Giacomo Leopardi

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

GIACOMO LEOPARDI: VITA
Sulla vita di leopardi si è detto un pò di tutto. Quello che c’e da sottolineare della vita di leopardi è che la vita di leopardi è la storia del suo animo: non è una vita densa di avvenimenti particolari o avventurosi come in Foscolo. Non è fatta di episodi particolari. È una vita monotona, è una vita consumata per lo più nel borgo di Recanati, borgo verso i quali leopardi ha un senso di odio profondo poiché lo ritiene una sorta di prigione che impedisce al suo ingegno, alla sua anima di librarsi verso altri orizzonti. Eppure è una vita tanto significativa perché molti dei temi che compaiono nelle sue liriche sono temi fortemente legati al ramo autobiografico. Leopardi nasce nel 1798. Nasce a Recanati che a quell’epoca apparteneva all’impero del papato e quindi, come si può intuire, venendo anche da una famiglia aristocratica. Leopardi ha dei genitori particolari: il padre è preso dai suoi studi e dalla sua biblioteca in cui dominano i classici. La madre è una figura fredda tutta presa dai suoi cerimoniali cattolici, ma è priva di affetto verso i figli. Quindi un ambito familiare che all’ambiente già di per se claustrofobico di Recanati contribuiscono non poco alla creazione di quel particolare mito di leopardi solitario. In effetti le giornate di leopardi passano prevalentemente impegnandosi nello studio.
PENSIERO
Due caratteristiche spiccano nella personalità di leopardi: 1 la vastità degli interessi (astronomia, filosofia, poesia, trattati scientifici, i suoi interessi non hanno limiti); 2 l’ostinazione con cui persegue questi suoi interessi. Questi 2 tratti della sua personalità spiegano perché si sia applicato con tanta passione e con tanta insistenza allo studio (i “7 anni di studio matto e disperatissimo”, che contribuiranno a contrarre una serie di patologie che nel corso della vita si aggraveranno; perché leopardi era già di salute cagionevole, quindi gracilino, con un fisico non caratterizzato da una potenza particolare, per cui questo studio, che comportava fatica, incomincia a minare il suo fisico; di qui tutti i problemi successivi: gracilità, per cui la presenza di una doppia gobba, e problemi alla vista che lo porteranno quasi alla cecità). Leopardi vede nello studio la possibilità di liberare la sua intelligenza, la possibilità di uscire da quelle prigioni che Recanati e la sua famiglia gli avevano costruito. Il suo chiudersi nella biblioteca paterna servono a creare le condizioni di una libertà intellettuale che supera ogni prigione. All’inizio il suo è uno studio dei classici, perché sono gli autori che lui trova nella biblioteca paterna; sono libri della grande tradizione italiana, e anche greca e latina; questo spiega perché leopardi fin da giovanissimo è in grado di tradurre dal greco e dal latino. Sa leggere l’ebraico. A 12-14 anni scrive la sua prima tragedia (Pompeo in Egitto); fa le sue prime esperienze poetiche e dimostra di controllare gli strumenti metrico - retorici necessari alla costruzione di un testo poetico. Stiamo di fronte a quello che oggi chiameremo un superdotato, o un piccolo genio, o comunque un’intelligenza precoce. (lui usava le sue lettere per comunicare con l’esterno, sentendosi chiuso nella prigione di Recanati; quindi riesce ad uscire da Recanati grazie a Pietro Giordani, a cui leopardi scriveva dalla sua casa di Recanati. Inizia questo “carteggio” tra i due, e Pietro Giordani capisce le qualità di Leopardi. I due diventano amici e Giordani gli organizza una colletta per uscire da Recanati. Così leopardi va in Toscana, e conosce un mondo diverso da quello di Recanati, da quello dello stato pontificio. Questo era il desiderio + profondo di leopardi: quello di confrontarsi con l’esterno. Rimarrà deluso da questo confronto per cui fa ritorno a Recanati, anche per problemi economici, perché la famiglia era aristocratica, ma non era come quella ricca aristocrazia di un tempo. Infatti una volta Leopardi riuscì a rimanere in Toscana per una colletta fatta dagli amici. Per lui fu fondamentale conoscere un personaggio completamente opposto a lui: Antonio Ranieri. Egli era bellissimo, un gigolò come si direbbe oggi. Era affascinante ma privo del carisma culturale di Leopardi. Leopardi era l’opposto, era impacciato perché non sapeva dare affetto perché non ne aveva ricevuto. Quest’amicizia con Ranieri che fu una grande amicizia, tant’è vero che negli anni finali, quando leopardi si trasferisce a Napoli, a torre del greco, perché la malattia agli occhi lo ha reso quasi ceco e il clima di Napoli sembra più favorevole, Ranieri lo segue. Si occuperà di leopardi negli ultimi anni della sua vita. Sara lui a trascrivere l’ultima opera di Leopardi, poiché il poeta non poteva più scrivere: il tramonto della luna. Quindi un amicizia profonda e fedele). Sta di fatto che questo desiderio così forte di conoscere la realtà che sta fuori da Recanati si infrange quando il desiderio si compie; quel mondo che aveva tanto osannato (pensava che tutto ciò che era fuori da Recanati fosse bello) non era così. Si ritorna al tema della commutatio loci, la scontentezza è dentro di se. Quel mondo era tanto vuoto come quello di recanati, anch’esso falso. Per cui quel mondo ideale che si era costruito non esisteva. Due date nella vita di leopardi vanno ricordate, ed è lui stesso a sottolinearlo. 1815-1816: anno in cui leopardi ci parla della cosiddetta conversione letteraria. Leopardi sviluppa una forte passione per il concetto di bello, per la ricerca di tutto ciò che rientra nella categoria del bello. Questa conversione lo porta ad apprezzare i classici. Poi il 1822: cosiddetto anno della conversione filosofica. Leopardi si avvicina alla filosofia sensistica – materialistica, già vista in Foscolo. Sono 2 momenti importanti. Dal concetto di bello si passa al concetto di vero. Ci dobbiamo soffermare sul pensiero di leopardi. Qui si apre un problema non indifferente. La prima domanda da porre è se per leopardi si deve parlare di una vera e propria filosofia. Se vogliamo parlare di una filosofia sistematica, che si organizza in sistemi alla maniera di Kant e Heger la risposta è no. Se invece per filosofia intendiamo un pensiero in continua evoluzione che si esercita sugli effetti del mondo allora si può parlare di filosofia. In realtà leopardi riflette su alcuni concetti chiave che lo portano a una visione dell’esistenza ben precisa. Ma questa sua visione non è fissa, non è immobile; Leopardi lavora incessantemente, cioè continua a riflettere spesso arrivando a conclusioni contrarie a quelle a cui era arrivato in precedenza. Altre volte ritornando su un pensiero espresso in precedenza. Cioè il suo è un pensiero magmatico, in cui è difficile stabilire una linearità. Tanto è vero che per lungo tempo si è diviso il pensiero di leopardi in tre fasi: pessimismo soggettivo, storico e cosmico. Questa suddivisione non è che sia sbagliata, ma non si può parlare di fasi successive l’una all’altra. Fasi che si alternano in maniera a volte anche caotica all’interno del pensiero leopardiano. Quali sono i fulcri attorno a cui leopardi ragiona? Innanzitutto sul concetto di poesia; sul concetto di filosofia, e quindi l’idea della ragione, e il concetto relativo all’idea di natura. Poesia: la poesia per leopardi è uno strumento di conoscenza (anche dante la pensava cosi, anche gli stilnovisti). È uno strumento di conoscenza del sé, cioè la poesia permette di conoscere se stessi; questo spiega perché leopardi preferisca la lirica, perché la lirica è il luogo del soggettivismo, che tende a investigare l’Io, l’introspezione. Partendo da questa considerazione leopardi, attraverso un metodo di analisi aperto, suggestivo e modernissimo, cambia in continuazione i rapporti tra i termini che vi ho pocanzi detto (natura, ragione e filosofia, poesia). Che cosa afferma: in un primo tempo afferma che la poesia è incompatibile con la filosofia, perché la poesia e la filosofia aprono due mondi diversi. La poesia apre un mondo di fantasia, di immaginario, la filosofia svela il reale, e quindi la filosofia è colpevole di infelicità. (è il discorso del velo delle Grazie che faceva anche Foscolo: viene tolto il velo delle Grazie e la realtà appare in tutta la sua negatività e quindi gli uomini perdono l’illusione). Quindi la filosofia è colpevole di rendere “brutta” la vita dell’essere umano, svelando la verità. La poesia e soprattutto la poesia degli antichi, la poesia dei classici, viene riscattata perché ha questa aura nitida, questa visione pessimistica della realtà. Perché arriva a questa considerazione? (che poi cambierà dopo la conversione filosofica affermando che poesia e filosofia non sono in contrasto ma sono metodi diversi per arrivare a capire la posizione dell’uomo nel mondo, e allora nasce l’idea della poesia filosofica): elaborando quella che quasi tutti chiamano la teoria del piacere. Che cos’è il piacere? Il piacere, dice leopardi, è il desiderio di raggiungere qualcosa. Cioè ognuno di noi sente in alcuni casi una sorta di spinta, di sentimento interiore che lo spinge a cercare qualcosa, che è la felicità, che è il piacere (piacere è in senso lato, tutto è piacere). Problema dice leopardi: noi sentiamo questo desiderio, ma il piacere che noi proviamo, che noi desideriamo, è un piacere infinito, e quindi irraggiungibile. Dice leopardi, è come quando tu desideri così fortemente una cosa, quando l’hai ottenuta ne desideri subito un'altra. Noi non desideriamo un piacere, noi desideriamo IL piacere. Cioè noi non desideriamo il piacere definito, finito, noi desideriamo il piacere infinito, che non è però raggiungibile. Quindi noi non siamo mai pienamente soddisfatti, e mai lo saremo, perché la natura stessa ci impedisce di raggiungere questo piacere infinito. Siccome l’uomo tende sempre a questo piacere, ma non lo raggiunge mai, allora la vita risulta essere insoddisfacente. L’unico piacere allora che si può provare è il piacere che viene o dalla sospensione del dolore o dall’attesa (esempio: sospensione del dolore → la quiete dopo la tempesta; l’attesa→ il sabato del villaggio). Quindi il piacere o quanto meno una forma di felicità può derivare solo da questi due elementi. In una condizione di questo tipo l’uomo non può che sviluppare il cosiddetto “amor proprio”: termine leopardiano; attaccamento naturale di ciascun individuo a se stesso (oggi diremmo “egoismo”). Gli uomini moderni hanno sviluppato in maniera sempre più forte quest’amor proprio, mentre gli antichi hanno sviluppato le illusioni. Quindi nell’antichità gli esseri umani si sono “difesi” da questa mancanza di felicità, di piacere, attraverso lo sviluppo delle illusioni. Ecco perché in una fase del suo pensiero leopardi dice: “ gli antichi erano felici, non noi”. Il cosiddetto pessimismo storico. Infelicità è dell’oggi e non dell’ieri, perché gli antichi avevano l’illusione su cui avevano costruito un mondo di felicità. Che cosa succede nella modernità? L’amor proprio non si trasforma in illusioni ma in egoismo, l’interesse personale è sempre più forte, la filosofia ha fatto cadere tutte le illusioni, e allora attraverso il meccanismo che leopardi chiama “assuefazione”, l’uomo ha sviluppato una seconda natura; e allora l’uomo moderno vive una condizione di contrapposizione tra vita ed esistenza. Il critico Walter Binni ha studiato a lungo questo rapporto tra vita e esistenza in leopardi: in effetti la considerazione finale è che secondo leopardi la natura non da la vita, ma solo l’esistenza (in parole povere viene fatta la differenza tra vita intesa come ciclo biologico e vita intesa come sentimenti, passioni). E allora cosa succede? Succede che Leopardi approda alla filosofia meccanicistica: tutto procede verso il nulla, il vivere è dominato dalla noia. Per cui cosa succede? In una fase della sua vita leopardi difende i classici perché più vicini alla natura, più legati a una vitalità primigenia e autentica, mentre condanna la modernità. Questo atteggiamenti Fubini lo chiama: primitivismo classico.
Come detto gli antichi sono legati a una vitalità autentica e primigenia, e quindi non hanno ancora adottato la filosofia come strumento conoscitivo e che quindi possono ancora vivere fregiandosi delle illusioni. Questo è il primitivismo classico (Mario Fubini). Che cosa succede quindi? Succede che leopardi sente, percepisce un opposizione, una dicotomia tra natura e incivilimento: la natura produce le illusioni, e allora la poesia imita la natura, e attraverso l’imitazione diletta, da piacere. In questa prima fase l’incivilimento, l’epoca moderna, viene vista come un’epoca buia, perché la filosofia ha spento l’immaginazione, la filosofia e le scienze che alla filosofia si collegano hanno generato una conoscenza del reale che hanno fatto cadere l’illusione. Secondo la classificazione (che come detto è riduttiva) di leopardi, questa è la fase del pessimismo storico: qui leopardi recupera il passato come felice, vede nel presente a lui contemporaneo l’infelicità. In realtà leopardi non mantiene fissa questa considerazione, ma il suo pensiero si evolve, e con il passare del tempo, e con l’avanzare della riflessione su alcuni punti, leopardi giunge a concepire la natura non più come positiva, bensì come negativa, perché la natura non è vista più come una madre benigna che regala le illusioni, ma viene vista come una matrigna, un’essenza negativa; quindi la filosofia non è vista più come colpevole di aver spento l’immaginazione, ma come un nuovo metodo per conoscere l’Io e la posizione che l’Io ha nel mondo. A questo punto tutte le epoche per leopardi risultano infelici. Anche l’epoca antica non era un epoca di felicità, erano i poeti che la rappresentavano felice, ma in realtà quella non era un epoca lontana, avulsa, da quel meccanismo, quel congegno razionale che svela la verità. Allora tutte le epoche sono accomunate dall’infelicità. Per cui la filosofia viene in leopardi sempre più a coincidere con la poesia, e si parla di poesia filosofica (siamo negli anni della cosiddetta conversione filosofica). Che differenza c’e rispetto alla poesia normale? Questa poesia vuole essere “voce del vero”. Questa poesia non vuole più nascondersi dietro il velo delle illusioni, non vuole più mascherare la verità come facevano gli antichi e far pensare che tutto o tutti siano felici, questa poesia vuole portare la verità in superficie; la verità che coincide con il dolore, con la noia, con uno stato di infelicità congenito agli uomini. Allora la natura ecco perché non da la vita ma da solo il ciclo biologico, l’esistenza. Leopardi arriva quindi a una nuova concezione di pessimismo, chiamato pessimismo cosmico, perché tutti, anche gli animali, tutto l’universo è accomunato dall’infelicità.
Incominciamo a vedere le prime due opere, che non sono letterarie, ma aiutano a comprendere il pensiero e la personalità di leopardi. Queste opere sono “Pensieri CI” e lo “Zibaldone” a cui si aggiunge “l’Epistolario”. Sono tutte opere in prosa, e sono opere che come si comprenderà già dai titoli, un po’ si legano alla riflessione, un po’ si legano alla sfera privata di Leopardi. Di queste tre opere la più interessante è lo Zibaldone. Cosa sono i Pensieri CI: i Pensieri CI furono pubblicati da Ranieri nel 1845, quindi postumi. Secondo quello che noi sappiamo, furono dettati direttamente da Leopardi a Ranieri, così come era avvenuto per l’ultima opera, poiché molto probabilmente Ranieri prendeva appunti delle riflessioni che Leopardi faceva durante i suoi ultimi anni di vita. Quello che caratterizza l’opera è l’eleganza della sintassi e la purezza della lingua, quindi si tratta di un’opera molto interessante da questo punto di vista, ci da un’immagine dello stile più raffinato di Leopardi. I Pensieri vengono molte volte letti proprio per ricostruire fatti, momenti del pensiero di Leopardi: ad esempio c’e il pensiero 68 che ad esempio è incentrato sulla riflessione sulla noia; ancora c’è il pensiero 6 dove leopardi rivela un profondo attaccamento alla vita. Quindi i Pensieri sono importanti per poter ricostruire il pensiero stesso di Leopardi, così come l’Epistolario, che conta ben 930 lettere, quindi è molto corposo. Dovrebbero essere le lettere che vanno dal 1810 al 1837, quindi un arco di tempo molto ampio. Quello che colpisce è che anche in queste lettere, che sono lettere realmente inviate, è il grande spessore poetico di queste lettere, che rivelano lo stile del grande poeta. In particolar modo sono 3 nuclei molto interessanti: le lettere di corrispondenza con il fratello Carlo, molto interessanti per la profondità del sentire che leopardi vi esprime; qui c’è tutto il mondo interiore di leopardi. Poi c’è il gruppo delle lettere di corrispondenza con la sorella Paolina, caratterizzate da una maggiore briosità, da una maggiore freschezza. Leopardi adorava la sorella, diciamo che queste lettere sono meno dolenti rispetto a quelle inviate al fratello Carlo. E infine l’ultimo gruppo, molto interessante, sono le lettere inviate a Pietro Giordani, interessanti per capire la posizione critica di leopardi nei confronti del Romanticismo e delle scelte poetiche dell’epoca, ma anche qui non viene fuori solo l’aspetto stilistico, ma anche l’aspetto interiore di Leopardi, perché Pietro Giordani era per Leopardi era una sorta di padre, il padre che avrebbe voluto avere. Veniamo all’opera più privata di leopardi, eppure l’opera più letta di leopardi, poiché qualunque critico che voglia parlare di leopardi non può fare a meno di parlare dello Zibaldone. Allora il titolo in effetti è “Zibaldone di pensieri”. Cosa significa Zibaldone in lingua italiana? Zibaldone in italiano ha un significato ben preciso: zibaldone è un’insieme di cose, una raccolta di cose, in questo caso una raccolta di pensieri. Quest’opera è molto particolare, perché non fu pubblicata, né fatta postuma; era una sorta di diario personale di Leopardi. Egli appuntava le riflessioni, le osservazioni, tutto ciò che gli passava nella mente, su un quaderno. Questo quaderno, che noi chiamiamo Zibaldone, è ancora oggi conservato nella biblioteca nazionale di Napoli. Si tratta di pagine scritte molto fitte, per l’esattezza 4526 pagine. Dalla centesima facciata leopardi incominciò anche a datare tutte le osservazioni. Quindi quelle antecedenti alla centesima facciata non hanno datazione; da questa in poi, e stiamo parlando dell’anno 1820, incominciò a datarle 1 per 1. Capite che questa è un’opera che si configura come una sorta di diario personale. Quando leopardi morì e si scoprì l’esistenza dello Zibaldone, sorse un problema: pubblicare o no lo Zibaldone? Ai Pensieri ci aveva già pensato Ranieri; che cosa fare? Un’opera così intima, così personale. A quell’epoca lo Stato italiano, nel 1897, decise di costituire una commissione governativa, che, dopo aver letto attentamente i quaderni, doveva decidere se pubblicare o no l’opera. La commissione governativa aveva a capo un grande poeta italiano, quello che all’epoca era un po’ il vate della poesia italiana: Giosuè Carducci, che tra le altre cose a quel tempo deteneva la cattedra di letteratura dell’università di Bologna, cattedra più significativa nel campo della letteratura. Giosuè Carducci giunse alla conclusione che l’opera doveva essere pubblicata. Primo perché non c’erano elementi che in qualche modo svelavano quanto più Leopardi non avesse già detto nelle sue liriche, ma soprattutto perché l’opera veniva considerata uno strumento importantissimo per poter approfondire ulteriormente la conoscenza della poesia di leopardi, per svelare ancora di più il mondo interiore di leopardi.
