Pascoli: vita, opere e poetica

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Testo

GIOVANNI PASCOLI:
VITA: Giovanni Pascoli nacque il 31 dicembre del 1855 a San Mauro di Romagna, in provincia di Forlì.
Il padre era amministratore di una tenuta dei Torlonia; la madre apparteneva a una famiglia di nobili origini.
La famiglia del Pascoli godeva di una certa agiatezza economica.
Da San Mauro la famiglia si era trasferita in un edificio della tenuta dei Torlonia, “la torre”.
All’età di 6 anni, ovvero nel 1862, Pascoli fu mandato in collegio a Urbino presso i padri Scolopi insieme al fratello Luigi; gli anni passati a Urbino furono tra i momenti più felici della vita del poeta.
Nel collegio Raffaello di Urbino Pascoli frequentò le scuole elementari, il ginnasio inferiore e il ginnasio superiore sino alla I liceo.
Nel 1867 il padre mentre stava tornando a casa fu ucciso, probabilmente per una vendetta privata, e i responsabili non furono mai condannati.
Questo fatto generò nel Pascoli una profonda sfiducia nei confronti della società, inoltre in seguito a questo triste avvenimento continuarono ad abbattersi altre disgrazie sulla famiglia; l’anno seguente morirono una sorella maggiore, Margherita a causa del parto e la madre, che dopo la morte del marito non riuscì a reggere un’altra perdita così grave.
La morte del padre segnò anche la rovina economica della famiglia cosicché Pascoli e il fratello Luigi dovettero abbandonare Urbino. Il fratello Giacomo cercò di far proseguire i loro studi. Nel 1871 morì il fratello Luigi e Pascoli frequentò la II liceo a Rimini e a Firenze la III liceo. Riuscì quindi a diplomarsi dopo un periodo di lungo travaglio.
Dopo aver completato gli studi Pascoli decise di ottenere una borsa di studio per poter frequentare l’Università di Bologna, quando era sul treno per Bologna il fratello Giacomo gli raccomandò di fare del suo meglio per ottenere la borsa di studio, senza la quale Pascoli non avrebbe potuto proseguire i suoi studi; ma quando fu dettato il tema Pascoli si trovava in un tale stato di agitazione che non si sentiva di scrivere niente e solo dopo molto cominciò a scrivere quasi meccanicamente e riuscì ad essere ammesso, a sua sorpresa, all’orale, esame dal quale era molto intimorito e intimorito anche dal professore Carducci, che dopo l’orale gli fece i complimenti per la sua preparazione.
Iniziò così gli studi di lettere e durante il primo anno di studi conobbe Severino Ferrari, che era di un anno più giovane e si era riferito a lui per ricevere delle lezioni di latino, le lezioni si trasformarono in incontri letterari.
Pascoli rimase indietro con gli studi a tal punto da perdere la borsa di studio e da non aver più nessuna risorsa economica, quegli anni furono difficilissimi, racconta la sorella Maria che quando il fratello passava davanti ai forni la mattina e sentiva l’odore del pane, si sentiva svenire dalla fame che aveva.
Questo disagio lo indusse a interrompere gli studi.
Nel 1880 fu coinvolto in dimostrazioni socialiste-anarchiche a favore dell’anarchico Passamante che aveva attentato alla vita del re Umberto I, fu arrestato e incarcerato per tre mesi, una volta uscito si rese conto che doveva completare gli studi e nel 1882 si laureò presentando una tesi in letteratura greca su Alceo.
Il Carducci si preoccupò di trovargli un impiego come insegnante e gli trovò un’occupazione al Convitto Nazionale di Matera.
Pascoli in questo periodo divenne tendenzialmente obeso perché a Matera dopo tanto tempo poté mangiare regolarmente, Pascoli ebbe in odio questa sua “obesità schifosa”.
Il preside di Matera scrisse al Carducci per ringraziarlo di quel professore così competente.
Pascoli rimase a Matera dal 1882 al 1884, fu poi trasferito a Massa dove rimase fino al 1887, poi ottenne il trasferimento al liceo di Livorno, dove insegnò dal 1887 fino al 1895. Il genero del Carducci gli trovò un’abitazione a Livorno e Pascoli chiamò a vivere con sé le due sorelle che vivevano in casa di una zia.
Un altro fratello viveva a Como mentre il fratello Giuseppe visse una vita molto sregolata che preoccupò spesso il Pascoli.
Nel 1887, Pascoli, a Livorno, si illuse di ricostituire il nido familiare.
Nel 1894-1895 per un anno soggiornò a Roma comandato presso il Ministero dell’Istruzione.
Nel 1895 si sposò la sorella Ida e questo fu un trauma per il poeta che aveva sperato di ricostruire la famiglia e ciò gli sembrò un tradimento delle sue speranze tanto che non andò neanche al matrimonio.
Nel 1895 Pascoli affittò casa in campagna a Castelvecchio – nel comune di Barga- acquistò poi questa villa vendendo cinque medaglie d’oro che aveva vinto al concorso di poesia che si teneva annualmente ad Amsterdam.
Nel 1896 ottenne l’incarico di insegnare grammatica greca e latina all’Università di Bologna, sempre per interessamento del Carducci, ma non teneva molte lezioni.
Nel 1897 fu trasferito come docente di letteratura latina a Messina, dove si trasferì con la sorella fino al 1903, nel 1903 fu chiamato come docente ordinario nell’ Università di Pisa.
Pascoli fu nominato preside della facoltà di lettere e riuscì a ristrutturare la facoltà.
Nel 1906 Carducci si ritirò dall’insegnamento e Pascoli venne chiamato a sostituirlo,
il Pascoli non aveva grande competenza nell’insegnamento della letteratura italiana.
Carducci stesso sostenne la nomina del Pascoli che nel 1906 ottenne la cattedra, non si distinse molto in questo incarico, trascurava spesso di tenere le lezioni.
Nel 1912 si ammalò di tumore al fegato e morì nel giugno del 1912 a Bologna, ma il suo corpo è sepolto a Castelvecchio.
LINGUAGGIO: Pascoli rivoluzionò il linguaggio della poesia.
A questo riguardo si può considerare la poesia “L’assiuolo”,contenuta nella prima raccolta “Myricae”(il titolo della raccolta è tratto dalla IV ecloga di Virgilio), risale al 1887 pubblicata sulla rivista il “Marzocco”.
(Pazzaglia pag. 109)
Chiù:è il verso emesso dall’assiuolo,uccello rapace notturno.
sistri: antico strumento metallico egizio che si scuote come sonagli.
Il linguaggio di cui si serve il Pascoli è un linguaggio diverso dai poeti precedenti.
Fru fru non è una parola, è una ripetizione del suono della natura è onomatopea come chiù con cui si chiude ogni strofetta.
Si può distinguere tra una lingua propriamente grammaticale in cui alle parole viene dato un preciso significato semantico e le parole vengono unite tra di loro secondo strutture ben definite.
L’onomatopea si pone prima della grammatica, perviene a un livello pregrammaticale, perché i suoni della natura non possono essere definiti come parte del discorso.
Talvolta Pascoli si serve anche di un altro tipo di linguaggio che è possibile definire postgrammaticale o delle lingue speciali, appartiene a questo tipo di linguaggio sistri che appartiene a una sfera tecnica che si pone al di là della grammatica.
A questo proposito potremmo riferirci anche a “Italy”, dove Pascoli imita il linguaggio degli italo - americani che inserivano parole inglesi in un contesto italiano e viceversa, potremmo definire anche questa una lingua speciale.
Potremmo riferirci anche ad alcune liriche dove riferendosi alle guerre d’Africa Pascoli inserisce dei termini delle lingue che si parlano in Etiopia.
