscutibile: Gesualdo è il padrone, spetta dunque a lui decidere. E se il padrone pensa di darla in sposa (per non avere scrupoli di coscienza) a Brasi Camauno o a Nanni l’Orbo, ella è ben contenta; come è contenta che il padrone le prometta di provvedere anche ai suoi figli illegittimi. Nondimeno il pianto sgorga irrefrenabile agli occhi di Diodata. Ella cerca di costringere il suo legame con Gesualdo sul piano di un freddo rapporto di lavoro, ma non ne è capace, tanta è la forza dei sentimenti.
Diodata in questo modo si rivela l’unico personaggio capace di vivere i propri sentimenti senza ipocrisie; l’unico personaggio che almeno non accetta compromessi. Il giorno del matrimonio di Gesualdo è ancora il suo pianto silenzioso a rinnovare la totale, disperata, offerta di sé al padrone e amante: ma questi la allontana timoroso. Diodata sposa Nanni l’Orbo, ma solo per devozione completa alla volontà di Gesualdo, non perché la sostanza del suo amore sia mutata. Anzi, per tutto il romanzo Diodata rimane la testimonianza, muta e coraggiosa, di quei sentimenti autentici che Gesualdo ha deciso di rifiutare. Testimonianza coraggiosa perché ella non si impaurisce mai di fronte allo scandalo pubblico che solleva la sua presenza o al disprezzo.
Nella sua irragionevole e quasi animale fedeltà Diodata è pronta a sopportare ogni offesa, persino al sacrificio di sé, pur di aiutare l’uomo che continua ad amare. per questo che ella accetta di accudire Bianca, nonostante il rigetto, negli ultimi tempi della sua esistenza. E ancora, dopo averlo difeso persino dai suoi figli la sera del tumulto, è la sola persona che si prenda cura di Gesualdo nell’avanzare inesorabile della malattia.
In ogni caso Diodata non agisce per calcolo o per interesse. Ella obbedisce ad un istinto tanto profondo quanto primordiale che la spinge quasi al sacrificio di se stessa. E’ una figura che dunque ha ben altra tempra, ad esempio, rispetto a Speranza e a donna Lavinia Zacco, che pure saranno al servizio di Gesualdo ormai gravemente ammalato, ma solo in nome della “roba”. E’ indubbiamente altra tempra rispetto a Bianca che riesce a celare per tutta la sua esistenza il segreto di Isabella, succube della paura dello scandalo, e dunque ipocrita. Fedele a se stessa fino al termine, Diodata è l’unica persona (insieme a mastro Nardo) che sotto la pioggia si presenti, timida come sempre, a prendere congedo da Gesualdo allorché lascia per l’ultima volta il paese. A ben vedere anche Diodata, come gli altri, è una sconfitta, sia pure di un genere diverso. In lei la sconfitta non nasce dalla cieca sottomissione alla forza travolgente della “roba”, ma semmai proprio dall’aver rifiutato una simile logica. Ed è una sconfitta, quella dei sentimenti, della verità, che finisce per rendere totalmente tragico e privo di speranza l’orizzonte cupo del Mastro-dan Gesualdo.
TEMI PRINCIPALI
L’universo della «roba»
Sul finire del romanzo (parte quarta, cap. IV) Gesualdo, vista l’inutilità del consulto medico, tenta l’estrema risorsa di farsi condurre a Mangalavite, ma il viaggio è solo una tappa ulteriore, crudele, nell’approssimarsi della tragedia: la terra, i campi coltivati, i poderi si rivelano infatti ormai indifferenti al loro padrone, persino ostili («ogni cosa gli diceva: Che fai? che vuoi?»). Se l’intera esistenza di Gesualdo è stata una ricerca spasmodica dell’acquisizione della “roba”, fino alla completa identificazione in essa e all’alienazione di sé, la scoperta che la “roba” gli è finalmente estranea, che può fare a meno di lui, sembra mettere a fuoco l’assoluta mancanza di significato della sua vita. La disperazione di Gesualdo è epica e sconvolgente: come Mazzarò (La roba, in Novelle rusticane) egli vuol trascinare anche la “roba” nell’annullamento della morte, riaffermando così l’equazione fra questa e la vita.