I CANTI E LE CANZONI:
Iniziamo a parlare della produzione più prettamente poetica. Normalmente va sotto la denominazione di Canti. Quando ci si riferisce A Silvia, All’Infinito, tutto va sotto il nome di Canti. Anche poesie cronologicamente molto lontane tra di loro. Nell’edizione dei Canti rientra anche il Ciclo di Aspasia che è molto lontano cronologicamente ed è differente rispetto alle altre liriche. Proprio perché l’edizione dei Canti contiene opere differenti, sia per temi, sia per struttura metrica, sia per scelte linguistiche, la critica tende a raggruppare alcuni componimenti in una sorta di sottoclassificazione; ad esempio distingue gli Idilli dalle Canzoni del primo momento; distingue gli Idilli dai Canti pisano-recanatesi, normalmente denominati Grandi Idilli per distinguerli dagli Idilli, che a loro volta prendono il nome di Piccoli Idilli; poi si distingue il Ciclo di Aspasia; per cui ci sono differenziazioni. Per adesso andremo a vedere questi gruppi più da vicino. Partiamo dalle Canzoni. Le canzoni vengono divise in vari gruppi. Il primo gruppo è le canzoni patriottico -civili. Queste canzoni patriottico – civili, già come la denominazione mette in evidenza, sono frutto della conversione liberale di Leopardi, cioè di un avvicinamento di Leopardi alle tematiche liberali. In realtà siamo nella fase in cui leopardi sente una sorta di desiderio, di bisogno di agire, di fare qualcosa per il mondo. Questo bisogno trova sfogo in queste canzoni. Le canzoni patriottico – civili sono: All’Italia, Sopra il monumento di Dante (che si andava preparando in Firenze), ad Angelo Mai (quand’ebbe ritrovato i libri del de Rebublica di Cicerone), Per le nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone. Che cosa sono queste canzoni? È chiaro che leopardi si ispira a una forma metrica che aveva avuto un ampio successo nella letteratura italiana, e che i maestri indiscussi erano Dante e Petrarca. Più che a Dante leopardi è più vicino a Petrarca come impostazione; in realtà leopardi lavorerà sulla canzone rendendola diversa dal modello classico petrarchesco (la canzone petrarchesca aveva dei limiti molto rigidi; le strofe dovevano rispettare delle regole fisse (fronte e sirma ecc.); questa regolamentazione molto rigida era già stata messa in discussione nel ‘600, da Chiabrera e Testi, dalla loro canzonetta). Ebbene leopardi, partendo dagli studi e dalle modifiche di Chiabrera e Testi Leopardi elabora un nuovo tipo di canzone, chiamata “canzone libera” o “canzone leopardiana”, opposta alla canzone classica o petrarchesta. Questa canzone libera leopardi la utilizzerà dai Grandi Idilli in poi. In questo primo periodo è più legato alla canzone classica. Per cui queste canzoni patriottico – civili furono elaborate tra il settembre 1818 e il novembre 1821. Queste sono canzoni che hanno ancora stretti legami con la poesia e con la poetica classicistica. (Leopardi nella prima parte della sua vita era un difensore dei classici, tant’è vero che nella critica contro i romantici scrive alla biblioteca italiana contro i romantici).
Stiamo nella fase del pessimismo storico; Leopardi ritiene che gli antichi erano felici, vivevano secondo le illusioni, che la filosofia era arrivata e aveva svelato il vero, aveva distrutto le illusioni, quindi il mondo contemporaneo era un mondo infelice. Ma nonostante questo leopardi è ancora convinto che la parola poetica possa far rinascere la patria. È convinto che anche nell’infelicità del presente possa rinascere la patria. Ecco perché leopardi scrive queste liriche, perché l’intento è che la parola poetica possa essere risvegliatrice di coscienze. Queste liriche non sono dei capolavori. Si sente troppo il ricalco stilistico dei modelli classici; leopardi non ha raggiunto ancora un suo modo di fare poesia, i temi non sono ancora veramente suoi, non vengono ancora veramente dal suo profondo. E infatti questi temi sono ancora troppo enfatici, declamatori, e non intimistici come saranno i suoi capolavori.
All’Italia: invocazione all’Italia, alla rinascita dell’Italia. Questa canzone è viziata da forme eccessivamente enfatiche. Troppa enfasi, troppi difetti di lingua e di stile, soprattutto troppi trapassi bruschi da un argomento all’altro. Ad esempio in queste poesie leopardi tende a far riferimento a modelli degli eroi greci. In questo caso cita come modelli gli eroi greci delle Termopili, come esempio per gli italiani da seguire. Nel fare tutto ciò i passaggi sono bruschi e c’è troppa enfasi.
Sopra il monumento di Dante: come si evince già dal titolo, leopardi prende spunto dal fatto che in Firenze si stava costruendo una statua commemorativa di Dante. Dante è visto come il cantore dell’Italia, pensare all’invettiva all’Italia al sesto canto o la de Monarchia. Per cui questo episodio in specifico spinge leopardi a mettere in contrasto l’Italia di oggi con l’Italia di ieri (che era più felice). Anche qui toni enfatici e toni declamatori. Il linguaggio è troppo accademico.
Ad Angelo Mai: questa terza lirica è più pervasa da autobiografismo. Anche qui il motivo del canto parte da un episodio singolo. Angelo Mai era un cardinale ed aveva una passione per la filologia. Sicché aveva dei metodi poco scientifici; però egli ebbe un grande merito, di aver ritrovato il de Republica di Cicerone. Cicerone da sempre era l’emblema della repubblica, dell’idea di repubblica, di libertà; per cui questo episodio ingenera in leopardi un nuovo canto. Un canto in cui l’autobiografia si mescola con lo slancio politico, ed è forse una delle più belle liriche tra quelle patriottico – civili. Ma comunque anch’essa è contornata da toni enfatici.
La quarta e la quinta lirica non tutti la collocano tra le canzoni patriottico – civili. Ma in realtà pur partendo da un episodio legato alla biografia di leopardi l’una e a un episodio legato a temi mondani l’altra, le liriche contengono tematiche civili. Una (per le nozze della sorella paolina) come si capisce parte dalla notizia del matrimonio della sorella di leopardi, quindi leopardi scrive questo testo, però man mano che si va avanti si stacca dal tema biografico, perché la celebrazione del matrimonio di paolina diventa l’esaltazione della figura della donna come colei che trasmette la virtus ai figli; la donna è colei che educa i figli e in quanto educatrice è colei che permette che i valori del passato prendano vita nel futuro. Quindi la tematica civile si riscontra nell’esaltazione della virtus civile attraverso la forma dell’educazione, e quindi la figura della donna che diventa prioritaria nella trasmissione di questi valori. Questa lirica è appesantita da un fraseggio troppo sentenzioso, per cui anch’essa è fuori dalla cifra del capolavoro. L’altra canzone (a un vincitore del pallone) parte da un episodio banale; in quel periodo erano state inventate le mongolfiere. In effetti leopardi prende spunto da questo interesse per questo “sport estremo”. Leopardi celebra questo atto di coraggio del vincitore di una delle primissime gare di mongolfiere. Celebrando il l’atto di coraggio leopardi celebra anche l’attivismo agonistico, il che sembra strano per uno come leopardi, celebrare la forza fisica, l’agonistica. Leopardi la celebra perché esso è una felice alternativa alla noia e al dolore del vivere; per cui l’agonismo può essere una palestra di virtù eroiche, cioè coltivando l’attivismo agonistico, può generare virtù eroiche. È inutile dire che di tutte le liriche patriottico – civili questa è quella più fiacca.
Poi ci sono le canzoni filologiche: sono testimonianza dell’interesse che leopardi aveva per la filologia ma anche della nostalgica contemplazione del passato. Siamo quindi ancora nella fase del pessimismo storico. Per cui il suo gusto filologico si spiega in questa luce, cioè nel desiderio da parte di leopardi di conoscere più a fondo possibile quel mondo degli antichi. E si hanno 2 canzoni: una è Alla Primavera o Delle Favole Antiche: qui leopardi saluta, celebra l’evento primaverile come appariva agli antichi, cioè con la stessa gioia, con la stessa vivacità con cui esso appariva agli antichi. Poi abbiamo L’Inno ai Patriarchi o Dei Principi Del Genere Umano: in cui si celebra l’età, l’infanzia innocente del genere umano. Anche qui non siamo nella cifra del capolavoro, leopardi non ha ancora dispiegato le sue ali espressive.
Poi abbiamo le canzoni filosofiche: qui iniziamo a intravedere il vero leopardi. Le canzoni filosofiche sono 3: Il Bruto Minore; alla sua Donna; l’Ultimo canto di Saffo.
Alla sua Donna: fu scritta nel settembre del 1823; è un inno all’idea platonica della donna, cioè qui non si parla di una donna reale, c’è un immagine platonica della donna, una donna perfetta. Anche questa lirica è troppo appesantita, troppo eccesso lirico. È importante perché è il primo esempio di canzone libera.
Perché canzoni filosofiche? Perché leopardi cerca l’accordo difficile tra tensione ragionativa e abbandono lirico. Cioè cerca di trasformare ciò che ha elaborato a livello mentale in qualcosa di lirico, di poetico (questa era la differenza che faceva Croce quando criticava leopardi; cioè diceva: “ciò che è troppo celebrale non è poesia”). Invece leopardi si sforza di fondere il celebrale con la lirica. Questi sono i primi tentativi e siamo già vicini alla cifra del capolavoro.
Il Bruto Minore: dicembre 1821; ci parla degli ultimi istanti di vita di Bruto (tra i cesaricidi, viene sconfitto in battaglia dai cesariani a Filippi). Prima di scegliere la via del suicidio per non cadere in mano a Ottaviano e Marco Antonio, prima di suicidarsi, Bruto ragiona sul gesto che sta per compiere. Quindi la sua è una disquisizione sul suicidio, in cui si evidenziano tratti titanici (il titano chi è? È colui che si ribella al destino anche se sa che sarà sconfitto). Nel discorso di Bruto, Bruto sfida il destino, quindi ci sono tensioni titaniche. Sennonché questa disquisizione è troppo accademica, cioè è troppo celebrale e non è animata ancora da vero phatos, tant’è vero che le parti più belle di questa lirica non sono le parti in cui Bruto parla del proprio suicidio, bensì le parti in cui si parla della natura, viene evocata come sfondo (immagini della luna che sorge candida, che resta placida mentre Roma ruina; sono le parti paesaggistiche le meglio riuscite).
L’ultimo canto di Saffo: risale al maggio del 1822; anche qui c’è un personaggio che si suicida, ma attenzione! Saffo è un personaggio totalmente diverso da Bruto; Bruto è un eroe, Bruto è un soldato, è un cesaricida, ha delle idee da seguire, gli ideali repubblicani; Saffo chi è? È una donna innamorata, non corrisposta che si sente distrutta dall’amore. Quindi il suo suicidio non ha punte titaniche; il suicidio di Saffo è la risposta alla crudeltà del destino, ma non più con punte titaniche. Ecco perché forse il personaggio di Saffo è quello più riuscito rispetto a quello di Bruto; è un personaggio più intimistico. La sua filosofia, nel suo modo di vedere l’esistenza appare l’umanità che Bruto non ha. Quindi il suo gesto non è la sfida del destino alla maniera di Bruto; il suo è l’affermazione di un dolore profondo, è semplicemente la risposta a una crudeltà troppo grande (il rifiuto d’amore da parte di Faone). Capite che questa figura è anche più vicina al dolore che leopardi prova in relazione alla sua stessa biografia. Saffo è una figura che ricorda se stesso, le sue continue delusioni d’amore. Nonostante tutto neanche questa canzone è un capolavoro, ci sono anche qui i difetti, soprattutto difetti linguistici, troppi arcaismi, lessicali e sintattici, per cui la lirica risulta piuttosto appesantita nello stile.
I PICCOLI IDILLI:
Andiamo a vedere i cosiddetti i piccoli idilli. Nell’edizione dei Canti vengono definiti piccoli idilli alcuni componimenti redatti tra il 1819 e il 1821. Si tratta di 6 liriche: L’infinito, Alla luna, la sera del dì di festa, il sogno, la vita solitaria, la quiete dopo la tempesta. Che cosa significa idillio? Diciamo che il termine idillio viene direttamente da Leopardi, l’accezione piccoli è successiva. Nel senso che piccolo viene di solito utilizzato per separare gli idilli da quelli che vengono definiti i Grandi Idilli, ossia le canzoni leopardiane del periodo pisano - recanatese. Qui infatti la forma metrica è un po’ diversa; si tratta in prevalenza di endecasillabi sciolti, quindi non è la canzone leopardiana che troveremo nei Grandi Idilli. Quindi una prima differenza è nel carattere metrico. Queste 6 liriche secondo l’intenzione di leopardi dovevano essere idilli in quanto il termine idillio doveva significare “piccolo quadro”, brevi componimenti, e il modello a cui leopardi si ispira è il modello dei grandi compositori greci di idilli, ossia Mosco, Callimaco e Teocrito. Questi autori sono quindi il modello a cui leopardi fa riferimento. In effetti l’idillio nell’antica Grecia era una sorta di quadretto bucolico, di quadro paesaggistico, poteva essere urbano o agreste, in cui il tema paesaggistico aveva il sopravvento e quindi il tema idillico, l’intonazione idillica era l’elemento chiave. In effetti però Leopardi vuole dare al termine idillio un significato più profondo; è lui stesso infatti in relazione all’idillio a darci la definizione: Gli idilli sono “situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo”. Leopardi vuole in effetti indicare non il puro aspetto idillico alla maniera classica, ma l’idillio è qualcosa che parte dal paesaggio ma che poi riflette l’interiorità stessa del poeta. Quindi è un accezione più profonda rispetto a quella dell’idillio classico. Siamo lontani dalle canzoni che abbiamo visto fino a adesso perché qui mancano i fini didascalici e moralistici che abbiamo visto essere presenti nelle canzoni filosofiche, filologiche. Qui leopardi finalmente raggiunge la cifra del capolavoro. L’infinito è senza dubbio l’apice di questi idilli. Perché riesce a raggiungere la cifra del capolavoro? Perché si è liberato delle scorie moralistiche e didascaliche e poi perché il suo pensiero filosofico, il suo modo di concepire i rapporti tra arte e poesia si sciolgono in pura rappresentazione lirica.
Alla luna: confidenza di vita travagliosa e l’elogio della ricordanza. Quest’idillio che risale al 19 ha molte affinità stilistiche e tematiche con l’Infinito. Qui c’è un colle, proprio come nell’infinito, soltanto che lo scenario è notturno; il poeta si rivolge alla luna, ricordando come anche un anno prima essa fosse sempre lì immobile a consolarlo del proprio dolore. E quindi è una sorta di confidenza che leopardi fa alla luna. Il paesaggio lunare, in cui la luna compare agli occhi del poeta è una costante della poetica di leopardi; la luna è quasi una confidente per leopardi, che immobile, atavica, da secoli ascolta il dolore degli esseri umani. Quindi è una sorta di complice, è un elemento che ritorna frequentemente nelle liriche leopardiane.
La sera del dì di festa: la lirica ha come tema l’angoscia esistenziale del poeta; su uno sfondo anche qui di un notturno, una notte placida in cui ancora una volta si staglia l’astro lucente della luna. L’unica cosa è che la lirica è un po’ troppo appesantita dall’enfasi, quindi non riesce a raggiungere la cifra del capolavoro.
Il sogno: appartiene al genere medievale delle visioni, delle apparizioni. Una donna morta nel fior degli anni (tema che si ritroverà in leopardi), appare a leopardi e parla con lui. È forse il testo più pesante, più ingombro di reminescenze letterarie, di intrusioni sentimentalisti che, quello meno riuscito rispetto agli altri idilli.
(SPOSTATO TRA I GRANDI IDILLI)La quiete dopo la tempesta: è distinta in 2 parti: la prima è caratterizzata da quadretti stupendi, per freschezza e linee figurative, sono alcuni dei più bei quadretti costruiti da leopardi; la seconda parte è più riflessiva, ed è troppo pesante, anche questa caratterizzata dall’enfasi, in cui leopardi riflette sulla natura e sul male. Quindi c’è una parte perfettamente riuscita, ma la seconda parte è troppo appesantita, leopardi non è ancora riuscito ad esprimere il suo pensiero in forme lievi. (La fusione del vero e poetica si avrà nei canti pisano - recanatesi, dove ogni lirica è un capolavoro).
Lo spavento notturno è un frammento non completato; i temi sono gli stesso del sogno e della vita solitaria.
La vita solitaria: s articola in tre momenti descrittivi e lirici che corrispondono ai tre momenti della giornata: abbiamo quindi il mattino, il meriggio e la sera. È un testo caratterizzato dall’accorata malinconia, è un testo in cui però non tutta la riflessione di leopardi sono risolte in poesia, per cui anche qui ci sono notevoli parti appesantite dall’enfasi.

