La crisi delle certezza

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Testo

La crisi delle certezze
E. Munch, Il grido, 1893
Mappa Concettuale
Introduzione
Nel periodo compreso tra fine Ottocento e inizio Novecento si verifica una vera e propria rivoluzione che colpisce i più diversi campi del sapere e sancisce il passaggio all' uomo contemporaneo . Questa crisi è data soprattutto dalla perdita della fiducia nel progresso e in tutta la filosofia positivista. In questo percorso interdisciplinare esamineremo l’influenza di questa “crisi delle certezze” nell’ambito filosofico con Nietzsche, nell’ambito scientifico con la crisi dei fondamenti matematici, e nell’ambito letterario con la poetica di Pirandello.
Filosofia
Nietzsche e il tema della maschera
Nietzsche e il tema della maschera
• Una particolare forma di maschera: il classico
Sostanzialmente il problema della maschera è il problema del rapporto tra essere e apparenza. Da qui, possiamo vedere il rapporto che lega Nietzsche a Schopenhauer (basti pensare al velo di Maja, la liberazione dall’apparenza tramite l’ascesi, il mondo come pura illusione). Il tema della maschera in Nietzsche è legato anche alla sua esperienza diretta come filologo dove l’assunzione dell’antichità classica come modello, lo studio dell’arte e della letteratura greca, vengono usati per poter fare una critica e per poter dare un giudizio sul presente che inevitabilmente appare come decadenza e degenerazione.
In Hegel il concetto di classico (anche se non definitivo in quanto non rappresenta la forma compiuta dello spirito) è una perfetta coincidenza di interno e esterno, di cosa in sé e fenomeno; nonostante questo concetto non sia definitivo, comunque viene inscritto in un contesto dove si presuppone una possibile coincidenza tra essenza e manifestazione. Nietzsche invece, sotto l’influenza di Schopenhauer, considera il classico come modo di reagire difensivamente alla possibilità di questa coincidenza e di conseguenza tutti i caratteri con i quali si è soliti contraddistinguere il classico (cioè l’equilibrio, l’armonia, la perfezione) si rivelano essere nient’altro che maschere. Nonostante questo comunque Nietzsche conserva nella classicità una qualche forma di modello che però non viene più visto come realizzazione esemplare di coincidenza tra interno ed esterno, ma viene invece inteso come configurazione della divergenza tra essere e apparire, quindi una particolare forma di maschera. Nietzsche rimane quindi in un certo senso classicista, anche se individua ancora, sia pure non più nella classicità tradizionalmente intesa, un modello di cultura non decadente. Ciò significa che la decadenza e in generale la valenza negativa dei fenomeni storici, non si identifica nel suo essere maschera, cioè nel divergere dalla cosa in sé. Quindi si dovrà distinguere tra una forma di mascheramento non decadente e invece una maschera decadente. Rimane comunque in Nietzsche una residua “volontà di verità” che contraddice nettamente con la scoperta che non c’è verità possibile nell’esistenza storica.
L’approccio alla civiltà come maschera può essere assunto come motore centrale dell’ itinerario speculativo di Nietzsche dalla riflessione sui greci, fino alla nozione di superuomo (o oltreuomo). Intorno al rapporto tra essere e apparire si costituisce quindi tutto il pensiero nietzscheano.
• La maschera dell’uomo contemporaneo
Come filologo Nietzsche non studia l’antichità classica con lo spirito dello scienziato che ricostruisce “obbiettivamente” un mondo passato, ma la studia utilizzando le tre modalità secondo cui è possibile fare storia cioè con un’ atteggiamento antiquario, critico e monumentale, creando nell’antichità esempi e modelli per il presente di fronte ai quali, la vita si caratterizza come decadenza, ma non per una mancata corrispondenza con qualche canone formale, bensì con il rapporto forma-contenuto, interno-esterno, essere-apparire. L’uomo contemporaneo appare a Nietzsche caratterizzato dalla totale assenza di coerenza tra forma e contenuto, per cui la forma non può che apparire come un travestimento. Il travestimento non è qualcosa che ci appartiene naturalmente ma si assume deliberatamente in vista di qualche scopo. Nel caso dell’uomo moderno, questo travestimento, viene assunto per combattere uno stato di paura e di debolezza. La malattia storica, cioè la consapevolezza esasperata del carattere divenuto e diveniente di tutte le cose ha reso l’uomo incapace di creare davvero la storia. Questa incapacità è data dalla paura di assumersi responsabilità storiche in prima persona.
Il travestimento nasce dunque dall’insicurezza e significa assunzione di maschere convenzionali, irrigidite; nella Nascita della tragedia infatti Nietzsche parla di maschere con una sola espressione a proposito del decadere della tragedia dopo Euripide e Socrate (questo particolare esempio di mascheramento è analogo a quello delle figure convenzionali che analizza Kierkegaard).
Un altro esempio di mascheramento lo troviamo nel saggio Sulla verità e sulla menzogna in senso extramorale dove l’uomo viene indicato come quell’ animale che, trovandosi ad essere più debole di molti altri, ha assunto come sola possibile arma di difesa la finzione; l’intelletto quindi diventa un mezzo per la conservazione dell’individuo e sviluppa tutte le sue forze principali nella finzione. La scienza stessa nasce, secondo Nietzsche, come sistema di finzioni escogitate dall’intelletto per garantire la sopravvivenza dell’animale-uomo in mezzo ad una natura ostile e soprattutto nella competizione con altri individui della sua stessa specie. Nietzsche vede la scienza dunque come un sistema di concetti convenzionali, di metafore, escogitati dall’uomo per ordinare il mondo e che è a sua volta basato su di un sistema metaforico di base che è poi il linguaggio.
