Alessandro Manzoni

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Categoria:Letteratura

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Testo

ALESSANDRO MANZONI
1. La vita
Alessandro Manzoni nacque a Milano nel 1785. Separatisi ben presto i genitori, trascorse la fanciullezza e la prima adolescenza in collegio, sino al 1801, dove ricevette la tradizionale educazione classica, ma concepì anche una profonda avversione per i metodi pedagogici e l’arido formalismo religioso di quegli ambienti. Uscito dal collegio a sedici anni s’inserì nell’ambiente culturale milanese dove strinse amicizia anche con Monti e Foscolo.
Nel 1805 lasciò la casa paterna e raggiunse la madre a Parigi, dopo la morte di Carlo Imbonati, l’uomo con cui ella aveva vissuto dopo la separazione dal marito. A Parigi il giovane Manzoni entrò in contatto con gli “ideologi”, un gruppo di intellettuali che erano gli eredi del patrimonio illuministico. Questi esercitarono una forte influenza nella formazione delle idee filosofiche, politiche, morali e letterarie di Manzoni. A Parigi, il contatto con ecclesiastici di orientamento giansenista, vicini agli ideologi, incise anche sulla conversione religiosa. Sul suo ritorno alla fede cattolica si crede determinante l’influsso della giovane moglie Enrichetta Blondel, che proprio a Parigi si convertì dal calvinismo al cattolicesimo. Quando nel 1810 lasciò Parigi per tornare a Milano definitivamente, un profondo rinnovamento si era compiuto nella sua visione della realtà, che era ormai integralmente ispirata al cattolicesimo. Manzoni abbandonò la poesia classicheggiante e si dedicò alla stesura di una serie di Inni sacri. Un atteggiamento analogo assunse nei confronti della politica: di sinceri sentimenti patriottici ed unitari, seguì con entusiasmo gli avvenimenti del ‘20-’21, ma non vi partecipò attivamente, e non fu toccato dalla dura repressione austriaca che ne seguì. Sono questi gli anni di più intenso fervore creativo di Manzoni, ma con la pubblicazione dei Promessi Sposi, nel 1827, si può dire concluso il periodo creativo di Manzoni.
Durante le cinque giornate, nel 1848, seguì con entusiasmo le eventi politici, pur senza parteciparvi, e diede alle stampe l’ode patriottica Marzo 1821. Negli anni della sua lunga vecchiaia Manzoni fu circondato dalla venerazione della borghesia italiana, che vedeva in lui non solo il grande scrittore, ma anche un maestro, una guida intellettuale, morale, politica. Morì a Milano nel 1873, a 88 anni.

2. Prima della conversione: le opere classicistiche
Tra il 1801 e il 1810 Manzoni compone opere perfettamente allineate con il gusto classicistico allora dominante. Si tratta di opere scritte nel linguaggio aulico e con l’ornamentazione retorica della tradizione, fitte di rimandi mitologici e dotti, nello stile della poesia montiana e foscoliana che conosciamo. Già nel 1801 scrive una “visione” allegorica in terzine, il Trionfo delle libertà, che risente altamente del clima del tempo: colmo di spiriti libertari. Seguono l’Adda, poemetto idillico e quattro Sermoni, in cui polemizza con aspro moralismo contro aspetti del costume contemporaneo. Del 1805 è il Carme in morte di Carlo Imbonati. In questo componimento, dalla delusione storica del giovane Manzoni si può veder nascere l’ideale del “giusto solitario”, che si ritrae dinanzi al caos della storia contemporanea, e si rifugia aristocraticamente nella propria virtù e nella propria sdegnosa solitudine, dedicandosi al culto delle lettere.