L’INFINITO:
è il capolavoro dei piccoli idilli, è uno dei capolavori di giacomo leopardi. Il nucleo tematico è costituito dal contrasto fra i limiti fisici imposti dalla realtà materiale e gli sconfinati orizzonti che possono aprire il pensiero e l’immaginazione. Questo è l’isotopia centrale del testo. Questo contrasto si esprime nell’infinito in una straordinaria asciuttezza e essenzialità di scrittura, che anziché rompere la musicalità del testo in realtà la amplifica. Si ha un accrescere potente della musicalità del testo. Qual è l’ambientazione? Leopardi immagina di essere seduto sul colle a lui tanto caro, il monte Tabor vicino la sua residenza e che era meta di sue abituali passeggiate. Davanti a se ha una siepe che gli impedisce di vedere in gran parte la linea dell’orizzonte. Il poeta fa allora scattare una sorta di vista interiore (la teoria della doppia vista, Zibaldone) che gli permette di spaziare con l’immaginazione. Il suo è uno spaziare in dimensioni sconfinate, infinite, caratterizzate dal silenzio, dalla quiete, dalla pace. È una dimensione che non ha nulla a che fare con l’umano, sembra andare oltre l’umano, ed è una dimensione che non riguarda solo lo spazio ma riguarda anche il tempo. Leopardi infatti costruisce 2 infiniti: l’infinito spaziale e quello temporale. Poiché l’immaginazione dell’infinito spaziale non può esistere senza l’idea dell’infinito temporale, cioè senza l’idea dell’eternità. Anche questa lirica dunque si pone sul piano della visione, sia nel senso di puro atto del vedere, sia in quello di proiezione fantastica di immagini scaturite dalla facoltà del soggetto. Leopardi vede di fronte a se in questo infinito passato e presente, vede tutte le epoche; è come se tutto il passato, tutto il presente, tutte le epoche storiche si susseguissero in questo infinito che gli scorre davanti agli occhi. E l’unica cosa che gli rimane da fare di fronte a questo infinito è naufragare (naufragar m’è dolce); il naufragio dell’identità individuale in una realtà che va al di là dell’umano, nel “nulla cosmico” che custodisce le ultime verità dell’esistere e del morire.
Analisi del testo:
Si tratta di endecasillabi sciolti. L’inizio dell’idillio costituisce in pochi tratti una sorta di scenografia in cui il poeta introduce direttamente il lettore grazie agli aggettivi dimostrativi “questo” e “questa”, i cosiddetti “deittici” o “scisteri”. Leopardi crea quella che in gergo si chiama “illusione teatrale”. È come se leopardi stesse componendo quella poesia proprio su quel colle, proprio di fronte quella siepe. Quella che in tecnica cinematografica si chiama “presa diretta della scena”: del paesaggio e in questo caso dell’atto creativo stesso. Notevoli fin dall’inizio sono gli effetti fonici: il gruppo liquida (r + vocale)(ermo, caro, orizzonte, guardo) o liquida (l + vocale)(colle, dell’ultimo, escluso). Questi effetti fonici conferiscono al verso una musicalità giocata appunto sull’incontro tra vocale e liquida creando un effetto di limpidezza e fluidità; il testo scorre. L’uso degli effetti fonici è una delle caratteristiche specifiche dello stile di leopardi. L’altra caratteristica che appare evidente fin dall’inizio è l’uso preciso della terminologia, leopardi fa un uso molto accurato dei termini. Predilige termini in cui venga espresso il senso di indeterminazione, e non tanto il significato stesso delle parole, e assegna una grande importanza alla posizione che il termine scelto ha all’interno del verso; c’è un accurata scelta lessicale. (in leopardi non si troverà l’abbondanza delle figure retoriche; il suo stile si costruisce sui rimandi fonici, sulla scelta delle parole). Poi c’è l’avversativa “ma”: al verso 4 introduce il nucleo tematico dell’idillio, riassumendo il contrasto tra l’apertura sconfinata della vista interiore e la limitatezza della vista fisica. Il senso di questa smisurata dilatazione dello spazio è resa attraverso l’uso di parole lunghe (interminati, sovrumani, profondissima). A creare questo senso di sconfinata apertura dello spazio oltre all’uso di parole lunghe, c’è l’adozione pressoché costante dell’enjambement (si è costretti a leggere i versi l’uno nell’altro). Inoltre viene resa grazie ai numerosi incontri vocalici in sinalefe (A livello metrico due sillabe devono essere lette insieme, contratte)(es.: sedendo e mirando, interminati). Quindi incontri frequenti di vocali in sinalefe riducono le sillabe. Tutto questo da il senso di dilatazione, della larghezza, dell’infinito; sono tutti espedienti che creano questo senso di prolungamento. La scelta lessicale è determinata da due cose: 1) per leopardi la parola deve essere evocatica, non ci interessa il significato di per se, ma deve evocare; 2) deve essere inserita in una precisa posizione dei termini, e deve essere il centro di una serie di incontri di suoni fonici. Sono tutti espedienti, non sono scelte casuali, leopardi ci lavora tantissimo. C’è un saggio di Gianfranco Contini che dimostra come per arrivare a “gli occhi ridenti e fuggitivi” di A Silvia, ci ha lavorato tantissimo, nel trovare la parola, nel posizionarla nel verso, nel trovare i suoni fonici. L’impatto fonico qui infatti è dominato dal suono della “s” (sedendo, spazi, sovrumani, profondissima, si spaura), arricchito da una serie di allitterazioni in “p” e in “nd” (sedendo, mirando, profondissima, si spaura, pensier). A questo punto l’aggettivo semanticamente più espressivo diventa la parola profondissima, non solo perché è la parola più lunga, non solo perché da il senso della profondità, dell’infinito, ma è anche la parola in cui tutti gli incontri fonici che vi ho detto si trovano. A contribuire, a creare l’uso, l’idea di dilatazione spaziale è anche l’uso del plurale. Mentre il mutamento dell’aggettivo dimostrativo (quella anziché questa usato all’inizio) potrebbe creare anch’esso un senso di profonda dilatazione. Un'altra cosa: in questa prima parte, perché il testo viene spezzato all’8 verso in 2 parti, perché prima c’è l’infinito spaziale poi quello temporale, domina il suono della “a”. La “a” per sua definizione come vocale indica il senso vastità; nella seconda parte dove dominerà il senso di smarrimento dominerà la vocale “o” insieme alla vocale “u”, che devono rendere il senso di sgomento di fronte all’infinito. L’idea dell’infinito in leopardi non ha alcun valore, ne mistico ne religioso. A un certo punto all’ottavo verso, a metà verso, c’è una pausa molto forte. Leopardi mette una pausa forte che divide il verso in 2 parti: il punto. All’infinito spaziale si sostituisce l’infinito temporale. All’inizio un elemento ancora fisico richiama leopardi al presente, è lo stormire del vento tra le foglie, è l’unica annotazione realistica di questa seconda parte; lo riporta per un attimo alla dimensione umana, gli consente di percepire la dimensione umana, ma poi leopardi si perde; da questa sensazione uditiva nasce una nuova sensazione che lo porta verso l’infinito. Prima la sensazione visiva della siepe lo aveva portato a far scattare una seconda vista; adesso la sensazione uditiva del vento tra le foglie lo porta a far scattare non la seconda vista ma il secondo udito: è la percezione dell’infinito temporale, quindi è simmetrica come costruzione. Anche qui gli espedienti fonici aiutano leopardi a dare questo senso. Il polisindeto in “e” (e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei), gli enjambement, anche qui fortemente presenti, gli incontri vocalici rallentano e dilatano la cadenza ritmica. Dal punto di vista fonico due nuove catene allitterative si sostituiscono alle precedenti: quella in “v” che si lega alla parola vento (vento, voce, vo, sovvien, viva) e quella in “st” che si lega sempre allo stormire del vento (stormir, queste, questa, stagioni). Queste 2 catene alludono onomatopeicamente al soffiare del vento fra le piante. E poi la chiusa finale: percepita la sensazione dell’infinito spaziale e dell’infinito temporale, “così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”. La sensazione di annegamento del pensiero, la dolcezza del naufragio nel mare dell’infinito chiudono il testo. La chiave per la comprensione del testo sta ancora una volta nel gioco dei dimostrativi. L’immensità ora è presente, è viva, leopardi non può che lasciarsi andare naufrago in questo infinito; la coscienza è dilatata all’infinito, e allora la dolcezza, il piacere della vita lo si ritrova in questo infinito.
Saggio critico di Costanzo di Girolamo:
Nel 1986 pubblica un saggio sull’infinito molto importante che si intitolava “Gli endecasillabi dell’Infinito”. Di Girolamo lavora sull’endecasillabo di leopardi e individua 4 diversi tipi di endecasillabo che si alternano continuamente dando luogo a un andamento ritmico estremamente mosso e mutevole. Il problema era quello che usare sempre l’endecasillabo sciolto poteva risultare monotono. Leopardi, per risolvere il problema, usa endecasillabi in cui gli accenti si muovono. Di Girolamo individua: 1) endecasillabi ad attacco anapestico, con ictus primari in terza e sesta sede; 2) endecasillabi giambici, con ictus quasi tutti primari in tutte le sedi pari dalla seconda alla decima; 3) endecasillabi a maiore; 4) endecasillabi ad attacco dattilico con ictus primari in prima e quarta sede. “In tal modo la gabbia ritmica dell’endecasillabo risulta notevolmente allentata, grazie ai continui mutamenti nella sede degli accenti che impediscono tanto la monotonia quanto l’eccessiva cantabilità. Ma il fatto più sorprendente è che nella lirica si possono individuare altri 6 endecasillabi, costruiti a cavallo tra un verso e l’altro grazie all’enjambement, e all’inizio frequentemente vocalico tale perciò da consentire una sinalefe tra la sillaba finale di un verso e quella iniziale dei successivi versi”. Cosa ha scoperto Di Girolamo? Di Girolamo ha scoperto che se prendo il contro rigetto e il rigetto dell’enjambement, quelli sono endecasillabi perfetti con tanto di sinalefe al centro tra finale ed inizio di verso. Tali endecasillabi sono i seguenti: quello che si forma tra i versi 1 e 2; quello tra i versi 7 e 8; quello fra l’8 e il 9; quello tra il 12 e 13; quello tra il 13 e 14; e quello tra il 14 e il 15. “E ci si accorgerà facilmente che questi nuovi endecasillabi presentano le stesse differenziazioni ritmiche di quelli ufficiali della composizione”. (Non solo sono endecasillabi, non solo hanno la sinalefe, ma sono anche anapestici, giambici e dattilici). “La musicalità dell’infinito dunque oltre che dai fittizi rimandi fonici deriva da un foltissimo uso degli accenti e delle variazioni ritmiche, tale da ripercuotere la mutevole cadenza dell’endecasillabo persino oltre i confini normali il che fa dell’infinito davvero un unicum della tradizione lirica italiana”.
CANTI PISANO – RECANATESI:
Con questa denominazione si indica un gruppo di componimenti, per l’esattezza canzoni alla maniera della canzone libera, che la critica tende ad indicare come Grandi Idilli. Questa differenziazione tra piccoli e grandi idilli è un regalo della critica crociana; in realtà la dicitura canti pisano – recanatesi è più corretta ed è una dicitura che si lega sostanzialmente ai luoghi e ai 2 momenti specifici della composizione di queste canzoni. Che cosa era successo? Per lungo tempo leopardi stette in una sorta di silenzio compositivo, non sentì più l’ispirazione e non compose nulla se non come vedremo scritti di carattere prosastico. Quindi non ci furono composizioni liriche immediate dopo i piccoli Idilli. Bisognerà risalire al 2 maggio 1828 per identificare un nuovo periodo creativo. In questo periodo Leopardi si trova a Pisa e vive una sorta di “primavera pisana”; è una sorta di felicità, è un periodo in cui sente rivivere in se stesso la gioia dell’esistenza, in cui il suo cuore sembra rincuorarsi sembra riempirsi di nuovo di sentimento. Questo lo sappiamo perché c’è una lettera proprio del 2 maggio 1828 che Leopardi scrive alla sorella Paolina. Qui ci parla di questa nuova “primavera” (indicando con questo termine primavera il senso di rinascita che lui sente dentro di se). Alla sorella Paolina scrive: “ho scritto versi alla maniera antica, con quel mio cuore di una volta”. Con questa frase vuole indicare la rinascita alla poesia, cioè un nuovo momento di ispirazione. Da questo momento di rinascita nascono 2 opere: una meno importante, che non fa parte neanche dei canti pisano – recanatesi, “Il Risorgimento”. Già dalla parola si ha l’idea della rinascita. È una canzone alla maniera metastasiana, quindi basata su settenari. E poi scrive un autentico capolavoro, che è il primo dei canti pisano – recanatesi, ossia “A Silvia”. Dopo questo periodo pisano Leopardi fa ritorno a Recanati; lui scriverà nell’Epistolario che passa a Recanati “16 mesi orribili”, eppure proprio da questi 16 mesi orribili nascono gli autentici capolavori della lirica leopardiana. Ecco perché quindi Canti pisano – recanatesi: quindi A Silvia e poi i canti scritti a Recanati. Quali sono questi canti? La scrittura di questi canti va dall’autunno del 1829 alla primavera del 1830. Questi sono: Le ricordanze, la quiete dopo la tempesta, il sabato del villaggio, canto notturno di un pastore errante dell’Asia, e il passero solitario, che insieme alla lirica A Silvia compongono il gruppo dei canti pisano – recanatesi. Quali sono le novità dei canti pisano – recanatesi? Qui leopardi ha raggiunto un perfetto equilibrio fra il “caro immaginar” e il “vero”, che invece mancava nei piccoli idilli, dove molte volte si vedevano parti interamente descrittive e parti più celebrali piene di enfasi. Qui invece siamo di fronte ad un perfetto equilibrio tra il “caro immaginar” ( con caro immaginar si indica la componente idillica individuata dalla critica crociana, da Benedetto Croce) e il “vero”. (Croce cosa diceva? Siccome lui faceva la distinzione tra poetico e non poetico, Croce individua in leopardi come poetico tutto ciò che si lega alla poetica dell’idillio; e esclude dal poetico tutto ciò che è ragionamento; ora se è vero che nei piccoli idilli questa poetica dell’idillio a volte è nettamente separata dal vero, e quindi si percepisce lo stacco, in queste canzoni i due elementi si fondono in un unicum e la forza dei Grandi Idilli sta proprio in questo; ecco perché Croce non riuscì fino in fondo a capire i canti pisano – recanatesi, perché applicò a questi canti quella distinzione tra componente idillica e componente filosofica che lo portavano a negare il valore di buona parte di questi idilli). Invece no. I canti pisano – recanatesi si sostanziano proprio di questa perfetta fusione tra componente idillica individuata dai crociani (il caro immaginar: la poetica del ricordo, la poetica della rimembranza, l’indefinito) e il vero, la poetica del vero. Quindi cosa riesce a fare il poeta in questi grandi Idilli? Riesce ad universalizzare le sue vicende personali con naturalezza, e gli elementi del paesaggio recanatese perdono la loro fisicità per divenire elementi spirituali. È chiaro che anche il linguaggio si adatta a questa nuova traslazione. E quello che troviamo nei canti pisano – recanatesi è più misurato, è un linguaggio che non lascia più spazio al patetico, non lascia più spazio all’enfasi declamatoria. Non a caso anche lo schema metrico è mutato: non più l’endecasillabo sciolto ma bensì forme più ampie come quella della canzone libera che lui aveva già sperimentato. Quindi endecasillabi e settenari completamente liberi in modo che leopardi possa giostrare sulla struttura metrica. In questo modo la canzone libera asseconda il senso di vaghezza e di indeterminatezza che è una delle costanti della poetica leopardiana.
Le ricordanze: risale al 1829, ed è il testo in cui più di tutti prende corpo la poetica della rimembranza, quindi il ricordo. Walter Binni dice che “le ricordanze sono il culmine dell’idillio leopardiano”, quindi assegna a questo testo un’importanza fondamentale. In realtà il testo è estremamente valido dal punto di vista poetico ma rispetto agli altri ha ancora qualche eccessiva infiammazione retorica; c’è ancora troppa polemica soprattutto la dove leopardi denuncia il mondo a lui contemporaneo (il secol superbo e sciocco); quindi c’è ancora qualche punta polemica e quindi il pensiero di leopardi non si scioglie in pura poesia come nelle altre liriche. I temi sono quelli del ferire fatale delle illusioni, l’essere avulsi di queste illusioni in una rimembranza acerba; Nerina è una delle figure care all’immaginario leopardiano come lo sarà Silvia (i nomi Nerina e Silvia non a caso sono 2 personaggi letterari di un autore molto caro a leopardi; esse sono 2 personaggi dell’Aminta di Torquato Tasso, e l’Aminta di Tasso è la celebrazione della primavera, della vita, del piacere).
A SILVIA:
A Silvia è la prima poesia in forma di canzone libera scritta da leopardi. Abbiamo detto che si definisce canzone libera un componimento che si divide in strofe di varia lunghezza nelle quali però i versi sono liberi, non c’è una rima particolare, non ci sono regolarità; l’unico elemento fisso è l’alternanza tra endecasillabo e settenario; anche se quest’alternanza è discontinua (anche questo fa venire in mente Torquato Tasso, perché egli utilizza uno schema simile nell’Aminta, nella scena della Selva). A Silvia fu scritta dopo 5 anni di silenzio, dopo “il Risorgimento”, ma è considerato il primo vero canto pisano – recanatese. Il poeta gode delle illusioni ma sa che queste illusioni ormai sono ingannevoli. Fu scritta di getto a Pisa tra 19 e il 20 aprile 1828 (scritta di getto non significa che poi non continuò a lavorarci, non è scritta di getto come il 5 maggio, che poi l’autore non ci ritorna + sopra; scritta di getto significa in questo caso non pensata, dettata dall’immediato sentire di questa primavera pisana). Questo lungo periodo di silenzio era stato interrotto solo dalla scrittura di opere in prosa, di cui una in particolare che è “l’Epistola al conte Carlo Pepoli”. Non bisogna soffermarsi su chi fosse realmente Silvia, se Teresa Fattorini o no, poiché Silvia in realtà è pura creatura poetica, ed è questa la parte che interessa: è creatura poetica, e il riferimento contingente, reale, lascia il tempo che trova. Il centro lirico di questo canto risiede nell’evocazione radiosa dell’adolescenza. L’adolescenza che svanisce insieme alla gioiosa fiducia nell’avvenire. E quindi con lo svanire di questa gioiosa fiducia nell’avvenire svanisce anche l’armonioso rapporto con la natura. Nel momento stesso in cui il poeta demolisce il significato positivo della vita eleva un canto funebre alle illusioni. Egli attinge a un immaginario poetico per esaltare quelle stesse illusioni che sa ormai non esistere più. A Silvia ha una costruzione rigorosamente simmetrica: la prima strofa ha una funzione proemiale ed introduce il tema, cioè l’immagine di Silvia; la seconda e la terza strofa sviluppano due situazioni parallele: da una parte le illusioni che provava Silvia, da un'altra parte le illusioni che provava il poeta; queste 2 illusioni si scontrano con la faticosa realtà. La quarta strofa è un commento desolato alla delusione delle speranze; la quinta e la sesta strofa hanno la stessa organizzazione parallela della seconda e della terza. La quinta e la sesta sono come la seconda e la terza, soltanto in maniera speculare: ritornano di nuovo le due esperienze parallele di Silvia e del poeta. Va detto anche che apparentemente A Silvia è composta in un linguaggio molto diretto, essenziale, quasi privo di traslati metaforici o di altri artifici retorici. È tutta strutturata su una sintassi semplice fondata su periodi generalmente brevi. Ma ciò non significa che manchi il labor limae, e che leopardi non lavora attraverso le figure retoriche ma lavora attraverso le figure di suono.