L’uso delle lingue speciali era già diffuso (futuristi, movimento dada) ma Pascoli è un innovatore per quanto riguarda il linguaggio pregrammaticale.
Ma per quale motivo Pascoli non ha rinunciato del tutto al linguaggio grammaticale?
Sicuramente non perché sia stato timido nel suo carattere d’innovazione ma perché ha operato in modo che i tre livelli risultassero in continuo collegamento tra di loro, quasi in osmosi.
Ne “L’assiuolo” fru fru è una onomatopea ma Pascoli premette un, articolo indeterminativo, tratta quindi l’onomatopea come un sostantivo, entra quindi a far parte parzialmente del linguaggio grammaticale.
“sentivo”, “cullare”, “mare”, “fratte”, “cuore”, “sussulto” appartengono al linguaggio grammaticale “fratte” -che appartiene al linguaggio grammaticale- è posto in relazione con “fru fru” –che appartiene al linguaggio pregrammaticale- e “tra” che li unisce è fortemente allitterante.
Se “fru fru”attraverso l’articolo indeterminativo è entrato in qualche modo a far parte del linguaggio grammaticale allo stesso modo “fratte” entra a far parte del linguaggio pregrammaticale.
“cullare”e “mare” attraverso la rima esprimono l’ansito del mare, fanno parte del livello grammaticale, ma assumono il ruolo di onomatopee.
L’anafora del verbo “sentivo” produce una forte allitterazione fra il verbo e “sussulto”, conferisce alle due parole la forma evocativa dell’onomatopea.
Il termine “sistri”, così prezioso conferisce all’espressione un’indeterminatezza estremamente suggestiva.
Il livello grammaticale è determinato, il livello pregrammaticale è indeterminato e indeterminato è anche il livello postgrammaticale, fortemente evocativo con la sua “stranezza”.
Il fatto che il livello grammaticale è messo in relazione con gli altri due livelli è significativo del fatto che Pascoli mette in rapporto il determinato con l’indeterminato, ha abolito la distinzione tra melodicità e icasticità (la lingua nella sua determinatezza).
Anche per quanto riguarda le immagini si può riscontrare la stessa struttura del linguaggio.
La lirica comincia con una proposizione interrogativa: “Dov’era la Luna?”sembra che un discorso precedentemente iniziato continui, segue poi una causale che fornisce una possibile spiegazione logica ma l’espressione nella sua originalità risulta inquietante.
Pascoli specifica i due alberi, probabilmente osserva il paesaggio dalla parte di un giardino. Per comprendere il rapporto tra estremamente determinato e indeterminato dobbiamo pensare alla tecnica fotografica, tutto risulta a fuoco ma i particolari sfuggono.
Quanto più gli oggetti vengono determinati tanto più sono posti in relazione con uno sfondo indistinto, indeterminato. La determinazione degli oggetti ha come obiettivo la creazione di uno sfondo indistinto dal quale gli oggetti sembrano emergere con un significato simbolico.
Ciò che è determinato non è in funzione del realismo. Vengono ancora una volta strettamente correlati determinato ed indeterminato.
Verso 6: non sono tanto importanti le nubi ma il nero; tecnica tipica del simbolismo, non è l’oggetto che interessa quanto la qualità dell’oggetto.
Chiù: è voce della natura, è inquietante perché quella natura cela qualcosa di ignoto.
Verso 10: ancora una volta rispetto all’oggetto il Pascoli mette in evidenza la qualità.
Il cuore ha un sussulto perché avverte nelle manifestazioni della natura qualcosa di sconosciuto, che sgomenta e quasi impaurisce ed è legato al dolore. C’è una progressione.
Il ritmo è quello della natura e la poesia si adatta a questo.
L’ignoto potrebbe ora essere definito, è legato alla morte, ora è possibile comprendere perché il cuore aveva avuto un sussulto di fronte a quella intuizione.
IDEOLOGIA: Per molto tempo il Pascoli è stato considerato ingenuo, degno di essere accostato ai simbolisti pur non avendone la consapevolezza. Ultimamente la critica ha cambiato giudizio. Per altro bisogna considerare che non tutta la poesia pascoliana può essere annoverata nel simbolismo.
Questa affermazione deve essere superata, Pascoli ebbe vasta conoscenza della cultura contemporanea; è figlio del Positivismo, la sua mancanza di fede, che egli avvertiva come una condanna, deriva proprio dalla sua formazione positivista.
Ma il Positivismo che ebbe influenza sul Pascoli è ben diverso dal Positivismo che incise sull’opera dei veristi e dei naturalisti, quello del Pascoli è un Positivismo in crisi che non propone alcuna speranza per la società.
Il Positivismo infatti col tempo subì un’evoluzione, era cambiata la concezione dell’intero universo -imago mundi-, il Positivismo aveva diffuso una concezione del mondo come organismo stabile, la materia poteva essere completamente indagata.
Questa concezione è venuta meno e ad essa si è sostituita una visione più complessa: la società veniva vista come energia imprevedibilmente creatrice, dunque la realtà non poteva più essere definita sulle basi della scienza.
L’uomo si rende quindi conto che la realtà è instabile e mutevole e che l’unica costante presente nella natura è la metamorfosi.
Pascoli pervenne per gradi a questa concezione; dalla famiglia aveva ricevuto un’ educazione tradizionale; l’ideologia cattolica era in grado di accogliere i progressi della scienza per indirizzarli al trascendente.
Pascoli non abbandona mai l’interesse per il finito e continua a cercare una ragione ultima del finito, ma la natura è in perenne metamorfosi e la trasformazione comporta la vanificazione.
Tante rappresentazioni naturali del Pascoli esprimono la vitalità d’altra parte però i vari aspetti della natura possono evocare la morte, di fronte alla quale l’uomo prova sbigottimento e dolore.
Nel 1903 fu pubblicata in italiano un’opera di Spencer “Fatti e commenti”.
Spencer in un saggio intitolato “Questioni ultime” scriveva: “la coscienza stessa che cosa è mai durante il tempo che continua? E che cosa diventa di lei quando finisce? Noi possiamo soltanto arguire che essa è una forma specializzata e individualizzata di quella Energia Infinita ed Eterna che trascende tanto la nostra conoscenza quanto la nostra immaginazione e che alla morte i suoi elementi ricadono in seno all’Energia Infinita ed Eterna donde furono derivati”.
La coscienza non è dunque che una specializzazione di quella Energia che si identifica con la vita della natura.
Alla morte dell’individuo quella energia torna al tutto, non è possibile individuare quella energia e per questo Pascoli parla di Mistero, che non ha alcuna implicazione religiosa.
La natura ha dunque una vita inesauribile e in essa l’uomo si immerge per trovare una consolazione. Questa energia è stata accostata alla volontà di Schopenauer.
La natura dispone di energia inestinguibile ma l’uomo non dispone di ciò, la sua coscienza -individualizzazione dell’energia- è destinata a dissolversi ed è proprio il senso della precarietà che genera nell’uomo sentimenti aberranti, con il sentimento assurdo di poter in questo modo allontanare la morte.
Ma secondo Pascoli proprio l’idea del nulla dovrebbe spingere gli uomini alla solidarietà: “è la pietà che l’uom all’uom più deve”.
L’uomo non può rimuovere da sé l’idea della fine.
L’Io entra in crisi in quanto è destinato a svanire nel nulla; c’è una speranza di consistere in un’umanità redenta dall’amore, espresso nella poesia, oppure rimane insuperabile l’intuizione dell’esistenza come assenza totale.
Nell’oscurità della psiche si affollano i morti e la religione consiste nel sottrarre i morti alla morte, facendoli vivere in noi ma il ricordo stesso si vanifica.
