Leopardi

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Testo

Giacomo leopardi
Il pensiero
Tutta l’opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, il cui processo si può seguire attraverso le migliaia di pagine dello Zibaldone.
Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico, l’infelicità dell’uomo. Egli identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l’uomo non desidera un piacere, ma il piacere: aspira a un piacere che sia infinito. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall’uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell’anima. Da questa tensione inappagata per un piacere infinito che gli sfugge nasce l’infelicità dell’uomo, il senso della nullità di tutte le cose.
L’uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice, per la sua stessa costituzione. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita come una madre benigna, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all’uomo con l’immaginazione e le illusioni, che velano gli occhi dell’uomo dalle sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi, essendo più vicini alla natura, e quindi capaci di illudersi e di immaginare, erano felici e ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà ha messo crudamente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice. La prima fase del pensiero leopardiano è fondata sull’antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi erano nutriti di generose illusioni, e quindi erano più magnanimi, più forti fisicamente e moralmente, la loro vita era più attiva e intensa, e ciò contribuiva a far dimenticare il vuoto dell’esistenza. Perciò essi erano più grandi di noi sia nella vita civile che nella vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo o eroico, e ha generato viltà, meschinità e corruzione dei costumi. L’uomo è quindi colpevole dei propri mali.
Leopardi vede la civiltà moderna, e soprattutto quella italiana, dominata dall’inerzia. Da ciò scaturisce un atteggiamento titanico: il poeta si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l’Italia a tanta abiezione. Egli esprime così il suo pessimismo storico: la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale (anche se illusorie).
Successivamente Leopardi si rende conto che la natura mira unicamente alla conservazione della specie, e quindi il male non è più un semplice accidente, ma rientra nel piano stesso della natura. Inoltre la natura ha messo nell’uomo il desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia egli attribuirà le responsabilità del male al fato, ma ritornerà ad attribuirle nuovamente alla natura. Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco e crudele, in cui la sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale per la conservazione del mondo. E’ una concezione non più finalistica, ma meccanicistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo, ma della natura. Adesso muta anche il senso dell’infelicità umana, che da assenza di piacere ora è dovuta soprattutto ai mali esterni a cui nessuno può sfuggire.
Se la causa dell’infelicità è la natura stessa, anche gli antichi erano vittime di quegli stessi mali. Al pessimismo “storico” subentra così un pessimismo “cosmico”: l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell’uomo, ma ad una condizione assoluta e permanente. Al titanismo e alla poesia civile subentra un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Suo ideale non è più l’eroe antico, ma il saggio stoico, caratterizzato dall’atarassia (distacco imperturbabile dalla vita). E’ l’atteggiamento che caratterizza le Operette morali.
In momenti successivi tornerà all’atteggiamento di protesta e di sfida, di lotta titanica, finché al termine della sua vita, con la Ginestra, egli arriverà a costruire una nuova concezione della vita sociale e del progresso.