Analisi del testo:
Questa è la strofa proemiale e si apre sulla figura di Silvia; è un ritratto vivo ma fatto di poche pennellate, pochi getti rapidi. Silvia è evocata nella forma dell’apostrofe, ma la sua è una figura femminile priva di elementi concreti, non vi sono descrizioni, pochi aggettivi, sobri (è quel senso di vaghezza che leopardi ricerca nei suoi scritti). Secondo Stefano Agosti leopardi ha anche giocato su quel “Silvia / salivi”, perché salivi è l’anagramma di Silvia. Quello che ci interessa comunque è che Silvia è lo snodo principale di una lunga catena allitterativa che percorre l’intera strofa e che riguarda la “v”. è come se Silvia ritornasse attraverso il suono nelle varie parole che poi leopardi cita (vita, fuggitivi); notevoli richiami al gruppo “v” + vocale che non solo ritorna nella prima strofa ma anche nelle strofe successive. E anche a questa catena principale se ne legano altre 2: l’una data dalla catena allitterativa in “l” (lieta, salivi), l’altra legata alla vocale “a” che in leopardi ha un ampio utilizzo perché da il senso della vastità, dello sterminato. L’apostrofe nella fattispecie serve ad evocare l’immagine di Silvia e tutta questa prima parte fino alla strofa quarta e sesta è caratterizzata da questo flusso contemplativo e questo spiega perché la sintassi sia chiara limpida, con periodi brevi, con pochissime proposizioni subordinate temporali. A partire invece dalla quarta e sesta strofa la sintassi si dice che “si inarca”, ovvero diventa più mossa, più tesa e ricca di esclamazioni e interrogazioni; questo perché nella quarta strofa c’è il commento della delusione per la caduta delle speranze. Non a caso cambiano anche i tempi verbali. Nella prima, seconda, terza e quinta strofa domina l’imperfetto. Nella quarta e sesta strofa, dove si ha il cambio di sintassi, prevale il presente, perché sono le strofe in cui si traccia l’amaro bilancio del presente. Il ritratto di Silvia si arricchisce di particolari in quanto Silvia viene inserita nell’ambiente domestico; è un’atmosfera di tranquillità, di speranzosa felicità che poi preclude all’infelicità successiva. Continua poi l’allitterazione in “s” che serve a sottolineare la grande musicalità del testo. Entra in scena la figura del poeta; si avvia il parallelismo tra la condizione di Silvia e la condizione di Leopardi: così come la morte ha tolto a Silvia la speranza della vita, la vita stessa ha tolto a Leopardi la speranza della felicità. Il tempo a cui leopardi qui si riferisce sono quei 7 anni di studio matto e disperatissimo come scrive nella lettera al Giordani datata 2 marzo 1818. Qui leopardi riprende un principio tipico della lirica romantica secondo cui c’è consonanza tra il paesaggio e lo stato d’animo di chi lo percepisce. Quindi la serenità indotta dal canto e dal lavoro di Silvia induceva a quell’epoca anche serenità in Leopardi. Ma tutto questo cade nel momento in cui l’illusione di Silvia cade. E allora nella quarta strofa il linguaggio si fa più spezzato: l’esclamativa all’inizio, le 2 interrogative finali, che creano il crescendo di angoscia e disperazione della lirica. Qui viene fuori la nuova immagine negativa della natura, quella che Sebastiano Timpanaro ha definito “la morte stessa della natura”, la morte della natura come madre e poi la nascita della natura maligna. E Silvia e il poeta stesso rappresentano le 2 possibili sorti dell’uomo: l’uomo che si lascia illudere e che continua a credere nella natura e l’uomo che invece svela la verità e cede di fronte a questa natura. Nelle ultime 2 strofe si completa l’identificazione di Silvia con la speranza del poeta; se nella penultima strofa l’interlocutrice era ancora Silvia, nell’ultima strofa il soggetto non è più Silvia, ma il soggetto diventa la speranza. La mano che indica la tomba non è la mano di Silvia ma è la mano stessa della speranza che è morta con Silvia.
IL SABATO DEL VILLAGGIO:
Il sabato del villaggio fu scritto tra il 20 e il 29 settembre del 1829, immediatamente dopo La quiete dopo la tempesta, e a quel testo in effetti il sabato del villaggio è fortemente legato. Questo canto infatti riprende il tema del piacere da un'altra angolazione. Se nella quiete dopo la tempesta il piacere consisteva nella provvisoria cessazione del dolore, qui il piacere si configura come attesa, come attesa di un bene che il poeta sa però che non verrà mai raggiunto. Quindi i due testi rappresentano l’uno e l’altro elemento in relazione alla teoria del piacere. Quindi nella quiete dopo la tempesta c’è la cessazione del dolore, nel sabato del villaggio c’è l’attesa del bene. Quando il bene è arrivato, è giunto, esso svela tutto il suo carattere illusorio; cioè una volta giunto l’essere umano si rende conto che si tratta solo di un illusione (questo perché secondo leopardi il piacere è qualcosa di irraggiungibile perché il piacere a cui tende l’uomo è infinito). Rivelando il suo carattere illusorio induce alla noia. Allora l’unico momento di vera felicità consiste appunto nell’attesa del futuro, un futuro che è indefinito e per questo si lega all’immaginazione, che è l’unica che è in grado di concedere all’uomo un momento, una momentanea felicità. Quindi il piacere non può consistere nella sostanza del presente per Leopardi; esso si giustifica o come speranza del futuro o come speranza del passato (e quindi da qui scaturisce la poetica della rimembranza che troverà nelle ricordanze il suo testo di edizione). Il sabato del villaggio si apre, come spesso accade in Leopardi, con un’animata descrizione stavolta di Recanati, siamo nel borgo natio, e questa scena animata che viene descritta è la scena della sera del sabato, perché il successivo giorno, la domenica, sarà il giorno festivo tanto atteso. Il quadro iniziale è caratterizzato, come nella quiete dopo la tempesta, da una serie di dettagli realistici, che vengono resi con un lessico molto umile, perché l’intento di leopardi è quello di evidenziare i colori, i suoni della vita paesana. Nelle ultime 2 strofe invece, prende corpo l’amara riflessione; è l’amara riflessione sulla vanità dell’attesa, sulla disillusione, sulla noia che il giorno festivo porterà a chi ha tanto atteso.
Analisi del testo:
Canzone libera, di endecasillabi e settenari, suddivisi in quattro strofe di diversa larghezza. La prima è più lunga di tutte le altre, ed è anche più lunga della somma di tutte le altre strofe messe insieme. Il canto si apre con questa prima strofa che giustappone una serie di quadretti di vita paesana, nella sera che precede il giorno festivo. Tali scenette sono presenti anche nell’altro testo, nella quiete dopo la tempesta, e si colloca in una sequenza di riferimenti temporali e atmosferici, con una dettagliata descrizione del passaggio dal giorno alla notte, pieno di sfumature, di luci, di colori. L’asse fonetico principale è dato dal suono della “s”, che torna con maggiori e minori addensamenti lungo tutto l’arco della strofa (siccome, suole, siede, su,scala, snella, solea, sera, sereno, squilla, suon, saltando). Intorno ai versi 16-19, “già tutta l’aria imbruna” quindi quando incomincia a descrivere il passaggio cromatico verso la sera, c’è invece un accentuarsi del suono della “r” spesso associata al suono della “b”, quasi come ad accentuare foneticamente il termine “ombre”, che in questa sequenza diventa un po’ la parola chiave di tutta la descrizione. E infatti “torna”, “imbruna”, “ombre”, “biancheggiar”, “azzurro”, “sereno”, “recente” e via dicendo. Abbiamo prima il quadro della donzelletta e poi il quadro della vecchierella. Sono 2 quadri in contrasto: la donzelletta col suo fascio d’erba, è il foraggio che si portava agli animali, questo è un dettaglio fortemente realistico; la donzelletta è delineata come una figura estremamente leggiadra, che torna gioiosa dal lavoro dei campi. La vecchierella invece è una figura in contrasto; ciò che per la donzelletta è attesa gioiosa del futuro, per la donna anziana è invece un ricordo nostalgico, un rimpianto del passato. Così le due possibilità di provare piacere secondo la teoria leopardiana sono incarnate dall’uno e dall’altro personaggio: la donzelletta rappresenta l’attesa, la vecchierella rappresenta la rimembranza, il ricordo del passato. Al centro della strofa, sottolineata anche dalla catena allitterativa in “r”, c’è la notazione coloristica del tramonto e del sopraggiungere delle ombre lunari. Inoltre all’immagine visiva dei versi precedenti si sostituisce ai versi 20 e 23 una nota acustica; quindi il suono delle campane che annunciano il giorno festivo e generano l’attesa e quindi la gioia in chi l’ascolta. Nella parte finale subentra una terza figura: è la figura dello zappatore, che si colloca immediatamente a ridosso dell’immagine dei fanciulli che giocano nella piazza spensierati nell’allegro chiasso. Lo zappatore è stanco, torna e attende il riposo dell’indomani. La figura dello zappatore è una “suggestione petrarchesca” (nel Canzoniere, nel cinquantesimo del Canzoniere, c’è quest’immagine dello zappatore che ritorna, dice: “l’avaro zappator riprende l’arme”, quindi è una suggestione di carattere petrarchesco). La seconda strofa brevissima, è occupata interamente dal quadretto del falegname, che si affretta a finire il lavoro prima del riposo festivo. Stavolta c’è un netto scarto temporale, quindi c’è un cambio di registro temporale: mentre la prima strofa raffigurava situazioni al crepuscolo, questa seconda strofa è decisamente notturna, quindi è un’ambientazione di carattere notturno. Anche qui notevoli sono le serie di assonanze (spinta, sega, veglia, bottega, lucerna, s’affretta). Le ultime due strofe da descrittive diventano riflessive; mentre le precedenti strofe erano descrittive qui c’è un cambio di registro, andiamo verso strofe riflessive (la stessa cosa accade anche nella quiete dopo la tempesta, solo che lì sono meno musicali rispetto al sabato del villaggio). Il sabato è il giorno più felice perché è l’attesa del giorno festivo; quest’ultimo, dice Leopardi, sarà segnato dalla tristezza e dalla noia dato che la prospettiva futura non è più la festa ma è il ritorno al consueto lavoro che si è lasciato solo per un attimo nella memoria. Allo stesso modo la giovinezza (quindi instaura un parallelo), la giovinezza che è l’attesa, è l’età felice; poi la giovinezza andrà nella vecchiaia, e allora ci sarà la consapevolezza delle illusioni e allora ci sarà la morte. Quindi è instaurato un parallelo tra sabato/domenica e giovinezza/vecchiaia. Il garzoncello scherzoso (immagine che torna anche nelle ricordanze di Leopardi), non deve essere impaziente di diventare adulto perché la vera felicità è quella che ora lui sta vivendo, è la felicità dell’attesa. La speme quindi, come prefigurazione di un bene futuro, è lo stesso fondamento della felicità: una volta che tutto sarà giunto nulla più sarà possibile. La strofa finale si chiude sull’artificio retorico della “reticenza”: lui dice: “io non voglio dirti altro, ma ti dico solo questo: speriamo che la maturità tardi ancora a venire”. Quindi la reticenza finale colora di una forte sfumatura compassionevole la strofa e rivela l’affetto del poeta per i fanciulli che sono ignari delle sofferenze che la vita gli riserverà.
IL PASSERO SOLITARIO:
Questa poesia fu pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana del 1835, e in quell’edizione veniva collocata immediatamente prima dell’Infinito, quindi con una funzione quasi di introduzione ai primi Idilli. Tale posizione, insieme alla mancanza dell’autografo (perché questo è uno dei testi leopardiani di cui ci manca la versione manoscritta), ha creato non pochi problemi circa la datazione di questo componimento. Mentre di tutti gli altri come si è visto, si è stati sempre estremamente precisi nella datazione, addirittura per alcuni è stato possibile individuare il periodo, il mese in cui venivano composti, qui invece sorgono questi problemi; problemi complicati dal fatto che in un testo dal titolo “Supplemento agli Idilli”, risalente al 1822-23, si legge appunto di questa idea della lirica “passero solitario”, il che porterebbe a retrodatare di molto la composizione di quest’opera rispetto ai canti pisano – recanatesi. L’ipotesi più probabile è che la poesia sia stata ideata da leopardi nel periodi di composizione dei primi idilli (1819-1821), ma che in realtà l’opera di scrittura vera e propria di questo componimento risalga in effetti al 1831; quindi subito dopo l’edizione fiorentina dei Canti (perché i Canti ebbero varie edizioni: una prima, fiorentina, intorno al ’31; quella napoletana definitiva del 1835; e infine una successiva ad opera di Ranieri). Questo spiegherebbe perché quest’opera sia così particolare; perché la forma e i moduli espressivi sono quelli tipici dei canti pisano – recanatesi, ma il contenuto non è omogeneo rispetto agli altri canti pisano – recanatesi, perché non risale alla fase del pessimismo storico (usando l’espressione di Timpanaro), ma bensì alla primissima fase di leopardi: il pessimismo personale, soggettivo, in cui leopardi vede solo se stesso infelice e tutto il resto del mondo che lo circonda felice. Perché leopardi abbia scelto di comunque svolgere nei nuovi moduli espressivi una tematica ormai superata non è facile stabilirlo con certezza; forse l’intento di leopardi era quello di stabilire una continuità nell’ambito della propria ispirazione idillica. In questo canto in effetti ricorrono molti motivi idillici, densi sono i riferimenti letterari; addirittura delle volte ci sono vere e proprie citazioni. Nonostante questo il canto riesce a raggiungere quella sublime naturalezza che è tipica di tutti i canti pisano - recanatesi. Anche il passero solitario ha una struttura simmetrica. La prima strofa vede leopardi concentrarsi sull’immagine del passero, e sulle abitudini di questo passero il quale è solito vivere solitario, quindi lontano dal resto degli animali. La seconda strofa invece si concentra sul poeta: qui la poesia da voce al rimpianto del poeta per la giovinezza perduta e al senso di autoesclusione che il poeta prova in relazione alla dolcezza della vita. La terza strofa invece, che è la più breve, rimette in parallelo i due soggetti, quindi il passero e il poeta, e sottolinea come ambedue siano in una sorta di vecchiezza, quindi con la vecchiezza si identifica la caduta dell’illusione e quindi l’angoscia, la noia che ne deriva. La prima e la seconda strofa sono costruite in maniera simmetrica ma rovesciata: nella prima strofa infatti troviamo nei primi 4 versi la condizione di solitudine del passero; nel versi dal 5 all’11 l’allegria invece degli altri uccelli che tutti insieme svolazzano per il cielo; comunque lì c’è l’allegria del gruppo e prima c’è la solitudine del passero. Nella seconda strofa invece il sistema viene capovolto: prima c’è il poeta che non si cura degli altri; quindi è come se l’ultima parte relazionata al passero venisse portata nella prima parte della strofa successiva, di leopardi; al centro stavolta c’è la festa dei giovani (versi 26-35), e infine c’è la solitudine del poeta.
Analisi del testo:
Questa è la prima strofa. Divisibile in tre parti: 1-4: solitudine del passero; 5-11: la festa invece di tutti gli animali (“odi greggi belar, muggire armenti” e “gli altri augelli contenti, a gara insieme per lo libero ciel fan mille giri”); 12-16: il fatto che il passero non si cura dei divertimenti altrui e continua nel suo stato di solitudine (“Tu pensoso in disparte […] schivi gli spassi”). La prima strofa quindi descrive, attraverso questa tripartizione, le abitudini del passero solitario: nel fulgore della primavera tutti gli uccelli volano gioiosi, solo il passero se ne sta solo sulla cima della vecchia torre trascorrendo senza allegria quella che è la stagione più bella dell’anno: la primavera alias giovinezza. La strofa è ricca di assonanze interne e di allitterazioni. I rimandi fonici ne fanno da padrone: soprattutto la “a” accorpata alle nasali e la presenza di liquide e vibranti. Nella seconda strofa i primi versi sottolineano il passaggio dalla figura del passero in perfetta simmetria all’Io del poeta. Solo che questa volta vedremo il poeta che non per sua scelta si distacca dagli altri, quindi invertito il tema. Questa è una delle più belle strofe di tutta la produzione leopardiana. Anche la seconda strofa è divisibile in 3 parti: 17-26: articolata su una serie di tristi esclamazioni e di stanche invocazioni. Ha cadenze molto lente, quasi funebri; è scandita da avvolgenti giri sintattici, rotti ad un certo punto (dal 23 verso in poi) da una sequenza di settenari quasi singhiozzante; la seconda parte versi 27-35: fa da contrappunto alle altre 2; è infatti la descrizione resa con stupefacente evidenza visiva, della sera festiva e della folla di giovani che sciamano per le strade, intrecciando gli sguardi fra il suonar delle campane e gli spari di fucile che si sentono in sottofondo; la terza che va dal 36 al verso 44 si fa invece più drammatica e solenne, il tono è più drammatico e solenne perché si chiude il cerchio e ci si sofferma sulla solitudine del poeta, che, volto all’occidente, osserva il Sole calante che sembra alludere appunto al calare della gioventù: così come il Sole si spegne dietro l’orizzonte così la gioventù scema verso la vecchiaia. Tanti registri diversi ma tutti fusi insieme in un miracoloso equilibrio di toni e di scrittura (per questo questa è una delle più belle strofe, anche se la meno conosciuta, che leopardi abbia mai scritto). Nell’ultima strofa leopardi riprende simmetricamente il parallelo fra se e il passero solitario, rimarcando però stavolta una differenza fra i 2: il passero non si pentirà mai del proprio comportamento, perché è un comportamento dettato da natura; mentre per il poeta lo stato di solitudine in cui si trova è una scelta della quale con ogni probabilità finirà per pentirsi; forse, anzi quasi certamente, quando sarà troppo tardi. E questa è l’amara conclusione del passero solitario. La prima parte di questa terza strofa si basa sulla catena allitterativa in “v”, perché la parola chiave diventa la parola “vecchiezza” (venuto, viver, vostra, vaghezza, vecchiezza), rinforzato da un asse secondario in “s”, che trova la sua parola chiave nella “solitudine” (solingo, sera, stelle). Nella seconda parte invece i rimandi fonici diminuiscono, a favore di una versificazione che diventa improvvisamente più dura, più, per usare un termine dantesco, “petrosa”. E che termina nella rima grammaticale “pentirommi – volgerommi” (sono innanzitutto due parole molto lunghe, è una rima molto dura e che gioca sulla presenza della doppia “m”; fu una rima che piacque a molti critici, ma comunque è essenziale per chiudere le fila di un atteggiamento di forte pessimismo come quello che chiude la lirica. In generale la sintassi è più ampia, più complessa; ci sono quelle interrogazioni e quelle esclamazioni tipiche dei canti pisano – recanatesi; incalzanti sono anche le anafore, la presenza di parole negative; sono tutti elementi tipici dei canti pisano – recanatesi che creano quella possibilità di fusione fra il linguaggio del vero e il linguaggio dell’immaginar che è la grande novità dei canti pisano – recanatesi. Però il tema non è quello del pessimismo cosmico, ma è del pessimismo personale; quindi è un tema che cronologicamente risale a tempo prima della composizione dei Grandi Idilli: questo spiega il perché di quel discorso iniziale circa la datazione dell’opera.
CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA:
Anche questo è uno dei canti pisano – recanatesi. Di questo canto conosciamo anche la genesi con estrema precisione, perché Leopardi annotava sullo Zibaldone, sulla pagina datata 3 ottobre 1828, un brano di un articolo di un giornale francese, nel quale si recensiva un libro di memorie di viaggio del barone Meyendorff; quindi nello Zibaldone annotava questo brano in francese che era una recensione a un libro di memorie di questo barone. Si citava in particolar modo un’osservazione sui costumi di un popolo: il popolo dei Kirghisi, che era un popolo nomade dell’Asia centrale, dedito alla pastorizia. In questo appunto si leggeva che questi pastori passano la notte seduti su una pietra a guardare la luna e a improvvisare tristissime parole su arie egualmente tristi. Quindi leopardi dovette rimanere colpito da questa immagine, da questo pastore che intonava alla luna queste tristissime venie, e da questo spunto, dopo una lunga elaborazione, nacque il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Protagonista e voce narrante del canto è infatti un immaginario pastore asiatico che si rivolge prima alla luna, poi al suo gregge, per lamentarsi della condizione umana, cioè dello stato in cui ormai l’uomo si trova. Il filo tematico della poesia è stato ben riassunto strofa per strofa da Gianfranco Contini. La lirica è molto lunga: si tratta infatti di una canzone libera di endecasillabi e settenari variamente rimati divisi in 6 strofe. La costante è che alla fine di ogni strofa compare costantemente la rima in “ale”. Gianfranco Contini studiando il testo ha effettuato una sorta di divisione in sequenza e ha assegnato un titolo indicativo a ognuna di queste sequenze. La prima strofa Contini dice: “Domande alla luna circa il significato della sua vita ciclica come la vita vana del pastore”. La seconda strofa: “Metafora negativa esalata senza pause sulla vita dell’uomo”. Terza strofa: “Tristezza della nascita dell’uomo”.Quarta: “Domande alla luna circa il senso della vita che per il pastore è male”. Quinta: “Invidia del gregge sprovvisto del tedium vitae”. Sesta: “Sospetto che il volo darebbe la felicità al pastore, ma sospetto che il male di vivere sia universale”. A differenza degli altri canti pisano –recanatesi il paesaggio qui è completamente assente; il canto ha come unico elemento paesaggistico la luna, che però si è visto che per Leopardi è qualcosa di più di un elemento paesaggistico; per Leopardi è quasi una cara confidente a cui leopardi apre il suo cuore, tant’è vero che compare perpetuamente in quasi tutti i suoi componimenti. Il canto tristissimo e terribile del pastore proviene quasi da una nuda dimensione metafisica; ecco perché non ci sono elementi fisici del paesaggio che invece abbiamo visto negli altri canti pisano – recanatesi. È come se il luogo desertico in cui il pastore innalza i suoi tristi lai al cielo, fosse una dimensione mentale, e allora non c’è bisogno di rappresentarla fisicamente, è una dimensione puramente mentale, alla quale bisogna alludere in maniera completamente vaga, senza cedere alla minima sensazione di carattere descrittivo; del resto solo un luogo del genere può essere il luogo in cui si realizza l’insensata meditazione sulla vita. Questo è considerato il testo che porta a compimento il cosiddetto pessimismo cosmico leopardiano, è l’espressione più compiuta del pessimismo cosmico leopardiano. E la grande suggestione di questo testo sta nella musicalità del verso, quasi a riprodurre una disperata cantilena che richiama il ritmo nudo dei fauni e il ritmo che caratterizza i ragionamenti metafisici.
Analisi del testo:
La prima strofa si articola su una serie di domande alla luna, che vengono interrotte dalla constatazione della somiglianza tra la ciclicità del suo percorso celeste e la vita del pastore. Il pastore richiede alla luna quale sia il senso del suo eterno movimento e quale quello della propria esistenza; un senso che gli sfugge e che quindi gli rende l’idea del destino impalpabile. La meditazione ha un respiro cosmico perché si traduce in una sbigottita malinconia. La musicalità della strofa è data da un ricco sistema di rimandi fonetici, i cui assi principali ruotano attorno alla “s” e alla “v” (silenziosa, sorgi, sera, deserti, sei, schivo, somiglia, sorge, stanco,sera, sua)(vai, vaga, valli, vita, che torna ben quattro volte, quindi è una parola chiave, vede, vale, vostra, ove, vagar). Particolarmente complesso è il sistema delle rime. Qui è fatto un uso più continuato della rima rispetto agli altri canti pisano – recanatesi. E poi molto abbondanti sono le assonanze sia interne sia nella parte finale. L’apertura verso la luna avviene attraverso l’apostrofe iniziale (“o graziosa luna”) che poi ritorna richiamandola “o silenziosa luna”; qui c’è la stessa apertura di “Alla luna”, quindi c’è un riecheggiamento di un precedente componimento. “Sorge il suo primo albore, move la greggia oltre pel campo”: verso 11; qui l’asindeto tra i due predicati sottolinea la rapida successione tra le due azioni; anche l’assonanza tra i due verbi da l’idea del sorgere e del muoversi della greggia come di un unico movimento. La seconda strofa si regge su un vero e proprio “virtuosismo sintattico”: un solo periodo ricco di proposizioni coordinate che si snoda su sedici versi su un totale di diciotto. Quindi è un periodo estremamente complesso costruito con grande abilità. L’immagine che si accampa in questo periodo snodato su sedici versi è l’immagine del “vecchierel” (è una “suggestione petrarchesca”, poiché la stessa immagine si trova nel sonetto “Movesi il vecchierell canuto e bianco”). Gli assi fonetici di questa strofa sono gli stessi di quella precedente; la consonante “v” che ha il suo asse appunto nell’immagine del vecchierel (quindi vecchierel, vestito, valle, vento, avvampa, varca, via, vergine), e poi la “s” (scalzo, spalle, sassi, stagni, s’affretta, senza, sanguinoso, abisso). C’è anche la forte paronomasia “corre”/ “corre”/ “torrenti”, è proprio la paronomasia da il crescente affanno dell’uomo nella vita. Come anche visto nella lettura la strofa è più veloce rispetto alla strofa precedente. Comunque sia la prima sia la seconda strofa sono strofe di intonazione fortemente lirica. La terza strofa è una strofa che registra un ripiegamento meditativo, nel quale l’io del pastore sembra coincidere con l’io del poeta; l’andamento sintattico diventa però più disteso e più prosastico, per cui c’è una forte diminuzione dei rimandi fonici e degli artifici musicali. Nei versi 41 e 42 c’è poi un riecheggiare di immagini lucreziane (per l’esattezza del De rerum Natura 5, versi 222-227, in cui c’è l’immagine del naufrago che giace nudo e quindi anche qui il pastore è una sorta di naufrago della vita, che cerca di sopravvivere alla sofferenza della vita). Passiamo alla quarta strofa. In questa lunga strofa si ritorna di nuovo al registro lirico. L’intensità lirica si fa di nuovo altissima; il canto del pastore si sposta sulla meditazione sulla condizione umana nell’universo e quindi sulla condizione dell’universo stesso, con un progressivo allargamento di orizzonti. Cioè dal dubbio su che cosa sia la morte, si passa ora a domande sul significato dei singoli fenomeni naturali: l’avvicendarsi del giorno, l’avvicendarsi della notte, l’avvicendarsi delle stagioni, per giungere infine ad interrogarsi sullo scopo stesso dell’universo intero. Ecco perché c’è una sorta di climax ascendente, un allargarsi progressivo degli orizzonti. Più si allarga l’orizzonte più cresce lo sgomento e la nullità del protagonista di fronte agli eventi che lui registra più grandi di sé. Questo senso di sgomento, di solitudine, questo senso di nullità, si realizza attraverso un uso massiccio di parole indefinite (solinga, eterna, pensosa, sospirar, supremo, tacito, infinito, muta, deserto, lontano, miro, tante, profondo, immensa, smisurata, innumerabile, immortal) spesso legate da tutta una serie di allitterazioni e omofonie. Presente è l’allitterazione del suono “e” + liquida “r”, “o” + liquida “n”, in sedi anche molto ravvicinate (nostro, sospirar, morir, scolorar). Ogni parola in questa strofa è in rapporto fonetico con un'altra parola; il risultato di tutto questo è un’estrema musicalità del verso. Quinta strofa: dopo l’aumento di tensione lirica della strofa precedente si ha di nuovo una sezione più riposata e meditativa. Il pastore ora si rivolge al suo gregge per affrontare il tema del tedio, della noia, che tormenta gli uomini mentre gli animali sembrano rimanerne immuni. Così laddove il riposo del gregge è piacevole ristoratore, il riposo del pastore non è piacevole perché ad esso si accompagna subito l’angoscia e la noia. Il tema della noia abbiamo visto che in leopardi ha vari sviluppi. C’è addirittura un passo dello Zibaldone in cui la noia è un blasone di nobiltà; la noia può essere intesa infatti quasi come una nobiltà intellettuale. C’è ad esempio un Pensiero, il Pensiero n° 68, in cui Leopardi appunto dice che la noia è il più sublime dei sentimenti umani; se io provo noia significa che capisco il mondo, e se capisco il mondo sono superiore agli altri. Immagini della noia ne ritroveremo tante: alcune ne abbiamo già viste in Seneca; si ritrovano anche in filosofia con Schopenhauer; qui ci sono anche molte suggestioni di un poeta inglese, Edward Young, ne “Le notti”; qui comunque nelle immagini soprattutto nei versi 105-116 si sente questa suggestione; leopardi conosceva questo poeta attraverso la traduzione di un traduttore che si chiamava Ludovico Loschi; probabilmente c’era anche in Young quest’immagine delle greggi che la notte riposano, il belare mesto delle greggi, il tormento dell’uomo durante la sera. Quindi sono suggestioni che derivano da questo poeta inglese. L’ultima strofa è molto più breve di tutte le altre, ed è simile al congedo della canzone petrarchesca. Il canto, dopo la meditazione della strofa precedente, torna melodioso, accentuando gli effetti da ritornello. Si compie il ragionamento: forse erro, forse tutti nel mondo sono infelici, anche quel gregge che adesso mi sembra felice, forse prova la mia stessa noia. E tutto si chiude in quell’immagine finale: “O forse erra dal vero […] dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.
CICLO DI ASPASIA:
Si trova un gruppo di liriche che va sotto il nome di Ciclo di Aspasia. Questo Ciclo di Aspasia ha creato non pochi problemi alla critica; questo perché il Ciclo di Aspasia presenta caratteristiche stilistiche e secondo alcuni anche tematiche, differenti rispetto al resto della produzione lirica che abbiamo analizzato fino a adesso di Leopardi. Per cui attorno a questo Ciclo di Aspasia si è aperto tutto un dibattito critico e soprattutto si è posta la questione se si dovesse parlare di una nuova stagione poetica di Leopardi o se si dovessero mettere in relazione anche queste liriche con il resto della produzione leopardiana. Il Ciclo di Aspasia contiene 5 liriche in effetti: 1)il pensiero dominante, che è la più lunga; 2) il consalvo; 3) Amore e Morte; 4) A se stesso; 5) Aspasia. Il Ciclo fu composto tra il 1831 e il 1835, e fu composto durante il soggiorno di leopardi a Firenze, nello stesso periodo in cui leopardi si avvicinò molto e si innamorò di Fanny Targioni Tozzetti. In questo senso si capisce il perché del titolo “Ciclo di Aspasia”. Aspasia era una concubina, una delle concubine più famose, per l’esattezza la concubina di Pericle. E nella figura di Aspasia si vuole vedere la figura della donna ingannatrice, della donna raffinata, della cortigiana che usa le proprie malie d’amore e spezza il cuore dell’innamorato. E infatti il ciclo di Aspasia è caratterizzato da uno stile franto, spezzato, da un ritmo rotto, dissonante, che sembra entrare in rotta con tutta la produzione precedente leopardiana, dove invece la ricerca della musicalità, la ricerca delle parole vaghe, l’armonia interna del verso avevano il sopravvento. Il discorso critico su Leopardi e sul ciclo di Aspasia si inserisce nei più generali interventi che noi abbiamo già in parte sintetizzato: abbiamo citato vari critici riguardo al pensiero di Leopardi. Abbiamo parlato dell’intervento di Croce: abbiamo detto che Croce relega nel non poetico tutto ciò che è strettamente legato al pensiero, quindi celebrale, e che esalta la poetica dell’idillio. Abbiamo citato Timpanaro, con il saggio del 1975, in cui si parla di fasi del pensiero di leopardi, che va da un pessimismo personale a un pessimismo storico a un pessimismo cosmico; abbiamo anche detto che quest’idea di fasi è superata dalla critica moderna, soprattutto grazie al saggio di Maria de las Muniz la quale afferma che non esiste un processo cronologico ma una mescolanza di queste idee all’interno del pensiero di leopardi. Il saggio di Cesare Luporini, del 1947, intitolato “Leopardi progressivo”, parla di un leopardi progressivo, cioè di un leopardi democratico e repubblicano che patisce la delusione storica del suo tempo, della rivoluzione, e quindi propone una concezione della vita energica. Nello stesso 1947, esce il saggio di Walter Binni sul “Ciclo di Aspasia”. Questo saggio si chiamava “La nuova poetica leopardiana”: quindi Walter Binni individuava, in questo saggio, nel Ciclo di Aspasia una nuova fase produttiva, parlando di un passo avanti di leopardi verso il titanismo, e parlando di un nuovo stile leopardiano. È inutile dire che dopo l’uscita del saggio di Binni la critica sopra il Ciclo di Aspasia si moltiplicarono: la critica crociana aveva già svalutato questi componimenti ritenendoli troppo celebrali, e lo aveva fatto soprattutto attraverso un saggio di un epigono di Croce, un saggio del 1941 di Fernando Figurelli, intitolato “Leopardi poeta dell’Idillio”. La polemica in realtà non tolse chi è che disse che in realtà il Ciclo di Aspasia non aveva la cifra del capolavoro come i Canti, chi disse che il Ciclo era comunque un rapporto di continuità con i Canti, chi invece arrivò a parlare di qualcosa di completamente nuovo e dirompente, che avrebbe aperto una nuova strada a Leopardi, fino ad arrivare ad un nuovo saggio di Umberto Bosco del 1957 intitolato “Titanismo e pietà di Giacomo Leopardi”. In questo saggio nell’opera di Leopardi si identificano tre fasi di titanismo: il primo, la fase giovanile, in cui il titanismo di leopardi assomiglia al titanismo alfieriano: l’uomo superiore si erge contro i codardi che lo circondano, contro la mediocrità che gli si oppone. Secondo, quando il titanismo di leopardi assume una coloritura romantica, per cui l’uomo vede una solitudine interna, tutta sua, non vede più alcuna meta e quindi arriva al suicidio (e questa fase dovrebbe corrispondere all’Ultimo canto di Saffo e al Bruto minore); il terzo stadio di questo titanismo porta alla considerazione che il vero titanismo non sta nel vivere in solitudine, il vero titanismo non sta nel chiudersi in se stessi, ma il vero titanismo consiste nell’affrontare con coraggio e quindi nel cercare di partecipare all’infelicità comune, e qui si arriva alla Ginestra. Questi sono tutti interventi critici validi, ognuno mette in evidenza un aspetto; rimane aperto il problema del Ciclo di Aspasia. A mio parere il ciclo di Aspasia non è in rottura con la produzione precedente di Leopardi; il ciclo di Aspasia è una fase, una delle tante fasi, a volte anche sovrapposte che caratterizzano la scrittura di Leopardi. La forte delusione dovuta al rifiuto di Fanny nei confronti di Leopardi non è l’unica motivazione che porta alla scrittura del Ciclo di Aspasia, tant’è vero che come si vede nella poesia A se stesso, già prima del rifiuto di Fanny, Leopardi aveva scritto un testo molto simile che aveva lasciato incompleto, che era “l’Inno ad Arimane” (Arimane era una divinità del male). I punti di contatto con A se stesso sono molti per cui di per se l’episodio del rifiuto di Fanny non giustifica da solo questo atteggiamento. Ci troviamo nel pieno del pessimismo leopardiano. È diverso sicuramente lo stile, diverso nel senso che non c’è uno stile armonioso, non c’è quella ricerca di armoniosità interna che ha caratterizzato i canti precedenti, ma c’è uno stile rotto, franto; in questo c’è un’apertura, ma il metodo di scelta del lessico, il metodo di espressione è comunque leopardiano, quindi non possiamo intendere il ciclo di Aspasia in un rapporto di completa rottura rispetto alla produzione leopardiana. Parlare di una nuova poetica, di qualcosa di completamente nuovo, non è del tutto corretto; è più una fase di Leopardi.
Il pensiero dominante: è la storia degli stati d’animo dello spirito innamorato. Luigi Russo fu uno dei più grandi stimatori dell’opera. A mio parere la logica tende a prevalere troppo sull’ispirazione lirica, e questo impedisce al pensiero dominante di raggiungere la cifra del capolavoro.
Il consalvo: è sostanzialmente un testo non riuscito; ha solo qualche verso felice, ma non di più.
Amore e Morte: manca di un amalgama tra i dati poetici e quelli ragionativi e didascalici; quindi leopardi ha difficoltà a omogeneizzare il “celebrale” come diceva Croce, con il poetico.
Aspasia: è invece troppo polemico perché è il testo più direttamente rivolto a Fanny. Aspasia è il nome, lo pseudonimo con cui Leopardi chiama la donna amata. Per cui è chiaro che la polemica nei confronti della donna amata qui prende corpo in maniera più veemente, più forte, quindi è un testo troppo viziato dall’oratoria.
Quindi “A se stesso” è il testo in cui invece Leopardi raggiunge la cifra del capolavoro. Qui e nel “Pensiero dominante” quel titanismo di cui ci parlava Bosco sono maggiormente presenti.