Acquista maggiore importanza lo scendere della percezione al di sotto della soglia della coscienza (intuire l’esistenza come vanificazione).
PRODUZIONE: La produzione del Pascoli risentì di due elementi significativi:
_la preparazione classica; si avvertono echi classici e latini di cui si compiaceva il Carducci che gli raccomandava di fare un salutare bagno nella filologia
_l’emarginazione dall’università; le sue condizioni economiche lo ponevano al di fuori di certi ambienti cosicché poté mantenere una propria autonomia senza subire forti influenze dai modelli comuni.
Il modello carducciano non è riscontrabile nel Pascoli se non in elementi superficiali, l’intuizione della natura del Pascoli è completamente diversa; egli parte dalla sua esperienza personale ma nel trasfigurare quei dati li fa vivere in una dimensione metastorica e metatemporale. Il Pascoli parlava di Bibbia Jafetica: come la Bibbia contiene archetipi morali allo stesso modo la letteratura classica esprime intuizioni fondamentali.
Nel 1886 si sposò Severino Ferrari e in occasione del matrimonio Pascoli scrisse un ciclo di liriche “Ultime Passeggiate” (il titolo si riferisce agli ultimi giorni di vacanza prima dell’inizio della scuola, in quel periodo il Pascoli insegnava a Livorno) il ciclo entrò poi a far parte della raccolta “Myricae”.
Il ciclo è costituito da alcuni madrigali e del ciclo fa parte il componimento “Arano” che presenta un linguaggio meno innovativo dell’ “Assiuolo”, ma si può riscontrare anche qui lo stretto rapporto tra determinato e indeterminato.
Il lavoro agricolo è studiato nei suoi particolari ma il tutto è raccordato oltre che da fondo indistinto anche dal ritmo lento dell’azione.
Pascoli può raggiungere tale risultato attraverso una struttura complessa, a partire dall’iperbato iniziale, le cose -come dice Pazzaglia- sembrano avere una loro gestualità, sembrano cioè esprimere qualcosa (tale gestualità potrebbe essere definita epifania? La parola per il Pazzaglia è equivoca perché potrebbe far cadere nella convinzione che nella natura si manifesti un principio divino, e ciò potrebbe far dimenticare l’assoluto materialismo del Pascoli).
Nelle quartine si passa a una dimensione diversa Pascoli suggerisce un “guizzo della vita”, i rumori della vita emergono dalla vanificazione che le immagini precedenti suggerivano.
L’Io si dissolve ma emerge un guizzo di vita, ingiustificabile sul piano razionale.
Pascoli si serve di una similitudine, il tintinno (canto dell’usignolo) viene paragonato all’oro: quel cinguettio di gioia ha la risonanza del metallo e il fulgore della vita come l’oro splende tra tutti i metalli.
La similitudine è implicita ed ha quasi la suggestione dell’analogia.
Questa lirica è già piena di simbolismo.
Gli oggetti, gli elementi della natura sono simbolo al tempo stesso dell’energia e della vanificazione dell’uomo che una volta morto non può essere richiamato all’esistenza.
Della raccolta “Myricae” fa parte anche il componimento “Lavandare” (pagina 106), anche questa un madrigale.
Con un procedimento, che potremmo definire prezioso, Pascoli inserisce all’interno del componimento anche un altro genere letterario, il rispetto.
Con questa lirica ci troviamo già in un ambito simbolista, il simbolo principale della lirica è rappresentato dall’aratro.
Possiamo riscontrare elementi determinati tra cui anche l’aratro stesso, ma sembrano emergere da un fondo indistinto, la nebbia.
L’aratro è il simbolo dell’abbandono, dell’esclusione, tale concetto emerge dal canto delle lavandaie, un canto estremamente cadenzato.
Nella seconda terzina Pascoli desemantizza le parole, sottrae loro il significato convenzionale facendo acquistare alle parole maggiore rilievo per la musicalità che per il concetto.
Il verso “e tu non torni ancora al tuo paese!” sottolinea il tema dell’abbandono. L’immagine dell’aratro con cui la lirica si apriva suggella ora la riflessione lirica.
Tutta la lirica del Pascoli oscilla tra la percezione della vita che si manifesta in guizzi subitanei, e il senso della morte che incombe sul tutto e in particolare sull’uomo, che con la coscienza prende atto che la vita è vanificazione.
Il Pazzaglia parla di “deiezione esistenziale” (deiezione = essere gettato fuori), che implica la perdita di un significato dell’esistenza, tutta l’esperienza umana non è altro che un fluire senza senso, un precipitare di fronte alla morte, di fronte a ciò l’uomo non può riscattarsi.
Il senso di abbandono non è da riferire unicamente all’esperienza biografica del Pascoli, egli stesso si definiva un “relitto umano” (la parola relitto è propria del decadentismo), ma questa deiezione è propria della condizione umana in generale.
Le esperienze personali del Pascoli tuttavia gli hanno permesso di prenderne piena coscienza.
L’unica salvezza è la poesia, non perché la poesia in sé sia in grado di cambiare la condizione dell’uomo, ma perché il poeta è capace di essere voce della natura ed è capace di esprimere lo sgomento di fronte alla vanificazione.
Il poeta però non è un vate in grado di comunicare una verità ben definita, ma egli deve rinunciare a se stesso per impiegarsi in una vita più autentica e per esprimere così la psiche primordiale, cioè quegli impulsi che sono a fondamento della vita.
Per fare questo deve necessariamente rinunciare ad avere una vita comune (deve rinunciare alla famiglia e all’unica possibilità di sopravvivenza, i figli) immerso nel continuo divenire della natura può esprimere lo sgomento di fronte alla vanificazione.
A proposito della poesia del Pascoli si è parlato di “democrazia oggettuale”, tutti gli elementi della natura, indistintamente dalla loro importanza entrano a far parte della poesia, ogni cosa, dalla più apparentemente insignificante alla più importante, è immersa nel non consistere.
La prima raccolta poetica di Pascoli è “MYRICAE”, il titolo deriva dalla IV ecloga di Virgilio e come ogni raccolta poetica del Pascoli essa ha un motto: argusta iuvant umilesque myricae -tutti i motti delle raccolte poetiche del Pascoli derivano da Virgilio-.
La raccolta ebbe nove edizioni, dal 1891 al 1911, e si arricchì sempre di più di nuovi componimenti. La raccolta nella sua prima redazione conteneva 22 liriche, il Pascoli riteneva che fosse già completa perché i temi fondamentali della sua poesia erano già raccolti in quelle 22 liriche.
La prefazione alla raccolta è importantissima:in primo luogo Pascoli richiama all’importanza della natura, a godere del suo fluire; è vero che la vita è male ma la colpa non è della natura bensì degli uomini stessi che nella loro sofferenza non cercano di unirsi ma si fanno del male distruggendo il portato della natura; offuscano così la possibilità di trovare una consolazione nell’immmergersinel continuo metamorfico divenire della natura.
Gli uomini devono preferire la luce alle tenebre.
La poesia di “Myricae” non è improntata all’ottimismo, è vero che in molte liriche è espresso il guizzo vitale che permette di rafforzare l’attenzione verso un significato, ma d’altra parte il poeta non manca di esprimere sgomento di fronte all’impossibilità di trovare un significato, ovvero di fronte alla vanificazione.
Della raccolta fa parte la lirica “Novembre” che presenta una costruzione particolarmente preziosa, che quasi ricorda la struttura dei parnissiani per la limpidezza delle immagini.
La costruzione della prima strofetta è efficacissima, presenta la prolessi del predicato nominale rispetto al soggetto, ancora una volta sull’oggetto acquista maggiore importanza la qualità.