La follia di Gesualdo è forse il documento limite di un attaccamento morboso alla “roba”, che nell’opera verghiana si decifra come il movente primario intorno al quale si struttura ogni relazione umana.
Già in Nedda la necessità della “roba” esercita un ruolo non indifferente ai fini della costruzione del dramma. Un ruolo che va crescendo in alcuni pezzi di Vita dei campi (Jeli il pastore, Rosso Malpelo) per culminare nel cupo affresco delle Rusticane. Qui lo spettro della «roba» incombe su tutti gli aspetti della vicenda umana. Nei racconti più significativi i protagonisti possono illudersi di dominare la logica ferrea del possesso, in cui trovano la loro unica ragione di vita, ma in realtà finiscono solo per essere inesorabilmente schiacciati dal perverso meccanismo che si è impadronito di loro. Forza annientatrice della “roba" e capovolgimento dei valori si coniugano d’altra parte ad un moralismo, ad un rispetto dell’onorabilità, che è solo la maschera dell’ipocrisia.
Sotto questo profilo il legame fra le Novelle rusticane e il Mastro-don Gesualdo appare persino genetico. Le Rusticane sono infatti il vasto cantiere dove si sbozzano i personaggi e le situazioni del romanzo. Mazzarò (La roba) e il Reverendo (Il reverendo, Don Licciu Papa) definiscono già il carattere del protagonista Gesualdo e di un personaggio tutt’altro che marginale qual è il canonico Lupi; i rivoltosi di Libertà esemplificano a che cosa può spingere l’ossessione della “roba” quand’essa si trasferisca sul piano delle classi più umili e diseredate: l’analisi della folla compiuta nel romanzo nasce senz’altro di qui. Certo è che nelle pagine del romanzo la vicenda della “roba” sfugge alla elementarità che ancora definisce lo scenario delle Rusticane: tutte le disperse tessere del mosaico sono adesso redistribuite in un complesso ed organico intreccio, in cui si avverte la presenza di una molteplicità di coordinate sociali, politiche ed economiche, anzitutto. Il cammino di mastro-don Gesualdo non è dunque più narrato con i toni favolosi e un po’ mitici che accompagnano il breve scorcio su Mazzarò: al contrario egli è al centro di un difficile equilibrio di forze. L’amore per la “roba” lo pone infatti in conflitto con la sua famiglia (il padre gli rinfaccerà di frequente le sue speculazioni), il ceto da cui proviene, ma anche con le classi agiate del paese che vedono in questo arricchito una minaccia al loro benessere e ai loro guadagni.
Nella figura di mastro-don Gesualdo la “roba” prende corpo come una forza effettivamente minacciosa ed eversiva dell’ordine tradizionale. Donde nel corso del romanzo il tentativo da parte dell’establishement economico e sociale del paese di contrastare prima, di assimilare e neutralizzare poi, una simile spinta.
Tra i due fronti si colloca il personaggio fortemente ambiguo del canonico Lupi. Egli è l’erede diretto del Reverendo, se vogliamo, è ancora più abile di lui: pur di tutelare la sua “roba” egli non esita a far propria la causa dei rivoltosi sia nel ‘20 che nel ‘48, mettendo in pratica la limpida filosofia secondo la quale è indispensabile anzitutto «tenersi a galla» e, semmai, «acchiappare anche il mestolo un quarto d’ora». Fedele a questo principio, non esita ad allearsi con mastro-don Gesualdo nella prima parte del romanzo, allorché costui mette a segno le sue vittorie. Obbedendo alla logica del profitto, non si fa scrupolo di combinare il matrimonio fra Gesualdo e Bianca (cinicamente consapevole che costei è incinta) nell’intento di spianare la strada agli affari del socio e di conseguenza di accrescere la propria ricchezza. E tuttavia, applicando sempre una norma utilitaristica, non ha dubbi ad abbandonare Gesualdo nel momento in cui comincia ad approssimarsi il suo declino, per rifar lega con gli antichi avversari. Il barone Zacco, a ben vedere, non si comporta diversamente da lui: è sempre la logica economica della “roba” a muovere i suoi passi. Morta Bianca, egli, insieme con la moglie, si adopera in ogni modo perché Gesualdo sposi sua figlia Lavinia: ma, come fallisce il tentativo, non si fa scrupolo a rompere ogni relazione con costui.
