Il XVII secolo: caratteri generali

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Testo

IL XVII SECOLO. CARATTERI GENERALI
L’economia europea nel XVII secolo
L’economia europea aveva manifestato i primi sintomi di difficoltà verso la fine del Cinquecento, ma nel Seicento il rallentamento dell’espansione economica si fece più evidente e si accompagnò ad altri fenomeni. Alcuni paesi, come Italia, Spagna, Germania, Boemia e Polonia, persero prosperità, altri, come Inghilterra e Province Unite, registrarono un progresso; di fronte a difficoltà simili, le risposte furono diverse.
In alcuni paesi, i detentori del potere rafforzarono il loro dominio, bloccando ogni trasformazione economica e sociale; questa strategia s’ispirò al principio che la quantità di beni disponibile fosse limitata e immodificabile: l’unico modo per conservare le proprie posizioni era quello di frenare i processi di cambiamento. Un tale atteggiamento rifletteva la prospettiva di ceti legati alla proprietà terriera e ad una gestione tradizionalistica delle attività economiche.
In altri paesi, soprattutto in Olanda e in Inghilterra, si affermarono i ceti sociali che ritenevano che la ricchezza potesse venire incrementata dal lavoro degli uomini; in questi paesi si affermò una società in cui le innovazioni economiche non erano ostacolate e il denaro divenne la misura di ciò che il singolo poteva fare. L’aumento della popolazione fu contenuto, appena il 7%; mentre in Francia, nei paesi baltici, in Inghilterra e nei Paesi Bassi si verificò una crescita demografica, i paesi dell’Europa centrale e mediterranea persero popolazione. Le cause vanno ricercate nelle guerre, soprattutto quella dei Trent’Anni, che provocò distruzioni nei territori tedeschi, e nelle epidemie, come la peste che colpì l’Italia settentrionale nel 1630 – 1631, e si abbatté poi su tutta l’Europa. Tra i motivi del regresso va segnalato anche l’andamento negativo della produzione agricola, testimoniato dalla frequenza delle carestie.
Al declino della produzione agricola in alcune regioni, fece riscontro il progresso di altre. In Olanda e in Inghilterra, le coltivazioni cerealicole si restrinsero a vantaggio di colture specializzate, con risultati benefici sull’incremento delle attività manifatturiere e dell’allevamento. In Inghilterra, le aziende agricole formatesi attraverso l’acquisto delle proprietà ecclesiastiche e le privatizzazioni dei terreni appartenuti alle comunità rurali, operavano secondo criteri capitalistici, rivolgendosi verso le colture più redditizie e impiegando forza lavoro salariata nella quantità necessaria alla valorizzazione della terra. Questi processi provocarono l’espulsione di lavoratori agricoli dalle campagne, con conseguenze in termini di pauperismo, di ordine pubblico, di assistenza; ma essi consentirono un aumento della quota di popolazione occupata nelle attività non agricole della manifattura, del commercio, della navigazione.
In Spagna e nell’Italia centro – meridionale, si cercò di compensare la caduta delle rendite agricole attraverso la rifeudalizzazione, cioè il ripristino dei diritti signorili sui contadini e sulle comunità rurali, con conseguenze negative per lo sviluppo e la modernizzazione dell’agricoltura.
Nell’Europa orientale si accentuò la tendenza verso il rafforzamento del servaggio dei contadini.
Nel settore manifatturiero, la caduta della produzione ebbe, in certi casi, la dimensione di un tracollo; tali furono i casi di Venezia e di Firenze, dove il declino di alcuni centri produttivi tradizionali fu compensato dallo sviluppo di centri minori e dall’incremento di nuovi settori, e delle regioni meridionali e centrali dell’Europa, che entrarono in una fase di ristagno produttivo. Nei Paesi Bassi e in Inghilterra, si svilupparono nuove attività economiche, indirizzate verso il commercio o verso più moderne attività produttive.
