Orazio e l'angoscia

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Testo

LA PREISTORIA DELL’ANGOSCIA: ORAZIO

Ci accingiamo ora ad iniziare la trattazione da un personaggio apparentemente estraneo all’argomento di cui vogliamo parlare, perciò è necessario, ancor prima di analizzare la figura di Orazio, capire in quale modo sia legato al sentimento di angoscia. Per fare ciò ci avvalleremo di un testo assai significativo, tratto dal libro primo delle Epistulae

[..] Si quaeret quid agam, dic multa e pulchra minantem
vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando
contuderit vitis oleamve momorderit aestus,
nec quia longinquis armentum aegrotet in agris,
sed quia mente minus validus quam corpore toto
nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum;
fidis offendar medicis, irascar amicis,
cur me funesto properent arcere veterno
quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam.[..]
(Epistulae I,8)

[Se ti chiederà che cosa faccio, digli che, nonostante tutte le mie belle promesse, vivo né bene né piacevolmente, non già perché la grandine m’abbia pestato i vigneti, o il caldo bruciato gli olivi, né perché in lontani pascoli sia stato l’armento colpito da epidemia, ma perché più che tutto il corpo ho l’animo ammalato e nulla voglio ascoltare, nulla sapere che allevii il mio male; me la prendo con i fedeli medici, mi adiro con gli amici per il loro zelo di scuotermi dal funesto torpore, seguo ciò che mi nocque, fuggo ciò che dovrei credere mi possa giovare, a Roma vorrei Tivoli, a Tivoli, volubile, Roma.]

Dal passo riportato, appare il profondo senso di disagio più volte provato dal poeta nella sua tarda maturità. Orazio si sfoga in una lettera ad un amico, quasi volesse in questo modo reagire al torpore nel quale ormai si ritrova immerso. La cosa che maggiormente colpisce è la sostanziale incapacità di cogliere il problema, la causa del “funestus veternus”. Il poeta parla di una quanto mai vaga malattia dell’animo, non specifica in cosa consista, molto probabilmente perché non ne è egli stesso in grado. Solo una cosa risulta chiara dalla missiva: il comportamento che consegue a questa strana sensazione provata da Orazio. Egli non si sente capace di scrivere, di praticare una qualsiasi attività e perfino di rimanere fermo in un luogo per un certo lasso di tempo; il sentimento dal quale è dominato si risolve in un senso di inappagata inquietudine che lo porta alla paralisi, all’incapacità di operare e quindi di vivere: in sostanza il poeta si sente angosciato.

ORAZIO ED IL SUO TEMPO

Ma come è possibile che l’angoscia faccia la sua comparsa alla fine del I secolo a.C., in una società come quella romana, assolutamente agli antipodi di quella dell’Ottocento? Per rispondere a questa domanda occorre analizzare in breve la vita oraziana ed il contesto storico lungo la quale essa si dipanò.
Quinto Orazio Flacco nasce nel 65 a.C. in un villaggio lungo il confine tra Puglia e Lucania. Il giovane poeta studia presso i migliori maestri di Roma e nel 44 si reca ad Atene per terminare la sua carriera scolastica. Qui, venuto a conoscenza della creazione di un esercito guidato da Bruto e Cassio a difesa della repubblica, si arruola. Nel 42 a Filippi partecipa alla disfatta del suo esercito e deve fuggire. Nel 40, a seguito di un’amnistia rientra a Roma. Nel 38 conosce Mecenate ed entra a far parte del suo famoso circolo letterario, di cui farà parte fino alla morte che lo raggiunge nel 8 a.C.
Come è facile notare, il poeta vive in pieno e da protagonista il duro passaggio dalla fase repubblicana all’Impero; vede la violenza della guerra civile e prova, ancora molto giovane il senso di insicurezza legato alla mancanza di un potere forte. Come se ciò non bastasse egli esce sconfitto da questa esperienza, sarà costretto ad abbandonare ogni velleità di carriera politica, ma soprattutto vedrà i suoi ideali lasciare spazio a nuove concezioni.