L’ossessione della “roba” sclerotizza gli atteggiamenti dei diversi personaggi sul piano della falsità; catalizza intorno a Gesualdo interessate amicizie e malcelati rancori. A più riprese Speranza tenta di porre un’ipoteca sulle ricchezze del fratello: dapprima mostrandosi ostile al matrimonio con Bianca; quindi cercando di introdursi nella casa e nei possedimenti del fratello moribondo. In ogni caso ella sortirà sconfitta, ma non per questo la sorte della “roba” di Gesualdo sarà diversa: non sarà Burgio (il marito di Speranza) a dissiparla, ma il duca di Leyra, avido ed interessato coniuge di Isabella. Il risultato non muta: la “roba” appare come pervasa da una sorta di entropia che ne mira alla dissoluzione. Fatica di Sisifo, dunque, quella di mastro-don Gesualdo, che nel romanzo si riflette come in un sistema di specchi che ne moltiplica il carattere perverso e malefico. La vicenda della baronessa Rubiera presenta senza dubbio forti analogie con quella di Gesualdo. Dopo una vita trascorsa ad accumulare e a difendere le proprie ricchezze è condannata dalla paralisi (sorta di morta vivente) a vedere amministrare i suoi beni da un figlio di cui non si fida: il suo è uno strazio muto e senza fine. Ma si pensi anche alla storia più marginale di don Filippo Margarone, schiantato, fra l’altro, anche dall’avidità di denaro del genero.
La “roba” attraversa con una incredibile spinta disgregatrice anche i legami più forti, li sottopone al suo giogo. La storia d’amore di Bianca per don Ninì è mandata in frantumi proprio in funzione della “roba”. La stessa sorte toccherà all’amore di Isabella per Corradino La Gurna: nel capitolo quarto della terza parte la “saggezza” del marchese Limòli agiterà continuamente questo spettro per convincere la nipote a sposare il duca di Leyra. Lo stesso rapporto fra Gesualdo e Diodata si infrange sullo scoglio della “roba”: Gesualdo, una volta divenuto ricco, ha bisogno di un erede legittimo per lasciare i suoi beni. Ogni volta l’ossessione della “roba” assurge a dispotica divinità al cui arbitrio sono delegate tutte le vicende umane.
La scena politica: i moti del ‘20 e del ‘48
Nella estesa produzione verghiana il riferimento alla scena politica acquista sempre una particolare pregnanza, configurando un articolato discorso critico sul nostro Risorgimento colto dalla peculiare angolatura siciliana. Da I Malavoglia, alle Novelle rusticane, al Mastro-don Gesualdo, a Don Candeloro e C. i, una delle più tarde raccolte di racconti (‘93), i riferimenti sono sempre assai densi e circostanziati.
Nell’italia postunitaria de I Malavoglia, l’indifferenza con cui è accolta la notizia della sconfitta di Lissa (1866) è quasi l’emblema di un Risorgimento che è passato senza lasciare pressoché traccia nella coscienza collettiva (padron Cipolla è infatti ben convinto di non aver perso niente), senza mutare alcunché nella stasi della realtà siciliana. Un Risorgimento che anzi in una delle Rusticane, Libertà, risulta solo occasione per dar sfogo alla violenza cieca e sanguinosa delle folle contadine, incapaci di prospettare una qualsiasi alternativa all’esistente, incapaci persino di spartirsi le terre. Dopo la strage i contadini torneranno a chiedere ordini ai “galantuomini”, mentre i principali responsabili dell’eccidio seguiteranno ad interrogarsi in carcere sulle ragioni della loro condanna. Una vicenda amara e paradossale che sembra preparare il terreno alla riduzione ironica del ‘48 operata nella novella Papa Sisto (Von Candeloro e C.i). Privati di ogni risonanza risorgimentale, i moti non sono altro che il pretesto perché un abile mistificatore come Vito Scardo possa raggiungere il traguardo di essere eletto padre guardiano del convento.
A ben vedere il Mastro-don Gesualdo si colloca a metà strada fra la cupa tragedia di Libertà (non sfiorata dal romanzo) e il prevalere del grottesco di Papa Sisto.