La pesca, la conservazione e la commercializzazione del pesce e delle balene fu tra le voci più significative dell’economia olandese.
La decadenza dei paesi mediterranei si manifestò anche nel settore del commercio: nel Mediterraneo divenne consistente la presenza di navi inglesi e olandesi, grazie a cui si dovette la fortuna del porto franco di Livorno. Le difficoltà economiche e le guerre restrinsero il volume dei traffici europei; ma l’espansione del commercio con mondo extraeuropeo permise alla marina mercantile inglese e olandese di svilupparsi: gli operatori commerciali dei due paesi poterono avvalersi di istituzioni come le compagnie privilegiate e le banche nazionali.
Lo Stato nella prima età moderna
L’affermazione dello Stato giunse a compimento nel XVII secolo, con la definizione dello Stato assoluto. Relativamente ad una popolazione data, residente in un territorio definito, esiste un’autorità unitaria da cui dipende una rete di ufficiali pubblici che garantiscono il rispetto e l’attuazione delle norme ed espletano le funzioni dell’amministrazione pubblica. A quest’autorità, chiamata sovranità, tutti sono tenuti ad obbedire. Lo Stato assoluto monopolizzò le funzioni di produzione ed esecuzione di leggi, punizione di reati, difesa dell’ordine interno e protezione verso l’esterno, prelievo di risorse finanziarie.
La concentrazione di queste funzioni negli organismi dello Stato fu contrastata dai tradizionali centri di potere che venivano spodestati:
o i ceti feudali, esautorati delle loro funzioni politiche, giudiziarie e militari;
o le città, i cui ordinamenti comunali furono svuotati di contenuti effettivi;
o la Chiesa, costretta a venire a patti col nuovo potere.
La configurazione assunta dallo Stato fu risultante di due spinte:
o centripeta, esercitata dal sovrano;
o centrifuga, esercitata da quanti avevano interesse a conservare o ristabilire privilegi e autonomie tradizionali.
I pilastri su cui si costituì lo Stato assoluto furono l’esercito, la burocrazia, la finanza e la mitologia.
L’organizzazione di un esercito permanente, attrezzato e posto alle dirette dipendenze del sovrano, rese esecutivo l’accentramento del potere e promosse uno sforzo d’organizzazione amministrativa e finanziaria. Lo svuotamento del ruolo militare dell’aristocrazia fu determinato dalle trasformazioni in corso nelle tecniche militari:
o crescita d’importanza della fanteria e dell’artiglieria;
o maggiori dimensioni degli eserciti e delle flotte;
o maggiore necessità di personale tecnico.
Gli Stati si dotarono di strutture burocratiche che ebbero stabilità e spessore; la vita delle popolazioni si svolse entro argini predisposti e sorvegliati da funzionari statali stipendiati, specializzati e professionalmente istruiti, che costituivano la pubblica amministrazione.
Gli impieghi pubblici erano ricercati per il prestigio ad essi connesso e per le numerose occasioni di arricchimento personale che offrivano.
Questi pubblici ufficiali rimanevano distinti dalla vecchia aristocrazia: mentre la nobiltà di spada aveva nella dinastia, nella proprietà della terra e nel controllo sugli uomini le basi di un’autonoma potenza; la nobiltà di toga traeva la propria eminenza dall’ufficio ricoperto.
Sia per le forze armate sia per la burocrazia lo Stato aveva bisogno di soldi e, per questo, i sudditi furono trasformati in contribuenti. La deliberazione dei contributi finanziari dovuti al sovrano spettava alle organizzazioni rappresentative dei ceti, ed esse tentarono di salvaguardare questa loro prerogativa, secondo il principio che i contributi votati erano dei liberi donativi e non l’adempimento di un obbligo. L’estensione del prelievo fiscale attraverso imposte dirette e indirette fu lo strumento più importante per fronteggiare il fabbisogno finanziario; altri furono:
o l’ampliamento del patrimonio dinastico e la sua oculata amministrazione:
o la vendita degli uffici e dei titoli nobiliari;
o la riscossione dei dazi doganali;
o l’esercizio di una gamma di diritti d’origine feudale;
o lo sfruttamento delle risorse minerarie;
o la vendita di diritti di monopolio commerciale;
o il controllo delle zecche;
o il ricorso al prestito internazionale;
o la dilatazione del debito pubblico.