La poetica del vago e dell’indefinito
Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo può figurarsi piaceri infiniti tramite l’immaginazione. La realtà immaginata costituisce la compensazione, l’alternativa a una realtà vissuta che non è che infelicità e noia. Ciò che stimola l’immaginazione è tutto ciò che è vago, indefinito, ignoto.
Nello Zibaldone Leopardi elenca tutti gli aspetti della realtà sensibile che possiedono questa forza suggestiva. Egli elabora una vera e propria teoria della visione: è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita la vista impedita da un ostacolo, una siepe, un albero ecc. perché al posto della vista lavora l’immaginazione e il fantastico subentra al reale. Lo stesso effetto hanno: un filare di alberi che si perde all’orizzonte, una fuga di stanze, il gioco della luce lunare tra gli alberi, sull’acqua ecc. Contemporaneamente viene a costruirsi anche una teoria del suono. Leopardi elenca una serie di suoni suggestivi perché vaghi: un canto che si disperde in lontananza, un canto che giunge all’esterno dal chiuso di una stanza, lo stormire del vento tra le fronde.
A questo punto della meditazione leopardiana avviene una svolta: la teoria filosofica dell’indefinito si aggancia alla teoria poetica. Il bello poetico per Leopardi consiste nel vago e nell’indefinito, e si manifesta nelle immagini elencate. Queste immagini sono suggestive perché evocano sensazioni che ci hanno affascinati da fanciulli. La rimembranza diviene quindi essenziale al sentimento poetico. Poetica dell’indefinito e poetica della rimembranza si fondono: la poesia non è che il recupero della visione immaginosa della fanciullezza attraverso la memoria.
Gli antichi erano maestri della poesia vaga e indefinita: essi, perché più vicini alla natura, erano immaginosi come fanciulli. I moderni hanno perso questa capacità immaginosa e fanciullesca. Egli riprende la distinzione tra poesia d’immaginazione e poesia sentimentale: ai moderni la poesia d’immaginazione è ormai preclusa e non resta loro che una poesia sentimentale, nutrita di idee, filosofica, che nasce dalla consapevolezza del vero e dall’infelicità.
Leopardi stesso segue puntualmente la poetica del vago e dell’indefinito, quindi, pur essendo conscio di appartenere all’età moderna, non si rassegna a escludere il carattere immaginoso dai suoi versi, così come non si rassegnerà a rinunciare alle illusioni, ma continuerà a nutrire di esse la sua poesia.

Leopardi e il Romanticismo
La formazione del Leopardi era stata rigorosamente classicistica, per cui il Leopardi doveva prendere inevitabilmente posizioni anti-romantiche. Lo fece in due scritti, una Lettera ai compilatori della «Biblioteca italiana» (1816), e un Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818), che non furono pubblicati e rimasero sconosciuti ai contemporanei.
In realtà le sue posizioni sono molto originali rispetto a quelle dei classicisti. Per lui, la poesia è soprattutto espressione di una spontaneità originaria, di un mondo interiore immaginoso e fantastico, proprio dei primitivi e dei fanciulli. Per questo è d’accordo con i romantici nella critica al classicismo, al principio d’imitazione, alle regole rigidamente imposte dai generi letterari, all’abuso ripetitivo della mitologia classica. Al tempo stesso rimprovera ai romantici un’artificiosità retorica simmetrica e contraria a quella dei classicisti, nella ricerca dello strano, dell’orrido, del truculento; rimprovera loro anche il predominio della logica sulla fantasia, l’aderenza al «vero» che spenge ogni immaginazione.
Proprio i classici antichi sono per lui un esempio mirabile di poesia fresca, spontanea, immaginosa. Leopardi ripropone dunque i classici come modelli, ma con uno spirito assolutamente romantico. Si può parlare perciò di un classicismo romantico.
Da questa concezione della poesia come recupero del mondo immaginoso dell’infanzia, che si fonda sul vago, l’indefinito e la rimembranza, discende il fatto che, tra le varie forme poetiche, Leopardi privilegia soprattutto quella lirica, intesa come espressione immediata dell’io, della soggettività e dei sentimenti, come canto. Leopardi si contrappone alla scuola romantica lombarda, che tende a una letteratura oggettiva, realistica, fondata sul vero e animata da un’utilità morale e sociale, ma appare più vicino allo spirito della poesia romantica d’oltralpe. Egli è separato dalla cultura romantica dal suo retroterra filosofico (illuministico, sensistico e materialistico), mentre presupposto del Romanticismo europeo è una visione del mondo idealistica e spiritualistica. Ma è comunque vicino ad esso per una serie di motivi ricorrenti: la tensione verso l’infinito, l’esaltazione dell’io e della soggettività, il titanismo, l’enfasi posta sul sentimento, il conflitto illusione-realtà, l’amore per il vago e l’indefinito, il culto della fanciullezza e del primitivo come momenti privilegiati dell’esperienza umana, il senso tormentato del dolore cosmico.