• La duplicità della “maschera-classico” e la sua genesi
Nella Nascita della tragedia il tema della maschera è ricondotto al dolore, e mostra le radici del conflitto in cui si trova coinvolto anche l’uomo moderno, in funzione del quale egli assume la finzione come travestimento e arma. Si tratta del classicismo di Nietzsche : la nostra civiltà appare come fenomeno di decadenza se messa a confronto con l’antichità classica, ma nonostante ciò la nostra decadenza appartiene ad una storia di cui fa parte (come momento iniziale o comunque privilegiato) anche quella classicità con cui si intende confrontarla. Il mondo classico dell’armonia tra interno e esterno viene chiamato da Nietzsche “mondo della cultura apollinea”. Fin dai tempi di Winckelmann si credeva che i greci avessero potuto creare un mondo di bellezza e di compostezza solo perché essi stessi erano vivi esempi di una umanità serena ed equilibrata, ignara di conflitti. Ora Nietzsche mette in contrasto questa serenità con la saggezza popolare di alcuni miti greci come quello di Re Mida. Attraverso questo mito Nietzsche introduce l’altra faccia dell’anima greca, cioè quella dionisiaca, presente nella civiltà classica, nonostante non emerga in maniera definita. Tramite il dionisiaco i greci antichi avevano una visione lucida ma terrificante della “verità” dell’esistenza. Quindi questa veniva personificata nelle divinità dell’Olimpo in quanto altrimenti sarebbe risultata insopportabile. In questo modo tutti i caratteri dell’esistenza venivano trasferiti in un dominio dove non esiste più il terrore della morte o l’annientamento. Quindi la cultura apollinea, che trova la sua massima espressione nella statuaria greca, non è altro che un’illusione, una maschera che serve a sopportare l’esistenza, la quale viene colta invece nella sua interezza dalla saggezza dionisiaca con cui condivide il carattere oscuro e caotico. Riconoscendo nell’essenza dell’esistenza la contrapposizione dell’apollineo e del dionisiaco, di tutti i contrasti interni,e quindi del molteplice, Nietzsche prende le distanze dalla concezione dell’essere come L’Uno di Schopenhauer e lo inserisce comunque nel quadro decadente.
• L’orizzonte storico: l’Olimpo della modernità
La funzione che gli dei dell’Olimpo hanno, nella Nascita della tragedia, di proteggere l’uomo dalla lucida intuizione dionisiaca dell’essenza caotica dell’esistenza, sembra essere svolta dalla delimitazione dell’orizzonte nel caso della storia, come viene descritta nella seconda Inattuale. L’uomo per poter effettivamente incidere nella storia, deve delimitare il suo orizzonte fondando le sue azioni sui valori fondamentali appartenenti al contesto storico in cui vive. Quindi nella seconda Inattuale, oltre che al travestimento dell’uomo decadente, il quale non sa prendere iniziative ma si maschera assumendo ruoli stereotipati, maschere con una sola espressione, troviamo anche un’altra forma di mascheramento, cioè la definizione di un orizzonte dell’azione storica.
• Liberazione dal dionisiaco o del dionisiaco?
Passando a parlare più specificatamente del tema della maschera nella Nascita della tragedia possiamo dire che il problema che inizialmente Nietzsche pone a proposito della tragedia come forma d’arte che aspira alla liberazione “dal” dionisiaco, cioè della fuga dal caos nel mondo delle apparenze, tende a trasformarsi in quello della liberazione “del” dionisiaco. Infatti nella tesi generale dell’opera, cioè che la tragedia come forma d’arte più alta esprime la complementarietà dei due principi, apollineo e dionisiaco, si risolve in ultima analisi nella riduzione dell’apollineo al dionisiaco, cioè nella ricollocazione della forma definita nel fluido caotico da cui è nata ed è nutrita. A conclusione delle pagine dedicate al Tristano, Nietzsche scrive:
“nell’effetto complessivo della tragedia, il dionisiaco prende di nuovo il sopravvento; essa chiude con un’ accento che non potrebbe mai risuonare nel regno dell’arte apollinea. E con ciò l’inganno apollineo si dimostra per quel che è, cioè per il velo che per tutta la durata della tragedia ricopre costantemente il vero e proprio effetto dionisiaco: il quale è tuttavia così potente, da spingere alla fine, lo stesso dramma apollineo in una sfera in cui esso stesso comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e in cui nega se stesso e la sua visibilità apollinea. Così si potrebbe in realtà simboleggiare il difficile rapporto fra apollineo e dionisiaco nella tragedia con un legame di fratellanza tra le due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso.” Da Nascita della tragedia 22
Il mito tragico è da intendere solo come una simbolizzazione di sapienza dionisiaca attraverso mezzi artistici apollinei. Bisogna quindi volere il ritorno dell’apollineo in seno al dionisiaco che l’ha generato. Questo processo non è giustificato con la necessità di sfuggire alla sofferenza, intesa come paura e bisogno, in quanto la paura rientra anch’essa in una determinata configurazione storica. Essa è il modo di essere dell’uomo nell’epoca della decadenza; non può quindi essere assunta come radice universale del mondo delle apparenze e della maschera, giacché queste rientrano in una delle possibili connotazioni storiche, che questo mondo delle maschere assume. Bisogna quindi intendere questa sofferenza come interna multiformità dell’essere.
• Lirica e tragedia come arti supreme
La riduzione del mondo apollineo al suo fondo dionisiaco, è rappresentata anche dalla lirica, allo stesso titolo della tragedia, come la sintesi tra l’impulso apollineo (che guida il poeta epico e lo scultore) e l’impulso dionisiaco (che guida il musicista). Le immagini del lirico non sono nient’altro che lui stesso, quasi diverse sue oggettivazioni, e risultano più complete e autentiche di quelle dell’epico e del musicista. Se il problema fosse solo fuggire dal dionisiaco, l’epopea sarebbe l’arte suprema, se invece fosse solo immedesimarsi nel dionisiaco, l’arte maggiore sarebbe la musica (come accadeva in Schopenhauer quando avviene l’identificazione nell’Uno primordiale). Invece, come già detto prima, con le conclusioni sul discorso di Tristano nella Nascita della tragedia l’arte suprema è la tragedia perché si ha un processo di identificazione nelle immagini analogo a quello della lirica, che esclude sia l’oggettività propria della scultura e dell’epica, sia il confondersi caoticamente nel tutto, peculiare del musicista dionisiaco.