I sovrani si presentarono come tutori dell’ordine pubblico, amministratori della giustizia, vigili della religione e della pubblica moralità, promotori del benessere economico dei sudditi. Essi agirono sul piano della cultura, fondando scuole e accademie e proteggendo gli artisti; l’esaltazione del sovrano ebbe manifestazioni nei cerimoniali di corte e dette luogo a fenomeni di divismo monarchico.
La coscienza di appartenere ad una patria nazionale fu sia uno dei fattori che favorirono il consolidamento degli Stati moderni, sia una conseguenza della loro esistenza.
Il mercantilismo
Una delle maggiori novità del Seicento fu l’ampliamento dell’intervento statale in campo economico. Il sovrano doveva curarsi dell’economia quanto della politica interna ed esterna e la prosperità economica era alla base della potenza degli Stati; questa politica d’intervento dello Stato in maniera economica è detta mercantilismo.
La ricchezza di uno Stato dipende dalla quantità di moneta di cui esso dispone: è interesse dello Stato promuovere le attività che fanno entrare moneta, e scoraggiare quelle che la fanno uscire, favorendo le esportazioni e contenendo le importazioni.
Andava incoraggiata l’esportazione di prodotti finiti, mentre dovevano essere frenate l’esportazione di materie prime e l’acquisto, all’estero, di merci costose: erano opportune leggi che limitassero i costumi di lusso. Bisognava proteggere le imprese nazionali dalla concorrenza estera e imporre i propri prodotti sui mercati stranieri.
La ricchezza che si poteva accumular grazie alle esportazioni dipendeva anche dal volume della produzione: era necessario produrre di più; era opportuno far sì che i sudditi lavorassero il più possibile e che le merci nazionali fossero prodotte a costi competitivi, vigilando che i prezzi dei prodotti agricoli e dei salari non divenissero troppo alti. Sia per produrre di più, sia per imporre all’estero la propria supremazia commerciale, doveva essere perseguita una politica d’accrescimento demografico.
I mercantilisti miravano a:
o incrementare la produzione nazionale;
o innalzare barriere protezionistiche;
o realizzare il massimo possibile d’autosufficienza.
Una politica del genere poteva essere perseguita solo da Stati forti: il mercantilismo ebbe applicazioni in Inghilterra e in Francia, mentre trovò poco seguito in Olanda.
Le società europee
La società europea era costituita in tre ordini: clero, nobiltà e terzo stato; ogni individuo apparteneva ad uno di essi, per:
o diritti e doveri legati alla sua condizione;
o stili di comportamento cui era educato e vincolato;
o reputazione pubblica e appellativo con cui era designato.
Questa costituzione per ordini, cui ci si atteneva sul piano politico e giuridico, non corrispondeva all’effettiva stratificazione della società dal punto di vista del potere economico. Inoltre, la mobilità sociale era agevole ed era consuetudine che ai vertici delle gerarchie ecclesiastiche accedessero gli aristocratici e che le famiglie più ricche del terzo stato acquistassero un titolo nobiliare.
Il clero deteneva, nell’Europa cattolica, una parte della proprietà terriera, e i vertici ecclesiastici godevano di rendite cospicue; non mancavano proteste contro questa ricchezza, ma essa fu vista come uno strumento di prestigio e di potenza utile alla causa religiosa. Il clero era numeroso e registrò un incremento, dovuto a:
o privilegi fiscali, economici e giurisdizionali, connessi allo stato ecclesiastico;
o strategie attuate dalle famiglie aristocratiche, che indirizzavano alla Chiesa i figli cadetti e le figlie allo scopo di non disperdere il patrimonio familiare;
o accresciuta domanda di servizi religiosi da parte delle comunità.