Il primo Leopardi: le Canzoni e gli Idilli
Il periodo successivo alla conversione «dall’erudizione al bello» del 1816, fino alla grande crisi del 1819, è ricco di esperimenti letterari, che si rivolgono in direzioni molto diverse, molti dei quali rimangono puri progetti o abbozzi presto abbandonati. Da questo fermento di prove nascono due soli gruppi di poesie mature, che vengono pubblicate: le Canzoni e gli Idilli.
Le Canzoni furono composte tra il 1818 e il 1823, e pubblicate a Bologna nel 1824. Si tratta di componimenti di impianto classicistico, scritte nel linguaggio aulico e sublime della tradizione, nei quali è evidente l’influenza di Alfieri e Foscolo. Le prime cinque (All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone), affrontano una tematica civile. Alla loro base vi è il pessimismo storico, la polemica contro l’età presente, alla quale si contrappone l’esaltazione delle età antiche.
La più significativa è Ad Angelo Mai (1820), una vera e propria summa dei temi leopardiani di questo periodo: oltre alla polemica contro l’età presente e l’esaltazione dell’antichità, vi compare il motivo del «caro immaginar» e dei «leggiadri sogni», che sono dissolti dalla conoscenza razionale del «vero», che accresce solo il senso del nulla e della noia.
Caratteristiche diverse hanno il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo. Leopardi non vi parla più in prima persona, ma tramite due personaggi dell’antichità, entrambi suicidi, Bruto e Saffo. Il pessimismo storico giunge a una svolta: si delinea l’idea di un’umanità infelice non solo per ragioni storiche, ma per una condizione assoluta. Non incolpa ancora la natura, ma gli dei e il fato. Ad essi si contrappone l’eroe, che si ribella alla forza crudele che l’opprime esprimendo la propria libertà con il gesto estremo del suicidio (titanismo eroico).
Alla Primavera è una rievocazione nostalgica delle «favole antiche», di quella visione fanciullesca e immaginosa che era propria dell’antichità, e che i moderni hanno perduto definitivamente.
L’Inno ai Patriarchi, l’unico degli Inni cristiani portato a compimento, è una rievocazione dell’umanità primitiva, felice nella sua ingenuità.
Alla sua donna è dedicata a un’immagine ideale, platonica, della donna, creata dalla sua mente.
Gli Idilli presentano un carattere molto diverso, sia nelle tematiche, intime ed autobiografiche, che nel linguaggio, che è più colloquiale e semplice. Con quel titolo Leopardi designò alcuni componimenti, scritti tra il 1819 e il 1821 (L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno, Lo spavento notturno, La vita solitaria) e pubblicati nel 1825 sulla rivista «Il Nuovo Ricoglitore» e nel 1826 con il nome di Versi. Questi idilli non hanno più nulla a che fare né con la tradizione bucolica classica né con la moderna definizione di idillio, inteso come rappresentazione di scene della vita quotidiana di personaggi di mediocre condizione, segnate da una tranquilla serenità. Leopardi definì gli idilli come espressione di «sentimenti, affezioni, avventure storiche del suo animo». Negli idilli, dunque, la rappresentazione della realtà esterna, delle scene di natura serena, è tutta in funzione soggettiva: Leopardi vuole rappresentare i momenti essenziali della propria vita interiore.
Esemplare è l’Infinito (1819), in cui compare una situazione che può ricordare l’idillio classico, ma non è lo scenario di una semplice quiete contemplativa e rasserenante, ma lo spunto per una meditazione lirica sull’idea di infinito nata dall’immaginazione, a partire da sensazioni visive e uditive.
Alla luna (1820) affronta il tema della ricordanza che, con l’immaginazione, trasfigura il reale e l’abbellisce, anche se la realtà è triste e angosciosa.
La sera del dì di festa (1820) prende l’avvio da un notturno lunare, ma poi trapassa ad una confessione disperata dell’infelicità e dell’esclusione dalla vita patite dal poeta, per approdare ad una vasta meditazione sul tempo che cancella ogni traccia umana.
La vita solitaria (1821) è un componimento folto di motivi, che culmina in un momento di «estasi» negativa, in cui l’io individuale si annulla nella contemplazione di una natura assolutamente immobile e silenziosa.
Il sogno (1821) è un colloquio con una fanciulla morta, e affronta il motivo della giovinezza spezzata e delle illusioni non realizzate.