3. Dopo la conversione: gli Inni sacri e altre liriche
La conversione fu per Manzoni un fatto totalizzante, che investì a fondo tutti gli aspetti della sua personalità. Dalle argomentazioni di Manzoni traspare una fiducia assoluta nella religione come fonte di tutto ciò che è buono e vero, come punto di riferimento per ogni tipo di scelta, nel campo morale, politico e intellettuale. È inevitabile perciò che la svolta interiore segnata dalla conversione giochi un ruolo determinante nella svolta letteraria di Manzoni. Una lunga tradizione di classicismo aveva visto nel mondo romano l’antecedente diretto della cultura moderna, e vi aveva scorto un modello supremo di civiltà in tutti i campi, quello politico e civile, quello letterario, quello artistico. L’adozione di una prospettiva cristiana induce Manzoni ad un atteggiamento risolutamente anticlassico. Nasce in lui un nuovo interesse per il Medio Evo cristiano, visto come la vera matrice della civiltà moderna. Da questo ripudio della visione classica scaturisce anche un rifiuto della concezione eroica ed aristocratica che celebra solo i grandi, i potenti, i vincitori, ed un interesse per i vinti, gli umili, le masse ignorate dalla storia ufficiale.
Diviene centrale per Manzoni il problema della caduta, del male radicato nella storia, della miseria dell’uomo incline inevitabilmente al peccato. Si forma in lui una visione tragica del reale che non tollera più l’idillica serenità classica, il suo elegante distacco, il mondo fittizio delle belle favole mitologiche. Nasce il bisogno di una letteratura che guardi al “vero” della condizione storica dell’uomo, al di là di ogni finzione evasiva e di ogni convenzione artificiosa. Ne deriva il rifiuto del formalismo retorico, dell’arte come esercizio ornamentale, come gioco fine a se stesso, il bisogno di un’arte che scaturisca da esigenze profondamente sentite, che affronti contenuti vivi nella coscienza, e si prefigga come fine non un ozioso diletto, ma l ”utile”, nel campo morale come in quello civile. Proprio Manzoni, tracciando qualche anno più tardi un bilancio della battaglia romantica, fisserà in una formula sintetica i principi che muovono la ricerca letteraria sua e degli altri intellettuali: “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”.
La prima opera scritta dopo la conversione, gli Inni sacri, nati fra il 1812 e il 1815, fornisce subito l’esempio concreto di una poesia nuova, prima ancora che scoppi la polemica tra innovatori e conservatori classicisti. Manzoni rifiuta il culto del mondo antico, delle sue forme e del suo linguaggio, dall’adozione della mitologia classica come argomento per eccellenza, sentendo la materia mitologica e classica come repertorio ormai morto di temi ed espedienti formali, come qualcosa di “falso”, e decide di cantare temi che siano vivi nella coscienza contemporanea, aderenti cioè al “vero”. Per questo il poeta rinuncia all’aristocratico egocentrismo della poesia precedente, e si propone quale semplice interprete corale della coscienza cristiana, si annulla nella comunità anonima dei fedeli che celebrano l’evento liturgico.
Un’analoga forza di rottura possiede anche la lirica patriottica e civile. Anche qui non resta più nulla del repertorio di immagini mitologiche, di riferimenti storici antichi, di figure retoriche della poesia civile classicheggiante. Viceversa, i fatti contemporanei sono visti nella prospettiva religiosa. Anche i cori inseriti nelle due tragedie rientrano nella poesia lirica, e ne presentano le caratteristiche innovatrici: il coro contiene infatti un ammonimento agli italiani, affinché non facciano affidamento su forze straniere per la loro liberazione nazionale.