LA CRISI DEL PAGANESIMO

Oltre al travaglio politico in questo periodo comincia a manifestarsi anche un altro fenomeno molto importante per la società romana.
La crisi, è infatti principalmente crisi degli “antiqui mores”, incapaci di fornire risposte convincenti ai bisogni spirituali dell’epoca. In particolare la religione pagana mostra ormai chiari segni di cedimento, perché non garantisce un rapporto intimo con la divinità; questo periodo porta con sé la diffusione dei culti misterici a Roma, un’orientalizzazione della cultura che prende sempre più piede, anche e per la prima volta al di fuori dei ceti dominanti.
Il rapporto tra Orazio e la nuova cultura, tra Orazio e la nuova religione emerge con chiarezza: il rifiuto è drastico e non lascia spazio ad alcuna insicurezza. Per chiarire ulteriormente basta andare a considerare il ciclo delle Odi Romane, nelle quali la glorificazione della tradizione istituzionale e del suo nuovo paladino Augusto non sono un tentativo del poeta di ingraziarsi i poteri forti; tutt’altro dimostrano la partecipazione completa del poeta al clima di restaurazione culturale voluto dall’Imperatore.
Nonostante ciò rimane l’inquietudine. Lo testimonia il passo citato all’inizio, ma anche il ritiro sempre più marcato di Orazio dalla vita politica, civile e culturale dell’Urbe. Insomma risulta chiaro come l’ideologia ufficiale, nella quale comunque continua a rispecchiarsi, non sia sufficiente a colmare il bisogno di certezze dell’ormai maturo poeta. Al contrario il mondo assume un sempre maggiore grado di indecifrabilità, diventa sempre più qualcosa di estraneo, qualcosa dal quale fuggire per ottenere la pace interiore.
Per meglio comprendere il mutamento del rapporto uomo natura ci rifacciamo ad uno dei componimenti più famosi tratti dai Carmina: “Il monte Soratte”

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte nec iam sustineat onus
Silvae laborantes geluque
Vedi come si erge candido di neve alta
Il Soratte, né più sostengono il peso
Le selve affaticate e per il gelo acuto
Flumina constiterint acuto i fiumi si sono fermati
Dissolve frigus, ligna super foco Sciogli il freddo gettando la legna sul
Large reponens atque benignius fuoco senza risparmio e più largamente
Deprome quadrimum Sabina mesci vino vecchio di quattro anni,
O Taliarche, merum diota o Taliarco, dall’anfora sabina
Permitte divis cetera,qui simul Lascia il resto agli dei: appena hanno
Stravere ventos aequore fervido placato i venti sul mare fervido furiosi,
Deproeliantis nec cipressi né i cipressi né i vecchi frassini
Nec veteres agitantur orni più agitano le cime
Quid sit futurum cras fuge quaerere, et Del domani non darti pensiero,
quem Fors dierum cumque dabit, lucro Qualunque giorno ti darà la sorte
adpone nec dulcis amores contalo tra i guadagni e i dolci amori
sperne [..]
Carmina I,9
Analizziamo prima di tutto il paesaggio nel quale si ambienta il carme: il monte è ricoperto da una spessa coltre di neve e il freddo è molto intenso: tutto sembra pietrificato e addirittura i fiumi sono fermi (constiterint). Emerge un quadro inospitale,selvaggio, inadatto ad ospitare qualsiasi forma di vita; le stesse selve sono stanche per la lunga lotta con gli elementi. Sembra in altre parole di essere di fronte alla conferma dell’affermazione lucreziana secondo la quale “Il mondo non è fatto per l’uomo”.
Se già queste considerazioni sono a l’emblema di un nuovo rapporto con il mondo nel quale il poeta è immerso, ancora più interessante risulta la proposta oraziana per far fronte alla durezza della vita. L’unico conforto risiede nell’amicizia, rappresentata dal tema del convivio; il vino ed il calore del fuoco, simboli di amore e fratellanza, sono le uniche certezze di un uomo sconcertato davanti all’incomprensibilità del Tutto.
Assume toni ancora più stridenti il ribaltamento del rapporto uomo-Dio venutosi a determinare all’interno della società romana; da un fiducioso rapporto di comune convenienza, concretizzato nel do-ut-des e dalla pratica del sacrificio, si giunge ora alla dichiarata impossibilità di comprendere il disegno divino e quindi di far fronte all’esistenza: “Lascia il resto agli dei”, “Del domani non darti pensiero” sono la traduzione in poesia di questo sentimento di sfiducia e di frustrazione.

IL CARPE DIEM

Il Carpe Diem, celeberrimo manifesto della filosofia di Orazio riprende in pieno i temi finora considerati. L’uomo, abbandonata ogni velleità di dominio sul tempo, ed in particolare sul futuro, finisce per contrarre la propria sfera di interesse nell’istante, fuggevole ma certo e, in quanto tale, prezioso. L’invito è quello a godersi la gioia effimera procurata dai beni mondani e perituri, che seppur non appagano l’uomo lo consolano e gli consentono di vivere.

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
Finem dederint Leuconoe, nec Babylonios
Temptaris numeros. Ut melios quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
Quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
Spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
Aetas : carpe diem, quam minimum credula postero.
Carmina I,11
[Tu non chiedere, non è lecito saperlo, quale sorte a me quale a te gli dei abbiano dato, Leuconoe, e le cabale babilonesi non tentare. Quanto è meglio subire quel che sarà, sia che Giove ancora molti inverni ci assegni, sia che questo sia l’ultimo, che affatica il terreno sugli scogli. Sii saggia,filtra il vino e accorcia la speranza, perché lo spazio è breve. Mentre parliamo, il tempo avido sarà passato: cogli l’attimo, e del domani non fidarti.]

