Giacomo Leopardi: opere e cenni biografici

Materie:Appunti
Categoria:Italiano
Download:1783
Data:24.11.2005
Numero di pagine:78
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
giacomo-leopardi-opere-cenni-biografici_1.zip (Dimensione: 70.63 Kb)
trucheck.it_giacomo-leopardi:-opere-e-cenni-biografici.doc     229.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

CENNI BIOGRAFICI
In una lettera del marzo 1829 a Pietro Colletta, Giacomo Leopardi confida il proposito di scrivere una autobiografia che descrivesse però solo “poche avventure estrinseche, e queste... delle più ordinarie” e si applicasse invece a rivelare minutamente “le vicende interne di un animo nato nobile e tenero, dal tempo delle sue prime ricordanze fino alla morte”. Questa autobiografia -di cui scrisse solo una breve introduzione-, sarebbe dovuta essere, insomma, la “Storia di un’anima”. Quindi il Leopardi stesso intuì per primo la scarsa rilevanza che ebbero su di lui i fatti esterni della vita familiare e sociale, anche se indubbiamente questi non poterono non condizionare in qualche modo, almeno negli anni della adolescenza e della prima giovinezza, la sua formazione intellettuale e morale. La verità, comunque, è che il Leopardi visse nella solitudine della propria coscienza straordinarie avventure del pensiero e del sentimento e che per lui solo queste assumono il rilievo di dati biografici.
E' chiaro, quindi, che la più autentica biografia del Leopardi vada ricercata non sui dati storici della sua esistenza, ma su quelli psicologici; non negli avvenimenti esterni, ma nelle sensazioni intime, nei palpiti segreti. A tal fine molto varrebbero le note sparse dello Zibaldone, soprattutto quelle raccolte, negli indici fatti dallo stesso Poeta, sotto il titolo di “Memorie della mia vita”. Ma più ancora sarebbe utile riconoscere come fonte per una sua biografia tutta intera la sua produzione artistica.
Non ci sembra però questo il luogo per attingere a tali fonti e riteniamo opportuno rimandare il discorso sulla “storia dell'anima leopardiana” al momento in cui ci occuperemo delle opere del grande recanatese. In questa sede ci limiteremo a dare i dati esterni della sua vita.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798 dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici. Il padre, conservatore e sostenitore del potere temporale dei papi, fu uomo di una certa cultura e possedeva una ricchissima biblioteca, ancora oggi oggetto di grande ammirazione. La madre, fredda e autoritaria, dedicò tutta se stessa all’amministrazione del patrimonio familiare, abbastanza dissestato dalle errate speculazioni compiute dal marito, e poco si curò dell'educazione dei figli (Giacomo, Carlo, Paolina, ecc.), ai quali fece mancare del tutto il calore dell’affetto materno.
Ben presto Giacomo si rivelò un “bambino prodigio”, tanto che a poco più di dieci anni avvertì di poter fare a meno dei maestri e di poter continuare da solo i suoi studi nella biblioteca paterna. A soli dodici anni era già in grado di scrivere correntemente in latino e dal latino tradusse i primi due libri delle Odi di Orazio. Compose pure due tragedie: “La virtù indiana” e “Pompeo in Egitto”. A quindici anni iniziò una dotta “Storia dell'astronomia” e compose un “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”. In questi anni di “studio matto e disperatissimo” non solo scrisse molto su vari argomenti, ma riuscì pure a perfezionare la sua conoscenza delle lingue classiche e ad apprendere la lingua ebraica ed alcune lingue moderne. Questo pressoché costante appartarsi nella biblioteca paterna gli alienò il mondo esterno, che egli avvertì poi quasi sempre come ostile e inadatto a comprendere la sua persona; ma gli minò pure gravemente la salute fisica che gli fu causa di non poche sofferenze.
Nel 1817 provò la prima delusione amorosa, essendosi invaghito, senza speranza, della cugina Geltrude Cassi Lazzeri, ospite in casa Leopardi insieme col marito ed una figlioletta. Altre delusioni del genere seguirono a questa (pare fosse innamorato di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa, forse la Silvia del canto “A Silvia”, e di Maria Belardinelli, forse la Nerina delle “Ricordanze”), anche se, come osservò il fratello Carlo, gli amori di Silvia e di Nerina furono più immaginati come motivi di tristezza che realmente sentiti. In effetti Giacomo non ebbe mai interessi profondi per una donna in particolare ed egli stesso ebbe a dire: «In ordine alle donne... ho già perduto due virtù teologali, la fede e la speranza. Resta l'amore, cioè la terza virtù della quale peranco non mi posso spogliare, con tutto che non creda né speri più niente».
In questi anni avvertì maggiormente gli angusti limiti del suo “borgo selvaggio” e, dopo aver anche meditato il suicidio, tentò la fuga da casa. Il progetto fu però sventato dal padre e solo tre anni dopo, nel 1822, egli ottenne il permesso di recarsi a Roma presso lo zio materno Carlo Antici. La permanenza a Roma fu oltremodo deludente perché la città eterna non lo attirò con le sue magnificenze architettoniche e monumentali e la vita intellettuale gli apparve spenta d’ogni fervore. Gli furono di conforto l’amicizia col cardinale Angelo Mai (per il quale due anni prima aveva scritto una canzone) e le conversazioni tenute con alcuni dotti stranieri, ma solo sei mesi dopo decise di ritornare a Recanati, ove restò fino al luglio del 1825, quando ebbe l'invito di recarsi a Milano per curare l'edizione delle opere di Cicerone per conto dell’editore Antonio Fortunato Stella. Ben presto, a causa del clima non idoneo alla sua malferma salute, abbandonò la città lombarda e visse alcuni anni fra Bologna, Recanati, Firenze (ove conobbe il Manzoni, il Niccolini, il Capponi, il Colletta ed il Tommaseo) e Pisa. Dal 1830 al 1833 si stabilì a Firenze nella casa dell’esule napoletano Antonio Ranieri, che seguì poi a Napoli.
In Napoli, in casa del Ranieri, il Leopardi concluse la sua vita terrena all'età di soli 39 anni. Morì infatti di asma e idropisia il 14 giugno 1837. Fu sepolto nella Chiesa di S. Vitale, ma dal 1938 le sua ossa riposano in Piedigrotta, presso la tomba di Virgilio.
LE IDEE
Tra il 1816 ed il 1819 il Leopardi vive il periodo più difficile della sua esistenza che lo indurrà finanche a concepire propositi di suicidio: i rapporti con i familiari si sono di gran lunga inacerbiti, dai concittadini si tiene alla larga, ma quello che maggiormente l’affligge, fra i tanti mali fisici e la consapevolezza di avere un corpo deforme, di avere cioè “dispregevolissima tutta quella gran parte dell'uomo, che è la sola a cui guardino i più”, è una temporanea ma gravissima infermità agli occhi che gli impedisce di ingannare con gli studi il senso di solitudine che l’opprime. In questi anni il suo dolore raggiunge la punta estrema, come testimonia questo accorato lamento rivolto al solito pietoso amico, al Giordani, in una lettera del 26 aprile 1819: «Se in questo momento impazzissi -scrive il Leopardi-, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere né movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perché io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando che è un niente anche la mia disperazione».
Le tre conversioni
Questi tre anni sono decisivi non solo perché consolidano e rendono definitiva nel giovane poeta la concezione che la vita è dolore e noia, ma anche perché gli fanno maturare quegli orientamenti di pensiero e di sentimento che lo porteranno a tre specifiche “conversioni”: una di natura letteraria per la quale abbandona gli studi filologici per dedicarsi alla letteratura ed alla poesia; una di natura politica per la quale ripudia le idee conservatrici e reazionarie ed abbraccia le idee patriottiche dei liberali (la cui più nobile testimonianza è nei canti “All'Italia” e “Sopra il monumento di Dante”, entrambe del 1818); la terza di natura filosofico-religiosa per la quale rinnega la primitiva fede religiosa e fa propri l'ateismo e la concezione meccanicistica degli illuministi.
Il Leopardi si determinò quindi ben presto all’idea, divenuta col tempo incrollabile, che la vita è dolore e che, specie per l’uomo, meglio sarebbe il non venir mai al mondo.
La pagina più spietata in cui questo convincimento è spiegato in termini esasperati e forse paradossali, ci sembra essere la seguente nota dello “Zibaldone” datata da Bologna, 17-19 aprile 1826:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esiste è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere: non v'ha altro di buono che quel che non è, le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive...
Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento... Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta...
Lo spettacolo di tanta copia di vita all'entrare in questo giardino ci rallegra l'anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorevole che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l'essere.»
Il pessimismo
A questa drastica definizione del “male di vivere”, da cui discende ovviamente il concetto che la felicità non esiste se non nella vana speranza che sempre gli uomini nutrono per il loro avvenire, il Leopardi pervenne attraverso tre fasi che gli studiosi sogliono definire del dolore personale, del dolore storico e del dolore cosmico.
La prima è rappresentata soprattutto dai cosiddetti piccoli idilli (“L'infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”, “Il sogno”, “La vita solitaria”), composti tra il 1819 ed il 1821, e dal famosissimo “Il passero solitario”, che, pur essendo stato composto nel 1829 ed essendo comunemente inserito fra i “grandi idilli”, fu in effetti concepito tra il 1819 ed il 1821 e collocato dal poeta stesso insieme con i piccoli idilli: qui il Leopardi canta il proprio dolore e l'ineluttabilità della propria infelicità («...io questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m'affaccio, / e l'antica natura onnipossente, / che mi fece all'affanno. -A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d'altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.-»), ma non esclude, anzi lo afferma, che gli altri possano essere felici (« Tutta vestita a festa / la gioventù del loco / lascia le case, e per le vie si spande; / e mira ed è mirata, e in cor s'allegra. »).
La seconda fase è rappresentata dalle :
Operette morali” del 1824 nelle quali il Leopardi svolge una ironica ma accesa requisitoria contro il Progresso, che invece di favorire l'uomo offrendogli i mezzi di un maggior benessere, lo ha sostanzialmente allontanato dallo stato beato della primitiva ignoranza, durante il quale egli “sentiva senza avvertire” e fantasticava a suo piacimento finché la Ragione non gli svelò il triste vero della sua fatale infelicità; contro la Filosofia, che si affanna a convincere l'uomo di essere una creatura privilegiata mentre invece è la più infelice di tutte proprio perché è in grado di comprendere il suo malessere ed è fortemente desiderosa di piaceri di cui non potrà mai godere; contro la Natura che crea incessantemente nuovi individui per poi distruggerli non senza averli prima tormentati («So bene - così uno sperduto islandese apostrofa la Natura - che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.» e la Natura così risponde: «Tu mostri di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale, sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento»; ma a quest'altra obiezione dell'islandese la Natura non dà - perché non vuole o, forse, non sa dare - alcuna risposta: «Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima, dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?»).
La terza fase, quella del dolore cosmico, già abbozzata nelle Operette, si sviluppa nei grandi idilli
A Silvia”, “Le ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”), composti tra il 1828 ed il 1830: tutte le creature dell'universo soffrono perché coinvolte nel processo di trasformazione che la Natura è costretta ad operare per garantirsi un'esistenza perenne, ma l'uomo soffre maggiormente per tre motivi precisi: perché è dotato di sensibilità per cui avverte scientemente il proprio dolore; perché ha un irrefrenabile desiderio di felicità che non esiste; infine perché solo all'uomo tocca di raggiungere la punta estrema dell'infelicità, che consiste nella “noia” (“taedium vitae”), cioè nell’assenza totale di ogni sensazione sia di bene che di male: il pastore errante dell'Asia dice alla sua “greggia”:

Quando tu siedi
all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
-Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozioso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?-
La concezione della Natura
A questo punto della sua riflessione è chiaro che la Natura, che pure un tempo gli era apparsa benigna, in quanto aveva fornito l'uomo della fantasia e, quindi, della capacità di eludere la conoscenza della triste realtà creandosi miti e illusioni a proprio piacimento (ed era stata colpa dell’uomo e della sua stolta sete di conoscenza se la Ragione aveva poi squarciato il velo che nascondeva la verità), e poi indifferente verso i problemi dell'uomo, destinato anch'esso, come tutte le altre creature, all'incessante processo di “creazione e distruzione” che è indispensabile alla conservazione dell'universo, ora gli appaia matrigna nei confronti dell'uomo nel quale ha instillato il desiderio di felicità, pur sapendolo destinato all'infelicità, ed al quale ha dato un'acuta sensibilità ad avvertire il dolore, pur potendolo creare insensibile.
Questa avversione verso la Natura, questa ostilità ossessivamente sentita nei suoi confronti, egli ribadì anche nel suo estremo messaggio agli uomini, nel suo testamento morale, cioè ne “
La ginestra”, in cui esorta gli uomini ad accettare virilmente il proprio stato di infelicità e ad unirsi per contrastare fieramente la comune nemica, benché la lotta sia impari e la vittoria impossibile:

Nobile natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli oddi e l'ire
fraterne, ancor più gravi
d'ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de' mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aìta
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.
Filosofia - Religione - Morale
Naturalmente una così ostinata avversione contro la Natura e, praticamente, contro la vita dell'universo non reggerebbe se non inquadrata in una visione di radicale ateismo. Lo stesso Leopardi, in un'epoca in cui forse era ancora in qualche modo credente (1818?), aveva avvertito: «Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l'esistere? Ora così accadrebbe appunto all'uomo senza una vita futura».
Ed ancora qualche tempo dopo, quando aveva già rinnegata la fede cattolica ed aveva abbracciato l'ateismo illuministico, egli ribadiva la necessità di un credo religioso, se non altro per motivi morali: «La filosofia indipendente dalla religione - scrive in una notazione dello “Zibaldone” datata 16 giugno 1920 -, in sostanza non è altro che la dottrina della scelleraggine ragionata; e dico questo non parlando cristianamente, e come l'hanno detto tutti gli apologisti della religione, ma moralmente. Perché tutto il bello e il buono di questo mondo essendo pure illusioni, e la virtù, la giustizia, la magnanimità ecc. essendo puri fantasmi e sostanze immaginarie, quella scienza che viene a scoprire tutte queste verità che la natura aveva nascosto sotto un profondissimo arcano, se non sostituisce in loro luogo le rivelate, per necessità viene a concludere che il vero partito in questo mondo, è l'essere un perfetto egoista e il fare sempre quello che ci torna in maggior comodo e piacere». Ma, nonostante queste premesse, egli rinnegò ogni valore positivo prima attribuito alle religioni, in quanto queste promettono una felicità ultraterrena, mentre l'umanità aspira ad una felicità terrena, “da essere sperimentata dai sensi e da questo nostro animo tal quale egli è presentemente”. Il cristianesimo in particolare gli pare “più atto ad atterrire che a consolare o a rallegrare”.
La condizione dell’uomo si profila, così, disperata e dovrebbe logicamente convincere che il miglior partito sarebbe proprio il suicidio.
D’altra parte, una tentazione del genere il Leopardi la aveva avuta realmente da giovane. Sul piano della pura razionalità, il Leopardi accetta codesta conclusione, ma la respinge energicamente con la forza del sentimento. Infatti, nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio”, che è del 1827, il Leopardi non può non convenire sulla giustezza delle argomentazioni di Porfirio in favore del suicidio, ma finisce con l’accettare le ragioni del sentimento enunciate da Plotino.
Ecco uno squarcio del Dialogo da cui si comprende la posizione di entrambi i protagonisti:
«Porfirio: La natura vieta l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella la volontà o potere di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere. Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio della morte; essa non ci ha dato meno odio dell'infelicità, e amore del nostro meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni nostro amore o odio; e che non si sfugge la morte, né la vita si ama, per se medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio, e odio del male e del danno nostro. Come dunque può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità in quel sol modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi dal mondo; perché mentre son vivo io non la posso schifare [= schivare]. E come sarà vero che la natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio meglio; e di ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e mala, poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità mi vale e mi conduce in fatto?
...........................................................................................................
Plotino: Sia ragionevole l'uccidersi; sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo.
E perché anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone famigliari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno in questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra, che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non esser atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri: non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che questa azione di privarsi di vita apparisce il più schietto, il più sordido, e certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo...
Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte, che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.»
Le illusioni
In effetti il Leopardi amava la vita e questo suo amore noi non dobbiamo mai trascurare di considerare se veramente ci preme di penetrare nella sua poesia e se vogliamo spiegarci quei quadretti di vita così luminosi e gioiosamente rivestiti dei più splendidi colori a dispetto dell'amara conclusione che la vita è male. Tutto questo verificheremo a proposito dei “Canti”. Per ora ci basti ricordare che anche il Leopardi, come già il Foscolo, suggerisce di crearsi delle “illusioni”, cari compagni dell'esistenza, non tanto per dare un senso e un valore alla vita, ma per trarne conforto nell'affrontare i mali che essa ci presenta. Purtroppo al Leopardi le illusioni non furono di alcun sollievo perché tutte le distrusse sotto i colpi della fiera ragione, ma nondimeno nessun altro poeta le dipinse così affascinanti e lusingatrici come seppe dipingerle lui.
Il Leopardi fu un filosofo?
A questo punto viene spontanea una domanda: il Leopardi fu anche un filosofo? Egli stesso, alludendo alle sue teorie sull'uomo, sulla natura, sulla storia, definisce in più occasioni il complesso delle sue idee un “sistema di pensiero”, volendo con ciò dire di sentirsi filosofo. D'altra parte la sua consuetudine con i testi filosofici non fu né sporadica né superficiale; e per quanto egli affermi di aver tratto molti insegnamenti soprattutto dalla filosofia classica, è fuor di dubbio che conobbe assai bene le opere del Montesquieu, del Voltaire, del Rousseau e di tanti altri filosofi francesi contemporanei, senza escludere i tedeschi, per i quali è anzi da notare una sorprendente analogia fra il pessimismo del Leopardi e quello del coetaneo Schopenhauer (1788-1860).
Non sono mancati studiosi di valore che hanno assecondato il desiderio del Leopardi di volersi considerare anche un filosofo, come per esempio l'Agnoli, quando afferma: “Certo al Leopardi è mancata la severa preparazione, l’ordinamento sistematico, il rigore di metodo, il magnifico paludamento dialettico che si ammirano nelle opere filosofiche dei due scrittori tedeschi [Hartmann e Schopenhauer], ma non crediamo per questo che gli si possa negare la facoltà di analisi; certo però questa si palesa intera e sicura specialmente quand’egli applica l'osservazione al mondo interiore. Nel Leopardi lottarono due facoltà ugualmente possenti: la ragione e il sentimento. Le sue incertezze, le sue esitazioni sono d'origine psicologica. Tanto è vero che, superato il dissidio interno, vinto il sentimento dalla ragione, la filosofia leopardiana corre filata alle naturali sue conclusioni, e il Leopardi si mostra un ragionatore diritto, poderoso e indipendente, almeno nelle conclusioni”.
Noi siamo invece del parere che proprio la mancanza o la fragilità di un “ordinamento sistematico” e di un “rigore di metodo”, lamentata dallo stesso Agnoli e condivisa dai più, sia di per sé sufficiente a negare al Leopardi il titolo di filosofo. Per noi non è vero che nel Leopardi la ragione e il sentimento furono “due facoltà ugualmente possenti” e riteniamo invece che il sentimento sovrastò enormemente la ragione ed anzi fu la causa primaria della fiacchezza di questa. E' difficile non rilevare, anche nei dialoghi delle “Operette Morali”, che il ragionamento seguito dall’Autore, per quanto serrato e rigoroso, non poggi su assiomi che abbiano dignità filosofica e si risolva invece in una quasi lirica rappresentazione del sentimento del dolore. Il sentimento prevale sempre sulla ragione e detta le conclusioni, come nel “Dialogo di Plotino e di Porfirio” da noi già citato. Ciò può dipendere o dalla straordinaria potenza del sentimento o dalla debolezza della ragione. Certo è che, se pure questa avesse avuto la forza di filosofare, il sentimento gliel'ha impedito. E non è mai capitato l'inverso, che cioè fosse la ragione a conculcare il sentimento, com'è facilmente dimostrabile considerando i “Canti” leopardiani, in cui lo sfogo lirico prorompe sicuro, travolgendo nettamente i tentativi della ragione di incunearsi con le sue riflessioni.
Per noi il Leopardi fu solamente un grande poeta. D’altronde la consistenza del suo “sistema”, né originale né profondo, farebbe di lui un filosofo di ben modesta levatura e questa figura mediocre contrasterebbe tristemente, malinconicamente con l'immagine superba del suo Genio.
La poetica
Occupiamoci ora della “poetica” del Leopardi.
I primi scritti teorici sulla poesia risalgono agli anni 1816-18, all'epoca, cioè, in cui più accesa era la polemica fra i neoclassici ed i romantici. Si tratta di una “Lettera ai sigg. Compilatori della Biblioteca Italiana in risposta a quella di Mad. la baronessa Di Stäel Holstein ai medesimi”, che non fu mai pubblicata né dalla rivista milanese, cui era stata indirizzata, né dal Leopardi; e del poderoso “
Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica”, composto nel 1818 ed affidato all’editore milanese Stella perché lo pubblicasse o sulla rivista “ Spettatore” o in opuscolo a parte, ma che non fu mai pubblicato vivente l’Autore.
Entrambi gli scritti furono pubblicati postumi nel 1906. Più significative indicazioni sono però contenute in varie pagine dello “Zibaldone”, in cui la poetica del Leopardi si va sempre più delineando in termini romantici, laddove nei primi scritti appare dichiaratamente, sia pure con qualche “distinguo”, favorevole ai classicisti. D’altra parte l’iniziale formazione letteraria del Poeta, così profondamente legata agli studi di filologia classica, non poteva sortire effetti diversi.
Nella “Lettera” il Leopardi si dichiara esplicitamente d’accordo con la tesi del Giordani, secondo la quale la perfezione raggiunta dagli autori classici antichi nell’arte è da considerare definitiva e incapace di ulteriore progresso: “
Se gli scienziati italiani s'istruiscono con diligenza dello stato delle scienze loro presso gli stranieri, questo è perché le scienze possono fare e fanno progressi tutto giorno, dove che la letteratura non può farne, cosa che l’Italiano [il Giordani] autore della lettera a voi indirizzata ha dopo infiniti altri dimostrato egregiamente, e a cui non so per qual ragione la illustre Dama abbia fatto vista di non badare”. Ma il Leopardi condivide l’accusa della De Stäel, secondo cui gli Italiani, allo stato presente, non sanno far altro che imitare stupidamente gli antichi, anche se nega risolutamente che il rimedio potrebbe trovarsi nel conoscere meglio le lettere europee moderne: “Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta, non studio di autori e disaminamento di gusti stranieri. O noi sentiamo l'ardore di quella divina scintilla, e la forza di quel vivissimo impulso, o non lo sentiamo. Se sì, un soverchio studio delle letterature straniere non può servire ad altro che a impedirci di pensare, e di creare di per noi stessi; se no, tutti gli scrittori del mondo non ci faranno poeti in dispetto della natura... noi non abbiamo mai potuto pareggiare gli antichi... perché essi quando volevano descrivere il cielo, il mare, le campagne, si metteano ad osservarle, e noi pigliamo in mano un poeta, e quando voleano ritrarre una passione s'immaginavano di sentirla, e noi ci facciamo a leggere una tragedia, e quando volevano parlare dell’universo vi pensavano sopra, e noi pensiamo sopra il modo in che essi ne hanno parlato... Ebbene date dunque agl'italiani altri modelli, fate che leggano gli autori stranieri: questo è mezzo certo per aver novità e cacciare in bando il rancidume. Vanissimo consiglio! Apriamo tutti i canali della letteratura straniera, facciamo sgorgare ne' nostri campi tutte le acque del settentrione, Italia in un baleno ne sarà dilagata, tutti i poetuzzi Italiani correranno in frotta a berne, e a disguazzarvi, e se n'empieranno sino alla gola... si aumenterà del doppio il vocabolario delle nostre frasi e delle nostre idee; e dopo dieci anni tutte le frasi e tutte le idee aggiunte diverranno viete e comuni; e noi torneremo là onde eravamo partiti, o più veramente ci inoltreremo buon tratto verso il pessimo”.
Il “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica”, che doveva inizialmente essere una lettera aperta di risposta alle argomentazioni del Cavaliere Lodovico Di Breme sulla poesia moderna pubblicate sullo “Spettatore italiano” e che invece si ampliò in un’opera organica, svolge una serrata critica ai risultati ottenuti dai poeti romantici. Basta dare una scorsa ai titoli di alcuni capitoli che compongono il Discorso per rilevare la durezza con cui il Leopardi tratta i poeti romantici: “
L'ufficio del poeta è imitar la natura. I romantici al contrario cantano l'incivilimento"; "La corruzione dei gusti fa sì che la poesia romantica diletti un infinito numero di persone”; “La seconda cagione di questo diletto è la rozzezza di molti cuori e di molte fantasie”; “
La terza cagione è la novità della poesia romantica, laddove l'assuefazione ha fiaccato il diletto della poesia classica”; “I romantici cercano, per commuovere i lettori, le più strane cose che si possano immaginare e gli eccessi di qualsivoglia genere; e ne fanno materia di poesia”; “ La psicologia, caos di sofisticherie e di frenesie, è una delle principalissime singolarità usate dai romantici”; “I romantici, con la loro impudica ostentazione della sensibilità, hanno fatta la poesia di celeste e divina vergine verissima baldracca”.
Nel “Discorso” tuttavia sono già fissati alcuni concetti fondamentali della originale poetica leopardiana, che sostanzialmente si avvicinerà sempre di più all’essenza della poetica romantica. E' già chiaro, ad esempio, l’orientamento a distinguere fra “poesia di immaginazione” e “poesia di sentimento” secondo come era stato teorizzato dallo Schlegel, dalla Stäel e, in Italia, dal Sismondi; c'è l’affermazione che la vera poesia è quella di “immaginazione”, tipica degli antichi, ingenua e istintiva, e non già quella del “sentimento”, propria delle età civili, dei moderni (“non cercheremo la natura e le illusioni di un tempo dove tutto è civiltà e ragione e scienza, e dove è scemato e scema l'uso dell'immaginazione”); c'è ancora l'affermazione che la condizione psicologica degli antichi è simile a quella dei fanciulli dell’età civile (“quello che furono gli antichi siamo stati noi tutti, dico fanciulli e partecipi di quell'ignoranza che infiamma la fantasia”) e che pertanto agli uomini moderni non resta che ispirarsi ai ricordi dell'infanzia se vogliono fare una poesia che si avvicini, per quanto possibile, a quella veramente autentica degli antichi (“io senza fallo... mi crederei divino poeta se quelle immagini che vidi e quei moti che sentii nella fanciullezza, sapessi e ritrargli al vivo nelle scritture e suscitarli tali e quali in altrui”).
Successivamente il Leopardi tornerà spesso su questi concetti e li approfondirà in varie annotazioni dello “Zibaldone”, come in questa (datata Recanati 14 dicembre 1928) in cui ricorre il tema della “rimembranza”: “
Un oggetto qualunque, per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in sé, sarà poeticissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual ch'egli sia, non può essere poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago”.
A questo punto ci sembra opportuno tracciare una sintesi, più o meno schematica, della poetica del Leopardi, per scrupolo di chiarezza.
Il Leopardi distingue, dunque, la poesia in “poesia d'immaginazione” e “poesia di sentimento”: la prima nasce dalle sensazioni primordiali dell’umanità ed è espressa con immagini di pura fantasia; la seconda nasce da stati d'animo più complessi e sofisticati ed è espressa in forme elaborate ed artificiose: la prima è tipica delle età antiche, irrazionali, “ignoranti”; la seconda delle età civili, in cui la ragione ha prevalso sulla fantasia ed il tragico vero ha inibito le illusioni.
Da ciò discende che la vera poesia è ormai preclusa all'uomo moderno, il quale, però, pur dispone di una risorsa per far poesia all’uso antico: egli può scavare nella memoria le impressioni, le emozioni che la natura suscitò in lui quand'era fanciullo, e riviverle e rappresentarle con immediatezza con il loro stesso linguaggio, cioè con un linguaggio pressoché infantile, suggestivo nella sua indeterminatezza, libero il più possibile da ogni ingerenza culturale. Da ciò discende ancora che l’unico “genere” poetico che l’uomo moderno può e deve usare è quello “lirico”, dato che quelli “epico” e “drammatico” impegnano eccessivamente la ragione e la cultura del poeta.
Interessante è, a questo riguardo, ricordare la teoria leopardiana sulle lingue: le lingue nascono tutte poetiche, cioè tali da rispondere alle esigenze fantastiche degli uomini primitivi; man mano che l’uso della ragione ha consentito all’uomo di avviare il cammino del cosiddetto progresso e lo ha reso sempre più consapevole dei fenomeni naturali, le lingue si son dovute adattare alle nuove esigenze di natura scientifica e sono perciò divenute sempre più razionali, precise, oggettive, fredde, impoetiche. Le lingue poetiche erano quelle degli antichi, mentre le lingue moderne sono scientifiche e razionali, inadatte alla poesia. Fra queste ultime si salva in qualche modo quella italiana, perché l’Italia è indietro agli altri paesi europei in fatto di progresso scientifico. Tuttavia, anche nell’uso della lingua il poeta moderno ha qualche risorsa da spendere e questa consiste nell’usare un linguaggio fanciullesco, istintivo, che adoperi i vocaboli non nel loro reale significato, ma nel significato che avevano nell’infanzia dell’autore, e adoperi anche vocaboli arcaici, propri dell’età fanciullesca della nazione, ormai in disuso e perciò capaci di mille sensazioni, di mille evocazioni, capaci di creare un’atmosfera di lontananza ricca di mille suggestioni.
I CANTI (1A PARTE)
I Canti sono complessivamente quarantuno e, vivente l’Autore, furono pubblicati in varie circostanze e parzialmente, man mano che venivano composti. L'ultima edizione curata dal Leopardi stesso risale al 1835 e fu opera dell’editore Saverio Starita di Napoli. Questa edizione comprendeva trentanove canti, non essendovi inclusi “La ginestra” e “Il tramonto della luna”, che furono aggiunti nella prima edizione apparsa dopo la morte del Poeta, a cura di Antonio Ranieri, per i tipi dell’editore Felice Le Monnier di Firenze, nel 1844 (con questa edizione dei Canti leopardiani il Le Monnier inaugurò la sua “Biblioteca Nazionale”).
Tanto l’edizione del '35 che quella del '44 non seguono scrupolosamente la cronologia di composizione dei Canti, ma piuttosto un itinerario ideale voluto dal Leopardi. Ciò pone un problema a chi voglia presentare i Canti con intendimento didattico: se sia più giusto rispettare l’ultima volontà dell’Autore o invece l’itinerario naturale e reale da lui seguito nella composizione delle liriche. E come sempre capita in queste circostanze, i pareri degli studiosi sono discordi. Tanto per fare qualche esempio, ci piace riferire gli opposti pareri di due valorosi studiosi leopardiani, a metà fra il Leopardi e noi: Giuseppe Piergili si rammarica di dover assai spesso “vedere stravolto l’ordine dei Canti, stabilito dall’Autore, e quel frammento di poesia all'apertura del libro, nel posto della canzone All’Italia, alla quale egli diede sempre il primo luogo, offende il senso da noi acquisito”; e di rimando Giovanni Tambara osserva che “quando l’opera, come nel caso nostro, è una raccolta di componimenti lirici che rispecchiano via via lo svolgersi di un sentimento o, se così piace, la storia di un’anima, la loro disposizione cronologica, oltre a rendersi necessaria per i fini didattici, costituisce essa stessa una parte integrante del commento”. Noi non abbiamo il compito di approntare una edizione dei “Canti”, ma certamente quello di presentare ai nostri lettori lo “svolgimento della poesia leopardiana”, e perciò non possiamo esimerci in alcun modo dal seguire la cronologia delle composizioni.
I primi canti
Nel 1816 il Leopardi compose una cantica in cinque canti in terzine (sul modello di Dante e del Petrarca dei “Trionfi”), intitolata “Appressamento della Morte”, ma ritenne di dover includere nei Canti solo i primi 76 versi col titolo di “Frammento”: l’opera completa, con questi primi versi rinnovati nel contenuto e nella forma, ne rimase fuori. In questo frammento appare una donna lietissima che va incontro ad un’ “amorosa meta”: all’improvviso si scatena un furioso temporale che la respinge indietro e la fa diventar di pietra. In questi versi, che ben fanno da prologo ai Canti, già si afferma il sentimento doloroso della vita e la concezione che la felicità è mera illusione e cessa all’apparir del vero:
Come fuggiste, o belle ore serene!
Dilettevol quaggiù null'altro dura,
né si ferma giammai, se non la spene.
Nel dicembre del 1817 Gertrude Cassi, cugina del poeta, fu ospite a Recanati di casa Leopardi per alcuni giorni (dall’11 al 14) e Giacomo se ne invaghì follemente. La notte stessa del giorno della partenza della donna, Giacomo cominciò a scrivere “Il primo amore”, in terzine, col quale intese registrare la “storia” del suo innamoramento, dallo scoppio della passione alla delusione dell’allontanamento ed alle rimembranze di quella dolce quanto angosciosa vicenda:

Tornami a mente il dì che la battaglia
d'amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!
........ .........................................
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
strinsi il cor con la mano, e sospirai.
................................................
Vive quel foco ancor, vive l'affetto,
spira nel pensier mio la bella imago,
da cui, se non celeste, altro diletto
giammai non ebbi, e sol di lei m'appago.

L’anno dopo la Gertrude tornò a Recanati per una breve visita e l’amore per lei, mai sopito in Giacomo, tornò fieramente e fece ripiombare il giovane nell’angoscia quando si rinnovò l’amara partenza. In questa occasione il Poeta compose l’elegia “Dove son? dove fui?”, i cui versi 40-54, felicemente ritoccati, introdusse nei Canti ancora come “Frammento”. Il Leopardi racconta la propria disperazione per l'imminente partenza dell'amata e come egli, fuor di sé, invocasse l'arrivo di una tempesta che costringesse la donna a ritardare il viaggio:

Io qui vagando al limitare intorno,
invan la pioggia invoco e la tempesta,
acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Le canzoni patriottiche
Verso la fine di questo stesso anno 1818 il Leopardi, che ormai aveva maturato la cosiddetta conversione politica e da reazionario e papalino s'era fatto liberale e patriota (in una lettera al Giordani del 21 marzo 1817 aveva affermato: “Mia patria è l'Italia, per la quale io ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto italiano”), compose le due famose canzoni patriottiche, “All'Italia” e “Sopra il monumento di Dante”, con le quali intese sempre aprire la raccolta dei Canti nelle edizioni da lui curate. Sono canti sinceri e commossi che versano lacrime sulle sciagure della Patria, avvilita ed asservita, ma vibrano anche di fieri impeti di ribellione e di caldi accenti di nobile speranza. In entrambe le canzoni il Poeta lancia i suoi strali contro i Francesi, la cui dominazione era però già cessata da tre anni, anziché contro gli Austriaci, forse perché ai primi aveva da rinfacciare l’oltraggio più indecoroso che mai si fosse fatto all’Italia, quello di strapparle il fiore della gioventù per portarlo a morire in terre straniere per estranei destini; ma anche perché non era prudente in quegli anni chiamare in causa gli Austriaci, come par di capire da una lettera che il Leopardi indirizzò a Pietro Brighenti in data 21 aprile 1820, nella quale si legge: «Quelli che presero in sinistro la mia canzone sul monumento di Dante, fecero male, secondo me, perché le dico espressamente ch'io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone; ma parte per amore del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzione; parte perché, non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, io metteva in scena altri attori come per pretesto e figura». In entrambe le poesia aleggia il senso foscoliano della validità delle memorie patrie, delle glorie passate, per svegliare gli Italiani dal torpore del lungo servaggio: alla nostalgia dell’umanista per le antiche età si accoppiano la sconsolata consapevolezza della decadenza dell’Italia e la non spenta aspirazione verso destini migliori:
O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l'erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
i nostri padri antichi...
............................................
Come cadesti o quando
da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessuno de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo combatterò, procomberò sol io.
Dammi. o ciel, che sia foco
agl'italici petti il sangue mio.

dirà nella prima canzone; e nella seconda, dopo aver elogiato l’iniziativa di quanti vogliono erigere in Firenze un monumento a Dante, si rivolge allo stesso sommo Poeta per dirgli di rallegrarsi di questo monumento non tanto perché rappresenta un doveroso riconoscimento alla sua fama, ma perché esso può scuotere i sonnacchiosi Italiani:
Ma non per te; per questa ti rallegri
povera patria tua, s'unqua l'esempio
degli avi e de' parenti
ponga ne' figli sonnacchiosi ed egri
tanto valor che un tratto alzino il viso.
Ed aggiunge più avanti:
In eterno perimmo? e il nostro scorno
non ha verun confine?
Io mentre viva andrò sclamando intorno,
volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;
mira queste ruine
e le carte e le tele e i marmi e i templi;
pensa qual terra premi; e se destarti
non può la luce di cotali esempli,
che stai? levati e parti.
Non si conviene a sì corrotta usanza
questa d'animi eccelsi altrice e scola:
se di codardi è stanza,
meglio l'è rimaner vedova e sola.

Ai critici moderni queste due canzoni non piacciono molto e sono in molti a condividere il giudizio del Pazzaglia, secondo il quale in “All’Italia” (ma l’osservazione può riferirsi anche alla seconda canzone) v’è “il prevalere di un’eloquenza grandiosa, che appare spesso enfatica. L'ispirazione è sincera... ma è tradita da un linguaggio convenzionale, legato a una tradizione retorica ormai consunta, non scavato e ritrovato nel profondo”. Ma i contemporanei furono di ben diverso avviso, tanto che il Giordani potè scrivere all’amico che non aveva “mai (mai mai) veduto né poesia, né cosa alcuna d’ingegno tanto ammirata ed esaltata”.
I piccoli idilli
Appartengono agli anni che vanno dal 1819 al 1821 i cosiddetti “piccoli idilli” (secondo altri sarebbero tutti del 1819), e cioè “L'infinito”, “La sera del dì di festa”, “Alla luna”, “Il sogno” e “La vita solitaria”. Fra questi si può anche annoverare un Frammento, composto nel 1819, che il Poeta pubblicò con gli Idilli nel 1826, dandogli il titolo di “Lo spavento notturno”, eliminandolo poi dall’edizione fiorentina del 1831 e riproponendolo infine, appunto come “Frammento”, distinto dagli Idilli (occupa infatti il XXXVII posto della raccolta) nell'edizione del 1835.
L’idillio è un componimento poetico che rappresenta, in un’atmosfera di pacata serenità, un quadretto georgico. Il Leopardi lo adottò per confidare “situazioni, affezioni, avventure storiche dell'animo” suo. Con questi piccoli “Idilli” siamo già su altissime vette di poesia.
Ne “L'infinito” il Leopardi descrive un paesaggio immaginato fatto di “interminati spazi” e “sovrumani silenzi” e “profondissima quiete”: egli si trova sul Monte Tabor a contemplare, in solitudine, l’estremo orizzonte, ma una siepe gli impedisce in parte la vista. Proprio questo ostacolo materiale dà la lena all’immaginazione che può così immergersi nella profondità dell'infinito spaziale. Ma il leggero stormire delle foglie agitate da un tenue venticello riconduce il cuore alla realtà presente per poi risospingerlo e sommergerlo nell’infinità del tempo: “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, conclude il Poeta.
In questo idillio, che è del 1819, par di cogliere un'ansia quasi religiosa di eternità, che non è, come nel Foscolo, intimamente connessa col desiderio di gloria, ma è piuttosto avvertita come inconscio desiderio di totale dissolvimento nel Nulla per poterne condividere appunto l’eternità.
In "La sera del dì di festa”, forse del 1820, il Poeta ci offre anzitutto una di quelle descrizioni naturalistiche che “ti fanno amare la vita e la Natura”:
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna.
Ma tanta pace non può lenire le pene dell’animo suo, che si travaglia per un amore che sente impossibile, ed il Poeta lancia un grido disperato:
...Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate!
Tuttavia “ il solitario canto / dell'artigian, che riede a tarda notte, / dopo i sollazzi, al suo povero ostello ”, lo induce a riflettere sulla condizione dell'esistenza umana, “ a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia ”, sia che si tratti di un semplice “giorno festivo” a cui succede quello “volgare”, sia che si tratti dei popoli antichi, dei nostri avi famosi, dell'impero di Roma, il cui “fragorio” “n'andò per la terra e l'oceano”. E torna col pensiero alla sua prima età, quando, dopo il dì della festa, vegliando e piangendo sul suo triste destino, udiva un canto “lontanando morire a poco a poco” e gli si stringeva il cuore.
Se il primo degli Idilli ha toccato il tema dell’ infinito, dell’ “indefinito” che il Poeta considerò sempre essenziale alla poesia, “Alla Luna” richiama l’altro tema altrettanto caro al Leopardi, quello della “rimembranza”.
Il Poeta torna sul Monte Tabor per parlare alla Luna: l’animo è in pena ma rassegnato al suo dolore, tant’è che gli occhi non sono più velati di lacrime, come l'anno precedente, quando il volto della Luna gli appariva “nebuloso e tremulo”. Il Poeta sente che gli giova la ricordanza del tempo passato, anche se questo fu tristo e l’affanno dura ancora al presente, perché, essendo ancora giovane, ha poco da ricordare e molto da sperare. La Luna sembra indifferente al lamento del Poeta e impassibile continua a rischiarare la selva come fa da sempre.
“Il sogno”, forse del 1821, fu probabilmente ispirato alla vicenda di Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, da qualche anno strappata, in giovanissima età, alla vita per un male sottile. Nella sorte di Teresa il Poeta vedrà riflessa la sua stessa storia terrena, il suo destino, come chiaramente appare nel canto successivo, “A Silvia”. Qui, ne “Il sogno”, esprime piuttosto il suo profondo bisogno d'amore e l’impossibilità di poterne godere: ha sognato di essersi incontrato con la giovinetta morta e di averle chiesto se ella ebbe mai pietà del suo amore; la fanciulla annuisce ed il Poeta tenta di stringersela al cuore, dimentico che ella ormai non è più di questa vita.
Ancora quadretti suggestivi di un paesaggio splendente di lievi colori e ricco di teneri profumi si ritrovano in “La vita solitaria” e ancora su di uno sfondo così placido e sereno palpita dolorante il cuore del Poeta:
...Al garzoncello il core
di vergine speranza e di desio
balza nel petto; e già s'accinge all'opra
di questa vita come a danza o gioco
il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
non altro convenia che il pianger sempre.