Il significante non coincide con il significato perché il significante esprime l’ansia del significato.
Il rifiorire della primavera è immagine di vita, l’inversione esprime slancio, speranza lontana. Questa tensione è delusa, la natura nel mese di novembre non trasmette un’idea di vitalità bensì un’idea di dissoluzione.
verso 6: “nere” e “sereno” sono come in ossimoro.
La lirica si conclude con la percezione della vanificazione.
L’ultima proposizione è l’unica proposizione diretta della lirica. L’immagine del vento è simbolismo.
Altra lirica della raccolta è “Patria”, la lirica risale al 1894; Pascoli è distante dal Carducci. La patria per Pascoli è San Mauro e la composizione sarebbe stata scritta durante uno dei suoi ritorni a San Mauro; in realtà la risposta è inadeguata. La patria per Pascoli è integrazione, consistere in un ruolo. Pascoli è per eccellenza l’escluso, esclusione che diventa però una scelta. Solo a questa condizione, infatti il poeta può farsi voce della natura. La lirica ha come tema fondamentale quello dell’esclusione.
Da ciò che è estremamente determinato si passa all’indeterminato.
Nella prima strofetta predominano le stimolazioni di carattere uditivo (lo scampanellare, più importante il valore ritmico). Nella seconda strofetta subentrano stimolazioni di carattere visivo.
Singolare è poi la terza strofetta formata da tutti sostantivi e da due soli aggettivi, questo addensarsi serve proprio ad esprimere il senso di esclusione.
Non ci sono elementi, per quanto umili, che non abbiano diritto di cittadinanza nella lirica pascoliana.
La poesia è un privilegio riservato a chi abbia fatto un’esperienza particolare del dolore e dell’emarginazione, ma d’altra parte è anche una condanna.
Altra lirica della raccolta è “Ultimo sogno”, una delle più complesse. Ricca di simbolismo ancora più complesso di quello presente in “Patria”.
Il simbolo, in questa lirica, è difficilmente decifrabile, non è possibile pertanto giungere a una spiegazione del tutto esauriente, il lettore deve accostarsi alla lirica per tentativi.
Ma cosa è questo ultimo sogno? O il sogno dell’ultima notte oppure molto più probabilmente l’ultimo sogno della vita, tanto da identificarsi poi con la morte.
Si potrebbe dare quindi un significato di sogno definitivo, una visione fondatrice di una nuova concezione dell’esistenza, quella vita inerente alla poesia.
Pascoli dice “ero guarito” ma a cosa si riferisce?
Non si può escludere che si tratti di una guarigione da una malattia fisica tuttavia è assai più probabile che si tratti di una malattia esistenziale; è l’odio che turba la pace della natura, e la vita è segnata dalla violenza, è comunque un procedere verso la vanificazione.
In un certo senso potrebbe anche non essere la violenza che turba l’esistenza ma la malattia della vita stessa come volontà di affermazione e impossibilità di raggiungere un significato.
Attraverso la poesia il poeta si immerge in una dimensione diversa per cui non lo meraviglia affatto di trovarsi a fianco la madre, pur sapendo che è morta,infatti nella dimensione della poesia l’uomo recupera le memorie, la poesia non permette l’immersione nella vita pratica.
verso 10: “le mani al petto” il poeta ricorda il gesto della madre che gli metteva le braccia a croce mentre stava per addormentarsi. Il poeta dice ora di non voler sciogliere quella croce perché vuole immergersi totalmente in quella dimensione d’amore, legata alla dimensione della morte.
L’ultima immagine, osserva il Pazzaglia è un’immagine ossimorica, il fiume è la vita volto verso il mare del nulla, non c’è immagine che esprima meglio l’ansia verso il significato, verso l’infinito, che è ignoto.
Potremmo definire questa lirica come esaltazione della poesia che ci conduce verso un significato inesistente; è una rifondazione dell’umano, fondata su basi più solide di quelle convenzionali, ma volta lo stesso alla vanificazione.
I “POEMETTI” costituiscono la seconda raccolta poetica del Pascoli; non si può stabilire un’esatta sequenza cronologica tra le varie raccolte del Pascoli, infatti quando cominciò a pubblicare questa raccolta era ancora in corso la pubblicazione di “Myricae”, la cui edizione definitiva risale al 1911. I “Poemetti” risalgono al 1897 e man mano che la raccolta si ampliava si realizzò nel Pascoli l’idea di distinguere tra “Primi poemetti”,la cui edizione definitiva risale al 1904, e “Nuovi poemetti”, la cui edizione definitiva risale al 1909; tra l’una e l’altra sezione non ci sono differenze.
Le due sezioni della raccolta hanno un carattere vagamente narrativo, si passa dal frammentismo di “Myricae” a una poesia più organica centrata su alcuni temi fondamentali.
Pascoli usò la terzina dantesca, scelta significativa perché legata a un’opera di carattere narrativo.
Il motto di questa raccolta è “paulo maiora”.
La prefazione è importantissima; i “Poemetti” sono dedicati alla sorella Maria, la
La prefazione risale al 1897, anno della scelta del ritiro, ed egli riteneva che la sorella condividesse tale scelta.
Pascoli usa costantemente la parola Mistero, che non ha alcuna valenza religiosa né mistica ma è l’ignoto legato a una concezione strettamente materialistica; è ciò che avvolge la vita, il significato a cui l’uomo è proteso seppur sa di non poterlo realizzare.
Pascoli invita gli uomini a sostenersi a vicenda, accomunati dalla prospettiva della vanificazione.
Tale messaggio avvicina la poesia del Pascoli a quella del Leopardi seppure la differenza è sostanziale; infatti se per Leopardi questo messaggio solidaristico è attivo perché spinge alla reazione contro la natura, invece per Pascoli tale messaggio è passivo, invita alla rassegnazione di fronte al comune destino umano, e unica consolazione è la poesia, che permette di calarsi nel continuo divenire della natura.
Per Leopardi la natura è matrigna, per Pascoli invece è madre benefica nella quale l’uomo può trovare il suo unico conforto, tale concezione non fu mai negata dal Pascoli su di un piano teorico anche se in alcune liriche il pessimismo pascoliano si acutizza sempre di più.
I “Poemetti” sono caratterizzati in una loro sezione da un andamento narrativo.
Pascoli narra la vicenda d’amore tra due contadini: Rigo e Rosa e collega i vari momenti del loro amore ai momenti della natura, lo sbocciare dell’amore corrisponde al germogliare delle piante. La storia d’amore dei due è descritta con grande delicatezza.
I due si sposano e hanno un figlio, che muore. Rosa lo pone in una culla di fiori e mentre lo guarda sente che una nuova vita cresce in lei.
La vita è sempre accompagnata dall’idea della morte, in una rigenerazione continua dove le singole esistenze si dissolvono.
Pascoli distingue tra il sentimento d’amore e l’eros.
Concepisce l’eros come un impulso misterioso che spinge alla perpetuazione della vita, alla procreazione, gli esseri sono travolti da tale impulso. Non è una visione serena, si è infatti spesso parlato di una sessualità perturbata del Pascoli, che guarda all’eros con paura e se ne ritrae.
In alcuni poemetti che potremmo definire filosofici Pascoli ripropone la concezione dell’uomo e della poesia.
L’esistenza dell’uomo è caratterizzata dalla compresenza della vita e della morte e ciò vale anche per la poesia, caratterizzata dalla compresenza di guizzi vitali e dalla prospettiva della vanificazione.
“Nella nebbia” (pagina 126). I pochi elementi che emergono dalla nebbia è come se emergessero da un incubo. Possiamo riscontrare anche in questa lirica la compresenza di determinato ed indeterminato.