A SE STESSO:
Già solo vedendo lo stile è evidente che il Leopardi che troviamo qui è un Leopardi eroico, disilluso, se vogliamo è anche affermativo, combattivo. È un leopardi che ormai accetta fino in fondo le conseguenze della filosofia; una filosofia dolorosa ma vera. E per cui viene fuori quella vena eroica che noi avevamo visto già in parte nella canzone All’Italia. Questo spiega perché molti hanno voluto vedere in quest’opera un opera nuova, uno spirito nuovo, combattivo, ardente, ma in realtà questo spirito era già presente in Leopardi. Lo stile è oggettivamente diverso: sono frasi concentratissime. Ogni parola è ai massimi livelli di potenzialità; addirittura c’è un verbo che è isolato con il punto (“Perì”); gli accorgimenti retorici sono ancora di più minimi; ci sono pause molto forti, addirittura 9 pause, segnate sempre dai punti (che sono i tipi di pause più forti che esistono); numerosi e molto forti sono gli enjambement; il testo è straordinariamente ricco di forme verbali: su 16 versi ci sono ben 16 proposizioni; 2 sole sono le soluzioni di ipotassi (1 al verso 3 e l’altro al verso 14-15); gli aggettivi sono scarsi, che invece erano fondamentali nella produzione precedente; i periodi sono franti, rotti, l’armonia del verso è spezzata (basta vedere il verso 3: ci sono 3 verbi solo nel verso 3); il ritmo che quindi ne viene fuori è rotto, dissonante, diverso da quello che siamo stati abituati a leggere nei Canti. Anche questa è una canzone libera di endecasillabi e settenari ma in un'unica strofa; e sei versi su 16 sono rimati, mentre la rima nelle canzoni precedenti era un espediente meno evidente. È chiaro che qui prende corpo il disperato epilogo dell’amore con Fanny Tozzetti, ma come già detto non è quella l’unica genesi di questo nuovo modo di poetare, perché noi abbiamo l’abbozzo di questo Inno ad Arimane, dedicato allo spirito divino del male della tradizione religiosa persiana, e che ha molti punti in contatto con questa lirica e che quindi ci testimonia che la lirica non viene solo dall’esperienza dolorosa d’amore.
Analisi del testo:
Il testo si apre con l’invocazione del poeta al proprio cuore. Quest’invocazione è introdotta da quell’ “or”, che sembra quasi riemergere da un profondo abisso di disperazione. Nasce infatti dalla mortale stanchezza seguita alla caduta dell’ultima illusione. L’impatto fonico di questi versi (si sta operando sui primi 5 versi), è estremamente compatto; domina la presenza del suono “r”, che fa da sottofondo a tutta un’altra serie di forti allitterazioni: ad esempio basate sul suono della “s” e della “p”, e anche della “n” (poserai, per,perì, sempre, stanco, sento, speme, spento); ci sono una serie di assonanze interne (estremo, eterno), ma anche in fine di verso (estremo, sento), e rime in forte allitterazione (sento, spento); quindi un compatto tessuto fonico caratterizzato da questa presenza della “r” che fa da sottofondo molto pronunciato (perché la “r” è un suono molto forte) a tutta questa serie di allitterazioni, assonanze interne, rime in forte allitterazione e assonanze in fine di verso. La centralità fonica è assunta dalla parola “estremo”, che condensa in sé suoni e gruppi fonetici provenienti dalle altre parole che abbiamo citato. Non è solo una centralità fonetica; a questa centralità fonetica come spesso accade si affianca una centralità semantica. Questo canto è infatti il canto estremo, è il canto della fine; questo spiega quindi l’importanza di questo termine “estremo” che nel verso 2 è in posizione chiastica rispetto all’ “eterno” del verso 3. In quel “poserai” si coglie una sfumatura imperativa: il poeta “ordina” al proprio cuore di quietarsi; quindi in quest’idea di stasi, di immobilità, deve essere colta anche una allusione alla morte, tanto più evidente se si pensa che è il cuore il destinatario dell’invito, quindi la morte del cuore, la morte dei sentimenti. La nuda ripetizione di “perì” che addirittura nel terzo verso è isolato attraverso due pause forti, cioè i due punti, tanto che il verbo costituisce un’unica proposizione; questa nuda ripetizione ha proprio il peso definitivo, irrevocabile, di un’iscrizione tombale: sembra quasi di trovarsi di fronte a un’epigrafi tombale. I versi 3-5 sono poi caratterizzati dall’anastrofe e dall’iperbato, che rendono ancora più rotto e dissonante il dettato della lirica. Nei versi 6-10 c’è una nuova invocazione al cuore, che riprende quella iniziale, con un esplicito passaggio all’imperativo: mentre prima bisognava vedere la sfumatura imperativa, ma non era netta, precisa, ora il verbo utilizzato è alla forma imperativa; e viene introdotto il secondo tema della poesia, ossia la caduta dell’illusione d’amore. “Non c’è null’altro sulla terra che sembra meritare i palpiti del cuore. La vita sembra ormai consumarsi nell’amarezza, nella noia, e il mondo è “spregevole” fango”, come recitano i versi. Qui gli aggettivi sono estremamente poveri; è un dettato basato prevalentemente su verbi. Perché non c’è aggettivo? La parola “terra” al verso 9 è senza aggettivo; al verso 7 lo spostamento del sostantivo prima dell’aggettivo crea più o meno lo stesso effetto. Questo perché leopardi vuole indicare la dura materialità, cioè non vuole più sfumare il significato; è dettato dal desiderio di rappresentare la dura materialità, per cui la natura viene contrapposta ai moti e ai sospiri del cuore di Leopardi, nella sua nudità, nella sua materialità, nel suo essere fango e null’altro. Questo giustifica il perché dell’assenza degli aggettivi. Nell’ultima parte le diverse sospensioni al cuore scandiscono i nuclei tematici della poesia: la fine delle illusioni, l’indennità della vita e del mondo, e ora anche il disprezzo per se stesso, per la natura, per il potere sovrano del male, per la vuota inutilità dell’universo. I concetti espressi soprattutto nei versi 11 12 e 13 rimandano alla parte finale dell’abbozzo di quell’inno ad Arimane di cui si è parlato. Il verso 16 invece, in cui si dice “l’infinita vanità del tutto”, ricorda un passo dell’Ecclesiaste: “Vanita vanitatum et omnia vanitas”, ovvero “Vanità delle vanità e tutto è vanità”, che lui traduce “e l’infinita vanità del tutto”. Quest’ultima parte è la più lunga delle tre in cui è diviso; eccede di un verso rispetto alla misura delle altre. E questo verso in più è proprio l’endecasillabo finale, cioè l’endecasillabo in cui viene posta la forma, il suggello finale. Quindi è un po’ il verso che chiude, che suggella non solo la terza parte ma tutto il canto.
Saggio di Angelo Monteverdi su “A se stesso”:
“Il canto “A se stesso” non ha partizione strofica. L’unica strofa si articola, diversamente da ogni altra strofa o da ogni altra canzone libera leopardiana, in parti chiaramente simmetriche”. (La prima cosa che si nota, dice Angelo Monteverdi, è che a differenza di tutti gli altri canti qui non abbiamo più strofe, ma abbiamo un’unica strofa, e quest’ultima strofa è stranamente simmetrica; perché nelle altre, dice Angelo Monteverdi, anche quando c’è una simmetria di motivi, non c’è però una simmetria di formazione, cioè non c’è lo stesso numero di versi, non c’è la stessa organizzazione, non c’è lo stesso numero di endecasillabi e settenari; quindi la novità sta nel fatto che: 1) innanzitutto è un’unica strofa; 2) le parti di questa strofa sono simmetriche). “Sono 16 versi in tutto, 10 endecasillabi e 6 settenari, e si distribuiscono in tre gruppi, di 5, 5 e sei versi. Gruppi ascendenti, che hanno tutti un settenario all’inizio e un endecasillabo alla fine. Gli altri endecasillabi si trovano al secondo e al terzo verso di ogni gruppo”. (Non solo quindi è possibile individuare questa simmetria (5,5,6), ma è anche possibile notare un ritmo ascendente, perché tutti questi gruppi hanno un settenario all’inizio e un endecasillabo alla fine). “Tre sole sono le rime, e non interessano che sei versi in 2 soli dei tre gruppi: nel primo gruppo infatti una rima allaccia il l’ultimo verso al terz’ultimo, e così avviene anche nel terzo gruppo, dove però un’altra rima allaccia il penultimo verso al primo; privo di rime è il gruppo mediano. Come risponda ottimamente a questo schema metrico lo svolgimento del pensiero, mostra anzi tutto il ritorno all’inizio di ciascun gruppo dell’medesimo motivo”. (Tre sono le rime; riguardano sei versi di due soli dei 3 gruppi, ma il posto in cui si trovano queste rime fa si che comunque i gruppi che abbiamo individuato siano legati tra di loro. Non solo: a creare questo senso di simmetria, contribuisce anche il fatto che ogni gruppo si apre con il medesimo invito: verso 1) “or poserai per sempre”; verso 6) “posa per sempre”; verso 11) “t’acqueta omai”. Quindi sono tutti e tre inviti al cuore affinché si riposi, affinché smetta di sperare). “E il progressivo variare dei concetti nei tre gruppi ogni volta si irradia conseguente da quel fermo punto iniziale”. (Cioè: tutti e tre i gruppi si aprono con lo stesso input; poi da quell’input si irradiano i concetti nei tre gruppi). E infatti dice: “1) “posa mio cuore, ferito ormai in inganno estremo, chiusa è la via ad ogni speranza e ad ogni desiderio”; 2) “posa mio cuore, dopo tanto palpitare è chiaro che nulla al mondo vale i palpiti di un cuore, e che la vita non offre se non duolo e tedio”; 3) “posa mio cuore, l’unico dono del destino dell’uomo è la morte e la vita non può suggerire che disprezzo, anche per se, anche per la natura e per il male onnipotente e per l’infinita vanità del tutto”. (Stesso concetto da cui si diramano i temi interni alla canzone: struttura simmetrica). “Nell’architettura di classico equilibrio del componimento si compone la mobilità estrema degli elementi costruttivi. Non c’è quasi verso in questo canto che non sia sintatticamente spezzato”. (Cosa sta dicendo: da una parte c’è un’architettura che sembra di un equilibrio classico che farebbe invidia a Foscolo; dall’altra parte però in questa struttura perfetta ci sono elementi di rottura: primo fra tutti il fatto che la sintassi è tutta spezzata, cioè non c’è un verso che sia sintatticamente spezzato). “Maggiore del numero dei versi è quello delle proposizioni”. (e questo è un evento abbastanza raro. Di solito le proposizioni sono sempre inferiori al verso, anzi a volte capita che una strofa sia tutta occupata da una proposizione unica). “E di 18 quant’esse sono, 2 sole sono subordinate (“l’inganno estremo, ch’eterno io mi credei”; “poter che, ascoso, a comun danno impera”). Delle altre 2 sole si legano mediante congiunzione ( quella al verso 8 e al verso 10) alla proposizione precedente. Le rimanenti sono tutte autonome, senza alcun legame né di subordinazione né di coordinazione”. (questo fa ancora più rigida la paratassi, ancora più spezzata, ancora più netta; non è neanche una paratassi che opera per coordinazione, perché ci sono solo 2 coordinate, quella al verso 8 e quella al verso 10). “Brevissime in genere”. (quindi non solo non sono coordinate, ma sono anche brevissime). “5 se ne contano nei primi tre versi, 10 dal sesto al tredicesimo; la più lunga è l’ultima (versi 13-16), ma è interrotta da una subordinata (verso 15) ed è spezzata inoltre in “brutto/poter/e l’infinita vanità del tutto”. Frequenti conseguentemente sono le pause”. (una struttura di questo tipo è chiaro che si basa su un uso sproporzionato delle pause; abbiamo punti, punti e virgola, perché frasi brevissime richiedono una punteggiatura dalla pausa molto forte). “Le più pesanti, 11, segnate da punti, e meritano un particolare rilievo le due che delimitano nel corso del terzo verso la parola “perì”. Tra le pause maggiori, si intercalano poi non meno numerose, le pause minori segnate da virgole. Una anzi, alla fine del verso 10, è segnata da un punto e virgola, dove l’interpunzione vuole palesemente rovesciare la funzione che normalmente è di avvicinamento della funzione copulativa “e” (“la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo”)”. (Cioè all’apparenza vuole creare un legame, ma la funzione coordinante dell’ “e” è rovesciata, è azzerata dalla presenza del punto e virgola). “Due proposizioni che hanno il soggetto in comune, mancano di verbo (“amore e noia la vita, altro mai nulla”)”. (queste sono frasi che verranno molto utilizzate nella poesia del Novecento e sono dette “frasi nominali”). “Un verbo costituisce da solo un’altra proposizione: perì. Altrove il verbo si presenta con la semplice scorta di un avverbio o di una locuzione avverbiale (verso 3: ben sento; verso 6: posa per sempre; verso 6/7: assai palpitasti; verso 11: t’acqueta omai; verso 11/12: dispera l’ultima volta)”. (quindi sono frasi ridotte fino all’osso; c’è l’asciuttezza; ormai non c’è più niente da nascondere; non c’è più una poetica dell’infinito o della rimembranza a cui attaccarsi. C’è il nudo, la nudità del dolore, e quindi il linguaggio e lo strumento espressivo si adeguano a questa nudità, a questo dolore). “Pochi sono gli aggettivi: il primo suona sconsolato, nell’unico vocativo di tutto il canto (stanco mio cor); due altri, allitterati e assonanti (estremo e eterno), sorgono a fissare i due tempi di fatale inganno (verso 2); due altri, entrambi in posizione di rilievo: il primo martellato dalla rima (“brutto”); il secondo isolato dalle pause (“ascoso”), vengono a caratterizzare il potere, l’arcana malvagità che governa il mondo. L’ultimo (“infinità”) s’allunga lento ad abbracciare l’universale vanità. Tutti, fuor d’ogni compiacimento ornativo, accusano la necessità della loro presenza”. (i pochi aggettivi che girano nel testo non hanno più valore ornativo; se sono presenti, sono presenti solo per urlare il dolore e l’inevitabilità del dolore). “Ma il discorso essenzialmente è fatto di verbi e sostantivi. Dei verbi, qualcuno si ripete (poserai, posa, perì, perì); altri ripetono il medesimo movimento (e sono gli imperativi posa, t’acqueta, dispera, disprezza). Prevalgono tuttavia i sostantivi, quantitativamente e qualitativamente. Fra loro uno solo si ripete, ed è più che ripetizione; contrapposizione fra il simbolo: estremo inganno non ancora placato nel ricordo e i generici cari inganni che la memoria ha già riscattati, gli ameni inganni della prima età”. (Qui sta mettendo in relazione questo testo con altri testi. Anche qui compare il tema dell’inganno, che compariva anche in A Silvia; è la giovinezza che promette ma poi non mantiene; è la natura che promette ai suoi figli un piacere ma che poi non gli consente di raggiungerlo. Solo che lì l’inganno è ormai passato nel ricordo e in quanto tale, recuperato attraverso la poetica della rimembranza. Qui, dice Angelo Monteverdi, l’inganno non è diventato caro perché non è ancora passato nella memoria del ricordo, e quindi ancora reale, presente, e quindi non c’è consolazione nella poetica della rimembranza). “Del resto quasi tutti i sostantivi sono ricchi di espressività; anche quelli che stanno abbinati, a distinguere i concetti affini (speme, desiderio, moti, sospiri) ma quelli specialmente che dal nulla al tutto designano gli effetti essenziali delle cose (terra, mondo natura, vita, morte, fato); su loro batte forte a volte a volte l’accento. E vibra in quell’accento il disprezzo che in altri sostantivi, con altrettanta forza, apertamente si svela (noi, fango). Notevole è il numero di sostantivi, notevole è anche il fatto che aggettivi, pronomi e verbi si trasformino talora in sostantivi (l’amaro, il morire, il tutto). Più notevole comunque è che in genere ciascuno di quei tanti sostantivi attiri di per sé, su di sé, con l’aiuto delle sapienti pause, il pensiero; di qui ciò che già ci è notato: il gran numero delle proposizioni e la continua spezzatura del testo. Raro avviene che la frase sintattica coincida con la frase ritmica; e quel che i francesi chiamano enjambement, e che potrebbe ben tradursi con “accavallamento”, domina da un capo all’altro di questo canto, come certo in nessun altro canto leopardiano. Eppur si sa come il poeta ne usasse sempre largamente, ottenendone, specie nei suoi endecasillabi sciolti, effetti stupendi”. (riferimento soprattutto all’uso dell’enjambement per creare nuovi endecasillabi nell’Infinito). “Ma qui nel canto A se stesso, l’accavallamento diventa in sua mano un mezzo potente di espressione. Se proviamo a ritrascrivere il testo, guardando alle ragioni sintattiche, tre soli versi rimangono intatti (verso 1, 16 e 4); ma prendon forma, e rompendo da quelli stessi versi, altri versi, altri endecasillabi e altri settenari, i quali poi, quando avviene che si trovino l’uno dietro l’altro, danno luogo ad alessandrini”. (l’enjambement non è un mero mezzo stilistico e basta; diventa un mezzo espressivo, perché solo tre versi non sono toccati dall’enjambement; tutti gli altri, se li si guarda nella loro integrità, quindi unendo rigetto e contro rigetto, dai versi nascono nuovi versi: per cui abbiamo altri endecasillabi (non val cosa nessuna i moti tuoi), altri settenari (il desiderio è spento), e addirittura quando i settenari sono uno appresso all’altro formano degli alessandrini perfetti. L’alessandrino, detto anche verso martelliano, perché individuato da Martello, è un doppio settenario, formato da 14 sillabe). “E saltan fuori anche finali (stanco mio cor, non che la speme, posa per sempre, altro mai nulla, e fango è il mondo, t’acqueta omai, omai disprezza). Inoltre nell’interno stesso di questa o di quella frase sintattica qualche unità metrica si lascia ancora sorprendere. Tutto l’implicato tessuto di questo breve canto è percorso da ritmi ora palesi ora segreti; sono ritmi punteggiati dal ritorno insistente e a breve intervallo di certe cupe note di fondo (perì, or poserai, posa, t’acqueta, per sempre, omai), e sono punteggiati qua e la dalla rima, che interviene, ove occorra, a dar vigore ai vocaboli, né manca l’allitterazione rinforzata qualora dall’assonanza. Infine a dar colore musicale ed espressioni di per sé nude, e pur di grave significato, contribuiscono non forse inconsapevolmente anche certe combinazioni di suoni, sia consonantici che vocalici. Quest’analisi gioverà credo a mostrare quale sia nei suoi diversi aspetti l’arte donde è intessuto il canto a se stesso. Arte sottile, spontaneamente pur sapientemente obbediente ai più lievi moti dell’ispirazione poetica. La complessità interiore e la semplicità esteriore di questo canto rispondono a due momenti che vi possiamo distinguere e che pur costano indissolubili: passione umana e contemplazione poetica. Il grido disperato della passione e il tocco liberatore della poesia. E non diremo che Leopardi, nel comporre questi versi, non abbia avuto neppure la gioia del canto. Del suo dolore egli ha fatto per sé e per chi legge una felicità lirica”.