Le nobiltà europee ressero alle vicissitudini della prima età moderna: la nobiltà rimase cospicua e mantenne la sua supremazia sociale e politica.
La nobiltà era un fatto di nascita: la famiglia era l’istituzione attraverso cui si trasmettevano al primogenito il titolo, il patrimonio e l’autorità; l’egemonia sociale dell’aristocrazia reggeva su quattro pilastri:
o la ricchezza, basata sulla proprietà fondiaria: la terra era il fondamento della posizione nobiliare, e s’identificava la sopravvivenza della discendenza con la trasmissione ereditaria delle terre di famiglia;
o il potere sugli uomini: il signore terriero conservava sui contadini una molteplicità di poteri che andavano dall’esercizio della bassa giustizia, all’imposizione dei monopoli;
o i privilegi politici e giuridici: dalle fila nobiliari proveniva la maggior parte dei collaboratori dei sovrani e dei dignitari ecclesiastici. I nobili monopolizzavano le maggiori cariche militari e diplomatiche, godevano del privilegio d’esenzione fiscale, occupavano la maggior parte dei seggi nelle assemblee rappresentative;
o il loro stile di vita: il primo dovere del nobile era vivere nobilmente, egli non poteva essere trattato alla stregua comune e godeva di un’impunità riconosciuta.
Alla nobiltà antica, di ascendenza cavalleresca, la nobiltà di spada, si affiancò, nel Seicento, una nobiltà nuova, che traeva origine dal servizio in impieghi amministrativi e giudiziari, la nobiltà di toga, che riponeva il suo orgoglio nella propria cultura e capacità professionale.
Le famiglie borghesi s’impegnarono nell’acquisto di titoli nobiliari e nell’uniformarsi allo stile di vita degli aristocratici.
Il terzo stato costituiva un insieme di gruppi sociali differenziati e spesso divisi da ostilità reciproca:
o le famiglie borghesi più eminenti, arricchitesi coi commerci e con le speculazioni finanziarie, controllavano la vita economica e amministrativa delle città e davano lavoro ai cittadini; parte dei loro capitali fu investita nell’acquisto di proprietà fondiarie, di titoli aristocratici e di titoli del debito pubblico;
o l’importanza degli intellettuali si accrebbe con l’espansione urbana, con la complicazione delle tecniche amministrative e finanziarie e con la diffusione della stampa;
o gli artigiani lavoravano per soddisfare i consumi di lusso dei ceti superiori, e godevano di un prestigio conferitogli da capacità tecnica, gusto e tradizione;
o i contadini, proprietari di fondi di modeste dimensioni, erano costretti ad acrobazie economiche per sopravvivere alle annate cattive e non precipitare nella categoria dei lavoranti per gli altri;
o i lavoratori salariati, sia in campagna, sia in città, vivevano in uno stato caratteristico di precarietà, esposti alle variazioni economiche; essi formavano delle fratellanze, spesso tanto combattive da costringere i poteri pubblici a proibirle con la forza;
o i poveri erano i disoccupati, gli inabili, gli emarginati, i vecchi, gli orfani e le vedove; l’atteggiamento della società verso questa popolazione mirava ad istituire un controllo centralizzato nel campo dell’assistenza pubblica e a creare strutture di ricovero e sorveglianza dove i bisognosi fossero disciplinati e avviati al lavoro.