4. Le tragedie
Come la lirica, anche la tragedia di Manzoni si colloca in posizione di rottura rispetto alla traduzione del genere. La novità si manifesta in due direzioni: la scelta della tragedia storica e il rifiuto delle unità aristoteliche. Nella tragedia classicheggiante i fatti si svolgevano nell’arco di una giornata, non vi erano mutamenti di scena, non si intrecciavano tra loro più azioni diverse. Manzoni invece vuole collocare i conflitti dei suoi personaggi in un determinato contesto storico, ricostruito con fedeltà. Secondo Manzoni, per creare la poesia drammatica basta ricostruire un fatto storico nella dinamica interna delle sue cause e dei suoi svolgimenti. Per questo il poeta deve essere fedele al “vero” storico, senza bisogno di prendersi arbitri inutili. Proprio questo culto manzoniano del “vero” storico esclude l’osservanza delle unità classiche. Chiudere lo sviluppo di un’azione in stretti limiti di tempo e di luogo, secondo Manzoni, costringe il poeta a esagerare le passioni, per far si che i personaggi giungano in ventiquattr’ore alla risoluzione decisiva. Da questo nasce il “falso” della tragedia classicistica, ciò che Manzoni chiama il “romanzesco”: quella forzatura artificiosa dei caratteri e delle passioni, che non corrisponde alla “maniera d’agire” degli uomini nella realtà. Solo un teatro che si ispiri al “vero” può per lui avere influssi positivi sul pubblico.
La prima tragedia, Il Conte di Carmagnola, scritta tra il 1816 ed il 1820, si incentra sulla figura di un capitano di ventura del Quattrocento. La tragedia affronta dunque un tema centrale della visione manzoniana, la storia umana come trionfo del male, a cui si sottopongono invano esseri incontaminati, destinati inevitabilmente alla sconfitta.
La seconda tragedia, Adelchi (1822), viene svolto con ben altra forza drammatica. La tragedia mette in scena il crollo del regno longobardo in Italia nel VIII secolo, sotto l’urto dei Franchi di Carlo Magno. Questa tragedia si incentra intorno a quattro personaggi: Desiderio, re dei Longobardi, Adelchi, suo figlio, Ermengarda, sua figlia, e Carlo Magno.
Nelle sue tragedie Manzoni introduce il coro, una novità nel teatro tragico moderno. Nelle tragedie antiche il coro era la personificazione dei pensieri e dei sentimenti che l’azione doveva ispirare; era cioè una sorta di spettatore ideale, che filtrava e idealizzava liricamente le passioni provate dal pubblico reale. Il coro manzoniano invece, vuole costituire un “cantuccio” dove l’autore “possa parlare in persona propria”, un momento lirico in cui lo scrittore possa esprimere la propria visione e le proprie reazioni soggettive di fronte a i fatti tragici. Per Manzoni la tragedia non deve essere effusione soggettiva, ma rappresentazione di caratteri e conflitti oggettivati, sempre in nome del “vero”.

5. I promessi sposi
5.1 Manzoni e il problema del romanzo. I promessi sposi è l’opera che ha la più forte carica innovatrice nei confronti della letteratura italiana. Già di per se scegliere il genere “romanzo” come strumento di espressione letteraria è, nell’Italia del 1821, una decisione coraggiosa, di rottura, dati i pregiudizi retorici e moralistici che gravano sul genere, dalla mentalità classicistica ritenuto “inferiore”, indegno di entrare nel campo della letteratura. In primo luogo il romanzo risponde perfettamente alla poetica del “vero”, dell’ “interessante” e dell’ “utile”, in cui Manzoni sintetizza l’essenza dei principi romantici: consente di rappresentare la realtà senza le astrazioni e gli artifici convenzionali propri della letteratura classicistica, aristocratica e di corte; si rivolge non solo alla casta chiusa dei letterati, ma a un più vasto pubblico, perché, attraverso la forma narrativa e un linguaggio accessibile, suscita facilmente l’interesse del lettore comune. Il romanzo risponde alle esigenze dell’impegno civile dello scrittore, e fornisce il mezzo per comunicare al lettore notizie storiche, ideali politici, principi morali, secondo quella concezione educativa e utilitaria della letteratura che i romantici lombardi ereditano dalla precedente generazione illuministica. In secondo luogo il romanzo, essendo un genere nuovo, permette allo scrittore di esprimersi con piena libertà, senza lottare con regole arbitrarie imposte dall’esterno. Nel romanzo egli sceglie di rappresentare una realtà umile, ignorata dalla letteratura classica, violando concezioni letterarie profondamente radicate, elegge a protagonisti due semplici popolani della campagna lombarda e rappresenta le loro vicende in tutta la loro profonda serietà e tragicità. Il personaggio non è più posto su uno sfondo astratto ma rappresentato in rapporto organico con un dato ambiente e un dato momento. In opposizione alla tendenza classica di trasformare i personaggi in tipi generali, pure personificazioni di un tratto psicologico, di un concetto, di una passione, Manzoni rappresenta individui dalla personalità unica, inconfondibile e irripetibile, estremamente complessa e mobile, rivelando quella tendenza all’individuale e al concreto che è propria della cultura borghese moderna. Ne deriva ancora un corollario: il rifiuto di quella idealizzazione del personaggio, che è propria del gusto classico. Manzoni fa si che i Promessi Sposi assumano una funzione di incalcolabile portata, quella di iniziatore della moderna tradizione del romanzo realistico.