Le Operette morali
Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà fino alla primavera del ’28. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d’animo di aridità e di gelo, che gli impedisce ogni moto dell’immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi soltanto all’investigazione dell’«arido vero». Da questa disposizione d’animo nascono le Operette morali, quasi tutte composte nel 1824. A questo gruppo si aggiungeranno poi il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio, il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico.
Le Operette morali sono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il “sistema” da lui elaborato attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, allegorie, paradossi, apologhi, canti lirici in prosa. Molte delle operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici, altre volte sono personaggi storici oppure personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette l’interlocutore principale è proiezione dell’autore stesso. Altri dialoghi hanno forma narrativa (Storia del genere umano), oppure sono racconti filosofici (La scommessa di Prometeo), prose liriche (l’Elogio degli uccelli, il Cantico del gallo silvestre), raccolte di aforismi paradossali (Detti memorabili di Filippo Ottonieri), o discorsi che si rifanno alla trattatistica classica (Il Parini, ovvero della gloria).
Da questa rassegna risulta la varietà dell’invenzione fantastica di Leopardi, che si concentra intorno ai temi fondamentali del pessimismo: l’infelicità inevitabile dell’uomo, l’impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l’umanità. Con tutto questo non si ha un’impressione di cupezza, grazie allo sguardo fermo e lucido e al distacco ironico con cui Leopardi contempla il «vero».
Escono da questo quadro le operette più tarde, come il Plotino, dialogo sul problema del suicidio, pervaso da un senso di pietà e di solidarietà fraterna verso gli uomini, che prelude alla svolta della Ginestra, o il Tristano, che si inserisce nel clima dell’ultimo Leopardi. Al clima delle Operette può essere associata un’epistola in versi, Al conte Carlo Pepoli (1826), raccolta nei Canti, in cui il poeta analizza la sua aridità e annuncia il suo proposito di dedicarsi all’investigazione del «vero».

I grandi idilli
Nell’aprile del 1828 Leopardi assiste a un «risorgimento» delle sue facoltà di sentire, commuoversi e immaginare, e lo saluta con un componimento, Il Risorgimento. Pochi giorni dopo nasce A Silvia. Successivamente compone Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il Passero solitario.
Questi componimenti riprendono temi, atteggiamento, linguaggio degli “idilli” del 19-21: le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze, quadri di vita borghese e di natura serena e primaverile, la suggestione di immagini e suoni indefiniti, il linguaggio limpido e musicale. Questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima, ma nel mezzo si collocano esperienze decisive, la fine delle illusioni giovanili, l’acquisita consapevolezza del «vero», la costruzione di un sistema filosofico fondato su un pessimismo assoluto. I grandi idilli sono percorsi da immagini liete, ma queste immagini sono come rarefatte, assottigliate, e perdono ogni corposità fisica e materiale; create dalla memoria, si accampano sullo sfondo del nulla, sono accompagnate costantemente dalla consapevolezza del dolore, del vuoto dell’esistenza, della morte. Tale consapevolezza non esercita però un potere distruttivo su quelle immagini di vita, il vero è richiamato con delicatezza, pur impregnando ogni immagine evocata. Si instaura un equilibrio tra il «caro immaginar» e il «vero».
Gli slanci titanici sono stati sostituiti da un atteggiamento di contemplazione ferma e di lucido dominio dinanzi a una verità immutabile. Coerente a questo atteggiamento è il linguaggio, non più ricco di espressioni intense e patetiche, ma pacato e misurato. Il poeta non usa più l’endecasillabo sciolto, ma una strofa di endecasillabi e settenari che si susseguono liberamente.