La rivoluzione scientifica
Il Seicento fu il secolo della rivoluzione scientifica: l’immagine del mondo fisico mutò radicalmente e trasformazioni profonde s’imposero nel metodo d’indagine e nella descrizione dei fenomeni naturali; decaddero le forme del sapere antico e medievale, tramontò il sapere magico – astrologico – alchemico, legato alla concezione neoplatonica del mondo e dell’animismo rinascimentale. L’universo si configurò come una macchina, il cui funzionamento era descritto da leggi matematiche che stabilivano relazioni quantitative tra grandezze misurabili.
Nell’indagine dei fenomeni naturali, si fece strada un metodo di ricerca che mirò ad un approccio oggettivo: la nuova scienza chiamò la mente umana a descrivere l’universo secondo i principi del mondo fisico; tra i metodi proposti, i più importanti furono quello di Francesco Bacone, il metodo induttivo, quello di Galileo Galilei, il metodo sperimentale, e quello di Renato Cartesio, il metodo matematico – deduttivo.
Un processo di modernizzazione investì la società occidentale, con la costruzione della macchina burocratica dello Stato, l’avvio di un’amministrazione impersonale della giustizia, l’organizzazione razionale dell’economia, lo sviluppo un’etica intasa come insieme di comportamenti, dettati da competenza e professionalità.
La rivoluzione scientifica ebbe inizio in astronomia e coinvolse la fisica: Galileo, dando credito all’ipotesi copernicana, attraverso l’uso del cannocchiale, aveva visto le stella della via Lattea, la superficie lunare, i cinque satelliti di Giove, le fasi di Venere, l’anello di Saturno e l’esistenza delle macchie solari. Galileo confutò le obiezioni rivolte contro i moti di rotazione e di rivoluzione della Terra, contestando la fisica aristotelica; egli diede la formulazione del moto accelerato e si cimentò con l’enunciazione del principio d’inerzia, fondamentale per la concezione meccanicistica dell’universo, in base a cui il movimento dei corpi era spiegato come la risultante di variazioni prodotte da forze che modificavano lo stato di quiete o di moto rettilineo ed uniforme.
Cartesio illustrò l’origine del sistema solare attraverso un modello di vortici che avrebbero agitato la materia, di cui si componeva l’universo, e dalla quale si sarebbero separate le varie parti.
Nell’astronomia, progressi furono compiuti da Giovanni Keplero, al quale si devono le tre leggi sul moto dei pianeti, le leggi kepleriane, che determinarono il tramonto del sistema astronomico tolemaico:
o sulle orbite ellittiche;
o sulla proporzionalità tra le aree descritte dai raggi vettori e i tempi impiegati a descriverle;
o sulla proporzionalità tra i quadrati dei tempi periodici e i cubi dei grandi assi.
Isaac Newton riuscì a saldare la dinamica terrestre con quella celeste in un sistema unitario di leggi, formulando la teoria della gravitazione universale.
In ambito matematico, oltre ai procedimenti matematici, che permisero di descrivere l’andamento delle linee curve, particolare rilievo ebbe la messa a punto del calcolo infinitesimale.
Lo sviluppo della rivoluzione scientifica fu reso possibile dall’incontro tra le osservazioni e le teorie verificate attraverso gli esperimenti; lo scontro tra Galileo e il Sant’Uffizio verté sul valore da attribuire al sistema copernicano e sull’autonomia della mente umana rispetto al magistero ecclesiastico: per lo scienziato, la concezione di Copernico costituiva la descrizione oggettiva del cosmo, per la Chiesa, questa dottrina, condannata come contraria alla fede, valeva come strumento per il calcolo dei moti planetari.
La nuova mentalità scientifica cominciò ad affermarsi nei campi della medicina e della biologia; nella fisiologia, emerse William Harvey, che descrisse la circolazione del sangue, e l’analogia tra processi fisiologici e processi chimici fu evidenziata da Robert Boyle.
La comunicazione fra gli studiosi fu stimolata dalla nascita di Accademie scientifiche, che pubblicarono saggi e resoconti di esperienze.