Determinati sono gli scheletri dei faggi, i gridi degli uccelli ma tutto è disperso, assimilato nello sfondo nebbioso, indeterminato.
Non è possibile dare un significato univoco alla poesia simbolica, si può comunque affermare che la nebbia che avvolge tutto è l’ignoto che avvolge la vita dell’uomo.
Le péste rappresentano la vita stessa dell’uomo, un procedere privo di meta, verso la vanificazione.
La ricerca è dolore, il poeta intravede un’ombra umana “con sopra il capo un largo fascio”; ombra umana perché l’ombra è inconsistente, come inconsistente è tutto ciò che circonda l’uomo.
Il dolore investe l’universo; gli uccelli, il cane, il mare, che è simbolo della condizione dell’uomo, è la vita nella sua inconsistenza.
In questo senso è una delle liriche più significative.
La poesia rifonda l’umano perché la parola è ricerca inesausta di significato, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere un significato.
“La vertigine” (pagina 133) Quando Pascoli si sofferma ad esaminare la natura prevale in genere un senso di conforto dalla percezione del rinnovarsi continuo della vita quando invece si sofferma ad esaminare gli spazi astrali prevale un senso di sgomento, il senso del nulla.
Prima dell’inizio della lirica si parla di un fanciullo che ha perso il senso della gravità, il fanciullo è il poeta in generale, che come il fanciullo guarda il mondo con occhio limpido e concreto.
Pascoli considera la terra come una sfera che vaga nell’universo, pertanto gli uomini non sono come gli alberi, c’è un rovesciamento delle posizioni.
L’orrore dell’abisso si avverte particolarmente nella notte.
Alla fine della lirica la poesia viene definita come ricerca insaziabile di un significato inconsistente. In questa ricerca l’uomo trova il suo riscatto e ciò comporta l’amore verso gli altri.
“Digitate purpurea”: si parla di due donne, probabilmente da identificare con le due sorelle, Ida e Maria.
Si immagina che le due donne dopo molti anni ritrovatesi, rievochino gli anni passati in collegio.
Il tema fondamentale è quello dell’eros, si parla di un fiore -che ha significato simbolico- che dapprima, quando lo si odora inebria ma poi avvelena e fa morire.
Una delle due donne dice di essere sempre stata lontana da quel fiore, l’altra invece gli si è avvicinata ed è morta.
Il testo prosastico in cui il Pascoli definì la sua poetica (anche se ne parla anche in altre opere,ma questo scritto a riguardo riveste un’importanza fondamentale) è la “PROSA DEL FANCIULLINO” che fu pubblicata a puntate nel 1897 sul giornale il “Marzocco”, fu pubblicata poi nei “Miei pensieri di varia umanità”,raccolta di prosa, che poi confluì nel 1907 in “Pensieri e discorsi”.
Il titolo deriva da un passo del “Fedone” di Platone: Cebes Tebano pensando alla morte di Socrate che stava per bere la cicuta si mette a piangere.
Socrate lo rimprovera per quel pianto e Cebes si scusa dicendo che non è lui che piange ma il fanciullino che è in lui.
Il punto di partenza della riflessione del Pascoli è l’idea della presenza della morte nella vita dell’uomo, e l’unica consolazione è la poesia che permette di partecipare alla vita del tutto. Il poeta in un certo senso sottrae le cose al destino di vanificazione e le restituisce alla vita, se tutto nella storia si dissolve la poesia è in grado di percepire la vita segreta delle cose e in un certo senso riportarle alla vita.
Il poeta ha quindi il compito di sottrarre quanto più può alla morte. La poesia è quindi un dono sacro.
La poesia ha dunque il compito di esprimere l’ansia di una rifondazione del mondo su una base più umana , deve cogliere il fondamento primigenio della natura e della psiche esprimendosi in un linguaggio primigenio e nuovo.
Il poeta coglie ciò che è sempre stato e ciò che sempre sarà, si esprime al tempo stesso con parole vecchissime e nuovissime che servono a interpretare il ritmo primitivo del mondo.
È dentro di noi una psiche primordiale perenne in cui si riflette il tutto.
Pascoli definisce il fanciullino musico perché è in grado di cogliere l’armonia delle cose, di cogliere il fluire delle cose non con la ragione ma andando al di là della ragione, è quella capacità presente in ogni comoda cogliere con l’occhio della spontaneità.
Pascoli non vuole credere che in qualcuno non ci sia il fanciullino, perché egli non sarebbe così unito all’umanità.
Non gli uomini, attaccati alla contingenza, ma i fanciulli sono in grado di cogliere la concezione comune a tutti gli uomini e si concepiscono così come fratelli.
Se il fanciullino è la psiche primordiale dell’uomo è proprio il fanciullinoche permette di scoprire l’intima essenza del mondo.
Le preoccupazioni mettono quasi a tacere la vita del fanciullino.
Il sogno, come Pascoli dice in uno dei “Poemi Conviviali”, “è l’infinita ombra del vero”, l’infinito in realtà non esiste eppure nel poeta non si spegne mai la speranza che esso esista.
La prosa del fanciullino è tutta basata sulla paratassi, è una sorta di rivelazione infatti il discorso poetico si svolge su di un piano irrazionale e non logico.
“ci salva”: perché ci permette di piangere e il pianto è una liberazione.
Viene considerato poi il carattere umano della poesia, umano perché la poesia svela all’uomo.
Il linguaggio è un po’ arcaizzante perché attinge alla psiche primordiale dell’uomo ma proprio per questo è perennemente nuovo.
La poesia in un certo senso è la poesia del Pascoli, perché nella poesia si vagheggia l’infinito.
È indubbio che la poesia del Pascoli proponga una forma di naturalismo, ma è un naturalismo ambiguo che si svolge tra sogno e realtà.
Lo sguardo del poeta viene fissato sull’oggetto e il poeta vede l’oggetto come rivelazione suggestiva della natura-vita, che è il mondo esterno ma anche la coscienza dell’uomo, tutto fa parte del fluire della natura, ma la poesia sottrae l’oggetto per un istante da questo fluire continuo facendone un simbolo.
Nella poesia del Pascoli si corrispondono cose grandi e cose piccole.
Ma qual è dunque il fine della poesia? Per Pascoli la poesia non ha altro fine che se stessa. Non ha alcuno scopo di insegnamento, ma d’altra parte coglie l’autenticità del vivere e del sentire, sgombra il campo da tutte le sovrastrutture che ingombrano l’uomo restituendo all’uomo se stesso.
Il bello estetico e il bello morale si identificano.
La poesia inevitabilmente svelando all’uomo se stesso lo conduce al bene, ciò che è autentico è bene. La poesia trasmette quindi un insegnamento morale seppur involontariamente.
L’idea del poeta di Pascoli si può collocare a metà strada tra due modelli opposti, un modello è quello del Carducci che vede il poeta come educatore e maestro (Carducci nonostante la sua polemica contro il Romanticismo eredita proprio da questo tale concezione). Al modello carducciano si oppone il modello d’annunziano, il poeta che si è ritirato in aristocratico distacco dal mondo è il veggente.
Il fanciullino pascoliano è in un certo senso “l’artefice” di Mallarmé ma involontariamente trasmette un messaggio.
Ora Pascoli deve farsi voce del fanciullino e nella conclusione, in una lirica afferma che il poeta deve seminare nell’anima, il poeta deve essere un palpito lieve nei cuori, un palpito che non si dissolva con la morte del poeta ma che aldilà della sua morte si mantenga nei cuori.
Nel finale la polemica è contro D’Annunzio, seppur Pascoli lo stimasse moltissimo.
