Tacito e opere

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Testo

TACITO
TACITO: è il maggiore storico di Roma. Di rango senatorio, fu console e proconsole.
Di Cornelio Tacito s’ignorano, oltre al prenome, sia la data di nascita che la patria ma da una lettera di Plinio il Giovane, amico dello storico, possiamo dedurre che l’autore degli Annales fosse un provinciale, della Gallia Narbonense o Cisalpina; inoltre Plinio dice di essere quasi coetaneo di Tacito ma anche che quando lui era ancora adolescente l’amico era già brillante e famoso; dunque è lecito credere che se Plinio è del 61-62 d.C. la nascita di Tacito deve collocarsi attorno al 55. Di famiglia facoltosa Tacito concluse i suoi studi a Roma frequentando la scuola di retorica di Quintiliano. Carriera politica brillante: tribuno militare sotto il comando di Giulio Agricola, del quale aveva sposato la figlia; segretario personale dell’imperatore (quaestor Augusti) sotto Tito; tribuno della plebe e pretore sotto Domiziano, in questo periodo è inviato come propretore in una regione a nord dell’impero dove conosce i Germani cui avrebbe dedicato un saggio etnografico. Tornerà a Roma solo nel 93, dopo la morte di Agricola. Tacito morì nei primi del principato di Adriano (intorno al 120 d.C.). Scrisse una biografia del suocero (Agricola), un saggio etnografico sulle popolazioni germaniche (Germania), una storia dell’impero dal 69 al 96 d.C. (Historiae), una storia dell’impero dalla morte di Augusto a quella di Nerone vale a dire dal 14 al 69 d.C.
AGRICOLA: l’attività di scrittore di Tacito inizia solo dopo la fine del principato di Domiziano, a pochi mesi dell’elezione-adozione di Traiano da parte di Nerva, quando pubblica una biografia del suocero, De vita et moribus Iulii Agricolae (98). Sfortunatamente Tacito non era riuscito a tornare a Roma in tempo per commemorare l’uomo cui doveva tutto con un’adeguata orazione funebre, tenta di saldare il debito con uno scritto che va oltre il puro intento encomiastico. L’Agricola, infatti, è un’analisi storica sui meccanismi della politica, sul contrasto tra monarchia e libertà e contiene un excursus etnografico sui Britanni. Tacito esordisce con un’opera di carattere misto (biografica-politica-etnografica) che lo pone nell’ambito della libera indagine storica a tutto campo, capace di riconoscere la grandezza di uomini di valore e di esaltarla a beneficio delle generazioni future. Prima di lui ci avevano già provato Rustico e Senecione, ma Domiziano li aveva fatti eliminare: esaltare Agricola era innanzitutto una manifestazione di fiducia, da parte di Tacito, del clima politico verificatosi con l’avvento di Nerva e Traiano. Agricola aveva compiuto l’ultima parte della sua carriera sotto Domiziano, raccontare ciò significava rispondere a un interrogativo ricorrente in età imperiale: come deve comportarsi un cittadino virtuoso cui tocchi operare sotto un tiranno? L’interrogativo toccava anche lo stesso Tacito perché era uno dei pochi esponenti politici in vista della propria generazione che era riuscito a sopravvivere al dispotismo domizianeo, così fa del comportamento del suocero l’esempio perfetto di come anche sotto cattivi principi potessero esserci uomini grandi. E’ vero anche che Agricola cadde in disgrazia presso Domiziano, indispettito dai suoi successi, tanto che alla sua morte molti formularono di avvelenamento. In ogni modo a Tacito non stanno a cuore le cause della morte del suocero bensì la modalità, anch’essa esemplare, appartata e silenziosa, lontana da quelle plateali che giovano senz’altro alla fama individuale ma che nuocciono allo Stato. Al di là di questa componente prettamente ideologica alimentata dalle speranze di libertà che portava il nuovo regime ci sono due passi dell’Agricola molto rilevanti sotto il profilo storiografico: l’excursus etnografico sui popoli della Britannia e i discorsi di Calgaco, uno dei capi dei Britanni, accostati ai discorsi di Agricola prima della battaglia sul monte Graupio (nell’odierna Scozia, tra Romani e Britanni naturalmente N.d.R.). Con l’excursus Tacito si cimenta per la prima volta in un settore molto importante nella storiografia, come quello etnografico, affilando la propria tecnica in vista di un’opera più impegnativa, sotto questo punto di vista, come la Germania o per le digressioni delle Historiae e degli Annales. Quanto ai discorsi, essi denotano una gran padronanza retorica e una notevole capacità di drammatizzazione dei fatti storici, le parole di Calgaco depositarie di una verità assoluta sembrano scolpite per sempre, destinate a essere riscoperte dalle generazioni future (es. “dove fanno il deserto, lo chiamano pace” frase che fu usata anche contro l’impegno degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam).