5.2 “I promessi sposi” e il romanzo storico. Per la sua opera narrativa, Manzoni sceglie la forma del romanzo storico, una forma che in quel momento gode di larga fortuna presso il pubblico europeo, a causa del successo dei romanzi storici dello scozzese Walter Scott. Secondo il modello scottiano, i protagonisti non sono i grandi personaggi storici, ma personaggi inventati, di oscura condizione, quelli di cui abitualmente la storiografia non si occupa. Per tracciare il suo quadro, Manzoni si documenta con lo scrupolo di un autentico storico, leggendo, oltre alle opere storiografiche sull’argomento, cronache del tempo, biografie, testi letterari e religiosi, memorie, raccolte di leggi. Ciò spiega perché Manzoni, pur rifacendosi al modulo di Scott, sia critico verso il romanziere scozzese: egli rimprovera infatti l’eccessiva disinvoltura con cui tratta la storia, romanzandola attraverso l’invenzione.
5.3 Il quadro polemico del Seicento e l’ideale manzoniano di società. La società di cui Manzoni vuol fornire un quadro nel suo romanzo è quella lombarda del Seicento sotto la dominazione spagnola. Il Seicento lombardo ai suoi occhi segna il trionfo dell’ingiustizia, dell’arbitrio e della prepotenza, da parte del governo, nella condotta politica e nei provvedimenti economici, da parte dell’aristocrazia e delle masse popolari; è il trionfo dell’irrazionalità nella cultura, nell’opinione comune, nel costume. Falliti i moti, il 24 aprile 1821 Manzoni inizia la stesura del suo romanzo storico. Le linee fondamentali di questo modello di società si possono ricavare guardando in controluce il quadro polemico della Lombardia spagnola tracciato nel romanzo. Data per scontata la condizione preliminare dell’indipendenza nazionale, le esigenze essenziali sono: un saldo potere statale che sappia contrastare arbitri e prevaricazioni; una legislazione razionale ed equa ed un apparato della giustizia che sappia farla rispettare; una politica economica oculata; un’organizzazione di sociale giusta in cui l’aristocrazia ponga ricchezze e potenza al servizio della collettività; in cui i ceti medi non siano chiusi nel loro egoismo e non siano gli strumenti del sopruso e dell’ingiustizia, ma dell’attività benefica dei potenti. Nel sistema dei personaggi del romanzo, don Rodrigo e Gertrude rappresentano la funzione negativa dell’aristocrazia, che viene meno alle sue responsabilità ed usa il suo privilegio in modo oppressivo; il cardinale Federigo ne rappresenta il modello positivo. L’innominato, con la sua conversione, rappresenta il passaggio esemplare della nobiltà dalla funzione negativa a quella positiva. Per quanto riguarda i ceti popolari, l’esempio negativo è rappresentato dalla folla sediziosa e violenta di Milano, il positivo dalla rassegnazione cristiana di Lucia; Renzo, come l’innominato nei ceti superiori, rappresenta il passaggio dal negativo al positivo, da un atteggiamento ribelle a un fiducioso abbandono alla volontà di Dio. Per i ceti medi, esempi negativi sono don Abbondio e l’Azzeccagarbugli, esempio positivo fra Cristoforo. Manzoni è convinto che la religione cattolica sia l’unica vera forza riformatrice, perché agisce alla radice dei mali della società, l’animo umano.