La seguente raccolta sono “I CANTI DI CASTELVECCHIO”, la prima edizione fu compiuta nel 1903, la seconda edizione risale al 1907 mentre l’edizione definitiva risale al 1912 e fu portata a compimento dalla sorella Maria perché Pascoli era morto.
Pascoli volle presentare questa raccolta come le “Myricae mature” seppure la ripresa è solo parziale.
Se le “Myricae” erano state dedicate alla memoria del padre, ora questi canti sono dedicati alla memoria della madre.
Il motto di questa raccolta è lo stesso di “Myricae”.
Nell’introduzione Pascoli dice che l’oggetto della sua poesia nell’opera sono i vari aspetti della natura e soprattutto la morte.
Senza la morte la nostra vita sarebbe uguale a quella delle bestie, è il pensiero della morte che ravviva la coscienza dell’uomo e spinge alla solidarietà.
I canti non si possono definire “Myricae mature” perché presentano altri elementi rispetto a quelli della raccolta precedente. Elementi quasi leopardiani; in primo luogo quello del ricordo, dice Pascoli “il ricordo è poesia e la poesia non è senza ricordo”. Ma il ricordo non consiste nel recupero della fanciullezza come per Leopardi ma consiste nel recupero dei morti, in particolare della madre. Pascoli rievoca come, dopo la morte del padre spesso la sera si fermasse fuori dalla sua abitazione con la madre, da lontano lampeggiava ed egli vedeva il volto della madre perso in quelle visioni.
I “Canti di Castelvecchio” non sono divisi in vere e proprie sezioni.
Della raccolta fa parte la lirica “Gelsomino notturno” (pagina 111), scritta nel 1901 in occasione del matrimonio di un amico, Angelo Briganti.
Questa lirica è stata sottoposta a pluralità di interpretazioni. Molti critici sono tornati a insistere sulla sessualità turbata del poeta che guarda all’intimità degli sposi con attrazione e paura, ma considerare questa lirica solo sotto a questo aspetto sarebbe molto riduttivo.
In questa lirica Pascoli si avvale di quartine di novenari, di cui i primi due versi hanno ritmo giambico mentre gli ultimi due hanno ritmo anapestico, c’è un’unica irregolarità nell’ultimo verso. È una specie di epitalamio.
Pascoli si rendeva conto del carattere della lirica perché all’amico raccomandò di non farla leggere alla sposina se non la mattina dopo il giorno del matrimonio.
L’immagine iniziale e l’immagine finale si corrispondono; i fiori notturni che si aprono rappresentano il grembo femminile, cantato dal poeta come accettazione della vita.
La lirica è esaltazione della dignità dell’amore coniugale.
La notte nuziale assume significato cosmico, la maternità è adesione alla vita e l’eros assume una luce di bellezza, luce che viene collegata a una dimensione cosmica. La felicità di quella vita (“si cova, dentro l’urna molle e segreta, non so che felicità nuova”) è collegata al flusso dell’universo, la dimensione cosmica comporta però la compresenza di vita e di morte che si avverte attraverso il lieve rumore delle presenze della natura: il gioco dei colori, il rosso delle fragole è evocato dal loro profumo; poi quel colore viene rapportato al lume che splende su per la scala e contemporaneamente queste immagini fanno tutto uno con l’immagine dell’erba che cresce sulle tombe, l’orsa maggiore, la Chioccetta si muove con altre stelle che le fanno da scorta e diventano quindi pulcini. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si corrispondono in forma analogica. Pascoli lo definisce spiritale perché è il tempo della vita cosmica.
Il poeta può cogliere tutto ciò perché lo vede con l’occhio del fanciullino e del poeta, ma per fare ciò deve rinunciare alla vita comune.
L’ape è immagine di esclusione. Il poeta ha il privilegio di cogliere nell’oggetto il significato universale ma per fare ciò deve rinunciare alla vita comune.
Riguardo al tema dell’esclusione si può fare riferimento anche ad un’altra lirica di questa raccolta: “La servetta di monte”, scritta in quartine di novenari.
Dapprima, nelle prime due quartine, Pascoli presenta un accumulo di oggetti, che non sono rappresentati in modo realistico ma seppure sono determinati sono posti in funzione dell’indeterminato; sono come presenze vagamente allucinate, raccordate non da nessi logici ma da spazi interoggettuali, indefiniti.
Questo senso d’angoscia dell’esclusione può essere risolto nella natura. L’acqua che diventa sonaglio è accenno di scioglimento dell’angoscia, si sente poi lontano, lontano, lontano il campano.
La ragazza guarda poi ai suoni della natura che si fanno di un ritmo sempre più veloce per giungere al canto dell’allodola. Pascoli usa il termine tottavilla al posto di allodola perché non è possibile usare il linguaggio comune.
Alla fine, dunque, si giunge allo scioglimento dell’angoscia attraverso la natura.
Altra lirica della raccolta è “Nebbia” (pagina 116). Il metro usato sono strofe di sei versi formate da tre novenari, un ternario, un quarto novenario e infine un quinario.
Castelvecchio per Pascoli è un rifugio dalla vita. In Pascoli si avverte quasi sempre un fortissimo senso di sgomento di fronte alla morte, in questa lirica desidera affermarsi, ma tanto più si aggrappa alle cose tanto più esse lo rimandano all’ignoto.
Già la presenza della nebbia fa intendere anche in questa lirica la compresenza di determinato e di indeterminato.
La dialettica vita-morte è sempre presente. Il cane, presentato alla fine della lirica tutela l’intimità domestica. In questa lirica c’è un continuo passaggio dall’oggetto all’ignoto, lo sguardo del fanciullino coglie nell’oggetto la rivelazione suggestiva dell’ignoto.
Nei “Canti di Castelvecchio” c’è una sezione intitolata “Ritorno a San Mauro” dedicata a un incontro con la madre. I morti, nella poesia pascoliana, sono proiezione della loro stessa morte, sono presenze dell’assenza.
Importantissime in questa sezione sono le liriche “Casa mia” e “Commiato”.
“Commiato”: (pagina 119) è il momento in cui il Pascoli si allontana dalla madre. È un tempo non tempo, infatti è il racconto di una giornata ma di una giornata che vive solo nella dimensione metastorica della poesia.
In questo tempo è la morta che parla, Pascoli non dice niente, tuttavia dalle parole della madre si comprendono le richieste del figlio. La madre dice come rassicurazione al figlio che verrà il momento della morte anche per lui, Pascoli chiede se c’è un aldilà.
La lirica assume poi i caratteri di una preghiera. Rimane poi di fronte agli occhi del poeta solo il bianco della strada, la strada che porta al cimitero, non c’è altra prospettiva che la morte.
La raccolta successiva sono i “POEMI CONVIVIALI”, si chiamano così perché Pascoli ne pubblicò gran parte a Roma sul “Convito” di De Bonis, col quale Pascoli era entrato in contatto nel 1905. furono pubblicati nel 1904 una prima volta e in edizione definitiva nel 1905.
Il titolo della raccolta alludeva anche al convito che nella civiltà greca svolse sempre un ruolo importantissimo.
Il motto della raccolta è “non omnes argusta iuvant”.
Sono una serie di liriche dedicate a personaggi storici o mitici del mondo antico.
La rassegna si apre con “Solon” e si chiude con “Gog e Magog” in cui si preconizza l’arrivo di orde orientali che sconvolgeranno la civiltà occidentale e porranno fine ad essa.
Pascoli non presenta la classicità perché egli collega il classico all’armonia tra l’uomo e la natura, realizzata da Virgilio nelle “Georgiche” e che si palesa anche nelle “Odi” di Orazio.
Nei “Poemi Conviviali” Pascoli coglie una crisi del mondo antico, crisi tra una tensione verso l’infinito e la constatazione della dissolvenza, la delusione dunque.