30-31 Calgaco contro l’imperialismo romano (LA, p.372): Calgaco, uno dei più autorevoli capi dei Caledoni, rivolge ai soldati indimenticabili parole di condanna per l’imperialismo romano ed esorta gli uomini a vincere per restare liberi da dominazioni (che non avevano mai visto nemmeno da lontano), sono l’unico popolo rimasto libero e anche l’ultimo che sarebbe conquistato dai Romani, quindi subirebbero il trattamento peggiore. Critica quello che i Romani chiamano impero definendolo “trucidare, rubare, predare” e definisce la “pax” portata dall’impero “deserto” (“ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”).
30 passim “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” (BS, A4): traduzione e costruzione.
GERMANIA: È un’opera etnografica di poco posteriore all’Agricola, anch’essa è del 98 d.C. Il suo titolo completo, De origine et situ Germanorum, rimanda a sezioni etnografiche presenti in Sallustio e in Livio ma anche a quella dello stesso Tacito presente nell’Agricola (Britanniae situm populosque), ciò alimenta l’ipotesi che all’inizio quest’operetta doveva essere solo una digressione all’interno delle Historiae, dato che la sua struttura rimanda all’excursus delle Historiae sui Giudei, ma poi dal nucleo originario, i primi cinque capitoli (in cui tratta origine e luoghi), l’opera si sarebbe accresciuta fino a diventare un libro autonomo. Nell’età di Traiano l’impero raggiunse la sua massima estensione e questo favorì il confronto con nuove culture, già Cesare e Sallustio avevano dedicato spazio ai Germani, ma anche Plinio il Vecchio nella perduta Bella Germaniae e Aufidio Basso: è da queste basi che parte Tacito. La sua opera comunque è troppo vasta per essere ricondotta ad un semplice assemblaggio di fonti perché contiene informazioni raccolte di prima mano; inoltre rimane l’unica monografia a noi conservata di argomento completamente etnografico. Il contenuto dell’opera è organizzato in maniera sistematica, diviso sostanzialmente in due parti: la prima tratta delle caratteristiche generali del popolo (situs, origo, istituzioni militari e civili, organizzazione familiare, religione, vita quotidiana, caccia e agricoltura, abbigliamento, divertimenti) e la seconda fornisce un elenco dettagliato di tutte le tribù. Per la descrizione dei popoli stranieri Tacito si avvale di modelli di pensiero elaborati dalla tradizione etnografica greco-latina. Il primo è il determinismo geografico, secondo il quale le caratteristiche dell’ambiente fisico determinano l’aspetto fisico e psichico degli abitanti (infatti la descrizione di Tacito comincia con un inquadramento geografico e un riconoscimento dell’autoctonia degli abitanti), in questo caso i popoli del nord sono visti come dotati di coraggio e valore militare ma di scarsa intelligenza. L’ambiente ideale per la crescita della civiltà in ogni suo aspetto (civile, intellettuale e bellico) sarebbe l’area mediterranea, la centralità di quest’area si riscontra in un nord troppo freddo e un sud troppo caldo. Si tratta di una visione etnocentrica come quella come la sarà poi quella elaborata in Germania nel XIX secolo, quando i “Germani” si prenderanno la rivincita sui popoli mediterranei spostando al nord il centro della civiltà. Comunque l’etnocentrismo antico differisce da quello moderno poiché il primo dà importanza fondamentale all’ambiente fisico e al clima, il secondo ai fattori genetici. Di conseguenza l’etnocentrismo antico non costituisce una forma di razzismo come lo intendiamo noi moderni, determinata da fattori interni alla razza, ma da fattori esterni. Nei confronti dei barbari in Tacito c’è più ammirazione che disprezzo, nel momento in cui Traiano si preoccupava di rinforzare le frontiere sul Reno e a Roma si ridestava la curiosità per i Germani, Tacito mette in contrasto la rudezza primitiva e il valore militare di quel popolo con la corruzione della Roma imperiale. L’autore riconosce nella libertà germanica un valore importante, e nello stesso tempo intuisce un pericolo mortale per Roma, se non fosse tornata a più austeri costumi e non avesse intrapreso contro i Germani efficaci spedizioni militari.