5.4 L’intreccio e la struttura romanzesca. La vicenda prende le mosse da una situazione iniziale di quiete e di serenità: i due sposi promessi vagheggiano un’avvenire di tranquilla felicità, segnata dalle gioie domestiche, dalle pratiche religiose e dal lavoro. In realtà questa situazione iniziale di idillio è solo apparente. La loro vicenda si configura come un’esplorazione del negativo ella realtà storica: Renzo sperimenta il male nel campo sociale e politico, Lucia soprattutto nel campo morale. Ma attraverso questa esperienza del negativo si compie anche la loro maturazione. Renzo ha tutte le virtù che per Manzoni sono proprie del popolo contadino; però c’è in lui una componente ribelle, un’insofferenza per ogni forma di sopruso. Ciò potrebbe portarlo a commettere atti di violenza, che gli alienerebbero la benevolenza divina e lo estrometterebbero dalla compagine sociale. Il suo percorso di formazione consiste perciò nel giungere ad abbandonare ogni velleità d’azione e a rassegnarsi totalmente alla volontà di Dio. Al contrario di Renzo, Lucia sembra invece possedere sin dall’inizio per dono divino quella consapevolezza della vanità dell’azione che Renzo conquista dopo dure prove solo al termine delle sue peripezie. In lei c’è uno spontaneo rifiuto della violenza, un abbandono fiducioso, totale alla volontà di Dio. A Lucia manca quella consapevolezza del male che è necessaria per capire la vera natura della natura della realtà umana nata dalla caduta, per cogliere il senso religioso stesso della presenza del negativo nel mondo. Attraverso le sue peripezie e le sue sofferenze, arriva alla fine a comprendere che non può esistere l’Eden in terra, che le sventure si abbattono anche su chi è “senza colpa”, e che la vita più “cauta” e più “innocente” non basta ad evitarle. La conquista spirituale è dunque avvenuta grazie alle sventure patite. Compare così al termine del romanzo, a coglierne il significato ultimo, il concetto della “provvida sventura”, tanto caro a Manzoni. In realtà l’autore dissimula nella dizione dimessa dei suoi umili personaggi verità che egli ritiene fondamentali.
5.5 Il lieto fine, l’idillio, la Provvidenza. Nella conclusione trovata dai due umili protagonisti sono presenti i cardini stessi della visione manzoniana. Innanzitutto il rifiuto dell’idillio. Manzoni ha del reale una visione tragica, che scaturisce dal suo pessimismo religioso. Ma se la vita è inquinata dal male e dal dolore, ogni rappresentazione idillica della realtà, che raffiguri uno stato di quiete e di serenità perfette, è assolutamente difforme dalla verità. Si può capire allora perché egli respinga ogni forma di rappresentazione idillica. Grazie all’esperienza del male compiuta dai due protagonisti, la loro esistenza non è finalizzata a “star bene”, come esigerebbe un’aspirazione idillica, ma a “far bene”, ad avere una posizione attiva verso il male e la sofferenza. Qui si chiarisce anche la concezione manzoniana della Provvidenza. L’interpretazione provvidenziale della realtà, nel romanzo, non è enunciata in prima persona dal narratore, ma è affidata sistematicamente ai soli personaggi. Questo perché la sua concezione è diversa da quella dei suoi umili protagonisti, estremamente più problematica e complessa. Renzo e Lucia hanno una concezione elementare e ingenua della Provvidenza, che identifica virtù e felicità. Nella superiore visione teologica di Manzoni, al contrario, felicità e virtù possono coincidere solo nella prospettiva dell’eterno.: solo alla fine dei tempi vi è la certezza che i buoni saranno premiati e i malvagi puniti. Per Manzoni la provvidenzialità dell’ordine divino del mondo non consiste nell’assicurare la felicità ai buoni, ma nel fatto che proprio la sventura fa maturare in essi più alte virtù e più profonda consapevolezza. Manzoni guarda comunque con superiore benevolenza la fede elementare dei suoi eroi, come manifestazione della loro preziosa innocenza di “umili”.