Senza dubbio è la raffigurazione ironica a predominare nell’episodio della congiura carbonara e nei moti del ‘20 descritti fra il capitolo primo e il secondo della seconda parte.
Di fronte alla minaccia della rivoluzione già esplosa a Palermo, della folla che invade anche le strade e la piazza del paese e spadroneggia senza timore rivendicando il possesso delle terre comunali, il canonico Lupi vede con grande chiarezza il pericolo che corre la classe dei possidenti, nel caso si abbandoni all’inerzia: «Rivoluzione significa rivoltare il cesto, e quelli ch’erano sotto salire a galla: gli affamati, i nullatenenti...». Per evitare tutto ciò è indispensabile dimenticare le discordie (l’asta delle terre del comune si è conclusa quasi in rissa da poche ore), far lega fra tutti i possidenti per «tenersi a galla» e magari «acchiappare anche il mestolo un quarto d’ora», improvvisandosi, giacché i tempi lo richiedono, rivoluzionari. Emerge così con lucidità nelle parole del canonico la strategia trasformista che alla lunga si rivelerà vincente nella società siciliana soffocando nella morsa della continuità ogni possibile rinnovamento. Una strategia “gattopardesca”, per dirla con Tomasi di Lampedusa, la cui conferma giunge immediata dalla riunione della Carboneria (cap. Il): dal notaro Neri al barone Zacco tutti in paese si sono convertiti al nuovo credo, pur di salvaguardare le loro posizioni di potere e di privilegio, in una parola lo status quo. Su di uno scenario così desolante non può che scattare l’ironia feroce del Verga: a far dileguare quest’accolta di intrepidi “rivoluzionari" è infatti sufficiente l’arrivo in paese della «Compagnia d’Arte». La fuga senza sosta del barone Zacco diviene allora parodia sarcastica di un’epica tutta volta in ridicolo.
I moti del ‘48, rappresentati nel capitolo quarto della quarta parte, completano la pessimistica diagnosi verghiana delineando un quadro che amplia la ristretta prospettiva con l’irrompere tumultuoso delle folle sulla scena rivoluzionaria.
La situazione iniziale non si configura affatto dissimile da quella del ‘20. L’incontro fra il barone Zacco e don Ninì che chiude il capitolo terzo indica che il controllo degli avvenimenti è saldamente in mano ai benestanti: nonostante le torbide notizie in arrivo da Palermo, la rivoluzione è sapientemente incanalata verso una serata teatrale di festeggiamenti in onore di Pio IX. Tuttavia la tranquilla serata assume una piega del tutto imprevista e potenzialmente eversiva. La folla accalcata in piazza perché non trova posto a teatro diviene la protagonista di una dimostrazione ben più minacciosa e incontrollabile. A dispetto degli sforzi di don Ninì, del barone Zacco e del canonico, la folla non si lascia ricondurre all’ordine e un imponente corteo si avvia per le strade, travolgendo ciecamente ogni cosa sul suo cammino. L’obiettivo dapprima è recarsi alla chiesa per portare in corteo la statua del santo patrono, quindi affiora il proposito di saccheggiare i magazzini di Gesualdo; si riesce a frenare questa furia devastatrice, ma non ad impedire che i rivoltosi mettano l’assedio all’abitazione di Gesualdo, individuato come il responsabile di tutti i soprusi. Nondimeno l’abile retorica del canonico Lupi, fatta di lusinghe e di vaghe promesse, vale ad allontanare la minaccia di ulteriori violenze. La folla, paga delle promesse, si disperde: nei giorni successivi saranno solo sporadici i tentativi di esigere quanto promesso. Tutto, ancora una volta, si richiude nell’alveo della quotidianità.
Non vi è dubbio che l’interpretazione verghiana della folla ripropone consapevolmente l’episodio manzoniano dell’assalto al «Forno delle Grucce» e l’assedio al vicario di provvisione (funziona anche l’equazione parodistica fra il notaio Ferrer e il canonico). Quella che ne emerge è una visione forse anche più pessimistica e sconsolata. I moti del ‘20 e quelli del ‘48 sembrano infatti bloccare la realtà siciliana in una morsa ferrea, in cui non si aprono spiragli di sorta. Di fronte al trasformismo conservatore delle classi privilegiate si solleva infatti la ribellione cieca e inconsapevole di qualsivoglia obiettivo, facilmente manipolabile, delle classi più umili. L’esito non può che essere la disperata rivolta, che non attinge la violenza sanguinaria di Libertà, ma che comunque rimane gesto inconsulto e in definitiva gratuito.