18-19 Usanze matrimoniali dei Germani (LA, p.375): Tacito reagisce con particolare ammirazione alla fedeltà coniugale dei Germani che sembrano riproporgli gli antichi modelli della severità romana, proprio in un’epoca in cui a Roma trionfava una licenza senza limiti. La dote (buoi, cavallo bardato, armi) è portata dall’uomo alla donna, alla famiglia della donna, che a volte può a sua volta offrire delle armi al marito. Perché la donna non si creda estranea ai pensieri di gloria militare, deve subire e affrontare la stessa sorte del marito: questo significano i buoi, il cavallo, le armi. I vizi da loro non fanno sorridere e la corruzione non si chiama moda: la punizione dell’adulterio è affidata al marito che umilia pubblicamente la donna tagliandole i capelli, denudandola, frustandola. Non esiste il perdono per una donna disonorata, nulla potrà farle riavere un marito. Uomini e donne sono analfabeti.
HISTORIAE: opera composta probabilmente da dodici libri, dato che sappiamo che l’edizione congiunta di Historiae e Annales raggiungeva un totale di trenta libri e che questa seconda opera ne conteneva diciotto, in cui l’interesse dello storico si sposta indietro (rispetto all’epoca in cui vive), su tutto il sofferto periodo che va dal 69 d.C., l’anno dei quattro imperatori, fino alla morte di Domiziano. Restano solo i primi quattro libri e alcuni capitoli del V, concernenti gli anni 69-70.
Tacito ha rinunciato al suo progetto originario di documentare la passata servitù e testimoniare il buon governo presente, di raccontare il passaggio dal Bene al Male, dalla tirannia crudele di Domiziano al principato mite di Nerva e Traiano. Adesso che può liberamente indagare ha deciso di mutare il suo progetto perché ritiene molto più utile tentare di spiegare come mai in passato si sia originato il processo contrario, dal Bene al Male o, peggio ancora, dal Male al Male cioè come può essere possibile dopo un Nerone avere un Domiziano. La chiave delle vicende si trova nel fitto groviglio di eventi che caratterizza l’anno dei quattro imperatori. Il gesto illuminato di Nerva che si era scelto il successore guardando alle capacità e non al sangue “adottando” Traiano, ripete con miglior esito il gesto di Galba che nel 69 aveva “adottato” come successore all’impero Pisone. La scelta di Galba purtroppo si era rivelata tardiva, la sua efficacia compromessa dal venir meno dello Stato perché nello stesso discorso di investitura di Pisone, l’ex-imperatore dichiara che, potendo, avrebbe ridato inizio alla repubblica ma la situazione era talmente compromessa da non consentirgli di lasciare al popolo romano niente di meglio che un buon successore. Il nuovo principe poteva anche essere tale, ma non trovava nel senato un degno interlocutore, perché questo non era più altezza delle proprie tradizioni e senza dialogo col senato anche il più illuminato dei principi diventava facilmente tiranno. La decadenza dilagante dei costumi rendeva Galba, che affermava “io i soldati li arruolo, non li compro”, un esempio di uomo che già apparteneva a una Roma ormai scomparsa. Indice della corruzione del senato, alla morte di Galba, fu anche il fare a gara tra senatori ad insultare il vecchio imperatore ed adulare il nuovo. Corollario di questa corruzione dilagante era ormai l’endemica e generalizzata fragilità della disciplina militare, caduto ogni ideale la cieca violenza contro i capi, l’insubordinazione, la ribellione contro Roma erano cosa di ogni giorno, destinata ad aggravarsi e a diventare calcolato strumento di potere man mano che aumentava la consapevolezza del peso che gli eserciti stavano acquisendo. Tacito insiste particolarmente sulla totale inadeguatezza sia di Otone che di Vitellio a detenere il principato; “il caso aveva scelto per rovinare l’impero le due figure più abiette per mancanza di senso morale e di energia”. Una delle ragioni della degenerazione del senato e del popolo è da ricercarsi nella grandezza stessa dell’impero. Col continuo accrescersi l’impero aveva di fatto ingigantito e fatto esplodere una passione congenita nell’animo umano: la bramosia di potere, la conquista del mondo, il potere totale che fece divampare le lotte tra patrizi e plebei e le guerre civili. Ma Tacito era fermamente convinto che i mali del principato mettevano salde