OPERETTE MORALI:
Le operette morali sono un’opera importantissima non solo nel percorso di Leopardi ma anche in generale per l’esperienza novecentesca. Queste operette infatti incominciano, insieme ai romanzi di Manzoni, e come vedremo in seguito, alle esperienze in prosa di D’Annunzio, a tracciare la strada ad una produzione in prosa che nel Novecento diventerà sempre più ampia e frequente rispetto all’Ottocento. Cosa sono queste operette morali in pratica: diciamo che è leopardi stesso a parlarcene e ci dice che il suo intento era quello di scrivere dei dialoghi alla maniera di Luciano. Il Luciano che cita è Luciano di Samosata, che era uno scrittore greco del secondo secolo d.C. (si sentirà parlare riguardo all’Asino d’Oro di Apuleio). Sulla base di questo esempio di Luciano, Leopardi incominciò a scrivere tra il 19 e il 20, una serie di “prose filosofiche”, cioè delle prose in cui leopardi cercava di far prendere corpo a quel suo pensiero, a quella sua poetica filosofico – riflessiva che abbiamo già visto prendere corpo nelle sue poesie, solo che lì è l’impianto poetico che si fonde con la riflessione, qui è la prosa a fondersi con la riflessione. Quindi l’intento era quello di scrivere dei racconti che in realtà fossero un punto di partenza per poi in realtà esplicitare quelle riflessioni che leopardi aveva già concretizzato nei Canti. Lui inizia a scrivere le prose filosofiche fra il 19 e il 20, quindi nel periodo vicino, limitrofo alla conversione filosofica; il progetto poi fu in parte interrotto, ripreso, rielaborato, furono fatti dei cambiamenti, e continuò fino al 22 circa. Queste prose erano dei miti filosofici in negativo; cioè leopardi aveva come intento quello di costruire immagini dell’infelicità dell’uomo. Nel farlo opta per una prosa moderna, per una lingua che molti studiosi hanno definito “lunare”: una lingua che non rinuncia a molti di quegli espedienti che leopardi aveva già messo in atto nella poesia. Si tratta quindi di una prosa raffinata, di una prosa in cui ancora la ricerca lessicale, la ricerca di suoni e di espedienti stilistici ha un ruolo fondamentale. Non è una prosa declamatoria, non vuole essere una prosa enfatica ma vuole essere una prosa poetica appunto. L’opera di per sé, l’insieme delle operette morali (all’inizio erano 20) ce ne sono tante bellissime: Il dialogo di un’Islandese con la Natura; Il dialogo di un venditore di almanacchi; il cantico del gallo silvestre, che forse è uno dei più belli. Ci sono tantissime prose che raggiungono la cifra del capolavoro. Le tematiche sono quelle che avete visto fino a adesso di leopardi, soltanto esplicitate attraverso questi miti in negativo che leopardi costruisce. Ci sono tutte le riflessioni di leopardi: le riflessioni sul male, sul piacere, sulla vanità del nulla; il tutto espresso con una grande liricità; cioè anche la prosa di Leopardi riesce a caricarsi di quella tensione drammatica e allo stesso tempo lirica che caratterizza i Canti. C’è una bellissima operetta morale dedicata a Torquato Tasso, la cui tematica principale è l’impossibilità di raggiungere il piacere; un’operetta che vede protagonista Cristoforo Colombo in cui si parla della noia, del tedium vitae; un altro testo interessante è “Il dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie”, anche questo è un capolavoro; poi vengono altri capolavori che furono aggiunti in un secondo momento, nell’edizione più tarda del 1827: “il dialogo di Copernico” e “il dialogo di Plotino e Porfirio”; quest’ultimo in particolar modo è un altro capolavoro. In questo dialogo si dice che la sola cosa non ingannevole è la noia; per cui Plotino, che è un po’ il portavoce di Leopardi, mette in evidenza come gli uomini siano attaccati ad errori di calcolo, pensano di poter affrontare i problemi, pensano di avere palliativi che consentono di risolvere le problematiche ma in realtà sono tutte illusioni. Ci concentriamo sul “Dialogo della natura e di un Islandese” perché non solo sviluppa il tema della natura, ma è anche una forte e dura critica agli espedienti che gli esseri umani si costruiscono per cercare di andare avanti nella vita. E in questo senso questo testo si ricollega a molti altri ma si ricollega anche alle opere in prosa non poetiche (I nuovi credenti, l’Epistola al Pepoli, la palinodia al marchese Gino Carponi) in cui leopardi attacca il secolo moderno, che secondo lui è responsabile di aver costruito false considerazioni, falsi inganni pensando di rendere più piacevole la vita.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE:
è un passo importante per arrivare alla conclusione del discorso di Leopardi sulla natura. Abbiamo visto fino a adesso che leopardi molte volte è ritornato sulla riflessione riguardo la natura, o fato, o come lo volete chiamare. Per cui leopardi in una prima fase è arrivato a considerare positivamente la natura; la natura non è resa responsabile, in realtà siamo noi, dice Leopardi, che con la filosofia, avendo scoperto il velo delle Grazie ci siamo lavati di tutte le illusioni e ormai non possiamo credere più a nulla. In realtà poi questa teoria cambia nel corso del tempo, perché Leopardi riflettendo sulla natura arriva a quella macchina terribile, secondo cui “la natura è madre di parto, ma di voler matrigna”; cioè la natura in effetti non è vero che non da la felicità; in realtà è proprio lei a dare l’infelicità, perché ci costringe a perseguire un piacere continuo, ma in realtà poi questo non ha ragione di esistere. Qui il mito in negativo viene costruito attraverso la figura di un Islandese. Perché scegliere un Islandese?: 1) perché già il luogo in cui nasce è un luogo impervio, e vedremo come questo luogo di nascita impervio, un po’ come Recanati per Leopardi, sia fondamentale nell’evoluzione della vicenda; 2) perché la scelta di un Islandese risponde a quel gusto per l’esotico che in quel periodo andava di gran moda. L’Islandese si presta quindi perfettamente a queste 2 necessità; ecco spiegato perché Leopardi sceglie proprio un Islandese. Un Islandese che decide di sfuggire dalla sua isola perché secondo lui la sua isola è nefasta ed è la casa di tutte le sue infelicità; e decide quindi di trovarsi un altro posto in cui possa vivere in tranquillità, in felicità; e qui c’è una cosa molto particolare: c’è una frase che dice all’interno del testo: “Non offendendo, non essere offeso e non godendo non patire”; cioè: io non cerco chissà che cosa, dice l’Islandese, io né volevo offendere, né essere offeso, né volevo chissà quale gioia, né però volevo soffrire. Quindi questo Islandese non ha grosse pretese. Cosa succede però: ogni posto che in effetti si trova in un modo o nell’altro a frequentare ha i suoi “accidenti”, i suoi disagi. In realtà questa sua smania di pensare di poter trovare altrove ciò che non ha in Islanda, viene puntualmente reclusa. Finché tra i suoi vari pellegrinaggi ad un certo punto entra nel cuore dell’Africa. È molto importante la location scelta da Leopardi, per l’incontro tra l’Islandese e la Natura. Perché è importante: 1) è importante perché anche l’Africa è una di quelle località “esotiche”; per cui è facile dire che alle Mauritius si sta bene dalla mattina alla sera, ma questo non è vero; quindi anche qui il gusto dell’esotismo che viene abbattuto come falsa illusione che in altro loco, “altrove” si possa essere felici; 2) il paesaggio in cui si colloca tutta l’ambientazione è un paesaggio molto particolare; se si va a leggere qualche elemento della descrizione di questo paesaggio quello che colpisce è che questo paesaggio è completamente privo di elementi descrittivi. Si ha la sensazione di trovarsi in un paesaggio molto simile a quello già visto nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”: cioè un paesaggio nudo, ridotto alla materialità; in realtà è un paesaggio metafisico, un paesaggio dell’anima in cui si immagina di ambientare la vicenda. In questo luogo c’è la Natura. Come leopardi sceglie di rappresentare questa Natura?: sceglie di rappresentarla innanzitutto in una forma gigantesca, e poi in forma di donna, di figura femminile. E a lei indirizza tutta una serie di appassionate recriminazioni sulla miseria e sull’infelicità della condizione dell’uomo. Le risposte che la Natura darà in realtà rivelano tutta la totale indifferenza della Natura nei confronti della sorte umana. Siamo dunque in un passo ancora più avanti nel pensiero di Leopardi, perché qui la Natura non è neanche quella che si diverte a fare del male, peggio ancora, è totalmente indifferente. Tant’è vero che quando l’Islandese continua a ribadire le sue domande, compie un ulteriore grave peccato in effetti: cioè quello di pensare che la Natura in qualche modo possa ancora interessarsi a lui. La Natura non solo non si è mai interessata a lui, ma non ha alcuna intenzione neanche di interessarsi adesso; lui è uno dei tanti accidenti che capitano sul percorso della Natura e di cui la Natura assolutamente non si occupa. Quindi siamo ancora di più a un’estremizzazione del pensiero di Leopardi. Nelle risposte che da la Natura non c’è alcuna coloritura emotiva; il suo obiettivo è la conservazione del mondo; qui non si parla degli uomini. Qui viene a cadere quella famosa teoria teleologica che aveva già messo in discussione Lucrezio, ovvero che la natura fosse fatta apposta per gli uomini. Sia Lucrezio che Leopardi mettono fortemente in discussione questa teoria, che è una delle infinite scusanti, una delle infinite immaginazioni che l’uomo si costruisce per sfuggire alla realtà. Nonostante la Natura risponda con chiarezza all’Islandese, lui replica ancora e fa degli esempi pensando che possa ancora essere al centro delle attenzioni della Natura, che risponde di nuovo con un linguaggio freddo e crudo. Quindi il dialogo si svolge, la Natura rivela tutta l’indifferenza per il destino e la condizione del genere umano perché quello che conta è questo ciclo di produzione e distruzione che incomprensibilmente per l’uomo stabilisce la sopravvivenza dell’universo. Nel finale crudelmente ironico, sarcastico, l’Islandese scomparirà, e scomparirà vittima di quegli agenti naturali proprio a sancire la sconfitta definitiva dell’uomo di fronte alla potenza dei meccanismi naturali. Nel corso del dialogo vengono smontate tutte quelle false illusioni di cui si parlava prima. Viene smontato il mito romantico del viaggio (il Grand Tour), oppure il mito epicureo del vivere appartato, caro a Lucrezio, con cui pure leopardi condivide molte teorizzazioni, ma leopardi non crede che vivere nascosto possa portare alla felicità; viene smontato l’idea della commutatio loci; quindi tutte quelle costruzioni filosofiche che nel corso dei secoli aveva cercato di trovare la via della virtus, e quindi della felicità, in realtà vengono puntualmente smontate dall’Islandese.
Analisi del testo:
All’inizio c’è la presentazione dell’Islandese e il viaggio in Africa. Poi c’è la descrizione della Natura. La descrizione della Natura è molto particolare: innanzitutto perché viene delineata attraverso tratti fantastici ma molto significativi. E infatti dice: “vide da lontano un busto grandissimo (quindi la grandezza, la grandiosità) che da principio immaginò dover esser di pietra […] ma fattosi più da vicino trovò che era una forma smisurata di donna […] col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna: e non finta ma viva, e col volto bello e terribile (quest’espressione indica la “bellezza terrificante” della Natura) di occhi e di capelli nerissimi, la quale guardavalo fissamente …”. Il terzo elemento che la connota è l’impassibilità, il fatto che sembra non lasciarsi toccare in alcun modo dalle parole dell’Islandese. È un immagine che esercita una grossa suggestione sul lettore: questa forma gigantesca, figura di donna non a caso, che quasi sembra fare un tutt’uno con la montagna su cui si appoggia, sembra un unico blocco con la parete montuosa, quasi come se il suo essere fosse immanente all’ambiente stesso che la rappresenta. La sua è una corporeità grandiosa, imponente, che poi fa da contraltare alla limitazione dello spazio circostante, che è uno spazio metafisico, è uno spazio che va oltre la reale natura. E poi si susseguono le varie domande e incomincia il battibecco tra i due personaggi. Il cromatismo nero degli occhi e dei capelli chiaramente contribuisce a creare un senso nello stesso tempo di impassibilità e di bellezza terrificante. C’è un quadro molto bello che citeremo parlando della lirica “Vampiro” di Baudelaire, di Edward Munch, caratterizzata proprio da questo cromatismo nero. Lo stesso cromatismo nero dei capelli lo si ritroverà anche nel “Piacere” di Gabriele D’annunzio. Quindi l’Islandese incomincia a parlare, a raccontare tutte le esperienze che l’ha caratterizzato e l’enumeratio diventa la figura chiave. Vengono enumerate con un’attenta gradazione, anche degli artifici stilistici, tutti i disagi che hanno impedito all’Islandese di vivere in pace anche quando si è ridotto in perfetta solitudine. La decisione di partire costituisce il culmine di una serie di esperienze negative che convincono l’Islandese dell’impossibilità della quiete passiva; tutti gli espedienti che cerca di mettere in auge, che vengono elencati attraverso l’enumeratio, che è la chiave stilistica dell’intera operetta, vengono puntualmente distrutti dalla realtà dei fatti. Nella lunga enumeratio a un certo punto cita un filosofo, parla di un “filosofo antico”: il filosofo antico è Seneca, e il pensiero qui riportato viene dal terzo libro delle “Naturales Questiones”. Poi va avanti, e viene espressa la teoria del piacere di Leopardi, fino a tornare al dibattito con la Natura. L’Islandese chiude tutta la sua requisitoria contro la Natura con un lungo periodo che riguarda la vecchiaia. (Secondo Leopardi la vecchiezza corrisponde alla rinuncia alla vita, perché la gioventù finisce per leopardi a 25 anni, e poi cosa rimane? Rimane la vecchiezza, e nella vecchiezza tutto ciò che è sfuggito non si può più raggiungere). La Natura risponde e risponde in maniera breve, sprezzante, con un’abissale separazione dal resto del mondo. La sua è una volontà non crudele, ma semplicemente è un essere indifferente. Gli esseri umani sono creature insignificanti, tant’è vero che l’uomo non riesce ad accettare questo, e l’Islandese continua a ribattere la Natura, gli replica proponendo fatalmente il suo punto di vista ma non riesce a porsi al di fuori del punto di vista della Natura. Per cui il suo tono diventa sempre più concitato, più ricco di pathos; è quasi come se cercasse disperatamente di coinvolgere la Natura; quasi se volesse a tutti i costi sentirsi vittima. Cioè non riesce a concepire che non è neanche una vittima (perché la vittima è colei che viene perseguitata volontariamente); l’uomo non è neanche questo; è solo un accidente nel percorso dell’universo. C’è una sorta di sordità voluta: anche se ha preso coscienza del pessimismo cosmico, del dolore infinito, però non riesce ad accettare psicologicamente questa condizione. E infatti la Natura continua, tant’è vero che la risposta successiva: “Tu mostri di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito”, è la risposta più fredda, più essenziale della Natura. De Santis parla di “toni marmorei”: questo termine è molto significativo perché la il tono della Natura è freddo e lucido come il marmo, è lapidario. Nonostante questo, nonostante questi toni distanti, lapidari, marmorei, l’Islandese non riesce a rinunciarci. Nella parte finale del dialogo il tono si fa meno freddo, distaccato, ma c’è anche una chiara coloritura ironica: nel dipingere l’Islandese vittima dei suoi stessi espedienti di cui si era lamentato. “La sua bella mummia è finita dimenticata in un museo europeo” dice Leopardi. Questa mummia finita dimenticata simboleggia la vanità, simboleggia il desiderio, l’insignificanza stessa della ricerca; cioè la disperazione finale; ogni tentativo di ricercare qualcosa d’altro, di ricercare una risposta è praticamente inutile, perché tutto ci fagocita, tutto ci porta alla perdita totale.
CANTICO DEL GALLO SILVESTRE:
Il cantico del gallo silvestre fu composta tra il 10 e 16 novembre del 1824. È l’ultima delle 20 operette che furono scritte in quell’anno e in un certo senso rappresenta l’ideale epilogo, anche se poi nell’edizione del 1827 come conclusione sarà posto un altro dialogo. Quest’operetta, a differenza delle altre, è più breve, ma è anche estremamente più poetica. Il testo raccoglie, a suggellare l’esperienza delle operette del 24, la nuova prospettiva balenata qualche mese prima con il “dialogo della Natura e di un Islandese”. Quindi non manca la ripresa di alcuni temi legati alla trama concettuale di altre operette morali: ad esempio legate all’idea psicologico – esistenziale dell’infelicità come assenza di piaceri; la contrapposizione fra sogno e verità; l’impossibilità per alcune creature di raggiungere la felicità; l’assopimento della vita come unico rimedio del dolore; l’illusione che coincide con il risveglio al mattino, paragonabile al rapporto vecchiaia/giovinezza. Quindi sono tutti temi che fino a adesso abbiamo visto non solo nei Canti ma riproposti anche in altre operette. Solo che qui poi si impone come tema centrale il tema della morte. L’essere delle cose che ha come punto fine la morte. Il procedere inarrestabile, di decadimento che accompagna gli esseri nel corso di tutta la loro vita. Quel ciclo continuo di produzione, di distruzione e di rifacimento che la Natura, nel colloquio con l’Islandese, fortemente ribadiva all’Islandese che però non voleva comprendere. Qui la distruzione e la morte assurgono a leggi universali: distruzione e morte sono le leggi che governano l’intera vita. Per mettere in rilievo questo concetto, questa realtà Leopardi ricorre di nuovo, come per l’Islandese, a un contemplatore posto al di fuori del genere umano, privo delle sue illusioni e che perciò può osservare la condizione degli uomini da una prospettiva estraniata; ecco perché la scelta del gallo come elemento per trasmettere l’idea. Scompare anche il tono lucido, raziocinante, di pura contemplazione che è proprio delle altre operette. L’inizio della vicenda è caratterizzato da una stentata umoristica gravità filologica, che serve da raccordo con il tono del resto del libro. L’inizio serve da preambolo che prelude in effetti al vero e proprio canto. Leopardi da spiegazione delle origini, di tutto. C’è l’accumulatio delle tipologie di lingue che serve a rendere l’idea di un essere che va al di là dell’umano sapere. È scritto in tutte le lingue perché questo essere è prima di ogni lingua; la sua conoscenza è venuta prima che gli uomini stessi prendessero conoscenza delle proprie capacità. Quindi se si esclude questo preambolo, in cui c’è questa umoristica gravità filologica, e che serve da raccordo con il tono del resto del libro, l’operetta è in realtà una prosa poetica, percorsa da una forte tensione lirica, che forse non trova uguale esposizione nelle altre operette. Per questo suggella con questa grandiosa immagine di un universo infinito, di un universo dominato da questa “quiete altissima” della morte, in cui trova soluzione, annullandosi, “l’arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale”. Quindi il canto del gallo silvestre è in effetti la resa dell’essere umano di fronte alla morte, alla distruzione che perpetua nel mondo.