“Alexandros”: aveva continuato ad andare ad oriente rinnovando la speranza della ricerca verso l’infinito, ma poi si era trovato di fronte all’oceano e quindi di fronte al niente.
Quel sogno, ombra infinita del vero, è giunto alla sua conclusione perché Alessandro si trova di fronte al nulla, ovvero la crisi.
È dal momento di crisi che avviene la scissione tra infinito e finito, che i classici avevano superato proponendo una suprema armonia tra l’uomo e la natura. Anche il cristianesimo, apprezzato dal Pascoli per la carità, però ha contribuito a spezzare tale armonia distinguendo tra un mondo perfetto e un mondo imperfetto.
“Solon” (pagina 132) La prima parte è in endecasillabi.
Solone, ormai vecchio partecipa a un convito compiacendosi del vino e del pasto.
Intanto giunge al porto del Pireo Saffo, che porta in occasione della festa della primavera due canti: un canto d’amore e uno di morte.
Dapprima eleva il canto d’amore e Solone crede che sia il canto di morte, poi eleva il canto di morte e Solone non si sbaglia nell’interpretazione. Ma la morte non esiste perché il poeta vive immortale.
In una nota Pascoli scrisse l’interpretazione del nome Saffo, che per lui significa “luce crepuscolare” mentre quella del nome Faone, mitico amante di Saffo, sarebbe “luce solare”, del sole a tramonto. Saffo è dunque la luce crepuscolare che segue la luce solare quando il sole si dissolve nel mare. Quindi l’amore è vanificazione mentre la poesia è perennità.
Dall’endecasillabo, presente nella prima parte si passa poi alla strofe saffica.
Nel 1909 Pascoli pubblicò “ODI E INNI”, significativamente il motto di questa raccolta è “canamus”, questa raccolta è meno significativa delle precedenti.
Grande spazio nella raccolta è dato ai componimenti di carattere civile; Pascoli non hai mai rinunciato alla funzione educativa della poesia anche se questo messaggio è trasmesso indirettamente, inevitabilmente attraverso il bello estetico si trasmette anche il buono morale, ora ispirandosi anche al modello del Carducci si propone di scrivere odi che possano trasmettere valori civili.
Pascoli ritiene che la società possa rigenerarsi attraverso l’amore.
Si può parlare di socialismo in un certo senso, sarebbe infatti più giusto usare l’aggettivo umano, perché il socialismo implica la lotta di classe che Pascoli rifugge.
L’uomo deve unirsi agli altri uomini nella prospettiva della morte e da qui nasce l’amore che è a fondamento della società.
Riferendosi alla terribile repressione dei moti operata dal generale Bava Beccaris, Pascoli chiama gli uccisi fratelli, pensa alla vita stroncata non solo degli uccisi ma anche alle vite stroncate dei familiari che gli uccisi hanno lasciato.
Pascoli non ha una vera e propria coscienza politica, il suo pacifismo è ingenuo, secondo Pascoli bisognerebbe eliminare gli schieramenti politici che creano contrasti all’interno della società, ma una società autenticamente democratica non può prescindere dal confronto dei partiti politici.
Parte della raccolta è dedicata ai temi storici, Pascoli in questa parte considera anche la politica del Crispi alla quale non si dimostra contrario. In questa parte Pascoli si avvale di un particolare linguaggio, ne “Le spogliatrici” usa un linguaggio simile all’africano ed è un esempio delle cosiddette lingue speciali.
In “Odi e Inni” si incontrano anche alcuni componimenti più congeniali alla poesia pascoliana come “Andrée” e “Crisantemi”.
In queste ultime raccolte si avverte comunque il declino della poesia pascoliana appesantita da preoccupazioni estranee.
Nelle “CANZONI DI RE ENZIO” Pascoli si propone di rievocare la storia della Bologna medievale quando la città era un libero comune, anche questo componimento si inserisce nella tradizione carducciana. Re Enzo, era uno dei figli di Federico II, fu vinto dai bolognesi nella battaglia di Fossalta e tenuto poi prigioniero per tutta la vita nel palazzo che da lui prende il nome.
Il principe svevo Enzo fece conoscere a Bologna i moduli della poesia siciliana.
Tuttavia la rievocazione fatta dal Pascoli con estrema delicatezza e bravura ha ben poco a vedere con i motivi più autentici della poesia pascoliana.
Nel 1911 Pascoli pubblicò i “POEMI ITALICI” nei quali esalta grande figura del passato, anche questa raccolta risente di un’impostazione retorica in cui i motivi autentici della poesia pascoliana si disperdono anche se non sono completamenti assenti in alcuni componimenti importanti come quello a Paolo Uccello.
Altra raccolta è quella dei “POEMI DEL RISORGIMENTO” pubblicati nel 1913 dalla sorella Maria, i personaggi a cui rivolge attenzione sono Napoleone, Garibaldi e Mazzini. Nella prefazione scritta dalla sorella stessa dice che il fratello voleva dedicare il poema a quei grandi italiani che avevano fatto il risorgimento, in questa opera il Pascoli rifugge dalla situazione di degrado in cui era caduta la società.
STUDI CRITICI:
Pascoli fece degli studi critici su Dante, pubblicò nel 1897 “Minerva Oscura” un volume di studi sull’Inferno; nel 1900 pubblicò un volume di studi sul Purgatorio intitolato “Sotto il velame” e infine nel 1902 pubblicò un volume di studi sul Paradiso intitolato “La mirabile visione”.
Gli studi danteschi del Pascoli non ebbero nessun successo, l’Accademia dei Lincei a cui Pascoli aveva inviato i suoi studi per avere un giudizio pronunciò un parere negativo, probabilmente dettato dal Carducci.
Ma per alcuni aspetti sono comunque importanti, Pascoli richiamava molto l’attenzione sull’importanza dell’allegoria e del simbolo nel poema, inoltre le analisi di singoli episodi sono molto acuti. Pascoli però finisce per attribuire a Dante una poetica non molto diversa dalla sua. Egli dice che è fondamentale la figura di Matelda, che Dante pone nel Paradiso terrestre, che secondo lui rappresenta la coscienza primigenia dell’uomo, cioè la poesia. Significativo è il fatto che Dante sia accompagnato a Matelda, da Virgilio che è il poeta per eccellenza.
Altra figura fondamentale nel poema dantesco è per Pascoli il veltro, chiamato al recupero dell’umanità, ma tale rigenerazione può avvenire solo previa purificazione del mondo, purificazione condotta dalla poesia che rende possibile il recupero dell’innocenza.
Pascoli in questa sua interpretazione ebbe anche dei seguaci, come Pietrobono.
Per motivazioni economiche, su commissione della Zanichelli, curò un’antologia sulla poesia lirica latina e un’antologia sulla poesia epica latina, intitolate rispettivamente “Lyra” e “Epos”.
Pascoli non aveva alcuna conoscenza della filologia che si stava sviluppando in Germania e interpreta quindi i testi latini guidato dalla sua profonda conoscenza della lingua latina e guidato dalla sua estrema profondità poetica.
Assegna grande rilievo per la poesia lirica ad Orazio e per la poesia epica ad Ennio e a Virgilio.
Nella prefazione parla dell’origine della poesia; i poeti si ispirarono per la loro opera ai suoni della natura, c’è dunque un passaggio dai suoni della natura all’elaborazione poetica.
In seguito pubblicò due antologie italiane, una per il ginnasio superiore e una per il ginnasio inferiore intitolate una “Sul limitare” -il titolo si riferisce ai compagni di Odisseo che si rifiutarono di entrare nella grotta di Circe- e “Fior da fiore” titolo tratto dal canto XXVIII del Purgatorio dove Matelda coglie da fiore a fiore.