Scuole e istituzioni culturali
La crescita della domanda di istruzione scaturì da una pluralità di cause:
o gli Stati avevano bisogno di personale qualificato a svolgere funzioni tecnico – amministrative;
o l’accresciuta complessità della vita economica, legata alla dilatazione geografica dei commerci e all’espansione della circolazione monetaria, richiedeva abilità più complesse;
o le Chiese esigevano dai fedeli comportamenti religiosi più consapevoli ed una conoscenza della dottrina cristiana e delle Scritture;
o la diffusione dell’Umanesimo aveva portato a considerare la formazione culturale come un valore positivo;
o l’accentuazione delle differenze sociali suggerì un utilizzo della scuola come luogo deputato alla formazione delle élites.
Crebbe la sensibilità ai problemi dell’infanzia e dell’adolescenza, da collegare ad una trasformazione delle strutture affettive della famiglia: tale mutamento portò a nutrire un interesse maggiore per l’avvenire dei figli e per la loro educazione.
Nell’ambito della pedagogia, la figura più rilevante fu quella di Comenio, di origine boema, che seppe unire i principi della tradizione umanistica con le esigenze del sapere sperimentale. Egli sottolineò l’importanza della didattica nell’insegnamento e suggerì di graduare le difficoltà cognitive in rapporto allo sviluppo delle capacità dei giovani; distinse vari livelli di scuola e propose un insegnamento di tipo ciclico: in ciascun livello scolastico, dovevano essere insegnate le stesse materie, in forme progressivamente più ampie e approfondite; privilegiò il metodo induttivo e l’osservazione diretta della realtà sensibile.
L’istruzione elementare non fu oggetto di particolare riguardo: le famiglie altolocate curavano l’istruzione primaria dei figli in casa, tramite precettori e personale di servizio, perciò i risultati conseguiti nell’alfabetizzazione rimasero limitati.
Nell’ambito dell’istruzione superiore, si registrò uno sforzo organizzativo: il modello prevalente delle scuole superiori fu quello del collegio privato, gestito da religiosi, che garantiva l’allontanamento dei giovani da ambienti socialmente eterogenei. Verso i collegi dei nobili, gestiti dai Gesuiti, si orientavano le famiglie aristocratiche italiane: i Gesuiti introdussero la pratica di raggruppare più studenti che avessero circa la stessa età, impegnati a svolgere attività programmate e calibrate al loro livello di sviluppo intellettuale.
Gli istituti degli Scolopi erano aperti a giovani di estrazione sociale più modesta e le scuole di Port – Royal erano comunità scolastiche in cui, ad ogni educatore, erano affidati cinque o sei alunni; in queste scuole, l’istruzione fu orientata ad affinare l’intelligenza e a formare il carattere, allo scopo di consentire ai giovani di esprimere giudizi autonomi e razionali.
In ambito protestante, la novità maggiore fu la creazione dei collegia pietatis, scuole pietiste dedicate ai ragazzi del popolo.
Le Università persero la funzione innovativa e divennero luoghi di ripetizione del sapere tradizionale; le ragioni di questo torpore sono da ricercare nella vigilanza che i poteri politici ed ecclesiastici esercitarono su di esse.
Nelle corti europee, gli intellettuali misero a frutto la lezione dell’Umanesimo:
o abbellirono le dimore regali;
o organizzarono feste e cerimonie;
o inventarono motti e divise;
o allestirono spettacoli teatrali e musicali;
o celebrarono i temi cari ai sovrani;
o esaltarono le imprese della dinastia;
o realizzarono musei e biblioteche;
o curarono l’educazione dei giovani principi.