E’ questo processo di identificazione la vera alternativa al “travestimento” per debolezza, proprio dell’uomo della decadenza. Anche il lirico e la tragedia vivono nel mondo della maschera. Quindi la maschera decadente è il travestimento dell’uomo debole, e più in generale è ogni maschera nata dalla paura e dall’insicurezza; mentre la maschera non decadente nasce dalla forza e dalla sovrabbondanza del dionisiaco. Questa diversificazione della maschera è implicitamente presente nelle sue opere giovanili.
• La nascita della tragedia e l’importanza del Satiro
Dalla tesi che Nietzsche elabora sulla genesi della tragedia dal coro tragico appare chiaro che non si tratta di fuggire dal dionisiaco come mondo di paura e di insicurezza, ma di ritrovarlo come mondo di libertà, creatività e di eliminazione di barriere anche sociali. Nel passaggio dal coro alla tragedia, la nascita dell’apparenza apollinea ha caratteri diversi dalla finzione e dal travestimento radicato nella paura e nella debolezza: anzitutto già la trasformazione dell’uomo in Satiro è di per sé una forma di “maschera”, di trasformazione in altro da sé, e certo non si può dire che risponde alla necessità di fuggire dal dionisiaco verso il mondo apollineo. L’intera vicenda inoltre è apollinea solo in quanto ha assunto una certa definitezza, ma il suo “contenuto” è dionisiaco. Le vicende tragiche dei personaggi-tipo della tragedia classica, sono in se stesse dionisiache, cioè non hanno il senso del rifugio nel mondo apollineo, ma, come la trasformazione dell’uomo in Satiro, significano anch’esse la rottura di ogni ordine rigido, di ogni confine, di tutte le regole. Il processo attraverso cui l’uomo comune diventa Satiro, non è un processo che va dal dionisiaco all’apollineo, ma piuttosto un circolo in cui si susseguono dionisiaco-apollineo-dionisiaco. La genesi della tragedia è tutto un gioco di immedesimazione in altro da sé. Il rapporto dell’uomo comune col Satiro è analogo a quello del lirico con le immagini della sua poesia: è un rapporto di immedesimazione così profonda che esclude l’assunzione della maschera come semplice travestimento perché ne sopprime la stessa esigenza di mascheramento. La paura, la debolezza e il bisogno di difesa sono tutti aspetti costitutivi del mondo puramente apollineo, dove ognuno ha una forma predefinita ( padrone- servo, padre-figlio). Il Satiro supera tutto il mondo delle divisioni e dei conflitti, proprio assumendo fino in fondo la maschera, operando una totale uscita da sè e una completa immedesimazione, tanto da riscattare la maschera da ogni elemento di inganno, e da trasferirsi in un mondo dove questa continua trasformazione, è vista come segno di una recuperata vitalità originaria. Queste premesse elaborate nella Nascita della tragedia subiranno una lunga rielaborazione e matureranno nell’idea dell’oltreuomo.
• Esempi di “figure-Satiro”: Edipo e Prometeo
Le figure nelle quali Nietzsche sembra voler riassumere tutto il senso del mito tragico greco sono quelle di Edipo e Prometeo. In esse, Nietzsche come Freud, leggono una rottura delle barriere e dei tabù familiari e sociali. Nella tragedia che viene vista come forma di catarsi e di liberazione, ciò da cui il greco fugge è il mondo della “realtà” consolidata, delle gerarchie e dei tabù. Analizzando più da vicino questi personaggi possiamo dire che Edipo ha sciolto l’enigma della Sfinge perché ha ucciso il padre e ha sposato la madre, in quanto l’unico modo per costringere la natura a svelare i suoi segreti è contrastarla mediante ciò che comunemente è ritenuto innaturale. Quindi lo stesso Edipo che scioglie l’enigma della natura, deve anche violare, come l’assassino del padre e marito della madre, i più sacri ordini naturali. Anche la figura di Prometeo ha come carattere fondamentale la rottura dell’ordine naturale, delle gerarchie e delle leggi che regolano il rapporto con gli dei. Anche in Prometeo c’è un fondo edipico, in quanto anzitutto va contro la figura paterna rappresentata da Zeus. Il significato dei due miti, è analogo, anche se in Prometeo la ribellione ai tabù familiari, sociali e religiosi ha come scopo la fondazione di una civiltà in cui l’uomo non debba più temere la natura, ma la domini con la tecnica, di cui il fuoco è simbolo.
Essendo la natura equiparabile al dionisiaco a prima vista, il mondo delle apparenze sembra potersi tutto unificare sotto il segno dello sforzo di una liberazione dal dionisiaco; qui rientrano sia la creazione degli dei olimpici, sia l’invenzione della scienza come sistema di finzioni utili per dominare la natura, sia, anche, il travestimento con cui l’uomo della decadenza cerca di nascondere la propria debolezza, insicurezza, paura. Il discorso sulla genesi e il significato della tragedia ci mostra che , di fatto, la liberazione operata dall’arte non è tanto una liberazione dal dionisiaco quanto una liberazione del dionisiaco. Nella tragedia è proprio il mondo delle apparenze definite che viene sconvolto e messo in crisi a tutti i livelli, e solo l’uomo, divenuto Satiro, conquista la possibilità di produrre liberamente apparenze non condizionate dalla paura né finalizzate alla conquista della sicurezza.
Matematica
La crisi dei fondamenti
“Perché mai, o Dei, due e due dovrebbe fare quattro?”
Alexander Pope
Introduzione
Fino ad ora l'attività più profonda dei matematici del XX secolo è stata la ricerca sui fondamenti. I problemi imposti ai matematici, e altri che essi hanno preso volontariamente in considerazione, riguardano non solo la natura della matematica, ma anche la validità della matematica deduttiva.
Nei primi anni del secolo attività diverse convergevano a portare in primo piano il problema dei fondamenti. La prima fu la scoperta di contraddizioni, dette paradossi, soprattutto nella teoria degli insiemi. Numerose altre vennero scoperte all'inizio del secolo; la scoperta di contraddizioni non poteva che disturbare profondamente i matematici. Un altro problema che era stato gradualmente riconosciuto e che venne allo scoperto negli stessi anni è quello della coerenza della matematica. Visti i paradossi sulla teoria degli insiemi, la coerenza, soprattutto in questo settore, doveva essere dimostrata.