radici in tempi ancora ben precedenti a quelli narrati, una storia che avrebbe narrato negli Annales. Nelle Historiae singoli e masse sono messi in scena a recitare l’immane tragedia di questa lotta per il potere: con rapide annotazioni in margine ai gesti compiuti e ai discorsi tenuti dai personaggi senza mai tralasciare le intenzioni che li hanno spinti ad agire Tacito disegna i ritratti di Otone (abietto ma capace di un dignitoso suicidio), Vitellio (esempio di vizi, incompetente di cose di guerra e pace, vile fino all’ultimo,incapace di vivere e morire), Muciano (esempio di virtù pubblica e vizi privati), Domiziano. Di gran rilievo anche le descrizioni delle masse sia nei movimenti degli eserciti in guerra sia quelli del popolo: come nella presa e distruzione di Cremona o nella descrizione delle vicende del popolo, superiori per resa e partecipazione, ad esempio quando i Vitelliani assediano e incendiano il Campidoglio e successivamente Antonio Primo fa il suo ingresso a Roma, con lo spettacolo simultaneo di scontri e uccisioni da una parte, gente che continua a divertirsi in bagni e taverne dall’altra. La tecnica narrativa e lo stile di cui Tacito si avvale indicano come modello storiografico di partenza l’opera di Sallustio. D’ispirazione sallustiana è l’attitudine di Tacito a procedere drammatizzando, dividendo la narrazione in una successione di scene e di atti attorno a singoli personaggi o eventi, il moralismo che tanto spesso provoca e sorregge la narrazione tacitiana, il ricorso ad uno stile asimmetrico, slegato, anticiceroniano, più adatto a comunicare il pathos della situazione, i movimenti interiori, sentimentali e mentali, dei singoli e delle masse. Tacito supera di molto il modello, la sua capacità di guardare dentro agli uomini e alle loro azioni è più acuta e ricca di sfumature, lo stile raggiunge livelli ignoti alla prosa sallustiana: frase spezzata, imprevedibile, ricca di arcaismi e parole correnti piegate a un significato inatteso, non disdegna l’uso di termini poetici. Per esempio il drammatico scontro tra Otone e Galba nel I libro è letto da Tacito, come suggeriscono numerosi riscontri puntuali, sullo sfondo del II libro dell’Eneide: la presa del potere da parte di Otone e la conseguente infamia e rovina di Roma ha il sapore di una seconda presa di Troia.
3,32-34 Fine di Cremona (LA, p.378): dopo la seconda battaglia di Bedriaco gli eserciti di Vespasiano guidati da Antonio Primo chiudono i Vitelliani a Cremona. La città è messa a ferro e fuoco. Atmosfera confusa: stupri, assassinii, lotte, furti, risse, in un esercito di lingua e passioni più disparate e non esiste illecito. Solo il tempio della dea Mefite rimase in piedi.
3,83 Furore e oscenità, morte e vita nell’anarchia del ’69 (LA, p.379): quando Antonio Primo, comandante della fazione di Vespasiano entra in Roma, ha inizio la carneficina dei Vitelliani: e qui si assiste allo spettacolo di scontri e uccisioni da una parte, e gente che continua cinicamente a godere in bagni e taverne dall’altra. È il punto più basso toccato dalla città e dai suoi abitanti, tutti esultano e godono, indifferenti (abituati, è normale ormai che si entri con l’esercito in Roma mentre prima nessuno avrebbe osato, quando si rispettavano i valori) a quale parte vincesse, lieti della sventura di tutto lo Stato.
5,3 Mosè iniziatore del popolo ebraico (BS, A13): l’esodo degli ebrei dall’Egitto è riletto in chiave molto razionale e Mosè viene esaltato come guida del popolo, lo consola, lo conforta e lo porta in salvo. Dopo che il Faraone ha interpellato l’oracolo, scaccia il popolo ebreo, il popolo di Dio sarebbe destinato alla morte nel deserto senza acqua e viveri ma Mosè riesce seguendo un gruppo di asini selvatici a trovare dell’acqua. La guida ebrea non solo non si era affidata completamente a Dio cercando invece di reagire e di trovare una soluzione razionalmente, di non abbattersi, ma era riuscita a risolvere brillantemente i tre problemi che aveva incontrato: trovare l’acqua per sopravvivere, uscire dal deserto, trovare una terra per potersi fermare. Afferma che il viaggio dura solo sei giorni e che nel settimo raggiungono la “terra promessa” e che Mosè, perché i posteri gli siano sempre legati a lui, formula delle leggi diverse da quelle di tutte le altre religioni.