Sotto la protezione di qualche potente, fiorirono le Accademie, in cui furono prevalenti gli interessi letterari. In Francia, i liberi circoli intellettuali lasciarono il posto a forme organizzative dirette dall’alto e confluirono nell’Académie des Sciences, voluta da Luigi XIV; in Inghilterra, l’impronta di libera associazione privata fu conservata, e la Royal Society fu il centro più importante per la circolazione delle nuove dottrine scientifiche. Nacquero giornali informativi come il Journal des Savants e le Philosophical Transactions. Altre libere iniziative intellettuali sorsero in Olanda, dove la censura politica era meno avvertibile.
Repressione e disciplinamento della cultura folklorica
Agli inizi dell’età moderna, la cultura folklorica attraversò una fase cruciale, durante la quale certi suoi tratti e il suo rapporto con la cultura alta mutarono profondamente:
o la cultura folklorica e la cultura delle classi colte divennero sempre più estranee: la presa di distanza da parte delle élites rispetto al sostrato popolare e folklorico tradizionale portò allo sfaldamento della circolarità tra cultura alta e cultura bassa;
o l’intervento dei rappresentanti della cultura ufficiale sul folklore popolare divenne capillare e autoritario;
o la circolazione degli scambi fra le due culture fu una trasmissione dall’alto verso il basso, attraverso forme di trasmissione molteplici, che andarono dalla repressione violenta all’educazione e all’esempio; i risultati furono notevoli, fino a coincidere col parziale annientamento della cultura folklorica o con la sua destrutturazione.
I processi storici che produssero queste trasformazioni furono:
o le modifiche intervenute in campo religioso;
o la nascita della scienza moderna;
o lo sviluppo di una civiltà delle buone maniere;
o la diffusione della stampa;
o la scolarizzazione;
o la tendenza a convogliare la diversità in istituzioni volte a sorvegliare e punire.
Nei confronti della religiosità popolare, incline a scivolare nella magia e nella superstizione, si era levata la protesta degli umanisti e dei seguaci della Devotio moderna; Lutero e Calvino avevano attaccato le espressioni superstiziose insite in queste forme, in nome di una salvezza dell’uomo affidata alla fede.
Nelle comunità calviniste, le superstizioni, le feste, i giochi e gli spettacoli della tradizione popolare furono bollati come manifestazione di paganesimo; nei paesi protestanti si ebbero un arrestamento del magico ed un disciplinamento dei costumi.
Nel mondo cattolico, vi furono dei prelati che cercarono di purificare la religiosità dei loro fedeli da ogni elemento magico – animistico ma, dopo la Riforma, criticare certe devozioni popolari divenne imprudente, poiché anche i protestanti svolgevano questo tipo di critica. Il culto dei santi, dapprima criticato come superstizioso, fu rivalutato.
Le resistenze opposte dalla cultura folklorica non furono vinte facilmente; la manifestazione più tragica della volontà di sradicare tendenze legate alla cultura folklorica si ebbe con la caccia alle streghe.
La rivoluzione scientifica ebbe una parte di rilievo nell’indebolimento della cultura folklorica, in quanto distrusse l’universo magico – animistico in cui essa s’inscriveva.
L’affermazione del meccanicismo comportò l’abbandono di concezioni familiari e vicine al senso comune, come il sistema geocentrico e la visione antropomorfica del mondo; ad esse si sostituirono l’eliocentrismo e teorie che descrivevano i fenomeni naturali in termini di equazioni matematiche. Il tramonto della magia e l’arretramento della cultura folklorica per opera della scienza sono momenti significativi del disincantamento del mondo, cioè del processo di scolarizzazione e di razionalizzazione che caratterizzò la formazione della società occidentale.
Verso esiti di maggior disciplina e razionalità nei comportamenti, condusse il processo di civilizzazione: gli Europei impararono a comportarsi frenando le reazioni istintive e sottoponendosi ad un autocontrollo.
I luoghi da cui si avviò questo processo di civilizzazione furono le corti: la nobiltà, priva del suo segno distintivo tradizionale, quello del valore militare, trovò una nuova forma di distinzione, che segnalava e legittimava la superiorità sociale, nel rispetto di modelli di comportamento elaborati e intellettualizzati. La diffusione della civiltà delle buone maniere fu facilitata dalla pubblicazione di trattati e manuali appositi.