Verso la fine del XIX secolo, numerosi studiosi avevano cominciato a rivedere i fondamenti della matematica, e in particolare i rapporti fra matematica e logica. La ricerca in quest’area suggerì a qualche matematico che la matematica poteva essere fondata sulla logica. Altri mettevano in discussione l'applicazione universale dei principi logici, il significato di certe dimostrazioni, ed anche la fiducia nella dimostrazione logica come conferma della fondatezza dei risultati matematici. Le controversie che covavano sotto la cenere prima del 1900 presero violentemente fuoco quando i paradossi e i problemi sulla coerenza aggiunsero nuova legna al fuoco. Da allora in poi la questione di una fondazione corretta di tutta la matematica divenne vitale e d'interesse generale.
• I paradossi della teoria degli insiemi
Un paradosso venne espresso in forma popolare da Bertrand Russell (1872-1970) nel 1918 come paradosso «del barbiere».
Un barbiere di villaggio, vantandosi di non aver concorrenza, si fa pubblicità dicendo che lui ovviamente non fa la barba a quelli che si rasano da soli, ma la fa a tutti quelli che non si rasano da soli. Un giorno gli capita di chiedersi se dovrebbe o no radere se stesso. Se si radesse da solo, allora per la prima parte della sua affermazione non dovrebbe farlo; ma se non si radesse da solo, allora, secondo la sua vanteria, dovrebbe farlo.
Consideriamo un'altra forma di questo paradosso, enunciata per la prima volta da Grelling e da Nelson nel 1908 e pubblicata su una rivista: alcune parole descrivono se stesse. Per esempio, la parola “polisillabica” è polisillabica. La parola “monosillabica”, però, non è monosillabica. Chiameremo le parole che non descrivono se stesse eterologiche. In altre parole la parola X è eterologica se non è essa stessa X. Ora sostituiamo X con la parola “eterologica”. Allora “eterologica” è eterologica se non è eterologica.
Cantor stesso rilevava in una lettera, che non si poteva più parlare di insieme di tutti gli insiemi senza cadere in una contraddizione; ed essenzialmente questo è ciò che viene chiamato in causa dal paradosso di Russell. La classe di tutti gli uomini non è un uomo. Ma la classe di tutte le idee è un'idea. Perciò, alcune classi non sono membri di se stesse, e altre si. Torniamo appunto al paradosso di Russell, e formalizziamolo: sia R l'insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi come elemento. Poniamo allora due casi:
1) Se R є R, poiché R contiene se stesso come elemento, dalla definizione data si dovrebbe dedurre che R є R;
2) Se R є R, poiché R non contiene se stesso come elemento, dalla definizione data si dovrebbe dedurre che R є R.
Si giunge quindi a una contraddizione sia nel caso che si ammetta che R є R sia nel caso che si ammetta che R є R.
La causa di tutti questi paradossi, come rilevano Russell e Whitehead, è che un oggetto viene definito in termini di una classe di oggetti che contiene l'oggetto stesso. Sarebbe come dire che 3 è la classe di tutti gli insiemi che contengono 3 elementi. Simili definizioni sono dette anche impredicative, e si trovano soprattutto nella teoria degli insiemi.
Questi paradossi turbarono profondamente i matematici, perché compromettevano non solo la teoria degli insiemi, ma una larga fetta dell'analisi classica.
• L 'assiomatizzazione della teoria degli insiemi
L' assiomatizzazione della geometria e dei sistemi numerici aveva risolto problemi logici in quelle aree, e sembrava probabile che con l'assiomatizzazione si sarebbero chiarite le difficoltà della teoria degli insiemi. Il primo ad affrontare il compito fu il matematico tedesco Zermelo (1871-1953), il quale era convinto che i paradossi nascessero dal fatto che Cantor non aveva ristretto il concetto di insieme. Nel 1895 Cantor aveva definito un insieme come una collezione di oggetti distinti della nostra intuizione o del nostro pensiero. La cosa era piuttosto vaga, e perciò Zermelo sperava che assiomi chiari ed espliciti avrebbero chiarito ciò che si deve intendere con insieme e quali proprietà esso debba avere. Cantor stesso non era inconsapevole del fatto che il suo concetto di insieme creava dei problemi. In una lettera a Dedekind del 1899 distingueva fra insiemi coerenti e insiemi incoerenti. Zermelo pensava di poter restringere la definizione di insieme agli insiemi coerenti di Cantor, e che questo sarebbe stato sufficiente per la matematica. Il suo sistema assiomatico conteneva concetti fondamentali e relazioni, definiti solo dagli enunciati degli assiomi stessi. Fra questi c'era il concetto stesso di insieme e la relazione di appartenenza a un insieme. Non veniva usata alcuna proprietà degli insiemi che non fosse garantita dagli assiomi. Anche l'esistenza di un insieme infinito e operazioni quali l'unione di insiemi e la formazione di sottoinsiemi venivano fornite dagli assiomi.
Il programma di Zermelo prevedeva di ammettere nella teoria degli insiemi solo quelle classi che con meno probabilità avrebbero generato contraddizioni. Perciò la classe nulla, ogni classe finita e la classe dei numeri interi sembravano sicure. Data una classe sicura, le classi formate da essa, ogni sottoclasse, l'unione delle classi sicure e la classe di tutti i sottoinsiemi di una classe sicura, dovrebbero essere classi sicure. Tuttavia egli evitava la complementazione perché, mentre x può essere una classe sicura, il suo complemento, cioè tutti i non-x, potrebbe non essere sicuro in qualche universo di oggetti.
La teoria formale degli insiemi di Zermelo evita i paradossi, almeno in quanto finora non ne sono stati scoperti all'interno della teoria. Tuttavia la coerenza della teoria degli insiemi assiomatizzata non è stata dimostrata. A proposito della questione aperta della coerenza, Poincarè osservò:
“Abbiamo messo un recinto intorno al gregge per proteggerlo dai lupi, ma non sappiamo se ci fossero già dei lupi nel gregge”.