La sclerosi sociale del Mastro-don Gesualdo
Il Mastro-don Gesualdo si chiude con una serie di battute memorabili che vale la pena di riproporre:
«Così, nel crocchio, [don Leopoldo, il cameriere] narrava le noie che gli aveva date quel cristiano - uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento
mai. - Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si parla.
- Si vede com’era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore. - Guardate che mani!
- Già, son le mani che hanno fatto la pappa! ... Vedete cos’è nascer fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!...»
Di fronte al corpo inanimato di Gesualdo le parole dei domestici tradiscono un’ambivalenza di giudizio sul defunto che, a ben vedere, è tipica dell’intero romanzo. Vi è l’ammirazione quasi reverenziale per un uomo che attraverso la “roba” è riuscito a morire «nella battista come un principe», per quelle mani grossolane «che hanno fatto la pappa». Nondimeno proprio quelle mani sono la testimonianza di una sorta di marchio che nemmeno il possesso della «roba» può cancellare. Don Leopoldo lo dichiara apertamente, quasi con fastidio, in negativo: «Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi...». Nella sua battuta c’è l’accettazione di uno status sociale rigido e ineliminabile: i signori, «quelli che son nati meglio di noi» e tutti gli altri. Fra queste caste sembra esistere un rapporto di dipendenza immodificabile. In questa prospettiva mastro-don Gesualdo è chi ha cercato di sovvertire le regole, illudendosi che il grimaldello fosse rintracciabile nella ricchezza. In realtà egli da questo azzardo esce pienamente sconfitto: non è che un “ibrido”, come rivela in modo perentorio il suo appellativo di “mastro-don”. Gesualdo è dunque un personaggio che si muove contravvenendo alle regole sociali. Tutto l’universo che lo circonda sembra difendersi innanzitutto da questa spinta eversiva, piuttosto che dalla sua fame di “roba”.
Nel Mastro-don Gesualdo un’intera galleria di ritratti raffigura la rigidità e i pregiudizi della società siciliana. A suo modo è esemplare la figura di mastro Nunzio, il padre di Gesualdo. Il giorno dell’asta per le terre comunali egli è sorprendentemente chiaro con il barone Zacco che ostenta affetto e lo chiama “don”: «lo mi chiamo mastro Nunzio. Non ho i fumi di mio figlio.». Mastro Nunzio definisce dunque una rigida barriera fra le diverse classi, ma capovolge anche in atteggiamento di orgoglio la condizione di inferiorità. Egli non ha i “fumi” del figlio, non pretende di essere diverso da come è nato. Nei momenti cruciali in cui compare nel romanzo (dal matrimonio di Gesualdo e Bianca all’episodio del colera) Nunzio Motta non accetta mai di confondersi coi “signori”. Per lui Bianca resta sempre e comunque un corpo estraneo: così come Isabella. Quando la vede la prima volta, dopo l’uscita dal collegio (ormai ragazza dunque), il suo unico apprezzamento finisce per sottolineare ancora come Gesualdo abbia derogato, persino nel nome della figlia, dai modelli di comportamento tradizionali:
«E una signorina, non c’è che dire! Gli hai messo anche un bel nome! Tua madre però si chiamava Rosaria! Lo sai?». Anche in questa nota minima, mastro Nunzio appare ben solido nelle sue convinzioni e conclude riaffermando il principio che lo sorregge: «Ciascuno com’è nato».
Sull’altro fronte, i fratelli Trao, nella loro estrema povertà, incarnano pienamente la coscienza aristocratica di una distinzione che non si fonda sulla ricchezza: una posizione limite, non difesa così rigidamente dagli altri maggiorenti del Mastro-don Gesua/do. Per don Diego e don Ferdinando il matrimonio della sorella Bianca appare dapprima un evento inconcepibile; quindi un vero tradimento. Anch’essi dunque interpretano la regola sociale con assoluta rigidità. Al pari di Nunzio Motta e di Speranza, essi rifiutano ogni contatto con il “parente” Gesualdo: per don Ferdinando la vicinanza di costui sarà un evento sconvolgente (quasi un tabù violato) ancora durante l’agonia di Bianca.