Nella prima antologia Pascoli tradusse molti canti anche di opere straniere come ad esempio “La morte di Orlando” tratta da “La Chanson de Roland”.
L’altra antologia si apre con tre parabole evangeliche, le tre parabole che, come dice il Pascoli, cambiarono il mondo.
È poi da considerare una prosa “La grande proletaria si è mossa” che è da mettere in relazione con le “Odi e Inni” e con i “Poemi Italici”.
Il Pascoli ebbe grande attenzione per l’emigrazione italiana e ebbe grande pietà per loro, per questo appoggiò l’impresa di Libia come fecero anche molti socialisti dell’epoca.
La grande proletaria è l’Italia stessa. Pascoli ritiene che non si debba distinguere tra varie classi sociali perché è povera nel suo complesso, per tanto ha bisogno di uno sfogo oltre ai suoi confini e gli sembra che la Libia possa essere rivendicata a buon diritto dall’Italia, infatti già un tempo quelle terre erano state colonizzate dai romani.
L’Italia è la grande proletaria che porta l’agricoltura e la civiltà in terre abbandonate, per Pascoli il mondo campestre coincide sempre con l’autenticità.
Pascoli si dovette poi ricredere da questa sua opinione man mano che pervenivano le notizie delle stragi italiane.
Questa prosa, come la prosa del fanciullino non è costruita su di un ragionamento logico ma le preposizioni si succedono le une alle altre.
PRODUZIONE LATINA:
Si è a lungo discusso se per Pascoli si possa parlare di bilinguismo o di diglottismo.
Bilingue è colui che si serve indifferentemente di due lingue, che in un certo senso sono la sua lingua materna.
Il diglotta è invece colui che conosce perfettamente una lingua straniera che tuttavia non è la sua lingua.
Pascoli è bilingue perché conosceva talmente bene il latino che a volte al posto di prendere appunti in italiano li scriveva in latino.
Le ultime parole pronunciate dal Pascoli in punto di morte furono dette in latino.
Ma perché tanto interesse per il latino? La lingua poetica per Pascoli non è una lingua comune ma è espressione del fanciullino che è antica e sempre nuova. Scrivere in latino significa recuperare una memoria che andrebbe perduta, tutta una civiltà viene riportata alla coscienza.
Le raccolte in latino sono sei: “Liber de poetis”, “res romanae”, “Poemata cristhiana”, “Hynni”, “Ruralia”, “Poematia et epygrammata”, in tutte le raccolte si trovano delle gemme poetiche. Particolarmente importante tra queste raccolte è “Poemata cristhiana”. Pascoli non era un credente rispettava lo stesso moltissimo il cristianesimo, il suo rapporto con la religione è molto travagliato, scrisse ad un amico che continuava ad amare i suoi morti con tutto il cuore eppure non aveva fede.
Pascoli dà tre definizioni di religione, in primo luogo la religione è il senso della morte, Pascoli espresse questa definizione nella prefazione ai canti di Castelvecchio.
In un discorso intitolato “L’era nuova”, che risale al 1899 si trova la seconda definizione di religione; la fedeltà per il nostro destino, il riconoscimento e venerazione del destino (il destino equivale alla morte).
Una terza definizione la troviamo “Nel cinquantenario per la patria”: “la religione è il lento, progressivo, sicuro divenirepiù umano, dell’uomo, sì che la società degli uomini si faccia via via più una comunione di fratelli” ovvero l’amore.
Il fulcro della religione pascoliana è la morte e il dolore, venerare il dolore significa venerare ciò che è più sacro nell’uomo.
L’amore nel cristianesimo ha una duplice dimensione; una dimensione verticale: l’amore di Dio per l’uomo, e una dimensione orizzontale: l’amore dell’uomo verso l’uomo, nel Pascoli l’amore ha solo dimensione orizzontale.
È nell’amore che l’uomo manifesta tutta la sua dignità, è l’amore che strappa l’uomo alla morte.
D’altra parte il Pascoli non accetta del cristianesimo il superamento della morte, questo distrugge infatti ciò per cui l’uomo è autenticamente uomo, ovvero la morte.
Dei “Poemata Cristhiana” fa parte “Agape” ( banchetto eucaristico): in una riunione di cristiani si dibatte su argomenti teologici e alcuni si dichiarano seguaci di Pietro altri di Paolo, sorge poi un vociare dalla città e i cristiani riuniti credono che si tratti del giudizio universale, escono dalla casa e si rendono conto che in verità si tratta dell’incendio di Roma. Vicino alla casa dei cristiani c’è un lupanare e le ragazze che stavano dentro sono uscite nelle condizioni in cui si trovavano per paura dell’incendio. Una vergine significativamente porta un mantello a una di queste ragazze, il componimento si conclude così con un gesto di carità.
Altri carmi latini sono: “Paedagogium”, “Pomponia Graecina” e “Thallusa”.
Il carme “Paedagogium” (“collegio”) contiene una rievocazione degli anni felicissimi passati dal Pascoli nel collegio di Urbino.
Protagonisti sono due ragazzi che finiscono per convertirsi al cristianesimo pur non sapendo niente dei dogmi, perché la fede nella vita futura gli permetterà di ricongiungersi con le madri.
I due giovani affrontano il martirio, infatti il carme è ambientato nell’antica Roma.
“Pomponia Graecina”: deriva da un passo di Tacito, dove Tacito racconta che una matrona si era convertita al cristianesimo, ma poi rimproverata per questo dal marito aveva abbandonato quel culto straniero e si era chiusa in casa. Da questa notizia Pascoli realizza questo bellissimo carme. Pomponia, convertita al cristianesimo, racconta al suo bambino le parabole evangeliche,il marito le dice che se non abbandonerà quel culto le leverà il bambino.
Pomponia non può rinunciare all’amore per il suo bambino ma neanche al cristianesimo, che le permetterà di ricongiungersi con il figlio.
Non è immortale l’amore ma è immortale il dolore.
Rinuncia così al cristianesimo e al bambino che le chiede di raccontargli le parabole evangeliche Pomponia risponde di non ricordarsele. Le giunge poi notizia del martirio del suo nipotino, si reca quindi nelle catacombe per vedere il corpo straziato e si rende che quel coraggio che lei non ha avuto, l’ha avuto invece un bambino, riacquista così il coraggio per la testimonianza dell’amore.
“Thallusa” è l’ultimo carme del Pascoli, risale al 1911. Nella biografia del Pascoli, scritta dalla sorella Maria dice che questo carme fu l’ultima gioia del fratello. Pascoli non fece in tempo neppure a rivedere le bozze infatti ci sono lievi imperfezioni.
Thallusa è una schiava a cui è stato tratto via il figlio ancora in fasce, Thallusa deve allevare i figli dei padroni e li alleva con amore perché vede in quelli il suo; una volta che il bambino sorride alla madre Thallusa ha l’impressione che il suo bambino abbia sorriso per lei.
Il dolore connota l’umanità più dell’amore.
Strappare il figlio alla madre è un’ingiustizia che ferisce a tal punto che nessuno può porvi rimedio. Sembra che per Pascoli il legame madre-figlio sia il legame più stretto che ci possa essere.
In “Fanum Apollis” Pascoli presenta una discussione tra un sacerdote di Apollo e un sacerdote cristiano, è dalla parte del sacerdote di Apollo perché Pascoli sta sempre dalla parte del vinto e ormai nell’epoca in cui è ambientata la composizione prevaleva sempre di più il cristianesimo.
Il poemetto si chiude con l’immagine di un capretto, belante perché ricerca la madre.
Mentre nella poesia italiana c’è un declino delle posizioni del Pascoli, invece nella poesia antica non è presente.

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