L' assiomatizzazione della teoria degli insiemi, anche se lasciava aperte questioni quali la coerenza, avrebbe potuto tranquillizzare i matematici a proposito dei paradossi e portare a un declino dell'interesse per i fondamenti. Ma ormai erano divenute attive e agguerrite molte scuole di pensiero sui fondamenti, indubbiamente risvegliate dai paradossi e dal problema della coerenza. Ai fautori di queste filosofie il metodo assiomatico proposto da Zermelo e da altri non parve soddisfacente. Secondo alcuni esso era discutibile perché presupponeva l'uso della logica, proprio quando la logica e le sue relazioni con la matematica erano sotto indagine. Altri, più radicali, discutevano dell'opportunità di fare affidamento su qualsiasi tipo di logica, soprattutto se applicata agli insiemi infiniti.
Le tre scuole
• La scuola logista
i cui fondatori furono Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Whitehead (1861-1947), si ripropone di fondare tutta la matematica sulla logica: al lavoro di tale scuola si deve, tra l'altro, gran parte del formalismo logico oggi comunemente adottato. Come abbiamo già visto, l'analisi infinitesimale viene fondata sull'aritmetica e questa, a sua volta, sulla teoria degli insiemi: la teoria degli insiemi viene ridotta quindi alla logica: non è necessario alcuno degli assiomi propri di ciascuna delle teorie matematiche, che divengono così semplici estensioni della logica e dei suoi assiomi. Tuttavia, per rendere possibile tale costruzione, i logicisti dovettero introdurre degli assiomi, quali l'assioma della scelta e l'assioma della riducibilità, che furono fortemente criticati, essendo molto lontani dall'evidenza intuitiva che solitamente si richiede a un assioma. Oggetto di forti critiche fu anche la complessiva artificiosità della costruzione logicista.
• La scuola intuizionista
i cui rappresentanti più importanti sono senza dubbio il francese Jules Henry Poincaré (1854-1912) e l'olandese Luitzen Egbertus Brouwer (1881-1966), si propone invece di rifondere la matematica su basi costruttive e finitiste: il concetto di infinito in atto è, secondo l'intuizionismo, il peccato originale della matematica e la causa di tutti i paradossi. Si osservi che non viene respinto in blocco il concetto di infinito: ad esempio, il concetto di numero naturale è considerato legittimo, in quanto ogni numero naturale può essere costruito applicando la funzione successivo un numero finito di volte a partire dallo zero; l'insieme dei numeri naturali può essere quindi considerato legittimamente, a condizione che lo si consideri come dato in potenza, in quanto ogni suo elemento è costruibile, ma non può essere considerato come dato nella sua totalità.
Questo approccio porta a rifiutare l'applicazione della legge del terzo escluso agli insiemi infiniti: dalla dimostrazione che non tutti gli elementi di un insieme infinito godono di una certa proprietà, non è lecito dedurre l'esistenza di qualche elemento che non gode di tale proprietà, a meno che un tale elemento non possa essere individuato con un procedimento costruttivo. Analogamente è respinta ogni definizione che non indichi esplicitamente il metodo necessario a costruire l'oggetto definito. Il concetto di numero reale, così com'è a noi noto, non è legittimo: gli intuizionisti accettano solo i numeri reali ricorsivi, ossia quei numeri reali che possono essere effettivamente approssimati con una qualunque precisione prefissata in un numero finito di passi.
L'approccio intuizionista è apparentemente molto limitativo, in quanto nega validità alle dimostrazioni per assurdo così comuni nella matematica e, per questo, incontrò forti resistenze. Ciò nonostante gli intuizionisti riescono a ricostruire, sulle basi da essi proposte, buona parte della matematica classica e dell'analisi infinitesimale.
• La scuola formalista
rappresentata soprattutto dal tedesco David Hilbert (1862-1943), fu forse quella il cui programma ebbe, paradossalmente, più successo anche negli insuccessi. Il formalismo si propone di chiarire alcuni fondamentali concetti matematici e metamatematici, quali i concetti di coerenza, dimostrazione e lo stesso concetto di verità, applicando a essi gli stessi metodi della matematica. Nel far ciò assume e rielabora la logica formale proposta dai logicisti e pone così le basi di molte fruttuose teorie, quali la logica matematica nella sua forma attuale, la teoria della ricorsivi, la teoria della dimostrazione, la teoria dei modelli. Pur accettando nella matematica il concetto di infinito e le dimostrazioni per assurdo, il formalismo, per mettersi al riparo dalle critiche intuizioniste e da eventuali paradossi, a livello metamatematico cerca di limitarsi all'applicazione di metodi finitisti e costruttivi. Non ci dilungheremo oltre nell'esposizione dell'approccio formalista, perché esso è, sostanzialmente, quello seguito nella parte teorica di questo capitolo. Ci limitiamo a osservare che il programma di Hilbert, che era quello di dimostrare la coerenza dell'aritmetica, fallì definitivamente nel 1931, quando l'austriaco Kurt Gödel (1906-1978) dimostrò l'indimostrabilità della coerenza dell'aritmetica con metodi finitisti: si tratta di un corollario del famoso teorema d'incompletezza.
1° teorema di Gödel:
Se il sistema formale P è non contraddittorio, allora è sintatticamente incompleto, nel senso che esiste una proposizione G di P tale che tanto G quanto ~G sono indimostrabili in P.
2° teorema di Gödel: se P è non contraddittorio, la sua non contraddittorietà non può essere dimostrata in P; più precisamente scelta opportunamente una formula, diciamo N(P), che esprime la non contraddittorietà di P, si ha che N(P) è indimostrabile in P.
Concludendo, si può dire che nessuna delle tre scuole riuscì a raggiungere gli obiettivi che si era prefissata: il logicismo e l'intuizionismo, per motivi diversi, non riuscirono a fornire un approccio alla matematica universalmente accettabile, mentre il formalismo, che ebbe indubbiamente più successo, si scontrò con i risultati di Gödel. Tuttavia, molte delle proposte di questi movimenti ebbero una notevole influenza e aprirono le porte a nuovi fruttuosi sviluppi che ancora oggi sono al centro della ricerca. Nonostante l'«impasse» a cui è giunta la ricerca sui fondamenti, la matematica resta viva e vitale.