5,4,1-3 5,5,4 dalla Bibbia alle Historiae (fot.): presso gli ebrei sono profane le cose che Tacito dichiara sacre alla sua religione, venerano l’asino che li ha salvati dalla morte nel deserto (perché gli permise di trovare l’acqua), immolano animali che gli Egizi venerano (bue, ariete), non mangiano carne di maiale perché la peste colpisce facilmente tali animali, ricordano la lunga fame patita nel deserto con lunghi digiuni e preparano il loro pane senza lievito (in ricordo delle messi rubate), riposano il settimo giorno (viaggiarono per sei giorni), al piacere dell’ozio dedicano il settimo anno (secondo Tacito, invece studiano, pregano, compiono pellegrinaggi), seppelliscono i cadaveri anziché cremarli, non hanno statue né degli dei né degli imperatori perché lo ritengono sacrilego, venerano un’unica divinità con un’unica volontà al contrario di romani ed egizi.
ANNALES: opera composta in diciotto libri in cui incalzato dalla sua stessa indagine, Tacito è quasi costretto a rivolgere ancora più indietro il suo occhio di giudice inflessibile dei mali del principato: risale alle radici prime d’ogni successiva aberrazione in senso monarchico, trattando dei fatti dell’impero dalla morte di Augusto a quella di Nerone. Il titolo attestato dai codici richiama l’Ab urbe condita di Tito Livio: ab excessu divi Augusti, e non escluso che Tacito vedesse una certa continuità tra la propria opera e quella di Livio (la più importante per i periodi regio e repubblicano). Il titolo di Annales, usato dallo stesso Tacito in omaggio alla disposizione secondo lo schema annalistico particolare anche se non sempre viene rispettata la trattazione anno per anno, è quello comunemente più utilizzato. Tacito utilizza come fonti atti ufficiali come i verbali delle sedute del senato (acta senatus) o i discorsi di alcuni imperatori ma anche memorie private (commentarii) e fonti storiografiche, per esempio Fabio Rustico, già citato nell’Agricola. Degli Annales restano solo con lacune i primi sei libri (dedicati a Tiberio) e quelli dal XI al XVI (relativi agli anni dal 47 al 66 d.C.). L’acume dello storico e il talento del narratore raggiungono negli Annales la loro più matura ed efficace espressione, al centro di tutta l’analisi continua ad essere il rapporto tra l’imperatore e il senato: Tacito descrive che nel 16 d.C. (sotto Tiberio) si discutono al senato alcuni provvedimenti per frenare il lusso, Ottaviano Frontone chiede che si fissi un limite anche per il possesso di oggetti d’argento, suppellettili e schiavi ma Asinio Gallo, esprime un parere contrario a quello di Frontone argomentando che l’eccesso o la giusta misura del lusso sono un fatto relativo e dipendono quindi dalle condizioni economiche dei singoli. Con quest’ammissione di vizi comuni a tutti gli ascoltatori Gallo vince facilmente (a dimostrazione della divagante corruzione di Roma). Tiberio consolida il suo potere di principe lasciando, ogni tanto, intravedere al senato una parvenza dell’antica autorità dandogli potere decisionale in alcune sporadiche (e futili) occasioni; di fatto il progressivo degradarsi del senato a puro strumento del principe favoriva senz’altro l’ascesa della feccia più spregevole lì dove si era spostato l’asse del potere: la corte imperiale (questo fenomeno raggiunge la sua espressione più vasta sotto Nerone, soprattutto dopo l’assassinio della madre Agrippina). L’incontrastato potere del principe era favorito da un popolino ignorante, adulatore e incapace di vergogna e dal completo distorcimento della pratica religiosa perché mentre una volta le preghiere di ringraziamento erano segno di lieti eventi ora lo erano di pubbliche sventure come esili o assassini. Tacito collega alla mancanza di libertà il declino, non solo dell’attività storiografica, ma anche della storia stessa, sempre più povera di fatti interessanti. Se gli autori antichi avevano da raccontare conflitti grandiosi, contrasti tra consoli e tribuni già sotto Tiberio gli orizzonti si sono ristretti a una pace scossa solo da brevi sussulti, mentre a Roma la situazione era sconsolante e senza prospettive. In questo quadro Tacito assegna un posto di primo piano a Trasea Peto, campione di indipendenza di giudizi in un senato ormai succube di Nerone, da quanto rimane degli Annales conosciamo la sua sorte: un’ignobile condanna e una morte esemplare. Grand’evidenza anche alla morte stoica di Seneca e a quella, opposta nella