La stampa svolse una funzione duplice e contraddittoria:
o allargò il numero di lettori e rese più agevole l’accesso alla cultura scritta;
o innescò meccanismi di circolazione culturale più rapidi, e accrebbe il divario tra coloro che potevano tenersi aggiornati e coloro che ne rimanevano esclusi.
Il pensiero politico nel XVII secolo
Lo spazio teorico entro cui si colloca la riflessione politica seicentesca è circoscritto da alcune coordinate storico – culturali:
o gli sviluppi della concezione secondo cui la comunità politica è qualcosa di naturale;
o l’affermazione umanistica della responsabilità dell’uomo come creatore della propria storia e artefice del proprio destino;
o la lezione del metodo scientifico, analitico – razionalistico, teorizzato da Cartesio, per cui si mirano a rintracciare, per via razionale e deduttiva, le caratteristiche dell’oggetto in esame;
o l’esperienza della crescita del ruolo dello Stato e dei suoi apparati sul particolarismo dei poteri feudali e la consapevolezza dei rischi che tale processo poteva innescare in termini di limitazione dei diritti degli individui;
o la convinzione che solo la sottomissione di tutti al potere di un’unica sovranità e di un’unica legge preserva gli uomini dall’anarchia.
Questo complesso di idee e di esperienze si sistemò intorno ai due cardini del giusnaturalismo e del contrattualismo.
Il giusnaturalismo è la concezione secondo cui esistono norme di origine naturale che sono universalmente valide il giusnaturalismo seicentesco mirò a laicizzare l’idea dello Stato e a vincolare l’attività del legislatore ad alcuni principi universali.
Il contrattualismo consiste nella tesi secondo cui il passaggio dallo stato di natura all’istituzione della società civile e politica avviene grazie ad un patto che gli uomini stipulano per motivazioni razionali; gli uomini, naturalmente soggetto a certe norme, si accordano tra loro e, da quest’accordo, scaturisce la comunità politica. Questo tracciato teorico, delineato da Huig Van Groot, portò ad esiti differenziati:
o Thomas Hobbes sostenne che gli uomini agiscono spinti dalla ricerca del piacere e che, nello stato di natura, si trovano in una condizione di guerra generalizzata, nella quale ogni uomo è come un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus); gli uomini si rendono conto che il loro bene supremo, la sopravvivenza fisica, è minacciato e, per garantirsi la vita, devono sottomettersi ad un potere vincolante. Il potere è istituito dagli uomini, con lo scopo di imporre autorità e legge: gli uomini hanno rinunciato ad ogni diritto naturale, il cui esercizio provocava la situazione di guerra generale. Il potere statuale è potere assoluto, al quale nessuno ha un legittimo diritto di opporsi, ma esso ha origine umana e si giustifica solo nella misura in cui è capace di assolvere la funzione si garantire l’ordine e la pace.
o John Locke sostenne che già nello stato di natura gli uomini sono in grado di condurre una vita associata e godono dei diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà. Allo stato di natura, possono insorgere conflitti tra i singoli e, finche non esiste un’autorità riconosciuta, non c’è modo di risolverli in maniera legittima; gli uomini si uniscono e, attraverso un patto, danno vita allo Stato che, come compito, ha quello di garantire il pieno godimento dei diritti naturali. Il patto poggia sul consenso dei contraenti ed è un patto d’unione, che impegna lo Stato al rispetto dei diritti naturali d’ogni contraente. Lo Stato assume il profilo dello Stato di diritto, poiché i diritti naturali costituiscono il limite e la legittimazione del potere statale: ne discende l’immagine di una società tollerante e pluralista, in cui la stabilità e l’ordine sociale risultano dall’equilibrio tra esigenze individuali e collettive.
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