Italiano
Pirandello tra vita e forma: Il fu Mattia Pascal
Un personaggio, signore, può sempre chiedere ad un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre “qualcuno”. Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere “nessuno”. Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore
Introduzione
Vissuto nel periodo a cavallo tra ’800 e ‘900, fra il naturalismo e l’inizio del decadentismo Pirandello, come Svevo, è definito uno scrittore isolato, difficile da inquadrare in un movimento letterario ben definito. Proprio a cavallo tra i due secoli si determina la crisi dei valori ottocenteschi, dove viene meno la fiducia nella scienza, nella razionalità e nei valori borghesi. Pirandello vive e rappresenta questa crisi sentendone le contraddizioni, e porta nella letteratura italiana alcuni dei caratteri fondamentali dell’avanguardia europea scaturiti proprio da questa crisi, come il relativismo, la tendenza alla scomposizione e alla deformazione, il gusto per il paradosso, la scelta dell’ironia e dell’espressionismo. Di questa crisi delle ideologie e dei valori morali e culturali, Pirandello ne mostra coscienza già nel saggio Arte e coscienza d’oggi pubblicato nel 1893. In esso descrive la crisi intellettuale e morale della sua stessa generazione dove sono “crollate le vecchie norme” e “non sono ancor sorte o bene stabilite le nuove”, e, a causa di questo, “nessuno più riesce a stabilirsi un punto fermo e incrollabile” perché “i termini astratti han perduto il loro valore, mancando la comune intesa, che li rendeva comprensibili”. A causa di questa “relatività di ogni cosa”, la modernità appare a Pirandello come un intreccio contraddittorio di spinte e controspinte, ciascuna delle quali relegata alla relatività del proprio punto di vista e perciò incapace di aspirare alla verità.
La poetica di Pirandello
• L’umorismo
L’elaborazione della poetica dell’umorismo avviene fra il 1904, data delle due premesse iniziali del il fu Mattia Pascal che gettano già le basi della nuova poetica, e il 1908, anno in cui esce il volume l’Umorismo. L’umorismo pirandelliano è l’espressione del pensiero e della cultura del relativismo filosofico il quale presuppone sia la messa in discussione del positivismo, sia delle ideologie romantiche. Del positivismo Pirandello rifiuta il criterio della verità oggettiva, garantita dalla scienza; del Romanticismo l’idea della verità soggettiva e della centralità del soggetto. Entrano in crisi tanto soggettività quanto la oggettività, ed è il concetto stesso di verità che viene posto radicalmente in questione. Ne deriva un assoluto relativismo che sul piano artistico trova elaborazione nella poetica pirandelliana dell’umorismo. Anche se Pirandello tenta di darle un fondamento eterno e ontologico, in realtà la poetica dell’umorismo nasce da una riflessione sulla modernità. La stessa contrapposizione fra l’arte umoristica e quella epica e tragica, di cui si parla nell’Umorismo, deriva dalla constatazione che nella modernità la poesia fondata sul tragico e sull’eroico non è più possibile. Le categorie di bene e di male, su cui si basavano la tragedia, sono infatti venute a mancare. Non esistono più parametri certi di verità perciò l’umorismo non propone valori, ma un atteggiamento esclusivamente critico , e personaggi problematici, inetti nell’azione pratica; mette in rilievo le contraddizioni e le miserie della vita, irridendo e compatendo allo stesso tempo. L’uomo contemporaneo, non avendo più valori su cui fondare il proprio agire, vive creandosi delle illusioni. L’illusione fa si che noi ci vediamo non quali siamo, ma quali vorremmo essere. L’umorista scompone l’illusione e ne scopre il gioco. L’ipocrisia è alla base del vivere sociale perché è più facile attraverso una comune menzogna conciliare tendenze contrastanti. L’umorista toglie la maschera all’ipocrisia e mostra il suo vero volto. Quanto più si è deboli tanto più si sente il bisogno di ingannare gli altri simulando la forza, l’onesta e così via. L’umorista svela quest’ inganno. Come si mente nella vita sociale, presentandoci diversi da quelli che siamo, allo stesso modo si mente a noi stessi, sdoppiandoci e moltiplicandoci, sfuggendo da un’analisi profonda dei veri aspetti della nostra personalità. E’ l’umorista allora che compie quest’analisi.
• Vita e forma, maschere e maschere nude
Per tornare alla discordanza tra arte tragica e umoristica, un’altra differenza possiamo trovarla nel modo di rappresentazione del mondo interiore dei personaggi; usando le parole dello stesso Pirandello possiamo dire che:
“un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e ripugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze.”
Proprio per la sua attitudine alla scomposizione e alla conseguente analisi che l’arte umoristica riesce così bene a evidenziare il contrasto tra forma e vita e tra personaggio e persona. L’uomo crede che la vita abbia un senso e perciò organizza l’esistenza secondo convenzioni. Sono questi autoinganni che costituiscono la forma dell’esistenza: essa è data dagli ideali che noi ci poniamo, dalle leggi civili e dal meccanismo stesso della vita associata. La forma blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, essa cristallizza e paralizza la vita. Quest’ultima è una forza profonda e oscura, un flusso continuo che fermenta sotto la forma in cui noi ci fissiamo ma che riesce ad emergere solo nei momenti di malattia, di notte o negli intervalli in cui non siamo coinvolti nel meccanismo dell’esistenza. L’umorismo sottolinea ironicamente i modi in cui la forma reprime la vita e rivela gli autoinganni con cui il soggetto si difende dalla forza sconvolgente dei bisogni vitali. Il soggetto è costretto a vivere nella forma, non è più una persona integra, coerente e compatta, ma si riduce ad una maschera (o a un personaggio) che recita la parte che la società esige da lui e che egli stesso si impone secondo i suoi ideali morali. Proprio per questo nell’arte umoristica non sono più possibili né persone né eroi, ma solo maschere o personaggi.