Nel Frammento “Odi, Melisso” il giovane Alceta confida all’amico Melisso di aver sognato che la luna cadesse dal cielo e si spegnesse sul suo campo, lasciando un terribile vuoto fra le stelle: l’ingenuo pensa che il sogno gli ha forse rivelato una verità, ma Melisso scherzosamente gli fa notare che in cielo
...ci ha tante stelle,
che picciol danno è cader l'una o l'altra
di loro e mille rimaner. Ma sola
ha questa luna in ciel, che da nessuno
cader fu vista mai, se non in sogno.
Concepito e composto in un tempo in cui il Poeta andava meditando intorno alle differenti condizioni dello spirito umano nelle età primitive e civili - osserva il Tambara -, vien fatto di pensare che sotto la forma idillica esso nasconda il concetto delle forti commozioni che son proprie dell'animo naturalmente ingenuo (Alceta), e dell'indifferenza che è propria di quello illuminato dalla ragione (Melisso)”.
Le canzoni storico-filosofiche
Segue un gruppo di canzoni storico-filosofiche nelle quali il Poeta condanna severamente la ragione e la civiltà che hanno corrotto il genere umano ed esalta le età primitive ed eroiche.
La prima di queste canzoni, “Ad Angelo Mai”, fu scritta in occasione del ritrovamento di ampi frammenti del “De Republica” di Cicerone ad opera del famoso e fortunato filologo Angelo Mai, bibliotecario della Vaticana di Roma: dalle felici scoperte di costui rivivono le imprese dei nostri magnanimi avi che crudamente contrastano con la viltà presente:
...Anime prodi,
ai tetti vostri inonorata, immonda
plebe successe; al vostro sangue è scherno
e d'opra e di parola
ogni valor; di vostre eterne lodi
né rossor più né invidia; ozio circonda
i monumenti vostri; e di viltade
siam fatti esempio alla futura etade.

Certo, fra l’età della virginale felicità dei primitivi e il tempo attuale superbo di scienza e meschino di cuore, c'è stata una civiltà media “dove un certo equilibrio fra la ragione e la natura -dirà il Leopardi in una nota dello “Zibaldone”-, una certa mezzana ignoranza, mantengano quanto è possibile delle credenze ed errori naturali... ed escludano e scaccino gli errori artifiziali, almeno i più gravi, importanti e barbarizzanti”. Codesta “mezzana ignoranza” ha consentito lo sbocciare della poesia di Dante, “al cui sdegno e dolore fu più l'averno che la terra amico”, della poesia del Petrarca, “a cui fu vita il pianto”, dell'ardimento di Colombo, “ligure ardita prole”, e ancora della poesia dell'Ariosto, “Cantor vago dell'arme e degli amori, / che in età della nostra assai men trista / empier la vita di felici errori” , e del Tasso, dopo il quale non è sorto più alcuno degno di portare il nome d'italiano, tranne l’Alfieri, che “in su la scena mosse guerra a' tiranni”. A lui il Leopardi dedica la parte finale del canto, che si conclude con un invito ad Angelo Mai di continuare nella sua opera di ricerca delle testimonianze dei fasti antichi:

Vittorio mio, questa per te non era
età né suolo. Altri anni ed altro seggio
conviene agli alti ingegni. Or di riposo
paghi viviamo, e scorti
da mediocrità: sceso il sapiente
e salita è la turba a un sol confine,
che il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
segui; risveglia i morti,
poi che dormono i vivi; arma le spente
lingue dei prischi eroi; tanto che in fine
questo secol di fango o vita agogni
e sorga ad atti illustri, o si vergogni.

“Nelle nozze della sorella Paolina” fu composta per le imminenti nozze della sorella prediletta con l’urbinate Andrea Peroli (matrimonio che però andò a monte). Il Poeta ammonisce la futura sposa che i figli che le nasceranno saranno “o miseri o codardi”: si prodighi perché siano miseri. Rivolgendosi poi a tutte le donne italiane, ricorda loro che la bellezza e la saggezza muliebri hanno sempre sortito negli uomini mirabili effetti di virtù: perché mai nel presente sembra inefficace la loro influenza? La patria si aspetta da loro non poco: sdegnino l’uomo vile e si rincrescano d’esser “nomate madri d'imbelle prole”, educando i propri figli, come già le madri spartane, “i danni e il pianto della virtù a tollerar” e a disprezzare “quel che pregia e cole la vergognosa età”.
"A un vincitore nel pallone” è dedicata ad un giovane campione nello sport del pallone (assai in voga in quegli anni e non solo a Recanati), al quale il Poeta raccomanda di esser fiero degli allori conseguiti, anche se solo in un giuoco, perché lo sport rafforza il corpo ed educa alla virtù, e se i Greci a Maratona riuscirono nell'impresa di salvare la loro patria, ciò fu dovuto proprio al loro costume di esercitarsi nelle palestre in tempo di pace. Nell’Italia contemporanea la tendenza dominante è di immergersi totalmente nell'ozio e tutto lascia credere che la rovina della nostra patria sia prossima: non voglia il campione sopravvivere a tale sfacelo.
In “Bruto minore” il Poeta rievoca l'eroica morte di Bruto che, dopo la battaglia di Filippi, persa ogni speranza di far trionfare la virtù repubblicana contro i tiranni, per non cadere nelle mani degli avversari, ordinò ad un suo luogotenente di dargli la morte, dopo aver inveito contro i Numi che siedono piuttosto a tutela degli empi che dei giusti. La religione vieta il suicidio, ma l'animo forte non si lascia intimidire dalle minacce degli Dei, e Bruto afferma risoluto di volere una morte totale, che annienti cioè non solo il suo corpo, ma la stessa sua fama, dal momento che non gli pare onorevole il ricordo di “putridi nepoti”:
..mal s'affida
a putridi nepoti
l'onor d'egregie menti e la suprema
de' miseri vendetta. A me dintorno
le penne il bruno augello avido roti;
prema la fera, e il nembo
tratti l'ignota spoglia:
e l'aura il nome e la memoria accoglia.
In “Alla primavera o delle favole antiche” il Poeta lamenta che se la primavera torna puntualmente per gli uomini, non tornano invece più le antiche età così ricche dei lieti inganni della immaginazione: la natura, nella sua vita primitiva, è ormai spenta per sempre; ma se vive d'una nuova vita, come sembrerebbe per il ritorno della primavera, allora ascolti “le cure infelici e i fati indegni” dei mortali e renda allo spirito del Poeta “la favilla antica”, cioè l'entusiasmo giovanile, sempre che in essa - in cielo o in terra o nell’ “equoreo seno”- ci sia “cosa veruna, pietosa no de' nostri affanni, ma spettatrice almeno”. Nota lo Zumbini che negli altri canti storico-filosofici di questo periodo il Leopardi “ammira le virtù civili, l’incomparabile carità di patria, l'amore immenso alla gloria, tutti insomma quelli che egli stesso chiamava forti errori; qui ritrae in particolare quei dolci inganni dell’immaginazione e del cuore che sono detti ameni errori nel suo stesso linguaggio. Errori i primi, errori i secondi, salvo che gli uni facevano bella la vita nei consorzi civili, gli altri in grembo alla natura.”
Rientrano pur sempre nel ciclo delle canzoni cosiddette storico- filosofiche l’ “Ultimo canto di Saffo” e l’ “Inno ai Patriarchi”, ma con due sostanziali differenze. Il primo canto, infatti, pur riaffermando il concetto che la consapevolezza della trista realtà spazza via ogni piacevole inganno dell’immaginazione ed accusando, quindi, l’infausto ufficio della conoscenza, svolge il tema dell’infelicità utilizzando la leggenda di Saffo, antica poetessa, cui il “verecondo raggio della cadente luna” e lo spuntare “fra la tacita selva in su la rupe” del “nunzio del giorno” furono “dilettose e care sembianze” agli occhi suoi, ma solo fino a quando le furono ignoti “l’erinni e il fato”, fino a quando, cioè, non dové scoprire che la bruttezza del suo corpo, nonostante la grande bellezza dell’anima, costituiva una insormontabile barriera tra lei ed il giovane amato Faone.
Non c’è, quindi, nel canto il contrasto fra le antiche età e la recente, ma quello fra lo stato sognante d'una grande ingenua anima e lo stato d’una indifesa creatura che prende coscienza dell’avversa realtà. E' chiaro che questo canto sia profondamente autobiografico e perciò più palpitante, più commosso, più desolato nell'amara conclusione: Saffo, cioè il Leopardi, considera con fredda e spietata lucidità, ma non senza un fremito di tacita ribellione, la triste sorte che tocca ad un essere deforme innanzi al quale la stessa natura si ritrae inorridita:
...A me non ride
l'aprico margo, e dall'eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de' colorati augelli, e non de' faggi
il murmure saluta: e dove all'ombra
degl'inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l'odorate spiagge.

Si chiede allora di qual colpa si fosse macchiata bambina, od anche prima di nascere, per meritare siffatto destino, ma non ne trova alcuna ed è costretta a riconoscere il mistero che avvolge la vita umana:
...Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de' celesti si posa.
E solo nella morte, cessati i dilettosi inganni della fanciullezza, c'è il termine d'ogni umana sofferenza:
...Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
han la tenaria Diva,
e l'atra notte, e la silente riva.

La particolarità che, invece, si riscontra nell’ “Inno ai Patriarchi o de' principii del genere umano” consiste nel fatto che il Poeta nega l'esistenza della mitica età dell’oro, cantata dai poeti, per affermare che l'umanità tante volte ha avuto l’opportunità di vivere, secondo natura, in uno stato di felicità e sempre per sua colpa se ne è distaccata per farsi civile ed infelice. I protagonisti di questo canto sono personaggi biblici: con Adamo l’umanità era felice, ma Caino, fondando la prima città e dando il via alla creazione delle istituzioni civili, gettò le basi della corruzione dell’umanità che provocò la punizione divina ed il diluvio universale; Noè tentò di ricondurre l’umanità allo stato primitivo, ma ancora gli uomini vollero sperimentare il progresso e furono artefici di una nuova condizione di infelicità; ancora i patriarchi Abramo e Giacobbe riuscirono a portare il loro “popolo eletto” allo stato primitivo in cui l’ingenua immaginazione copre con un velo di inganni il tristo vero. Quindi l'uomo ha goduto più di un'età dell’oro e sempre ne è uscito per sua colpa.
Tuttora esiste un popolo che vive beato allo stato di natura, quello californiano, ma già si apparecchiano le triste crociate dei civilizzatori, dispensatori dell’infausto progresso.
L’ultima delle canzoni di questo ciclo fu composta nel 1823 ed è dedicata “Alla sua donna”, una donna inesistente ma, proprio per questo, più vera agli occhi dell'immaginazione, più viva ai sentimenti del cuore. Lo stesso Leopardi riassunse brillantemente il tema del canto in un articolo critico: «La donna, cioè l'innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di que' fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. In fine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei dei sistemi delle stelle». Anche in questo canto è ribadito il contrasto fra immaginazione e realtà, che è però solo di sfuggita riferito al contrasto fra le età primitive e la presente: il Poeta si chiede infatti se questa donna, che si rifiuta di diventare reale nel presente, sia forse esistita nell’età dell’oro. Si tenga, infine, presente che questo canto è la prima delle “canzoni libere” (cioè composte in metrica affatto originale e diversa da canzone a canzone) che scrisse il Leopardi.
A conclusione di questo rapido esame delle cosiddette "canzoni storico-filosofiche" ci piace riferire qualche stralcio della recensione che lo stesso Leopardi scrisse per il “Nuovo Ricoglitore” dell’editore Stella (settembre 1825) a proposito dell’edizione bolognese del 1824 (che comprendeva queste sette canzoni più altre che il Poeta non introdusse nelle edizioni dei “Canti”):
«Sono dieci canzoni, e più di dieci stravaganze. Primo: di dieci canzoni né pur una amorosa. Secondo: non tutte e non in tutto sono di stile petrarchesco. Terzo: non sono di stile né arcadico né frugoniano; non hanno né quello del Chiabrera né quello del Testi o del Filicaia o del Guidi o del Manfredi, né quello delle poesie liriche del Parini o del Monti; insomma non si rassomigliano a nessuna poesia lirica italiana. Quarto: nessun potrebbe indovinare i soggetti delle canzoni dai titoli... Quinto: gli assunti delle canzoni per se medesimi non sono meno stravaganti. Una ch'è intitolata Ultimo canto di Saffo, intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane: soggetto così difficile, che io non mi so ricordare né tra gli antichi né tra i moderni nessuno scrittor famoso che abbia ardito di trattarlo, eccetto solamente la Signora di Stäel, che lo tratta in una lettera in principio della Delfine, ma in tutt'altro modo. Un'altra canzone intitolata Inno ai Patriarchi, o de' principii del genere umano, contiene in sostanza un panegirico dei costumi della California, e dice che il secol d'oro non è una favola.
Sesto: sono tutte piene di lamenti e di malinconia, come se il mondo e gli uomini fossero una trista cosa, e come se la vita umana fosse infelice. Settimo: se non si leggono attentamente, non s'intendono...
Ottavo: pare che il poeta si abbia proposto di dar materia ai lettori di pensare... Nono: quasi tante stranezze quante sentenze...: che dopo scoperta l'America, la terra ci par più piccola che non ci pareva prima; che la Natura parlò agli antichi, cioè gl'inspirò, ma senza svelarsi; che più scoperte si fanno nelle cose naturali, e più si accresce nella nostra immaginazione la nullità dell'Universo; che tutto è vano al mondo fuorchè il dolore; che dolore è meglio che noia; che la nostra vita non è buona ad altro che a disprezzarla essa medesima; che la necessità di un male consola di quel male le anime volgari ma non le grandi; che tutto è mistero nell'Universo, fuorchè la nostra infelicità.»
E' chiaro che il tono ironico adoperato non intende minimamente mettere in discussione i princìpi fondamentali della visione della vita che il Poeta aveva quando compose le canzoni. A tal proposito osserva giustamente il Ferretti che “questa specie di autorecensione..., per il lettore non ammaliziato, avrebbe dovuto apparire non dettata da lui. Perciò egli vi assumeva un atteggiamento apparentemente polemico contro le idee che gli eran più care, alludendo con frasi ironiche o d' una capziosità nella sua stessa intenzione evidente”.
Dopo questa canzone il Leopardi cesserà di verseggiare e si dedicherà completamente alla prosa, componendo nel solo 1824 ben 19 delle 24 “Operette Morali”. Unica eccezione l'epistola in versi “Al conte Carlo Pepoli”, che è del 1826 e fu inclusa nei “Canti”. In questa lunga epistola (ben 158 versi) il Leopardi dice all’amico che lo considera fortunatissimo perché ancora capace di dilettarsi con la poesia e di allontanare da sé lo spettro della noia, che invece assale tutti, anche coloro che dedicano la propria vita ai viaggi, o ai piaceri, o a tormentare il prossimo. Purtroppo a lui è venuta meno la capacità di eludere il vero con i fantasmi dell’immaginazione e quando il cuore gli si sarà impietrito del tutto, non potrà far altro che dedicarsi alla speculazione filosofica:

...Te punge e move
studio de' carmi e di ritrar parlando
il bel che raro e scarso e fuggitivo
appar nel mondo, e quel che più benigna
di natura e del ciel, fecondamente
a noi la vaga fantasia produce
e il nostro proprio error. Ben mille volte
fortunato colui che la caduca
virtù del caro immaginar non perde
per volger d'anni; a cui serbare eterna
la gioventù del cor diedero i fati;
........................................................
...Io tutti
della prima stagione i dolci inganni
mancar già sento, e dileguar dagli occhi
le dilettose immagini, che tanto
amai, che sempre infino all'ora estrema
mi fieno, a ricordar, bramate e piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo
questo petto sarà, né degli aprichi
campi il sereno e solitario riso,
né degli augelli mattutini il canto
di primavera, né per colli e piagge
sotto limpido ciel tacita luna
commoverammi il cor; quando mi fia
ogni beltade o di natura o d'arte,
fatta inanime e muta; ogni altro senso,
ogni tenero affetto ignoto e strano;
del mio solo conforto allor mendico,
altri studi men dolci, in ch'io riponga
l'ingrato avanzo della ferrea vita,
eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
destini investigar delle mortali,
e dell'eterne cose; a che prodotta,
a che d'affanni e di miseria carca
l'umana stirpe; a quale ultimo intento
lei spinga il fato e la natura; a cui
tanto nostro dolor diletti o giovi.
Dopo il 1826, il Leopardi compose altre tre “Operette Morali” nel 1827 (le ultime due saranno del 1832) e finalmente tornerà alla poesia. Nel 1828 era a Pisa e sentì rifiorirgli la salute. Sentì allora urgente il bisogno di cantare il suo ritorno alla vita, il suo “risorgimento”, e compose un'agile canzonetta di stile metastasiano, intitolata appunto “Il Risorgimento”. In una lettera alla sorella Paolina scrisse: «Dopo due anni ho fatto dei versi questo aprile, ma versi veramente all'antica e con quel mio cuore d'una volta». Non che in lui sia cessato il dolore, ma questo è tornato più vivo che mai a sottrarlo da quello stato di noia in cui si era accasciato:

...............................................
Meco ritorna a vivere
la piaggia, il bosco, il monte;
parla al mio core il fonte,
meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
cangiato il mondo appar?
...............................................
Pur sento in me rivivere
gl'inganni aperti e noti;
e de' suoi proprii moti
si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
spirto, e l'ardor natio,
ogni conforto mio
solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all'anima
alta, gentile e pura,
la sorte, la natura,
il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
se non concedi al fato,
non chiamerò spietato
chi lo spirar mi dà
I grandi idilli
Sempre a Pisa, nello stesso anno 1828, il Poeta scriverà una delle sue poesie più belle, “A Silvia”, il primo dei “Grandi Idilli”, cui seguirono, tra il 1829 ed il 1830, gli altri cinque composti a Recanati, dove era stato costretto a ritirarsi per il ricomparire dei suoi soliti malanni fisici.
Questi canti, scritti “in sedici mesi di notte orribile”, costituiscono il capolavoro del Leopardi.
E' bene precisare subito che nei grandi idilli il Leopardi confonde il suo dolore con quello universale, che “canta” ispirandosi ai cari ricordi della fanciullezza: la rimembranza antica avvolge d’un velo di pudore il pianto del cuore e consente al Poeta un sentimento di tenerezza che lo tiene lontano sia dall'invettiva consueta contro il destino e, più ancora, contro la Natura, sia dal bisogno di usare le “tinte fosche” che meglio converrebbero alla sua ispirazione. Più che cantare gli effetti brutali del dolore che sommerge impietosamente tutto ciò che esiste, egli canta tutto ciò che di bello, di verginale, di consolante si trova purtroppo solamente nei sogni dell’infanzia e non mai nella realtà: quei sogni, quelle illusioni, quegli “ameni inganni” non possono rivivere che in versi sognanti, in versi accarezzati dalle dolci note di una musica lontana, che erano liete ed ora si caricano via via di una tenera malinconia: non trovano posto la disperazione e la rabbia; ed anche quando il Poeta non può fare a meno di riconoscere ed affermare per l'ennesima volta che “è funesto a chi nasce il dì natale”, il tono della voce è pacato, il cuore sembra non aver dimenticato l’immagine sognata della Primavera che ride a un suo segreto amante, gli occhi sono asciutti di pianto, forse perché non hanno più lacrime da versare, ma forse anche perché il Poeta non ha cuore di intristire il ricordo della sua fanciullezza (come appunto si fa dagli adulti che nascondono le proprie pene ai fanciulli).
Il primo dei grandi idilli fu, come già detto, “A Silvia”, composto a Pisa nel 1828. Anche questo canto, come già “Il sogno”, rievoca la tenera immagine di Teresa Fattorini, morta giovanissima (all'età di 21 anni, ma il Poeta anticipa la morte ancor prima del “limitar di gioventù”, in quanto la fanciulla qui è assunta come simbolo della caduta d’ogni sua antica speranza).
In “A Silvia” il Leopardi rievoca gli anni della sua prima adolescenza, quando sovente si affacciava alla finestra rapito dal canto della fanciulla, che sognava un lieto avvenire. Ma la sorte le fu avversa e stroncò violentemente ogni cara illusione:
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.
Ecco come è descritta la morte prematura della fanciulla: solo due parole vestite a lutto: “morbo” e “perivi”; tutte le altre vestite a festa: a cominciare da quel “tenerella” - che vien subito dopo “perivi”- che non sembra affatto riferita ad una fanciulla sul letto di morte, ma piuttosto ad una bambinella che ti gironzola intorno timidamente allegra; e poi: “il fior degli anni”, “molceva”, “dolce lode”, “negre chiome”, “sguardi innamorati”, “dì festivi”, “amore” ! Tornano alla mente le parole del De Sanctis: “chiama illusioni l'amore..., e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. E si noti con quanto affetto e - diremmo quasi - riconoscenza il Poeta si rivolge alla Speranza, che lo ha abbandonato dopo averlo illuso ma anche allietato negli anni dell'adolescenza:
Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Quasi certamente l’anno dopo, nel 1829, dopo il ritorno a Recanati, il Leopardi compose quel canto che aveva in mente da circa dieci anni e che volle inserire tra i piccoli idilli: “Il passero solitario”. E' infatti l'unico di questo ciclo che si ispiri al “dolore personale”. Ma lo stile è quello adulto del Leopardi maggiore.
La canzone, a schema libero, si divide in tre strofe: la prima descrive il modo di vivere del passero solitario, che non si cal d’allegria, schiva gli spassi, canta e così trascorre il più bel fiore dell’anno e della sua vita; la seconda strofa descrive la vita giornaliera del Poeta, assai simile a quella del passero solitario, perché anch’egli non cura sollazzo, riso e amore ed anzi da loro quasi fugge lontano, rinviando ogni diletto in altro tempo, nonostante il tacito ammonimento del sole che, dileguandosi tra lontani monti dopo il giorno sereno, “par che dica che la beata gioventù vien meno”; nella terza strofa c’è l’amara conclusione che si ricava dal raffronto delle due vite:
Tu, solingo augellin. venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; ché di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all'altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dì futuro
del dì presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.
Questo canto è singolarissimo nella produzione leopardiana: concepito in età di circa ventun anni, già a quell’epoca si ispirava ad una situazione psicologica più antica ed era perciò scevro di ogni urgenza passionale e conseguentemente di ogni tinta drammatica. Rievocato poi in età di trentun anni, lasciò intatta la sua primitiva freschezza, quasi per nulla risentendo del travaglio intellettuale intercorso nel frattempo nell’Autore delle “Operette Morali”. Il quale, con la sua sensibilità di grande poeta, ben comprese che il posto da assegnare a questo canto nella raccolta era tra i primi idilli. E qui l’avremmo lasciato volentieri anche noi, se avessimo saputo rinunziare per una volta allo scrupolo didattico, se cioè non ci fossimo posti il dubbio che il giovane lettore avrebbe potuto non comprendere le ragioni più intime del salto di qualità dello stile conseguito dal Poeta.
Nello stesso anno 1829, sempre a Recanati, il Leopardi sentì il bisogno di affidare ai versi de “Le Ricordanze” le proprie emozioni a contatto delle cose a lui più care che, lasciate un tempo, quando aveva voluto fuggire dal “borgo selvaggio”, ritrovava ora intatte e così ricche di ricordi, ancora avvolte in quelle “fole” che la sua fantasia fanciulla -“improvida d’un avvenire mal fido”, direbbe il Manzoni- aveva saputo ricamare su di esse. Ora, però, quei cari ricordi, rievocati con tanta nostalgia, non valgono tuttavia ad attenuare il dolore della presente condizione, di una vita che si consuma nel segno dell’abbandono, senza amore, travolgendo inesorabilmente “ il caro tempo giovanil; più caro / che la fama e l'allor, più che la pura / luce del giorno, e lo spirar” e per di più in un “soggiorno disumano”. Dal contrasto doloroso fra gli “ameni inganni” d'un tempo e l’infelicità del momento nasce il fulcro di questo canto:
O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per variar d'affetti e di pensieri,
obliarvi non so.
............................................................
...Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
consolarmi non so del mio destino.
Ma il Poeta sa bene che la sventura non è soltanto sua:

...E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
Anzi la vita tutta è niente altro che “inutile miseria”:

...Fantasmi, intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio: non ha la vita un frutto,
inutile miseria.
L’ultima strofa rievoca un personaggio femminile, Nerina, morta in giovane età e perciò assunta dal Leopardi come simbolo della giovinezza infranta, del fatale crollo d’ogni speranza all’apparir del vero, dell’inconsistenza delle illusioni umane. Si è a lungo discusso se Nerina fosse solamente un simbolo od anche il ricordo di una fanciulla realmente esistita ed amata dal Poeta. La concretezza di molti riferimenti che il Leopardi fa alla vita vissuta da Nerina fa propendere per la seconda ipotesi. In tal caso, però, risulta difficile risalire all’individuazione della donna cui si riferirebbe il Poeta: gli studiosi sono divisi fra la Teresa Fattorini del canto “A Silvia” ed una certa Maria Belardinelli che sei anni prima di morire andò a vivere con la famiglia a Recanati ed abitò nei pressi della casa Leopardi (morì il 3 novembre 1827, in età di 27 anni). E' chiaro che, in mancanza di una qualche indicazione dello stesso Autore, non si possa andare al di là di semplici congetture, ma è ancora più chiaro che poco interessi alla comprensione del canto conoscere la verità: Nerina è Nerina come Silvia è Silvia: due momenti della “storia dell’anima” leopardiana, due fantasmi evocati dal sepolcro dei sogni infranti:

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita.
Riferimenti concreti che fanno pensare ad una creatura reale. Ma Nerina è soprattutto il simbolo della rapidità con cui passano i sogni, della nostalgica ricordanza che ne avanza e su cui mesto riluce delle stelle il raggio. Sembra quasi che nel Leopardi la Natura, una volta tanto, appaia pietosa della condizione umana (come i foscoliani “rai di che son pie le stelle alle obliate sepolture”), ma non è così perché anche qui è lo stato soggettivo del Poeta a sentir mesto il raggio delle stelle, come già prima gli era apparso “nebuloso e tremulo” il volto della luna.
Per meglio intendere il valore sentimentale di questo simbolo - rappresentato ora da Nerina, prima da Silvia - giova ricordare quanto il Leopardi scrisse in una nota dello "Zibaldone" in data 30 giugno 1828, cioè due mesi dopo la composizione del canto “A Silvia” ed un anno prima de “Le Ricordanze”; questo passo è interessante per capire la sostanza e la natura psicologica dei sogni e delle speranze giovanili del Leopardi, il perché questi volle riviverli e rappresentarli nella vicenda amara di due creature strappate anzi tempo alla vita ed il perché queste creature egli volle immaginarsele cadute prima di giungere al "limitar di gioventù” (Silvia) o quando da poco “splendea negli occhi quel confidente immaginar, quel lume di gioventù” (Nerina):
«Ma veramente una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti, ecc., un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria d'innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi una impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità... Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di sedici o diciotto anni si aggiunga il pensiero dei patimenti che l'aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegnere ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell'angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.»
Un esame approfondito e dettagliato di questo brano (che lasciamo alla sensibilità ed alla intelligenza del giovane lettore) consentirà un contatto più diretto con gli "ameni inganni” che allietarono la fanciullezza e l'adolescenza del Leopardi ed una presa di coscienza dell' "animo” con cui il Poeta li rievocò da adulto, dopo avere scoperto il vero volto della realtà ed avere sperimentato sulla propria persona "il male di vivere”.
In soli quattro giorni (17-20 settembre 1829) il Leopardi compose "La quiete dopo la tempesta”, che consta di tre strofe di diversa lunghezza: nella prima il Poeta descrive la gioia festosa che sopraggiunge negli uomini quando, passata la tempesta, ricompare il sereno: "Ogni cor si rallegra, in ogni lato / risorge il romorio, / torna il lavoro usato”; nella seconda medita sulla consistenza di questo piacere che non esiste in positivo, ma è soltanto "figlio d'affanno”, "gioia vana”, "frutto del passato timore”; nella terza, infine, ringrazia sarcasticamente la Natura per i doni che porge ai mortali:
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge; e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor; beata
se te d'ogni dolor morte risana.
Pochi giorni dopo il Poeta compose “Il sabato del villaggio”, che è tra gli idilli più suggestivi per la grazia e la soavità con cui viene descritta l’attesa della festa in un semplice villaggio. Una serie di quadretti luminosi e riposanti e solo sullo sfondo il colore della malinconia che tarda a mettersi in evidenza: la donzelletta che viene dalla campagna recando un mazzo di fiori che serviranno ad incorniciare la sua fresca bellezza il dì di festa; la vecchierella che siede di fronte al sole cadente (simbolo anche del suo imminente tramonto) e si lascia per un po' trasportare in questa atmosfera di spensieratezza, riandando sull'onda dei ricordi al tempo della sua giovinezza, quando ancora sana e snella, festeggiava con la danza i suoi anni migliori; i fanciulli che gridano festosi nella piazza; lo zappatore che torna a casa fischiettando, mentre il falegname si affretta a completare il lavoro per rendersi libero la domenica. Tutto questo per nulla adombrato dallo sfondo che, però, alla fine emerge e si impone all'attenzione dell'osservatore:

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Morale: la felicità non esiste in atto; esiste solo nella speranza d’un futuro migliore (che poi si svelerà come un inganno) o nella rimembranza del tempo passato (ricordando cioè gli anni della speranza senza tener conto della realtà che ne seguì). Ecco perché il sabato è il miglior giorno della settimana e non già la domenica, che non appaga le attese della vigilia; e la fanciullezza è la migliore stagione della vita umana, perché precorre alla festa della vita, che è l’età virile, che poi sarà inevitabilmente piena di affanni e di pene. Il canto termina con un'esortazione ai fanciulli di godersi la loro età felice e di non crucciarsi se la maturità tardi a venire:

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
L'ultimo dei grandi idilli è il “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, il capolavoro dei capolavori, secondo il nostro giudizio. L'idea di questo canto venne al Poeta da un articolo del barone Meyendorff comparso nel settembre del 1826 sul “Journal des Savants”, in cui si diceva dell'esistenza di pastori nomadi asiatici che usavano trascorrere la notte, seduti su di una pietra, a contemplare la luna ed a sfogare le proprie tristezze.
Il Poeta presta i propri pensieri ed i propri sentimenti alla semplice ed ingenua voce del pastore e fa interrogare la luna sul mistero della vita. La vita della luna è simile a quella del pastore: sorge la sera e va contemplando i deserti fino al suo tramonto, proprio come il pastore che “sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe”, finché a sera, stanco, si riposa. L'unica differenza è che il corso della luna è immortale, la vita del pastore breve.
Ma qual è il fine di entrambi? La vita dell'uomo è paragonabile ad un vecchio che trascina a fatica le sue infermità e le sue miserie “per sassi acuti, ed alta rena, e fratte”, finché giunge al termine del suo corso: un precipizio che lo annienta nel nulla. Infatti già il nascere, per l’uomo, è causa di tormento e rischio di morte. Poi, fin da fanciullo, i genitori debbono consolarlo dell'esser nato. Ma, “se la vita è sventura, perché da noi si dura?” Forse la luna sa il perché della vita, a chi sorrida la primavera, a chi giovi l’estate, e mille altre cose che son celate al semplice pastore. il quale, però, sa una cosa di certo: che la sua vita può forse giovare ad altri, ma a lui è male. Ed anche quando riposa senza alcun patimento, un peso occulto gl’ingombra il cuore: la noia; a differenza del gregge che invece sembra beato quando non è afflitto da alcun dolore presente. Il pastore conclude il suo lamento immaginando che forse, se avesse le ali per volare in cielo e contare le stelle ad una ad una, sarebbe più felice. Ma il cuore gli nega di appigliarsi a questa candida illusione:

O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.
E' questo il canto supremo del dolore cosmico e della noia. Osserva lo Zumbini: «Nel nostro pastore le formidabili interrogazioni sul mistero della vita e del mondo sono precedute e accompagnate dalla più ingenua maniera di guardare l'una e l'altro; in ciò il maggior effetto del canto, da ciò un'altra forma, pur nuova fra le mille adoperate dal poeta medesimo, a significare il suo pensiero supremo».
Il ciclo di Aspasia
Dopo i grandi Idilli, i cinque canti del cosiddetto “ciclo di Aspasia”.
A sottrarre il Leopardi dalla “orribile notte” in cui era costretto a vivere a Recanati provvidero gli “Amici di Toscana”, primo fra tutti il Colletta, che gli procurarono con molta discrezione i mezzi per poter vivere a Firenze. Il 29 aprile del 1830 egli partiva da Recanati alla volta del capoluogo toscano, dove, ripresosi relativamente in salute, non disdegnò di frequentare i salotti di famiglie amiche. In uno di questi conobbe l’esule napoletano Antonio Ranieri che divenne il suo più fidato amico, fino al punto da portarlo con sé a Napoli, nella propria casa, e da accudirlo amorevolmente fino alla morte. Ma a Firenze conobbe pure una bellissima colta signora, Fanny Targioni Tozzetti, della quale si invaghì perdutamente, ricavandone un'altra terribile delusione, che lo prostrò più d’ogni altra amarezza precedente. A questa donna sono dedicati i cinque canti del ciclo di Aspasia: “Il pensiero dominante” (1831), “Amore e Morte” (1832), “Consalvo” (1832?), “A se stesso” (1833) e “Aspasia” (Napoli 1834).
"Il pensiero dominante” fa l’esaltazione dell'Amore, “prepotente signore all'uman core”, che è l’unica attenuante che si può concedere al Destino, così fieramente ostile al genere umano:
Pregio non ha, non ha ragion la vita
se non per lui, per lui che all'uomo è tutto;
sola discolpa al fato,
che noi mortali in terra
pose a tanto patir senz'altro frutto;
solo per cui talvolta,
non alla gente stolta, al cor non vile
la vita della morte è più gentile.
Il Poeta sa bene che anche l’amore è un sogno, ma è un sogno possente, sovrumano, che lo accompagnerà fino alla morte ed oltre.
In “Amore e Morte” il Leopardi afferma che Amore e Morte nacquero ad un parto, son fratelli, e sono i compagni più pietosi, e perciò più diletti, ai miseri mortali: l’uno procura il massimo piacere consentito all'uomo, l’altra segna la fine d’ogni patimento:
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte
ingenerò la sorte.
Cose quaggiù sì belle
altre il mondo non ha, non han le stelle.
Nasce dall'uno il bene,
nasce il piacer maggiore
che per lo mar dell'essere si trova;
l'altra ogni gran dolore,
ogni gran male annulla.
“Consalvo” rappresenta invece Amore e Morte in atto, come è stato convenientemente affermato.
Consalvo (il Leopardi) giace sul letto di morte ormai prossimo ad abbandonare la vita. Gli è accanto Elvira (la donna amata, in cui si raffigura la Fanny Targioni Tozzetti) alla quale il morente chiede finalmente un bacio. Soddisfatto del suo estremo desiderio, il “fuggitivo Consalvo” eleva un lamento lirico nel quale si confondono il delirio della morte e l’estasi dell’amore:

...Morrò contento
del mio destino omai, né più mi dolgo
ch'aprii le luci al dì. Non vissi indarno,
poscia che quella bocca alla mia bocca
premer fu dato. Anzi felice estimo
la sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
amore e morte. All'una il ciel mi guida
in sul fior dell'età; nell'altro, assai
fortunato mi tengo.
...........................................................
Ma la lena e la vita or vengon meno
agli accenti d'amor. Passato è il tempo,
né questo dì rimemorar m'è dato.
Elvira, addio. Con la vital favilla
la tua diletta immagine si parte
dal mio cor finalmente. Addio. Se grave
non ti fu quest'affetto, al mio feretro
dimani all'annottar manda un sospiro.
Ma l’amore di Fanny era un inganno. Un inganno atroce se bisogna credere a quanti affermarono che la donna fingeva di corrispondere all’amore del Poeta neppure per pietà, ma per divertimento. Certo è che gli amici, specie il Ranieri, fecero aprire gli occhi al Leopardi, che volle dedicare a se stesso questo delicato e sinceramente patetico atto di resa.
Nacque così il breve canto “A se stesso”:
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.
Forse fu questa estrema delusione a fargli accettare l’invito del Ranieri di trasferirsi a Napoli, ove pensò di vendicarsi scrivendo l’ultimo canto del ciclo dedicato alla Targioni, “Aspasia”: il Poeta confessa che non amò Aspasia, ma una donna ideale ispiratagli dalla bellezza di Aspasia e da lui vagheggiata nelle forme di costei. Aspasia, come tutte le donne reali, non potrà mai comprendere il vero significato dei palpiti amorosi del cuore del Poeta: nessuna donna è capace di volare tanto in alto. Ella può anche vantarsi di averlo fatto inginocchiare ai suoi piedi, ma sappia che il Poeta amava e serviva solo quella “idea” di donna che vedeva raffigurata in lei, non già lei stessa.
L'ultimo Leopardi
Siamo così giunti agli ultimi canti, all' “ultimo Leopardi”. “Sopra un basso rilievo antico sepolcrale dove una giovane donna è rappresentata in atto di partire accommiatandosi dai suoi” rivolge alla Natura un'altra accusa: quella di non aver voluto rendere lieta almeno la morte! Infatti, se la vita è sventura, la morte, che ce ne sottrae, dovrebbe essere bene accetta. Eppure chi mai potrebbe
Desiar de' suoi cari il giorno estremo,
per dover egli scemo
rimaner di se stesso,
veder d'in su la soglia levar via
la diletta persona
con chi passato avrà molt'anni insieme,
e dire a quella addio senz'altra speme
di riscontrarla ancora
per la mondana via;
poi solitario abbandonato in terra,
guardando attorno, all'ore ai lochi usati
rimemorar la scorsa compagnia?
“Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima” è un canto doloroso quanto il precedente, anch’esso rivolto contro la Natura che distrugge in un attimo, con la morte, una stupenda bellezza che tanto conforto e gioia ha dato ai mortali:
Tal fosti: or qui sotterra
polve e scheletro sei...
....................................
...or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
quale splendor vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d'aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
divien quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto, si dilegua.
“Palinodia al marchese Gino Capponi” è un lungo canto (di ben 279 versi) in forma di epistola, nel quale il Leopardi polemizza ironicamente col nuovo movimento di pensiero scientifico, economico e politico che preannunciava gloriosamente ed enfaticamente una nuova era di progresso, di pace, di libertà: insomma di felicità per l’uomo. Il Leopardi, fingendo, di ritrattare le sue idee sul dolore universale e sulla sua ineluttabilità per accettare le nuove speranze propagandate dai nuovi intellettuali, in effetti ribadisce il suo pessimismo e soprattutto il suo giudizio negativo sul progresso: felici potranno mai essere gli uomini fra mille nuove comodità, se fra loro continueranno a regnare gli odi, le guerre, le invidie, le frodi; se la Natura continuerà a distruggere tutto quello che crea come un fanciullo che atterra il castello or ora costruito "perché gli stessi a lui fuscelli e fogli / per novo lavorio son di mestieri"? Ed ecco con quanto sarcasmo il Poeta apostrofa i filosofi del suo tempo:

Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
dell'età ch'or si volge! E che sicuro
filosofar, che sapienza, o Gino,
in più sublimi ancora e più riposti
subbietti insegna ai secoli futuri
il mio secolo e tuo! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e che domani abbatterà, per girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degl'incensi il dì vegnente!
Nel 1836, non lontano dalla morte, il Leopardi compose “La ginestra o il fiore del deserto”, che è come un messaggio d’amore e di pietà per il genere umano, un testamento morale in cui il sentimento fa un estremo tentativo per sovrastare la ragione a dispetto della verità che proclama. I nuovi filosofi vanno blaterando la superiorità dell’uomo sulla natura, le grandi risorse che egli ha per farsi artefice del proprio destino: vengano allora alle falde del Vesuvio per meditare sulla realtà del rapporto uomo-natura vedendo ancor oggi i resti delle antiche città di Pompei e di Ercolano distrutte in pochi minuti dalla violenza della Natura. Che differenza c’è fra un popolo di formiche annientato dalla caduta di un pomo e la gente di Pompei ed Ercolano sommersa da una sola improvvisa eruzione del Vesuvio? La verità è che la Natura è possente e non si cura degli uomini più che delle formiche! E' stupida la vanità dell’uomo che vuol porsi a dominatore dell’universo e si crea divinità amiche pronte ad intervenire in suo favore. Molto più saggio colui che virilmente riconosce lo stato della propria miseria, l'infelicità universale e non se la prende col compagno di sventura, con l’uomo, ma con la vera responsabile che è la Natura. Solo quando l’umanità saprà fare a meno delle religioni e delle false promesse di una felicità ultraterrena e riconoscerà che la vita è dolore e nulla si può fare per modificarla, solo allora sarà possibile l’avvento di una nuova ed autentica moralità che unirà gli uomini in un vincolo di solidarietà contro la comune nemica, la Natura.
Se “La ginestra” rappresenta il testamento morale del Leopardi, “Il tramonto della Luna” ne rappresenta l’addio al mondo. E' l’estremo saluto che il Poeta rivolge a questa valle di lacrime: gli ultimi versi li dettò, poche ore prima di morire, ad Antonio Ranieri. Il Leopardi paragona le tenebre notturne, che avvolgono ed annullano le cose dopo il tramonto della luna, all’infelicità che avvolge la vita degli uomini dopo che è trascorsa la giovinezza. Però se le cose dopo poche ore di oscurità tornano ad essere illuminate dalla più vivida luce del sole, nessuna speranza di rifiorire resta all’età dell’uomo dopo il tramonto della sua primavera:
Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla quale poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d'altra luce giammai, né d'altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l'altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.
Con la parola “sepoltura” il Leopardi mise fine alla sua esistenza di uomo infelice e di poeta.
A completare la raccolta dei “Canti”, il Leopardi volle includere, nell'edizione napoletana del 1835, alcuni brevi componimenti (traduzioni o rifacimenti), e precisamente: “Imitazione” (1818), “Scherzo” (1828), “Dal greco di Simonide” (1823 o 1824) “Dello stesso” (1823 o 1824).
OPERETTE MORALI
«Questo è il sentimento che riempie di sé tutta l'opera leopardiana: la desolata nostalgia d'una felicità sconosciuta ed assurda, la disperata aspirazione verso un mondo migliore. Nelle più riuscite fra le "Operette", come nei "Canti", la poesia non nasce dalla brutta realtà ma dal vano bisogno di superarla... Così nelle "Operette" come nei "Canti" questa realtà grigia si disegna sul fondo luminoso di un ideale: e l'impressione dominante è quella di una delusione non rassegnata».
Queste parole di Attilio Momigliano bastano da sole a definire il mondo poetico del Leopardi; e di una definizione sintetica il giovane lettore aveva certamente bisogno dopo la lunga attenzione dedicata ai “Canti”.
Ma queste parole valgono anche come magistrale premessa allo studio delle “Operette Morali” perché ci danno subito una indicazione preziosa: che le “Operette” sono certamente opere di poesia a dispetto dello stesso Autore che voleva forse farne opera di filosofia e che anche per questo aveva adottato la prosa. Anche per questo, ma la ragione più profonda, quella che si impone da sé all’artista, certamente derivò dalla condizione particolare in cui venne a trovarsi l’animo del Poeta, costretto nuovamente, dopo la squallida parentesi romana, a rinchiudersi in Recanati senza alcuna prospettiva per un futuro migliore (resterà nel “borgo selvaggio” dal 1822 al 1825, fino a quando, cioè, ebbe l’invito di recarsi a Milano dall’editore Stella; la maggior parte delle “Operette” risalgono al 1824).
Nelle “Operette Morali” il Leopardi ci vuol dare “la descrizione concreta della vita e la dimostrazione che essa è ignobile e misera” (Momigliano) e a questo scopo non serve il ritmo del verso, l’immagine icastica che sorge per incanto da un sostantivo, da un aggettivo, e che invita la fantasia a prodursi in un volo acrobatico nella stratosfera del sentimento: serve invece il tono dimesso, che più agevolmente scivola nei meandri della coscienza, il sottile linguaggio del persuasore che deve inculcare una amara verità. Eppure anche nella prosa delle “Operette” il Leopardi è soltanto poeta: «Sembra prosa riflessiva - osserva il Momigliano -, ragionativa, ma in fondo non è. Si paragoni, per esempio, con quella del “Principe”; e si vedrà che qui si può sempre isolare il periodo o il breve tratto che, anche in sé, ha il suo significato e il suo rilievo, perché la sua forza deriva dal pensiero, da una riflessione morale o psicologica: nelle “Operette” questo non succede, perché il motivo è diffuso, è uno stato d’animo assai più che una osservazione o una constatazione: e anche le “Operette”, come i “Canti”, sono, nella loro viva essenza, un’autobiografia sentimentale». Insomma il Leopardi prosatore non cessa di essere poeta; e se si risolve a scrivere in prosa è perché egli in questi anni, “ripiegandosi su se medesimo - come nota il Fubini - trova purificati e chiariti i motivi originari del suo pessimismo, formulati in alcuni concetti tra logici e fantastici a cui egli si può rivolgere con un moto di affetto, di amore e di odio”: non per nulla le pagine più vive e palpitanti sono quelle in cui riaffiorano le rimembranze degli ameni inganni, si riaccendono lumi di speranza nonostante la piena consapevolezza che la vita è male.
Le “Operette Morali” composte dal Leopardi furono 26. Due, però, il Poeta stesso le ripudiò successivamente, sicché l’edizione definitiva curata da lui stesso tra il 1834 ed il 1835 ne comprende 24. Di queste, 19 furono scritte nel 1824, una nel 1825, due nel 1827 e due nel 1832. Le “Operette” non vanno intese singolarmente, come opere a se stanti, ma nel loro insieme, perché tutte rappresentano un'opera d’arte sostanzialmente unitaria per tono ed ispirazione. Questo anche se alcune sono in forma di dialogo (ad imitazione dei dialoghi ironici dello scrittore greco Luciano di Samosata, 121-180 d.C.) ed altre in prosa continuata.
Vari documenti danno la certezza che il Leopardi meditasse da tempo sul progetto di queste “Operette”: nel 1818 scrisse che aveva in animo di dare all'Italia un nuovo tipo di prosa in cui “la lingua e lo stile essendo classico e antico paresse moderno e fosse facile ed intendere e dilettevole così al volgo come ai letterati”; nel 1819 affermò di volere scrivere alcuni “dialoghi satirici alla maniera di Luciano... tra personaggi che si fingono vivi, ed anche volendo, fra animali”; nel 1821 annunciava: «Io cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i princìpi fondamentali della calamità e miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, delle civiltà presente» (da qui forse derivò l’idea di definire “morali” le sue future operette); e sempre nel 1821, quasi a voler giustificare per tempo quella che sarebbe stata una tendenza abbastanza diffusa nella sua opera di prosatore, e cioè la rievocazione di “favole antiche”, scrisse: «Io non voglio credere alle allegorie né cercarle nella mitologia o invenzioni dei poeti o credenze del volgo. Tuttavia la favola di Psiche, cioè dell’anima, che era felicissima senza conoscere e accontentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazione vera su questa terra, del danno del sapere, della felicità che si conveniva, che unendo questa considerazione col manifesto significato del nome Psiche appena posso discredere che quella favola non sia un parto della più profonda sapienza e cognizione della natura dell’uomo e di questo mondo»; e, ancora più esplicitamente, qualche mese dopo: «Uno dei principali dogmi del cristianesimo è la degenerazione dell’uomo da uno stato primitivo più perfetto e felice... Il principale insegnamento del mio sistema è appunto la detta degenerazione. Tutte, pertanto, le infinite osservazioni e prove generali o particolari ch’io adduco per dimostrare come l’uomo fosse fatto primieramente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale, che non si trova mai nel fatto, fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura tanto più diveniamo infelici... ».
Se però il Leopardi meditava da tempo la composizione delle “Operette”, bisogna riconoscere che a queste pose mano quando il suo “istinto” poetico glielo impose. Ed anche se parla di sistema ed afferma di voler dimostrare con osservazioni e prove generali la degenerazione della condizione umana, in effetti anche in queste prose dà corpo alla propria immaginazione ed esprime i propri sentimenti: non è cosa assai ardua “rendersi conto della sostanziale unità - come sostiene il Ferretti - che accomuna l’opera poetica e quella in prosa del Leopardi, poeta in quanto filosofo e filosofo in quanto poeta, più conscio forse d’esser filosofo, cioè di aver offerto ai suoi lettori la documentazione di un pensiero originale e coerente, che d’esser poeta: ma, per noi, essenzialmente poeta non meno nella limpida prosa che nei versi concettosi, perché non meno in quella che in questi muove l’immaginazione, cioè fa rivivere in noi il suo mondo interiore”.
La prima delle “Operette Morali” è la “Storia del genere umano” in cui il Leopardi accoglie, trasformandola, la materia di un mito pagano già cantato da Esiodo e da Ovidio. La storia dell'uomo si divide in quattro epoche: nella prima l'umanità viveva in uno stato quasi felice, allietato da vaghe speranze che però non venivano mai ad effetto. Non paghi di questa condizione che, pur essendo quasi beata, non mostrava di poter accrescere il bene, gli uomini si lamentarono e Giove per accontentarli mandò sulla terra sogni e illusioni. Ebbe così inizio la seconda età in cui gli uomini, eccessivamente impegnati nella impossibile realizzazione dei sogni e delle illusioni, scivolarono nella corruzione e furono da Giove puniti col diluvio che li annientò. Si salvarono Deucalione e Pirra cui gli dei assegnarono il compito di ripopolare la terra. Ebbe così inizio la terza età, nella quale Giove
«...fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l'impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L'una mescere la loro vita di mali veri; l'altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto di intrattenere gli uomini, e divertirli [= distrarli] quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità.
Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure; parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio de' beni; parte acciocché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l'acume e le veemenza del desiderio...
E per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il bisogno e l'appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli della California... Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo con un incomparabile dono beneficiarle, mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi all'uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti, spingeva l'un sesso verso l'altro, nella guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano veramente, ma si appetiscono.»
In questa terza età gli uomini condussero una vita abbastanza tollerabile, ma poi si stancarono anche di essa e cominciarono a pretendere di conoscere la verità. Giove, seccato di questa eterna incontentabilità degli uomini, mandò in terra la Verità e rimosse tutti gli altri antichi fantasmi, ad eccezione dell'Amore: sorse così la quarta ed ultima età dell'uomo, quella della infelicità.
La seconda delle “Operette” è in forma di dialogo e si intitola appunto “Dialogo d’Ercole e di Atlante”. Anche qui la materia è tratta da una favola mitologica: Ercole, per volere di Giove, si reca da Atlante per aiutarlo a sostenere la sfera terrestre. Questa però non ha più quasi alcun peso e sembra morta o addormentata. Per scuoterla in qualche modo decidono di giocare “a palla”, ma la sfera cade loro di mano e dopo un botto sembra per davvero morta. I due si spaventano: Atlante si affretta a riporsi il carico sulle spalle mentre Ercole corre dritto da Giove a scusarsi del fallo. Inutile dire che l’intenzione del Poeta è di deridere, mettendola addirittura in ridicolo, la sonnacchiosa società contemporanea, ma non certo con la volontà di scherzare su un argomento che invece sentiva molto seriamente e dolorosamente: in effetti egli in questa operetta porta ad effetto quanto affermato qualche anno prima in una nota dello “Zibaldone”: «
A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualche cosa di serio e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagatelle e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giovi, poco diletta e presto annoia. Quanto più la natura del ridicolo è seria, tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto... ».
Forse è bene anche per questa operetta riportarne uno squarcio, in modo da dare un esempio di dialogo leopardiano:
«Ercole: Come può stare che sia tanto alleggerita? Mi accorgo bene che ha mutato figura, e che è diventata a uso delle pagnotte, e non più tonda, come era al tempo che io studiai la cosmografia per fare quella grandissima navigazione cogli Argonauti: ma tutto questo non trovo come abbia a pesare meno di prima.
Atlante: Della causa non so. Ma della leggerezza ch'io dico te ne puoi certificare adesso adesso, solo che tu voglia torre questa sulla mano per un momento, e provare il peso.
Ercole: In fe d'Ercole, se io non avessi provato, io non poteva mai credere. Ma che è quest'altra novità che vi scuopro? L'altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quando al battere, si rassomiglia a un oriuolo che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto [= un benché minimo rumore].
Atlante: Anche di questo non ti so dire altro, se non ch'egli è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni rumore sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di giorno in giorno che m'infettasse col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi seppellire, e l'epitaffio che gli dovessi porre...
Ercole: Io piuttosto credo che dorma... io voglio che noi proviamo qualche modo di risvegliarlo.
Atlante: Bene, ma che modo?
Ercole: Io gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda [= sfoglia di pasta]; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto. Il meglio sarà ch'io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace ch'io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell'orto: ma le pugna basteranno.»
Durante il gioco la sferuzza cade, ma nessun uomo sembra svegliarsi al gran colpo. Ciò è di pretesto ad Ercole per una sagace battuta:
«Ercole: E' molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l'altre una dove dice che l'uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s'è mosso.
Atlante: Chi dubita della giustizia degli uomini? Ma tu non istare a perder più tempo, e corri su presto a scolparmi con tuo padre, che io m'aspetto di momento in momento un fulmine che mi trasformi di Atlante in Etna.»
Nel “Dialogo della Moda e della Morte” il Leopardi ironizza sulla vanità della prima e la definisce sorella della Morte perché entrambe sono nate dalla Caducità: dice la Moda: «...l'una e l'altra tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù, benché tu vada a questo effetto per una strada e io per un'altra».