forma ma non meno forte nella sostanza, di Petronio. L’efficacia di questi ritratti si ritrova in quelli dei due protagonisti delle due sezioni superstiti: Tiberio e Nerone. Di Tiberio è descritta l’ambiguità, il talento per la dissimulazione, la scaltrezza nel corrompere, il progressivo cedere alla libidine perversa, il vano tentativo di nascondere i suoi terribili segreti e i suoi tormenti rifugiandosi a Capri, mentre il potere viene rafforzato da spie e delatori. Il Nerone di Tacito è a sua volta interprete di una storia in tre atti: prima succubo della madre, poi abile nell’avvicinarsi a Seneca e a Burro ostentando virtù pubbliche (la clemenza), spietato nell’eliminare qualsiasi ostacolo si frapponga fra lui e il potere (madre, moglie); ormai capace apertamente delle dissolutezze più indicibili, senza freno nel suo esibizionismo di sportivo, istrione, poeta, e perfino di incendiario, vera forza del male che contamina tutto e tutti, vittima di incubi notturni, incubo lui stesso per una città in cui nessuno si sente più al sicuro. In uno studiato gioco di chiaroscuro, Tacito contrappone all’infelicità della capitale in balia dei tiranni la grandezza, morale e professionale, di due condottieri che tengono alto il morale di Roma combattendo alla periferia dell’impero: Germanico (sotto Tiberio) e Corbulone (sotto Nerone). Nonostante una semplificazione dello stile, una lingua meno colorita, una sintassi meno ricercata non mancano scene di grande effetto: è la forza o la brutalità stessa dei fatti ad imporsi. La prosa degli Annales deve molto alla felicità delle annotazioni psicologiche: adatte, per la loro brevità, a rimanere impresse nella memoria (“i benefici sono graditi finché pare possibile sdebitarsi: se travalichiamo tale possibilità, alla gratitudine subentra l’odio”).
15, 44 Nerone e i cristiani (fot.): per smentire la diceria sul suo coinvolgimento nell’incendio alla città Nerone inventò i cristiani, già odiati dal popolo per la differenza di riti, come colpevoli e li sottopose a pene crudelissime. Questa superstizione ritornava alla luce non solo in Palestina, dove era nata, ma anche a Roma, dove tutte le cose più atroci e vergognose dell’impero trovano la loro celebrazione. Vennero arrestati quelli che confessavano, altri ancora furono incriminati tramite gli arrestati più per l’odio della moltitudine che per colpa. Quelli che venivano uccisi erano scherniti, coperti con pelli di belve, dilaniati dai cani, appesi in croce o bruciati come fiaccole viventi quando mancava luce. Anche se secondo Tacito questi esempi di punizione riguardavano comunque uomini colpevoli (sono colpevoli perché professano riti cristiani, diversi) ma che facevano nascere una commiserazione, come se non venissero eseguiti per utilità pubblica ma per soddisfare la crudeltà di uno solo.
15,60-64 La morte del saggio stoico (LA, p.83): Seneca è coinvolto nella congiura dei Pisoni. Costretto al suicidio mantiene fino all’ultimo una dignità e un controllo all’altezza della dottrina stoica. Frena le lacrime degli amici, perché vorrebbe lasciare loro l’unico bene che possedeva, il ricordo della sua condotta di vita, e se l’avessero conservato avrebbero raggiunto la gloria di una condotta onesta e di un’amicizia incontaminata. Per morire più velocemente si taglia le vene delle gambe e delle braccia, s’immerge in una vasca di acqua calda, beve il veleno.
16,18-19 La morte dell’epicureo Petronio (LA): ricevuto l’ordine di non seguire l’imperatore in un viaggio per la Campania, che equivaleva ad un’imposizione di suicidio, Petronio si fa arbitro, regista della propria morte. Rifiutando la morte stoica, i discorsi consolatori o le riflessioni sull’immortalità dell’anima, dopo essersi tagliato le vene, prese a tagliare e tamponarle di nuovo per capriccio, intrattenendosi piacevolmente con gli amici e scambiando con loro poesie e versi frivoli. Le ultime ore le passò a banchetto, concedendosi persino qualche dormita: come per dare l’impressione di una morte accidentale. Non tralasciò neppure di amministrare la giustizia domestica, punendo e premiando i servi. Nel testamento al posto dell’adulazione all’imperatore fornì l’elenco dettagliato di tutte le turpitudini di Nerone coi nomi delle amanti e degli amanti implicati. Alla fine spezzò l’anello del sigillo, per impedire che potesse essere usato per danneggiare altre persone.

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