Il personaggio ha davanti a se solo due strade: o sceglie l’ipocrisia, l’adeguamento passivo alle forme, oppure vive consapevolmente, amaramente e autoironicamente, la scissione tra vita e forma. Nel primo caso è solo una maschera, nel secondo diventa una maschera nuda dolorosamente consapevole degli autoinganni propri e altrui, ma impotente a risolvere la contraddizione che pure individua. In questo caso interviene la riflessione e il personaggio più che vivere, si “guarda vivere”.
• Dal comico all’umoristico
Chi si guarda vivere non compatisce solo gl’altri, ma anche se stesso. E’ proprio questo distacco riflessivo che distingue l’umorismo dalla comicità. Nel comico infatti è assente la riflessione perché nasce dal semplice e immediato “avvertimento del contrario”; la risata nasce dall’avvertire che una situazione o un individuo sono il “contrario” di come dovrebbero essere. L’umorismo invece è il “sentimento del contrario” e subentra quando si riflette sul perché quella situazione o quell’individuo sono il contrario di come dovrebbero essere e così al riso si sostituisce il sentimento amaro della pietà. Il passaggio dal comico all’umoristico è quindi il passaggio dall’ avvertimento al sentimento. Fu lo stesso Pirandello a darci la distinzione tra i due momenti del comico portandoci ad esempio la figura della vecchia imbellettata che cito qui di seguito:
“Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata di abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella signora è il contrario di ciò che una vecchia signora rispettabile dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che forse quella signora non prova nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente si inganna che , parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a se l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre a quel mio primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico”
Il fu Mattia Pascal
Al tempo in cui uscì il racconto, le reazioni negative non mancarono: critici abituati al metodo della narrativa ottocentesca non esitarono a giudicare assurde le innovazioni di Pirandello. Il fatto che Mattia fugge e, per l’errata identificazione del cadavere, si fa credere morto, è una delle principali accuse per l’inverosimiglianza del romanzo pirandelliano. Per questo quando Pirandello trova più tardi nella cronaca un fatto simile, aggiunge alla ristampa del ’21 un appendice al romanzo intitolata avvertenze sugli scrupoli della fantasia, per sostenere la plausibilità delle vicende raccontate. Così facendo, cioè entrando nel merito della verosimiglianza del racconto, di fatto svuota l’artificio del manoscritto in cui Pascal avrebbe raccontato la propria storia. Un’operazione analoga era stata compiuta anche da Svevo all’inizio della Coscienza di Zeno, avvisando, attraverso la premessa del dottor S., che quanto sta per raccontare è solo un cumulo di “verità e bugie”. Mentre il narratore ottocentesco intende persuadere il lettore di stare raccontando una verità, il narratore primonovecentesco, a causa della crisi delle certezze che pervade tutto l’inizio secolo, non crede più ad alcuna verità, neppure alla propria, e invita il lettore alla diffidenza e alla sorveglianza critica.
La caratteristica fondamentale dello stile narrativo di Pirandello sta proprio nella sua straordinaria capacità di inventare situazioni, vicende e storie, ora comiche , ora pietose, ora grottesche, ma sempre strane, talvolta assurde. La scelta della vicenda, è il momento più importante della creazione artistica secondo Salinari, perché un sentimento del mondo così disgregato e contraddittorio, una visione della vita in cui domina il caos e l’irrazionale, non può che cogliere nella realtà che lo circonda tutti gli aspetti più assurdi e contraddittori, e metterli a confronto con i dati del senso comune, della società costituita. La trovata è dunque la caratteristica essenziale del suo stile. In questo senso Il fu Mattia Pascal rappresenta il romanzo della svolta. Inoltre in esso già si applica la poetica dell’umorismo; Pirandello vuole esplicitamente collegare il romanzo al saggio sia tramite le due premesse iniziali e il capitolo XII e XIII che sono veri e propri contributi teorici alla poetica dell’umorismo, sia tramite la dedica del saggio “alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”.
• Le premesse iniziali e i capitoli XII e XIII
Nelle due premesse il relativismo moderno e il conseguente umorismo sono fatti dipendere dalla scoperta di Copernico e dalla fine dell’antropocentrismo tolemaico: la rivelazione che l’uomo non è più al centro del mondo ma costituisce un’entità minima e trascurabile di un’ universo infinito e inconoscibile rende assurde le sue pretese di conoscenza e di verità e “relative” tutte le sue fedi. Secondo Pirandello, che qui si esprime tramite Pascal, le strutture narrative dei romanzi di tipo tradizionale, li rendono incapaci di rappresentare la reale condizione umana successiva alla scoperta di Copernico.
Nel Cap.XII si descrive quanto succederebbe in seguito ad uno strappo nel cielo di carta di un teatrino: l’eroe tradizionale, Oreste, che crede in valori assoluti, che sa distinguere nettamente il bene dal male ed è perciò pronto ad uccidere per fare giustizia., si distrarrebbe di fronte all’imprevisto, all’”oltre” che gli si spalanca davanti: improvvisamente cesserebbe di vivere e comincerebbe a “guardarsi vivere” trasformandosi in una sorta di moderno Amleto e divenendo di fatto un’antieroe, un inetto incapace d’azione.Lo strappo nel cielo di carta rappresenta il nostro comprendere di non essere al centro dell’universo, e la consapevolezza della propria piccolezza insignificante nell’economia della storia e dell’universo. Se il cielo si strappasse, all’uomo alimentato da grandi valori, si sostituirebbe l’uomo contemporaneo pensoso, diviso, contraddittorio ed incapace di decisioni e azioni. Questo brano va collegato a quello sull’impossibilità dell’epica e della tragedia nel mondo moderno che abbiamo già trovato nel saggio sull’umorismo. Un’altra parte che l’autore riprenderà quasi integralmente nel suo saggio l’Umorismo, è parte del testo del capitolo XIII sulla teoria del lanternino che ripropongo qui di seguito:
• I temi del romanzo: la “lanterninosofia”
Gli estratti sopra citati fanno parte del discorso sulla “lanterninosofia” come la definisce Barilli. Paleari sostiene che la coscienza umana è come un lanternino debole e fumoso che, col suo stesso accendersi, interroga l’intatta continuità dell’Essere, la Notte compatta e uniformemente distesa, generando dubbi e problemi. Solo per un autoinganno l’uomo può ritenere che la luce del lanternino della propria coscienza sia la luce stessa delle cose poiché l’uomo ha bisogno di verità assolute per credere che i propri valori siano certi e che quindi la realtà sia oggettiva.