Segue la “Proposta di premi fatta dall'Accademia dei Sillografi” [=poeti burleschi], in cui, come nella “Palinodia al marchese Gino Capponi”, si afferma che le nuove scoperte ed invenzioni scientifiche possono accrescere il benessere materiale, ma non liberare l’umanità dai vizi, che sono la fonte maggiore dell’infelicità degli uomini.
Nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo” (il primo appartiene alla categoria degli spiriti, di invenzione medievale, che vagavano nell’aria a molestare gli uomini; il secondo alla categoria degli spiriti che custodivano i tesori nascosti nella terra) si canzona la pretesa dei filosofi che affermano che l’universo sia stato creato per gli uomini: i due protagonisti del dialogo si incontrano dopo la scomparsa dell’uomo dalla terra e ridono sulla vanità degli uomini, ma poi incominciano a discutere se il mondo sia stato creato per i folletti o per gli gnomi. Più saggi degli uomini, però, alla fine concludono che non vale la pena discutere su tale argomento perché forse anche le lucertole ed i moscerini staranno rivendicando ognuno per la sua specie il privilegio di avere il mondo in funzione di loro.
Nel “Dialogo di Malambruno e di Farfarello” il mago Malambruno evoca il diavolo Farfarello per ottenere da lui almeno un attimo di felicità, ma lo spirito infernale gli dice che nemmeno Belzebù potrebbe concedergli tanto, dato che questo andrebbe contro l'ordine della natura.
Nel “Dialogo della Natura e di un'Anima” l’Anima chiede alla Natura un po’ di felicità, ma questa risponde che al più può concederle un po’ di gloria, visto che tutti la considerano un gran bene, anche se per l’invidia che produce è piuttosto motivo di dolore che di gioia. L’Anima allora prega la Natura di riprendersi pure tutte le nobili doti che le ha dato e di ricacciarla pure nel più ignobile degli animali, purché la faccia morire presto.
Nelle operette successive continua la polemica contro la nuova filosofia e la nuova scienza e contro il progresso in generale: “Dialogo della Terra e della Luna”, “La scommessa di Prometeo”, “Dialogo di un Fisico e di un Metafisico” (nel quale il Fisico si vanta di aver trovato il modo per prolungare la vita dell’uomo e il Metafisico lo accusa di aver danneggiato l’uomo in quanto questi apprezza la vita solo se è fonte di felicità e quindi il Fisico meglio avrebbe fatto a scoprire il modo di rendere felice l’esistenza umana, magari abbreviandola), “Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare” (nel quale si espone la tesi che la vita umana è fatta di dolore e noia e di niente altro). Questo gruppo di operette si conclude col “Dialogo della Natura e di un Islandese” nel quale si attribuisce alla Natura la responsabilità dell’infelicità umana, ma questa si difende dicendo che essa si limita a compiere il “perpetuo circuito di produzione e distruzione” senza minimamente porsi il problema della felicità o infelicità degli uomini.
Segue una lunghissima operetta, “Il Parini ovvero della gloria”, divisa in dodici capitoli. Rifacendosi con molta probabilità alla terza e quarta lezione di eloquenza tenute dal Foscolo a Pavia, il Leopardi afferma che la gloria può essere conseguita più con le azioni che con le lettere, che è comunque difficile da raggiungere e dà certamente più pene che gioie. Però, mentre il Foscolo riteneva che, passata la stagione dell’attuale barbarie, i posteri avrebbero riconosciuto il valore dei poeti, il Leopardi, più pessimisticamente, ritiene che i posteri non saranno punto migliori della società presente e che pertanto ingegno e immaginazione sono beni superflui e dannosi.
Nel “Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie” il Leopardi immagina che il grande anatomista olandese (1638-1731), svegliato in piena notte dal canto delle mummie, atterrito dal sospetto che queste siano resuscitate, intraprende con esse una discussione circa le sensazioni che si provano nel momento del passaggio dalla vita alla morte.
Le mummie affermano che tale passaggio non è affatto doloroso, anzi è piacevole perché annienta i sensi gradualmente, fino a spegnerli del tutto, come fa il sonno che ci vince poco a poco, dandoci una benefica sensazione di rilassamento. In questa operetta sono evidenti le influenze di Epicuro, Lucrezio e Cicerone (per citare solo gli antichi).
C’è poi un’altra lunga operetta, in sette capitoli, “Detti memorabili di Filippo Ottonieri”, in cui il Leopardi, imitando la foscoliana “Notizia intorno a Didimo Chierico”, ci offre una breve ideale autobiografia ed un insieme di precetti di filosofia pratica che riguardano i temi del dolore e del piacere, dei vizi e delle virtù, sulla giustizia, sulla falsa austerità e concretezza degli uomini maturi e sull’imprudenza dei giovani, ecc. Nel primo capitolo, in cui dà notizie biografiche sull’Ottonieri (cioè su se stesso), è assai evidente l’imitazione del Foscolo:
«Filippo Ottonieri, del quale prendo a scrivere alcuni ragionamenti notabili, che parte ho uditi dalla sua propria bocca, parte narrata da altri; nacque e visse il più del tempo, a Nubiana, nella provincia di Valdiveneto [entrambi sono nomi fantastici]; dove anche morì poco addietro; e dove non si ha memoria d'alcuno che fosse ingiuriato da lui, né con fatti né con parole...
Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto maggiore diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall'ozio, dalla negligenza, e dall'uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose quegli riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all'età moderna, fu del tutto aliena dall'antica.
Nella filosofia godeva di chiamarsi socratico: e spesso, come Socrate, s'intratteneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era somministrata dall'occasione. Ma non frequentava, come Socrate, le botteghe de' calzolai, de' legnaiuoli, de' fabbri e degli altri simili; perché stimava che se i fabbri e i legnaiuoli di Atene avevano tempo da spendere in filosofare, quelli di Nubiana, se avessero fatto altrettanto, sarebbero morti di fame...
Non lasciò scritta cosa alcuna di filosofia, né d'altro che non appartenesse ad uso privato. E dimandandolo alcuni perché non prendesse a filosofare anche in iscritto, come soleva fare a voce, e non deponesse i suoi pensieri nelle carte, rispose: il leggere è un conversare che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che non sono o non credono di essere parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che, stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.»
E come il Chierico foscoliano, anche l’Ottonieri provvide a scrivere il proprio epitaffio:
«Vicino a morte, compose esso medesimo questa inscrizione, che poi gli fu scolpita sopra la sepoltura:
OSSA
DI FILIPPO OTTONIERI
NATO ALLE OPERE VIRTUOSE
E ALLA GLORIA
VISSUTO OZIOSO E DISUTILE
E MORTO SENZA FAMA
NON IGNARO DELLA NATURA
NE' DELLA FORTUNA
SUA»
Il “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez” anticipa la tematica, poi svolta nella canzone “Al conte Carlo Pepoli” e nell’idillio “La quiete dopo la tempesta”, che la vita non è altro che dolore e noia e che quel tanto di piacere che tocca ai mortali deriva o dallo scampato pericolo o dalla pausa breve che intercorre fra un dolore e l'altro.
Nell’ “Elogio degli uccelli” il Leopardi, per bocca del filosofo Amelio (III sec. d.C.), dice che gli uccelli sono le uniche creature a mostrare di prendere diletto dalla vita: «Sono gli uccelli naturalmente le più belle creature del mondo... Si veggono gli altri animali comunemente seri e gravi; e molti di loro anche paiono malinconici: rade volte fanno segni di gioia, e questi piccoli e brevi;... Gli uccelli per lo più si dimostrano nei moti e nell'aspetto lietissimi: e non da altro procede quella virtù che hanno di rallegrarci colla vista, se non che le loro forme e i loro atti, universalmente, sono tali, che per natura dinotano abilità e disposizione speciale a provare godimento e gioia».
Nel “Cantico del Gallo Silvestre” l’Autore fa ricorso questa volta ad un’immagine biblica, a quella di “un certo gallo selvatico, il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo”: questo gallo di buon’ora chiama al risveglio gli uomini perché tornino al consueto dolore, dato che è questo il loro destino ed il sonno è concesso dalla Natura solo perché altrimenti sarebbe impossibile vivere in uno stato permanente di sofferenza.
A questo punto il Leopardi inserì un’operetta scritta nel 1825, “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”, in cui tratta della origine del mondo, della sua esistenza e della sua certa distruzione: è esperienza comune che le cose del mondo, singolarmente considerate, periscono tutte. Esse, quindi, debbono avere un principio. Ma la materia di cui sono composte non perisce mai: deve quindi ritenersi che non abbia un principio e sia perciò eterna. Questa incessante trasformazione della materia è però assai lenta, sicché noi ci accorgiamo della scomposizione dei singoli individui, ma non percepiamo la dissoluzione dei generi e delle specie. Da qui la nostra falsa convinzione che il mondo sia eterno. Ma non è così, perché anch'esso, nella sua totalità, prima o poi si dissolverà, dando origine ad un nuovo caos. Ma poiché nessuna particella della materia può perire, dal caos nasceranno nuove relazioni fra le innumerevoli particelle che costituiscono la materia e quindi un nuovo mondo: «Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio degl’innumerabili che già furono, e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare». E' chiaro che in questa operetta il Leopardi faccia propria la dottrina dei materialisti e che, ravvisando la rovina del mondo sulla scorta delle ipotesi del Newton e del Laplace, attribuisca tale rovina solo ad una forza intrinseca nella materia stessa, con l’esclusione di ogni intervento di una “mente superiore”.
Segue l’ultima delle operette scritte nel 1824, il “Dialogo di Timandro e di Eleandro”. I due protagonisti (i cui nomi, secondo un’etimologia greca, significano rispettivamente, “colui che onora il genere umano” e “colui che ha compassione del genere umano”) hanno uno scontro verbale tra di loro perché Timandro accusa Eleandro (che rappresenta il Leopardi stesso) di prendersi gioco degli uomini, pur non facendo mai loro male materialmente. Eleandro ribadisce che, consistendo la vita in uno stato permanente di infelicità, è necessario che l’uomo si convinca ad accettare tale suo destino senza ricorrere goffamente ed assurdamente a teorie filosofico-religiose che vogliono illuderlo del contrario o ingannarlo con false promesse di felicità futura: meglio è accettare virilmente la propria condizione e ridere dei mali comuni, anziché disperarsi.
Seguono le due operette composte nel 1827, “Il Copernico” e “Dialogo di Plotino e di Porfirio”. Di quest’ultima, che tratta il tema del suicidio, abbiamo già parlato. L’altra è in forma drammatica ed è divisa in quattro scene. Nella prima il Sole annuncia alla Prima Ora che vuole riposare perché è stanco di illuminare la terra: se vuole riscaldarsi, faccia essa il cammino intorno al sole; e se gli uomini sono riluttanti a ciò, dia l’incarico ad un filosofo di convincerli. Nella seconda scena Copernico (il grande astronomo prussiano, 1473-1543, che compì i suoi studi a Bologna), stupito che il Sole tarda a sorgere, si affaccia “in sul terrazzo di casa sua, guardando in cielo a levante, per mezzo d’un cannoncello di carta; perché non erano ancora inventati i cannocchiali”. Tutta la scena è occupata da un suo soliloquio. Nella terza scena Copernico ha un colloquio con l’Ora Ultima e si lascia convincere a seguirla nella casa del Sole per tentare di persuaderlo a desistere dal suo proposito. Nell’ultima scena si svolge il dialogo fra Copernico ed il Sole. Copernico dice che non è facile convincere la Terra ad abdicare al suo ruolo di regina dell’universo ed a mettersi a roteare intorno al sole; che se anche accettasse di farlo, gli altri pianeti pretenderebbero la parità con essa e vorrebbero fiumi, piante, abitatori, ecc., senza dire che poi le altre stelle potrebbero avanzare la pretesa di stare ferme ed essere attorniate pure loro da vari pianeti: insomma si sconvolgerebbe l’ordine attuale dell’universo ed il Sole cesserebbe di essere il secondo nell’universo, dopo la Terra. Il Sole risponde che preferisce essere il primo nel suo sistema anziché il secondo nell’universo, e che comunque non ne fa una questione di dignità, quanto piuttosto una questione di tranquillità. A Copernico non resta che accettare di convincere gli uomini alla nuova disciplina, ma confessa di temere il rogo. Il Sole però gli consiglia come fare per salvare la pelle:
«Copernico: Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato vivo, a uso della fenice: perché, accadendo questo, io sono sicuro di non avere a risuscitare dalle mie ceneri, come fa quell'uccello, e di non vedere mai più, da quell'ora innanzi, la faccia della signoria vostra.
Sole: Senti, Copernico: tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio che adesso tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse, dopo te, ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile: ma che tu per conto di quest'impresa, a quel ch'io posso conoscere, non patirai nulla. Se tu vuoi essere più sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo proposito, dedicarlo al papa. In questo modo, ti prometto che né anche hai da perdere il canonicato.»
Ancora una volta il Leopardi fustiga l’orgoglio degli uomini e la presunzione dei filosofi, con una ironia così sottile e con una grazia discorsiva così elegante, che non ti stancheresti mai di leggere queste pagine.
Concludono le “Operette Morali” due dialoghi, veri gioielli d'arte, entrambi scritti nel 1832. Nel primo, il famosissimo “Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere”, con poche argute battute, il Poeta afferma che la vita che piace non è quella trascorsa, ma quella avvenire, quella cioè che si ignora: il che equivale ad affermare che la felicità non esiste in atto, ma solo nella speranza; nel secondo, “Dialogo di Tristano e di un amico”, il Leopardi, nelle vesti di Tristano, finge prima di ricredersi di tutte le sue pessimistiche passate opinioni circa il destino dell’uomo, ma poi fa sul serio, tanto serio che il De Sanctis disse che il tono qui raggiunto era quello solenne di un testamento, e riafferma per l’ultima volta che la vita è male e solo la morte può salvarci: egli non invidia quelli che avranno lunga vita né i posteri, ma gli uomini passati, che sono già morti.
LE ALTRE OPERE
Abbiamo già dato notizia delle opere giovanili (le tragedie “La virtù indiana” e “Pompeo in Egitto”, la “Storia dell’astronomia” e il “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”). Fra le opere di critica letteraria segnaliamo il commento alle “Rime” del Petrarca e due “Crestomazie” della prosa e della poesia italiana. Fra le opere in versi ricordiamo “I nuovi credenti” (una satira contro tre critici napoletani che, prima atei per compiacere alla moda francese, poi ferventi cristiani per... compiacere alla nuova tendenza generale, accusavano il Leopardi di empietà), la “Guerra dei topi e delle rane” (rifacimento della “Batracomiomachia” attribuita ad Omero) ed i “Paralipomeni (= le cose tralasciate) della Batracomiomachia” (un poemetto in otto canti in cui si fa la caricatura degli Austriaci - i granchi -, dei papalini - le ranocchie - e dei Napoletani o degli Italiani in generale - i topi - in guerra tra loro).
Ben più significative sono le opere in prosa
- lo “Zibaldone” raccoglie appunti di varia natura vergati su 4526 pagine dal Leopardi nel corso dell’intera sua esistenza ed affidati al Ranieri. Pur essendo stato compilato per uso personale, presenta uno stile accurato, limpido e fresco. Fu pubblicato una prima volta tra il 1898 ed il 1900 col titolo di “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”
- i “CXI Pensieri” furono scritti a Napoli e pubblicati a Firenze, nel 1845, a cura del Ranieri: comprendono riflessioni e sentenze sui comportamenti dell’uomo con l’intento di metterne in luce soprattutto l’indole malvagia;
- l’ “Epistolario” comprende più di novecento lettere, utilissime per penetrare più addentro nell'intimo del Poeta, indirizzate a familiari ed amici: sono pagine ricche si sentimento ed intrise di lacrime, che integrano stupendamente i “Canti” e le “Operette” per la elaborazione della “storia dell’anima” leopardiana.

Esempio