Il bove, da Carducci a Pascoli

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura

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Testo

CONFRONTO TRA LE POESIE “IL BOVE”

Le due liriche analizzate sono entrambe sonetti, il primo rimato secondo lo schema ABBA ABBA CDE CDE, il secondo segue invece la successione ABAB ABAB CDE CDE.
La somiglianza più evidente tuttavia è nel nome “Il bove” e conseguentemente nel tema trattato: la campagna.
In realtà tutte e due le poesie, partendo da una descrizione naturale ristretta con protagonista appunto il bove, allargano la visuale ad un orizzonte più vasto, ma in modo differente; nella prima si può notare infatti come ogni strofa costituisca un allontanamento, una “zoomata” all’indietro, parlando prima del fiume vicino all’animale, poi del gregge, in seguito del cielo ed infine del mondo intero. Lo stesso procedimento è riscontrabile all’interno di ogni singola strofa: si parte da un “rio sottile” e un “piano che fugge” e si arriva ad un “mare sempre più lontano” nella prima; la seconda comincia subito con due verbi in posizione strategica perché posti dopo una pausa, uno all’inizio, “ingigantisce”, l’altro a metà (e posto sempre ad inizio verso), “svaria”. Ai verbi dinamici delle quartine seguono, nella seconda metà del componimento, espressioni dotate di maggiore indeterminatezza che non stonerebbero in una lirica romantica sul sublime. L’incipit “ampie ali aprono” contiene una allitterazione della “A” che contribuisce ad espandere il campo, potenziata dallo stesso significato della parola “aprono”, che è quindi scelta dall’autore in funzione fonosimbolica; l’ossimoro “ciel profondo” che chiude la prima terzina, unitamente al “sole immenso”, alle montagne “altissime” (aggettivo posto in rilievo dall’anastrofe “dietro le montagne/cala, altissime” ) conducono direttamente al finale in cui il punto di vista sembra essere addirittura al di fuori del nostro pianeta.
La poesia di Carducci, invece, sposta il punto di vista dagli occhi dell’autore a quelli del bove, che sembra poi fondersi con l’ambiente circostante: “fuma il tuo spirto” (v.10), “il mugghio nel sereno aer si perde” (v.11).
Il poeta vuole elogiare la servilità dell’animale, dipingendolo “solenne come un monumento”, come dice la similitudine al terzo verso, inoltre gli attribuisce l’aggettivo grave due volte, di cui la seconda tramite un’ipallage (“grave occhio” v.12). Lo stesso tipo di figura retorica è usato anche al verso 8: “pazienti occhi”. Il bove è dunque un animale umile che asseconda l’opera dell’uomo, pur mantenendo dignità e, secondo l’autore, felicità (“inchinandoti contento” v.5). Queste caratteristiche sono tali da influenzare sia il poeta, che il ritmo del componimento, lento e pacato, specialmente in corrispondenza di termini come “pazienti”, “lieto” e “quieto”, in cui il suono “IE” allunga la durata della parola.
Dalla prima terzina in poi, la contentezza dell’animale si disperde nell’ambiente circostante, contagiandolo.

Nel primo sonetto, pur non essendo certo un metro innovativo, è possibile riscontrare molti elementi di modernità sia a livello lessicale che a livello sintattico. Vi è infatti uno sfasamento evidente tra metro e sintassi, dovuto sicuramente ai frequenti enjambement, ma anche alla fitta punteggiatura che spezzetta ogni verso in due o più parti, rallentando il ritmo e sottolineando l’importanza di alcune parole. La lirica è inoltre basata su sensazioni di luce rese con uno stile impressionistico: leggendo non si ottiene una immagine netta e stabile, ma impressioni, proprio come quando si osserva un dipinto di Monet, per esempio, in cui dominano la luce e l’indeterminato, qui espresso con parole di uso inconsueto (“ceruleo” v.4, “pulverulento” v.6) e con la presenza della nebbia (“vaghe brume” v.1 e “chimere / simili a nubi” vv.10-11). Un altro elemento di novità è costituito dai nomi specifici delle piante (“il salice e l’ontano” v.6) e, come in parte è già stato detto, dall’utilizzo fonosimbolico della lingua, come ad esempio nell’espressione “imagini grifagne”, in cui il lettore, anche non conoscendo il significato dell’aggettivo, ne intuisce l’aspetto negativo per via del suono spiacevole della “R” e del binomio “GN”.
Nel finale viene svelata quella sensazione d’inquietudine accennata con il termine “grifagne” della penultima strofa: qui, dopo l’immagine limpida del sole, si passa all’immagine scura ed angosciosa delle ombre che crescono, contrapposte per mezzo di un chiasmo, al mondo. Quello che colpisce di tali ombre, come al solito è il colore, che spicca per la sua posizione alla fine del verso: “nere”. L’intera natura, qui descritta in ben tre strofe e mezza, viene ora ricoperta in poco più di un verso dalle tenebre, che non rappresentano solo la notte, ma sono anche simbolo della morte. L’analogia tra natura e morte è infatti un tema ricorrente in molte opere di Pascoli.
Ne “Il bove” di Carducci apparentemente non vi è lo sperimentalismo utilizzato dal suo allievo, poiché tutta la lirica è estremamente bilanciata ed equilibrata: le quartine sono spezzate in due parti uguali dagli enjambement e dalla punteggiatura, che non irrompe come nei versi precedentemente analizzati, ma si limita a poche virgole e a due pause più lunghe (vv.6 e 11). La sintassi è articolata, basta osservare l’iperbato dei primi due versi (“e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi”) e quello finale, che occupa l’intera terzina; ve ne è inoltre uno nella seconda quartina (vv.5-6). Questo equilibrio, unito all’abbondante presenza di figure retoriche e di alcune espressioni arcaiche come “aer”, è dimostrazione dell’importanza dei classici nella poetica di Carducci, ma non si può dire che nella lirica non vi siano elementi innovativi, seppure in minor parte rispetto a quella di Pascoli.
Specialmente nelle due terzine si attribuisce molta importanza al colore e alla luce, arrivando anche a fondere sensazione visiva e uditiva insieme, nella sinestesia finale “silenzio verde”. Il già citato iperbato, in cui compare anche l’ambiguo ossimoro “austera/dolcezza”, contribuisce in maniera determinante a fare di questa parte dell’opera una potente immagine impressionistica.

Analizzando i due sonetti, si può leggere infine lo stato d’animo dei due poeti e il diverso modo di porsi di fronte alla natura: mentre Pascoli è continuamente tormentato dalla sua vita e dal suo passato, Carducci sembra (almeno nel frangente in cui ha scritto questa poesia) più tranquillo e rilassato, forse immedesimato nella figura del bove, animale possente e pacifico, servitore dell’operato umano e completamente coinvolto nell’ambiente circostante.
QUELLO IN ROSSO SONO SOLO GRAN CAGATE!
Andrea Lanzarini

Esempio



  


  1. Francesca Del Giudice

    Parafrasi e figure retoriche della poesia "Il Bove" Giovanni Pascoli