6. Il problema della lingua
Con la redazione definitiva dei Promessi sposi Manzoni fornisce alla letteratura italiana moderna un nuovo modello di lingua letteraria. Per un tipo di opera come quella che Manzoni concepiva non poteva più essere usata la lingua della tradizione letteraria, aulica e ardua, comprensibile solo a chi fosse fornito di alta cultura. Alla soluzione di individuare questo “codice” Manzoni arriverà per gradi. In un primo momento, iniziando il Fermo, egli si orienta verso una lingua di compromesso, formata da un fondo di toscano letterario, ma arricchita da apporti della parlata viva. Ma già dopo il ’24 rinuncia a questa lingua composita e si orienta decisamente verso il toscano e scopre molte concordanze tra il i modi toscani e quegli degli altri dialetti, in particolare il milanese. Pubblicato il romanzo, il suo viaggio a Firenze nel 1827 fu come una rivelazione: quella lingua tanto faticosamente cercata nei libri, eccola viva, agile, reale, nei Fiorentini colti con cui veniva a contatto. Giunge così alla soluzione per lui definitiva del problema della lingua: la lingua italiana unitaria, quella da usare nella letteratura come nella vita sociale, deve essere il fiorentino delle persone colte; non la lingua morta dei libri del Trecento e del Cinquecento, come volevano i puristi, ma la lingua attuale, parlata. Il romanzo si offre così come esempio di lingua viva, agile, duttile, non irrigidita dal peso retorico, aprendo anche per questo aspetto una nuova via alla letteratura italiana.

“LA PENTECOSTE”
Analisi del testo
Si possono distinguere nell’inno tre parti: I, vv.1-48: la discesa dello Spirito sulla Chiesa, smarrita e timorosa dopo la morte di Cristo, per darle la forza di compiere la sua opera nel mondo; II, vv. 49-80: per gli effetti della diffusione del nuovo messaggio cristiano nel mondo; III, vv.81-144: invocazione dello Spirito Santo perché discenda ancora sugli uomini. Nella prima parte si delineano due immagini antitetiche della Chiesa: dapprima appare paurosa e inerte, poi attiva nel suo impegno nel mondo. Nella seconda parte si insiste sul messaggio di liberazione portato dal cristianesimo a tutti gli uomini, soprattutto agli oppressi. Compare cioè un motivo molto caro a Manzoni, l’ingiustizia e l’oppressione che angustiano la realtà umana, a cui solo il messaggio cristiano può dare un’alternativa. Nella terza parte si propone l’auspicio che il mondo terreno possa tornare a coincidere con il disegno divino. Se il mondo della storia è il trionfo del male, dell’ingiustizia, della violenza, dell’oppressione, l’alternativa vera è nell’altra vita; ma anche nel mondo umano Manzoni ritiene che sia doveroso contrastare il male. Per questo fine è necessario l’impegno attivo della Chiesa sia direttamente nell’alleviare sofferenze, sia nell’indurre gli uomini a tale opera con la predicazione e l’esempio. Il cristianesimo di Manzoni dà luogo ad un atteggiamento attivo ed energico, animato dalla fiducia nella possibilità di un relativo superamento dell’ingiustizia, ben diverso da quel rifiuto nel suo giovanile classicismo. L’ultima parte mette in primo piano il problema della giustizia sociale. Nelle strofe finali compare anche una serie di altri valori, che costituiranno l'intelaiatura dei Promessi Sposi. Dal punto di vista formale appare evidente la distanza che separa l’inno dalla poesia classicistica. Non vi è più l’io privilegiato ed eroico in primo piano, non vi è più il solenne e ampio endecasillabo. Il linguaggio manzoniano non è più antico e classicheggiante, tuttavia non appare prosaico. Il romanticismo non porta fino in fondo una rivoluzione del linguaggio poetico nei confronti del classicismo.

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