Tra questi due estremi si articola tuttavia un panorama umano ben più fluido e variegato,. legato tuttavia dal comun denominatore della dissimulazione e dell’ipocrisia. E’ il mondo delle Sganci, delle Cirmene, delle Macrì, degli Zacco, dei Ninì Rubiera: l’universo di quella casta dominante che, per ragioni sempre diverse, finge, o è costretta a fingere, una maggiore apertura e latitudine di pensiero. Ciò che irrompe nel romanzo da questo ricco campionario è una acuta, patologica, diffrazione fra il sembrare e l’essere. La zia Sganci, che pure si adopera per combinare il matrimonio di Bianca con Gesualdo, è poi la prima a disertare la cerimonia delle nozze. C’è in lei, come in altri personaggi, una sfasatura che sembra imprimere una spinta isterica, quasi schizofrenica. Donna Sarina Cirmena, una delle figure più “democratiche” nei confronti di Gesualdo, trascorre dalla sua iniziale benevolenza ad una fase di profonda ostilità (nel momento in cui Gesualdo sventa il suo tentativo di legare Corrado La Gurna e Isabella), per poi tornare a farsi amichevole al momento della morte di Bianca.
Come par chiaro anche da questa analisi, la categoria che è in certa misura in grado di stabilire deroghe alla rigida struttura sociale è quella dell’utile. Sotto questo profilo il ruolo giocato dal barone Zacco risulta emblematico. In un primo momento egli è uno degli avversari più accaniti e intransigenti di mastro-don Gesualdo. Durante l’asta delle terre comunali egli non esita a mostrare aristocratico dispregio per la ricchezza ostentata da Gesualdo con il “sacco di doppie”: «Signori miei!... guardate un po’!... a che siam giunti!». Nondimeno, pochi giorni dopo, alla riunione della Carboneria, il barone fa di tutto per gettare le basi di un’intesa con il suo avversario: intesa che va in porto. Il barone e Gesualdo divengono soci negli affari. Non solo. In nome dell’utile, il barone Zacco è disponibile a compromettersi con Gesualdo fino al punto di proporgli in moglie la figlia Lavinia, dopo la morte di Bianca. Ma ecco che l’acuta dissociazione in cui vivono i protagonisti del romanzo torna a riemergere con violenza. Nel momento in cui Gesualdo rifiuta una simile prospettiva, il barone Zacco non si fa alcuno scrupolo di abbandonarlo a se stesso dando sfogo ad una compressa malevolenza: «Vedete, signori miei, un barone Zacco che gli lustra le scarpe e s’inimica coi parenti per lui!». A quest’altezza la folgorante ascesa di Gesualdo è terminata, la sua stella è ormai tramontata. L’obiettivo di assorbirne e neutralizzarne la forza eversiva di ogni ordine e di ogni regola non ha concretamente più senso: Gesualdo è un vinto anch’egli. L’inerzia e la paralisi sociale hanno avuto la meglio su di lui: il pericolo è passato.
li punto di vista oggettivo nella narrazione
Caposaldo del verismo verghiano, il nodo teorico del punto di vista oggettivo nella narrazione appare affrontato in maniera esauriente nella lettera di dedica a Salvatore Farina premessa a L ‘amante di Gramigna, una delle novelle programmatiche di Vita dei campi:
«Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessari, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé […] senza serbare alcun punto di contatto col suo autore […].»
Dalla posizione teorica enunciata ne L ‘amante di Gramigna discende una serie di corollari. L’intervento del narratore si eclissa di fronte all’oggetto della narrazione, il suo ruolo diviene perciò assimilabile a quello dello scienziato che osserva e descrive in modo imparziale i fenomeni della realtà, in questo caso rappresentata dal “guazzabuglio” del cuore umano, per dirla con Manzoni.
La vicenda assunta nel romanzo avrà dunque il carattere di “documento umano”, che l’autore si sforzerà di riproporre «così come l’ha raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole pittoresche della narrazione popolare». Il lettore avrà la sensazione di trovarsi «faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore».