In realtà queste non sono che proiezioni soggettive da cui ne deriva il carattere illusorio di qualunque certezza, anche di quelle date dalla religione e dalla scienza. A complicare le cose va aggiunto che gli stessi lanternini delle coscienze individuali cessano di illuminare il cammino nei momenti di trapasso e di crisi: infatti essi perdono la luce dei lanternoni, cioè delle grandi ideologie collettive che sono storicamente determinate. Quando questi lanternoni cessano di fare luce a causa dello sviluppo storico che rende improponibili i valori del passato, allora anche i lanternini si spengono.
• La libertà
Alla luce delle teorie di Anselmo Paleari, si può dire che uno dei temi portanti è quello incentrato sulla crisi d’identità, ma secondo alcuni critici, tra cui Enzo Lauretta, non rappresenta il motivo principali di fondo come invece è in Uno, nessuno e centomila. Piuttosto quella di Mattia risulta una storia di libertà. Posseduta nella prima parte del romanzo, nella “zona campestre”, la libertà viene persa con il “laccio” del matrimonio e quindi della forma, per poi essere recuperata a pieno, grazie alle infinite potenzialità della nuova vita. Sennonché nel duro confronto con l’esistenza, Mattia comincia a rendersi conto di dover porre “un certo freno alla mia libertà” ”così sconfinata ma anche un tantino tirannica” perché “nella mia libertà sconfinata mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo”. Senza la maschera che portava prima infatti Mattia si sente “sperduto in quella nuova libertà illimitata”.
• La famiglia, lo spiritismo, l’inettitudine
Nel tema della libertà abbiamo accennato al matrimonio, visto come “laccio”. La duplicità della famiglia, sentita come nido o come prigione, rappresenta uno degl’altri temi che intercorrono il romanzo. La famiglia iniziale, fondata sul rapporto di tenerezza tra Pascal e la madre è sentita come idillio minacciata dall’avidità dell’amministratore; Il rapporto coniugale con Romilda e quello con la suocera, è considerato invece come una prigione. In questo secondo caso, sembra possibile solo l’evasione. Pirandello comunque tiene distinti il matrimonio e l’amore. Un altro dei temi presenti è quello del gioco d’azzardo che affascina molto Pirandello poiché l’importanza del caso e il potere della sorte contribuiscono a rafforzare la sua teoria della relatività della condizione umana, sottolineando i limiti della volontà e della ragione. Nella stessa direzione va l’interesse per lo spiritismo e per i fenomeni non spiegabili scientificamente, indotto dalla crisi del razionalismo positivista. Interessante è la somiglianza tra la seduta spiritica in casa Paleari con quella che impegna Zeno in casa Malfenti.
Mattia ci si presenta come un “inetto a tutto” con una straordinaria corrispondenza con la figura di Zeno Cosini. Mattia sogna un’evasone che alla fine risulterà impossibile, trasformandosi consapevolmente in un antieroe reso inadatto alla vita pratica dalla sua stessa tendenza allo sdoppiamento, a vedersi vivere.
• La struttura
Oltre alla novità ideologica, questo romanzo Pirandelliano propone una novità anche sul piano strutturale. Anzitutto si tratta di una narrazione retrospettiva in prima persona, che inizia a vicenda conclusa e in cui l’inizio coincide con la fine. Il romanzo consta di tre parte che rappresentano tre diversi modelli di romanzo. Negl’ultimi due capitoli e nelle due premesse (che rappresentano i primi due capitoli) il protagonista è il “fu” Mattia Pascal. Egli vive in una condizione di non vita, di acronia, di totale estraneità rispetto all’esistenza, in un tempo fermo e in uno spazio morto (quello di una biblioteca che nessuno frequenta). Siamo in una situazione in cui non si può sviluppare alcuna storia, e il modulo narrativo quindi è quello dell’antiromanzo. Una seconda parte la possiamo individuare nei capitoli III-IV; qui il protagonista è il giovane Pascal e il romanzo è quello idillico-familiare, la “zona campestre”, dove la civiltà industriale moderna penetra a causa dell’amministratore ladro Batta Malagna che pone in crisi il precedente equilibrio. Lo snodo tra la seconda e la terza parte lo troviamo nel capitolo VII, dove Mattia decide di cambiare identità. Comincia a questo punto la terza parte del romanzo dove il modello romanzesco è quello del romanzo di formazione o buildingsroman. Lo spazio cambia ancora, e dalla campagna si passa a quello delle grandi città. Di questa terza parte il protagonista è la reincarnazione (se così è lecito definirlo) di Mattia, Adriano Meis, che cerca di costruirsi un nuovo io senza più obblighi di sorta. Ma in realtà la sua esperienza si risolverà in un fallimento e quindi si potrebbe definire si un romanzo di formazione, ma alla rovescia. A questo punto, giunti agl’ultimi due capitoli torniamo nell’antiromanzo in cui il protagonista, il “fu” Mattia Pascal, decide di restare nel paese natale come “fuori dalla vita” Ormai Pascal è diventato una maschera nuda, non vive più, ma guarda vivere.
C’è chi vuole vedere nel discorso finale di Mattia, come ad esempio Benedetto Croce, una specie di morale manzoniana sostenendo che “ fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi […], non è possibile vivere”. Ma lo stesso Mattia può obbiettare che, sia pure per circostanze esteriori non gli è affatto accaduto di rientrare “né nella legge né nelle mie particolarità” . Pascal ha capito insomma che l’identità non può esistere, ne, tanto meno, può essere garantita da uno “stato civile” che semmai riduce l’uomo a forma, a maschera.
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