L’ultimo Leopardi
L’ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il ’30, segna una svolta di grande rilievo rispetto alla poesia precedente. Presupposto filosofico della scrittura poetica di Leopardi resta sempre quel pessimismo assoluto, a cui era approdato tra il ’24 e il ’25. Ma, dopo il distacco rassegnato e ironico della fase delle Operette, dopo il ripiegamento sull’io e il recupero dell’età giovanile proprio dei grandi idilli, Leopardi ristabilisce un contatto diretto con gli uomini e i problemi del suo tempo. Non solo, ma appare più orgoglioso e pronto a combattere nel diffondere le sue idee, nel contrapporle polemicamente alle tendenze dominanti dell’epoca.
L’apertura si verifica anche sul piano umano. Nasce a Firenze l’amicizia con Antonio Ranieri, e la prima vera esperienza amorosa di Leopardi, un’autentica passione per una dama fiorentina, Fanny Targioni Tozzetti. La delusione cocente subita in tale rapporto segna per Leopardi la fine dell’«inganno estremo», che aveva creduto eterno: l’amore. Dalla passione e dalla delusione nasce il “ciclo di Aspasia”. Il ciclo è costituito da cinque componimenti, scritti fra il 1833 e il 1835: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, Aspasia e A se stesso. Se si esclude Consalvo (novella sentimentale in versi), si tratta di una poesia profondamente nuova, lontanissima da quella idillica: si ha una poesia nuda, severa, quasi priva di immagini sensibili, fatta di puro pensiero; vi compaiono atteggiamenti energici, eroici; il linguaggio si fa aspro, antimusicale, la sintassi complessa e spezzata.
In questo periodo si instaura un rapporto intenso con le correnti ideologiche del tempo. E’ una nuova forma di impegno, negativo e polemico. La critica leopardiana si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento della vita umana grazie ad esso; si scaglia inoltre contro le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che inneggiano al posto privilegiato destinato da Dio all’uomo nel cosmo. A queste ideologie Leopardi contrappone le proprie ideologie pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana, essendo l’infelicità e la sofferenza dati immutabili ed eterni. Allo spiritualismo di tipo religioso, che cerca consolazione nell’aldilà, egli contrappone il suo duro materialismo che esclude ogni speranza in un’altra vita.
Questa polemica è condotta attraverso varie opere:
La Palinodia al marchese Gino Capponi (1831), inclusa nei Canti, è una sorta di satira di sapore pariniano nei confronti di una società moderna fiduciosa nel progresso.
Al di fuori dei Canti si hanno: un abbozzo di inno Ad Arimane (1883), I nuovi credenti e I Paralipomeni della Batracomiomachia. Poemetto satirico in ottave, si presenta come una continuazione della Batracomiomachia (Battaglia dei topi e delle rane), poemetto attribuito a Omero. Tale poemetto, sotto la veste favolosa, discute degli avvenimenti del ’20-’21 e del fallimento dei moti liberali. I topi sono i liberali napoletani, le rane i borbonici, aiutati dai granchi (gli austriaci). La polemica di Leopardi si scaglia contro la reazione brutale dei granchi-austriaci, ma soprattutto contro l’ottimismo e lo spiritualismo dei topi-liberali.
Una svolta essenziale si presenta con la Ginestra (1836), il testamento spirituale di Leopardi, la lirica che idealmente chiude il suo percorso poetico. Il componimento ripropone la dura polemica antiottimistica e antireligiosa, ma qui Leopardi non nega più la possibilità di un progresso civile: la consapevolezza della reale condizione umana, indicando la natura come la vera nemica, può indurre gli uomini a unirsi per combattere la sua minaccia; e questo legame può far cessare le sopraffazioni e le ingiustizia della società. La filosofia di Leopardi si apre qui ad una generosa utopia, basata sulla solidarietà fraterna degli uomini, che nasce a sua volta dalla diffusione del «vero». La Ginestra, sul piano letterario, è anche la massima realizzazione di quella nuova poetica antidillica sperimentata dal ’30 in poi.

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