LE OPERE MINORI:
La Palinodia al Marchese Gino Carponi: fu composto forse nel 1835 e pubblicato per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti, quindi fu integrata nell’edizione del Canti. Palinodia è termine greco che significa “ritrattazione”; e infatti il poeta finge ironicamente di ritrattare le sue concezioni pessimistiche e la sua polemica contro le idee progressiste contemporanee. Il componimento ha la forma classica dell’epistola in versi. La satira del mondo contemporanea prende a modello il Parini de “Il Giorno”. Ma anche lo stile è simile a quello di Parini. Il bersaglio della satira leopardiana è l’ottimismo progressista, che vede l’umanità avviata verso un’immagine splendente, di felicità, di futuro eccezionale, grazie alle scoperte tecnologiche e al progresso delle conoscenze e al miglioramento delle condizioni. Leopardi non è d’accordo con questa impostazione, quindi è in opposizione ai liberali toscani che in quel periodo sostenevano fortemente queste posizioni e che facevano capo alla rivista “l’Antologia”; Leopardi li aveva conosciuti durante il soggiorno 27/28 - 30/35, passato a Firenze. La Palinodia ha un personaggio preciso a cui si rivolge: Gino Carponi. Questo perché Gino Carponi era l’esponente di primo piano di quel gruppo di liberali toscani. Qui si stagliano una serie di valutazioni negative sulla posizione di leopardi all’interno di quest’opera; veniva infatti valutato come reazionario senza comprendere a fondo il suo pensiero. Egli infatti è estraneo non solo a quelle concezioni del suo tempo, ma era estraneo anche a quelle condizioni dell’ancient regime e dei reazionari che pur si vollero in qualche modo addossare ma che sicuramente non gli appartenevano. Leopardi qui è un Leopardi negativo, che sa riconoscere l’altra faccia del progresso, che sa vedere che il progresso non porta sempre verso le possibilità di cui si parla. Non a caso qui Leopardi distrugge un altro mito nato nella società ottocentesca che è quello della felicità che dovrebbe venire dall’abbondanza dei beni naturali. Ma Leopardi afferma che questo è un mito creato dalla società industriale. Ma questo avviene perché la società che produce le merci, fa credere che la felicità si raggiunge con queste merci anche se non è vero. Per questo la Palinodia è molto importante, poiché è ricca di motivi che ne fanno un testo sorprendentemente vivo, moderno, un testo che per certi versi i critici hanno definito profetico.
Poemetto I nuovi credenti: è una satira legata a certi ambienti culturali napoletani di orientamento cattolico che chiaramente non potevano che essere ostili al poeta. E quindi il poeta prende in giro questi nuovi credenti, questi nuovi cattolici che con la loro visione provvidenzialistica, il loro cattolicesimo, vorrebbero sanare i mali del mondo.
I Paralipomeni della Batracomiomachia: sono un ampio poemetto satirico in ottave, che si presenta come una continuazione (paralipomeni significa proprio “aggiunta”, dal greco), quindi un’aggiunta alla Batracomiomachia. La Batracomiomachia era la battaglia tra topi e rane, ma era un’opera che si dice appartenesse ad Omero, perciò si dice poemetto pseudo omerico. Era un poemetto erroneamente attribuito ad Omero che Leopardi aveva tradotto dal greco quando era ancora giovane. Il poemetto leopardiano ha una veste favolosa: discute degli avvenimenti politici del 20-21 e del fallimento dei moti liberali. I topi rappresentano i liberali napoletani, le rane rappresentano i borbonici, che sono aiutati dai granchi, che rappresentano gli austriaci. La polemica di Leopardi si indirizza contro la reazione brutale dei “granchi” austriaci, ma non risparmia neanche i “topi” liberali. Dei liberali viene colpito l’ottimismo facile, questa fiducia nel progresso, questo spiritualismo che li guida. Leopardi critica il liberalismo moderato dei patrioti, però non sulla base di posizioni politiche, ma il suo è un pessimismo assoluto, che non ha a che fare con questa e quella reazione, ma ha a che fare con una visione totale che nega ogni possibilità di miglioramento politico e sociale; quindi la sua non è una posizione politica ma è una posizione che nasce da una visione globale dell’esistenza.
Epistola a Carlo Pepoli: del 1826; anch’essa va posta nei Canti, scritta nei periodi di silenzio prima del canti pisano – recanatesi, in cui il poeta analizza il suo stato di aridità e annuncia il suo proposito di dedicarsi unicamente all’investigazione dell’ “acerbo vero”; quest’investigazione dell’acerbo vero si concretizzerà poi nella grande stagione dei canti pisano – recanatesi.
IL TRAMONTO DELLA LUNA:
Ultima opera di Leopardi, che secondo la tradizione fu dettata sul letto di morte a Ranieri; infatti noi non la possediamo di pugno di Leopardi. Il tramonto della luna riprende le antiche tematiche della caduta delle illusioni giovanili; il componimento, assieme alla ginestra, chiude la grande stagione letteraria di Leopardi. Non è un capolavoro, anche se ha gli stessi spunti di molti testi di Leopardi.
LA GINESTRA:
La nostra attenzione deve andare alla Ginestra. “La Ginestra” per molti rappresenta una svolta importante; è considerata il testamento spirituale di Leopardi; la lirica chiude il percorso poetico di Leopardi. Il componimento infatti ripropone la polemica anti ottimistica e anti religiosa che abbiamo visto nelle opere minori. Solo che qui Leopardi non nega più la possibilità del progresso civile, anzi cerca di costruire un diverso progresso proprio partendo dal suo pessimismo. La consapevolezza lucida che la realtà è una condizione disumana, è la posizione in cui l’uomo combatte contro la nemica natura, dice Leopardi, può indurre l’uomo a prendere coscienza della condizione e a costituire una “social catena” per combattere la sua minaccia. Questo legame non è una catena di ribellione, ma è una condivisione del male. Questo legame può far cessare le ingiustizie della società, dando origine, secondo Leopardi, ad “un onesto e retto conservar cittadino, e giustizia e pietade”. Leopardi non crede nell’utopia che la social catena risolva quel perpetuo ciclo di distruzione e morte visto nel Cantico del Gallo silvestre, ma crede che l’uomo possa dare un ultimo segno di dignità, proprio come la ginestra. Perché la ginestra? Perché la ginestra è quel fiore che di fronte all’eruttare del Vesuvio non abbassa la testa, non si vergogna della morte che sta per arrivare dalla colata lavica, ma anzi, si erge ancora più maestosa, pronta a ricevere e ad essere trasportata via dalla colata lavica. L’uomo deve ispirarsi alla ginestra; l’uomo non può abbassare la testa e costruirsi vili miti (quello liberalista, quello cattolico), pensando che la vita sia migliore. L’uomo deve essere come la ginestra, deve sapere che la colata prima o poi arriverà, e ci porterà via. Ma non per questo deve nascondere ai propri occhi la verità. Deve fare come la ginestra, cioè deve mostrare l’orgoglio: in questo sta il nuovo titanismo di Leopardi. Non è un titanismo di lotta, non è un titanismo destinato a perire, perché in quell’attimo, in quell’estremo atto di orgoglio, in quell’estrema consapevolezza della propria superiorità, del proprio blasone di nobiltà, l’uomo da l’ultimo grande gesto titanico nei confronti dell’universo. La ginestra in Leopardi rappresenta tutto questo. La ginestra sul piano letterario è anche la massima realizzazione, secondo molti critici, di quella poetica anti idillica che aveva sperimentato a partire dal 1830, quindi a partire dal Ciclo di Aspasia. Per quanto ci riguarda è un vasto poemetto, costruito con una grande sapienza e alternanza di toni; è un quadro grandioso, tragico, del vulcano che minaccia le popolazioni, della lava che infeconda, distrugge tutto, tranne come ideologie, perché la lava che avanza è anche quel simbolo di quel ciclo di distruzione che tutto porta via; fino alle note gentili di questa ginestra. La lirica si intitola “Ginestra” o “Il fiore del deserto”, quindi è un fiore in mezzo al deserto. E nella ginestra si contemplano complessi significati simbolici: la pietà verso le sofferenza umane; la dignità che dovrebbe essere propria dell’uomo dinanzi alle forza invincibili della Natura che finiscono per schiacciarlo. Questo è “la ginestra”. Sulla ginestra è pesato molto ancora una volta il giudizio crociano. Essendo un poemetto quindi per sua natura è molto lunga; e è normale che in un testo che vuole essere un testo che è anche un testamento spirituale ci sia anche molto di celebrale. È vero che ci sono delle zone d’ombra, meno felici, ma questo è dovuto alla stessa struttura che Leopardi in un certo senso ha deciso di attuare nella ginestra.
Analisi del testo dei versi: 1-37; 52-58; 111-157; 297-317.
Composta nel 1836, presso Torre del Greco, in una villa alle falde del Vesuvio; fu pubblicata da Antonio Ranieri nell’edizione postuma dei Canti del 1845. Il metro sono strofe libere di endecasillabi e settenari. L’opera si apre con un epigrafe, cioè con una citazione di altro autore. Il versetto, in greco, è tratto dal Vangelo di San Giovanni, ed è posto come epigrafe e allude alla polemica condotta nel canto contro le idee contemporanee: “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”. Cosa significa: per Leopardi le tenebre sono le concessioni spiritualistiche, ottimistiche, la fede nel progresso, nell’ordine preferenziale del mondo, che lui ha sempre combattuto; mentre la luce è la consapevolezza della tragica condizione effettiva dell’uomo, è l’acerbo vero, è l’arido vero. Quindi è una frase particolarmente significativa, in cui Leopardi si dovette particolarmente riconoscere (paradossale che l’abbia trovata proprio in un autore cristiano). Il poeta quindi rovescia in tal modo la citazione evangelica, e questo prelude anche all’altra polemica anti religiosa che percorre la poesia. Versi 1-32: questo è il quadro iniziale, in cui si accampa la figura della ginestra. La prima strofa è incisa sull’opposizione deserto/ginestra, aridità/profumo e quindi vita; il primo elemento dell’opposizione, il deserto, propone un paesaggio anti idillico, un paesaggio ruvido, che parte appunto dal verso 32 in poi. La prima parte invece è relativa alla parte positiva, quando un tempo il paesaggio era felice, un paesaggio che “muggiva d’armenti”, un paesaggio in cui l’erba e i fiori crescevano forti. Ora è rimasta soltanto la “sonante lava” sotto il piede del pellegrino. Qualcosa di sterile, che non darà più vita. Se si confronta questo paesaggio con il paesaggio di A Silvia, con quello delle Ricordanze, è chiaro che questo è un paesaggio opposto. Qui si specifica in tre quadri: il “formidabil monte”, che è anche lo sterminatore; le “erme contrade”; e le “ceneri infeconde”, l’ “impietrata lava”. Quindi tre immagini: la prima negativa, che rimanda all’inno ad Arimane; la seconda è un’immagine di desolazione, di abbandono; la terza è data da quell’impietrata lava, dalle ceneri infeconde, che sono immagini di morte, e anche queste rimandano all’inno ad Arimane. Versi 52-58: siamo all’inizio della seconda strofa, ed è una delle più conosciute anche per quell’espressione: “secol superbo e sciocco”. Sia questa che la strofa successiva sono strofe polemiche. Bersaglio della polemica è il motivo appena introdotto nella strofa precedente, ossia il ritorno di concezioni spiritualistiche e religiose che si è verificato nell’epoca presente; quegli stessi motivi che lui aveva già fortemente criticato sia nella Palinodia, sia nei Paralipomeni, sia nel Poemetto I nuovi credenti. Per Leopardi che è un materialista integrale, questo significa abbandonare ogni modello che fino a allora le filosofie precedenti avevano posto; quindi significa superare sia le filosofie rinascimentali, sia le filosofie illuministiche, sia quelle più vicine a lui. Leopardi quindi rovescia le convenzioni dei miti dominanti, proprio come aveva fatto nel Dialogo della Natura e di un Islandese. Denuncia come in quest’età si esalti il progresso e si torni invece completamente all’epoca della barbaria. Per cui si tratta di un’esaltazione vocale ma non di più. Si inneggia alla libertà ma in realtà si vuole porre il pensiero sotto un nuovo dogma, che è il dogma dell’autorità. Pertanto il poeta non vede in questo progresso nulla di positivo, anzi a un certo punto, Leopardi innesca a partire da questo momento una polemica antireligiosa in cui accusa la visione religiosa di vigliaccheria, perché la religione non consente di vedere la realtà così com’è, non consente di vedere quell’acerbo vero di qui si è parlato. Ecco perché definisce al verso 53 il secolo “superbo e sciocco”. Il secolo XIX è stolto e superbo perché esalta ad oltranza, con un ottimismo che non ha fondate ragioni di esistere il destino e il progresso dell’umanità. Versi 111-157: ci troviamo nella terza strofa, l’altra strofa che insieme alla seconda contiene toni polemici. Il motivo è ancora quello sviluppato all’inizio della strofa precedente (si riallaccia al secol superbo e sciocco) e poi si avvia il motivo della “social catena” che poi viene esposto anche nella strofa seguente. Il poeta definisce prima qual è la vera nobiltà, e si riallaccia ancora a scritti precendenti (la Palinodia, l’Inno ad Arimane, il Dialogo di Tristano). Dopo di che dice: l’uomo l’unica cosa che deve fare è avere coscienza del male, avere coscienza dell’infelicità e della miseria che alberga nel male. E la parte importante è quando afferma che responsabile di tutto ciò è solo e soltanto la Natura; quella Natura che al verso 125 dice che è “madre di parto e di voler matrigna”. La colpa si attribuisce a colei che è la vera responsabile, a colei che è la madre degli uomini, in quanto li ha generati, ma una volta generati, sembra dimenticarli. Per cui una volta presa coscienza di tutto questo, ovvero di aver preso coscienza che è la Natura l’unico elemento responsabile del proprio dolore, allora gli uomini possono essere indotti a coalizzarsi contro la nemica. Questo, secondo Leopardi, rinsalderebbe i legami sociali: è la cosiddetta “social catena”, la confederazione, riprendendo i termini del testo, nei termini in cui questa social catena in realtà impedisce agli uomini di combattere e sopraffarsi a vicenda; cioè gli uomini, costituendo questa social catena, metterebbero da parte l’egoismo e l’avidità e si unirebbero contro la Natura. Il bisogno di lottare contro di essa quindi, porterebbe gli uomini a una solidarietà reciproca, a quella che potremmo chiamare una sorta di fraternità. Di qui dice Leopardi, nascerebbe il vero amor fra gli uomini, ma anche “giustizia” e “pietade” sono due parole chiavi; quindi giustizia e pietà significa rapporti civili onesti e retti. Questa società allora, più giusta e civile, avrebbe un solido fondamento oggettivo: salvaguardare la sopravvivenza degli uomini. Allora è chiaro che il progresso non si baserebbe più sulle “superbe fole”, cioè su chiacchiere inutili e su inganni, e neanche più sui miti, come accadeva in passato, ma sulla realtà dei fatti. Questo però non significa che tale progresso assicurerà la felicità agli uomini, perché per Leopardi la felicità è impossibile, ma comunque garantirebbe una società giusta e civile, in cui gli uomini quantomeno non sarebbero più aggressivi l’uno contro l’altro. Quindi non c’è una risoluzione finale al problema, ma è una mediazione anche questa. Perché l’uomo in questa società rimarrà sempre infelice per natura, solo che non ci sarà quell’infelicità addizionale che nasce dall’ostilità della Natura. Anzi l’uomo può essere soccorso e aiutato dai propri simili quando la Natura malvagia si accanirà contro di lui: ecco il significato che si può attribuire alla social catena. E quindi anche l’intellettuale a questo punto avrà un compito; il suo è un compito che dovrà mirare a favorire la creazione di questa società, rendere palese al volgo, quindi al popolo, questi concetti; diffondere la consapevolezza del vero, indicare il vero nemico contro cui combattere spingendo gli uomini alla fraternità. Questo è il compito che era stato assolto dal pensiero degli illuministi e che il poeta vuole riprendere e sviluppare. Questo è il compito che il poeta può portare a termine: diffondere la realtà e eliminare i miti corruttori. In questo c’è anche l’immagine del Poeta Vate, cioè quel poeta che in qualche modo guida il volgo dall’alto della sua maggiore capacità di comprendere. Emerge da questa strofa un leopardi nuovo, diverso da quello sarcastico, polemico della Palinodia. Un poeta che è sempre negatore di istruttore dei miti, ma è un poeta che fa anche un generoso sforzo di condividere il suo pensiero e di volgerlo in positivo e di fondare in qualche modo la strada per la nuova società. Quindi c’è questo barlume di positività. Questo cambio di veduta è molto probabilmente l’avvicinarsi della morte in Leopardi. Versi 297-317: questa è la parte finale della settima strofa. L’ultima strofa, in corrispondenza circolare con la prima, ritorna sull’immagine della ginestra. Quindi la ginestra, il fiore del deserto, ritorna in primo piano. Il fiore, come già detto, è un simbolo: esso è il simbolo della pietà per desolata condizione delle creature (“di selve odorate queste campagne dispogliate adorni”). Ma poi essa acquista una sorta di significato nuovo: all’inizio della strofa è solo implicito, poi diventa via via più esplicito: essa diventa l’emblema della ferma resistenza dell’etica di fronte alla distruzione. La ginestra diventa un modello di comportamento nobile, eroico per l’uomo. Questa fragile pianticella inevitabilmente piegherà anch’essa il capo di fronte alla potenza della natura distruttrice, ma questa sconfitta non cancellerà la sua dignità; la ginestra non ha mai piegato codardamente il capo, ne per supplicare l’oppressore per essere risparmiata, né ha eretto un folle gesto di titanismo per eguagliarsi verso il cielo, né ha voluto mai imporre il proprio dominio sulle altre creature. La ginestra è stata semplicemente se stessa, ed è quindi proiezione dell’immagine ideale della nobiltà dell’uomo, che il poeta aveva già delineato nella terza strofa.

Esempio



  


  1. Aline

    Analisi di "l'aura gentil che rasserena i poggi" di Petrarca