Un simile congegno ideologico e formale, mutuato dalle coeve esperienze del naturalismo francese (Zola), nei propositi di Verga vuole essere lo strumento per affrontare l’analisi dei comportamenti umani, in tutti gli strati della società: il progetto dell’intero ciclo romanzesco della Marea avrebbe dovuto inscriversi sotto questo segno.
In effetti la scelta verista non dilata mai, se si eccettuano le novelle milanesi di Per le vie, oltre l’orizzonte siciliano, tantomeno riuscirà a smontare gli ingranaggi psicologici e sociali dei ceti borghesi e aristocratici: il fallimento della Duchessa di Leyra ne è la riprova eloquente.
L’utilizzo di un punto di vista interno al racconto, che lascia ad un anonimo narratore popolare il compito di presentare e giudicare avvenimenti e personaggi, fa la sua prima comparsa in Vita dei campi. Ad una voce esterna si sostituisce sempre più un personaggio, o talvolta semplicemente una voce, che emerge dalla coralità dei parlanti, giudicando ed agendo secondo codici espressivi e ideologici che non sono quelli dell’autore, ma che anzi sono esplicitamente lontani dalle sue convinzioni e trovano piena giustificazione solo all’interno dell’universo rappresentato.
Certo, in Vita dei campi la soluzione narrativa verista non risulta ancora perfettamente a regime. Lo sarà piuttosto in quella stagione compresa fra I Malavoglia, le Novelle rusticane e Mastro-don Gesualdo. Nei due romanzi come nella raccolta di novelle, il racconto filtra ormai attraverso parole e riflessioni dei personaggi coinvolti nella vicenda, immette il lettore in un incessante e diffuso chiacchiericcio che, come un caleidoscopio, scompone e ricompone gli accadimenti attraverso una molteplicità, anche contraddittoria, di punti di vista.
Il compito dello scrittore si limita a registrare in presa diretta l’intreccio delle opinioni attraverso l’espediente del discorso libero indiretto. Le parole della miriade di interpreti sono riportate senza alcuna mediazione grammaticale o sintattica, inserite nel flusso del discorso che si distende ininterrotto.
Riflesso non trascurabile di questa scelta espressiva è la mimesi dialettale che osserviamo sempre meglio fra Vita dei campi e Mastro-don Gesualdo e che sortisce i suoi risultati più persuasivi nelle pagine de I Malavoglia. Se la novella o il romanzo devono essere riproposti «colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare», non vi è infatti dubbio che l’uso del dialetto sia una tappa obbligatoria.
Anche in questo caso la conquista nello stile verghiano non è immediata. In Nedda il dialetto è ancora un inserto ben in vista in un tessuto narrativo ancora fortemente caratterizzato dai residui della tradizione letteraria (manzoniana, prima di tutto). A partire dalle novelle di Vita dei campi il cammino di Verga si delinea invece con più acuta consapevolezza. Il dialetto siciliano non è più un mero inserto, quasi un relitto etnografico, bensi è la base grammaticale e sintattica che sovverte e ricompone l’italiano per riprodurre, sotto la veste illusoria della lingua nazionale, il parlato regionale dei protagonisti.
Nondimeno la funzione che assolvono l’uso del discorso indiretto libero e la mimesi dialettale non ha un valore univoco nella produzione verghiana, soprattutto se il raffronto si instaura fra I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo. Ne I Malavoglia una simile risorsa espressiva è in perfetta sintonia con la scomparsa di un protagonista in grado di accentrare l’intera vicenda e l’irrompere al suo posto dell’intera comunità dei pescatori di Aci Trezza. Ne deriva quell’accento corale, di tragica epica collettiva che è il tratto inconfondibile del primo romanzo verghiano. Nel Mastro-don Gesualdo l’inversione di rotta è invece radicale.
La forma che assume il nuovo romanzo è più tradizionale, affine ai modelli francesi, in cui torna ad emergere il ruolo primario del protagonista. In questa prospettiva la funzione del punto di vista interno, espressione della coralità dei parlanti sempre concentrata sulla figura di Gesualdo, acquista una straordinaria spinta divaricante, giungendo a sottolineare, quasi come sotto la luce di un riflettore, la spietata condizione di solitudine e di incomunicabilità del protagonista.
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il motivo socio-economico nel mastro don gesualdo
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