L’istante è la nuova casa di una umanità disillusa e per molti versi scettica riguardo la possibilità, assicurata dalla religione ufficiale di ottenere la soddisfazione dei propri bisogni spirituali. L’uomo cessa la sua opera per giungere al pieno controllo del mondo e si contrae su se stesso nell’attimo fuggente; egli riesce così a trovare un suo modus vivendi, consolazione al gelo che lo attanaglia, perché non si prende più cura del tempo ed in particolare del futuro. Vengono perciò meno gli interessi metafisici, considerati vani, ma soprattutto forieri di tristezza e di quell’inquietudine (il funestus veternus) che rende impossibile l’attività umana.

L’ANGULUS ED IL TEMA DEL CONVITO

Nel paragrafo precedente si è considerato il sentimento del carpe diem solo su un piano metafisico ed ontologico. Occorre tuttavia sottolineare le sue profonde conseguenze a livello etico, che segnano tutta l’ultima produzione e la maturità di Orazio.
A partire dal 33 a.C. il poeta si ritira nella villa sabina regalatagli da Mecenate, al riparo dal trambusto di Roma città; qui egli difende gelosamente la sua indipendenza di uomo, abbandona la vita pubblica e addirittura rifiuta il gentile invito dell’Imperatore Augusto a divenire il suo segretario. Come si spiega questo improvviso ritiro a vita privata difeso con grande caparbietà per tutto il resto della vita? Per cercare di capirlo ci rifacciamo ad un passo di un’ ode intitolata “Il luogo ideale”.

“… Tibur Argeo positum colono
sit mea sedes utinam senectate,
sit modus lasso maris et viarum
militiaeque
Unde si Parcae prohibent iniquae,
dulce pellitis ovibus Galaesi
flumen et regnata petam Laconi
rura Phalanto
Ille terrarum mihi praeter omnes
Angulus ridet, ubi non Hymetto
Mella decedunt viridique certat
Baca Venafro
Ver ubi longum tepidasque praebet
Iuppiter brumas et amicus Aulon
Fertili Baccho minimum Falernis
Invidet uvis…” Carmina II,6

Se l’istante è la forma temporale della nuova filosofia oraziana, a livello di spazio essa trova la sua espressione nell’angulus appartato e ameno, a parte dal resto del mondo. In esso la storia non può esercitare il suo potere: non esistono le “Parche inique” e l’uomo ha facoltà di osservare da un punto di vista privilegiato la confusione che regna ovunque. Leggendo il breve passo riportato possiamo ricavare anche un’immagine materiale dell’angulus; esso è connotato da una natura benigna e da un rapporto molto intimo tra l’uomo e tutte le altre forme viventi dalle quali è abitato. E’ chiaro quindi che questo luogo risulta essere sostanzialmente ideale ed inconciliabile con la realtà, tuttavia il poeta sostiene di averlo trovato nella sua villa sabina. Per comprendere questa affermazione bisogna ritornare alla definizione di angulus data all’inizio: esso è il luogo in cui l’uomo si ritira per esercitare il dettame etico del carpe diem. In virtù di ciò esso assume già una profonda connotazione positiva e diviene un paradiso perché è abitato da un uomo il quale, compresa la natura indecifrabile dell’Universo, è disilluso e in un certo senso riconciliato con il suo destino. A ciò si deve aggiungere la connotazione personale, individualista, dell’angolo. Esso è tale in quanto angolo di Orazio, espressione dei suoi bisogni e dei suoi sentimenti; perciò risulta modellato sulla figura umana e capace di rappresentare un luogo di riposo per l’uomo.
Connesso al concetto di angolo appartato è il tema del convito. Secondo Orazio la massima forma di consolazione al meccanicismo del mondo risiede nell’amicizia e nel ritrovarsi di una stretta ed unita cerchia di amici. Durante il convito bagnato dal vino (figura già presente nei passi citati), in compagnia di persone in grado di comprendere le sue emozioni, il poeta dimentica gli affanni, la tristezza ed i pensieri cupi per lasciar spazio alla gioia e al piacere. Consideriamo un’altra Ode:

Vile potabis modicis Sabinum
Cantharis, Graeca quod ego ipse testa
Conditum levi, datus in teatro
Cum tibi plausus,
Care Maecenas eques, ut paterni
Fluminis ripae simul et iocosa
Redderet laudes tibi Vaticani
Montis imago.
Caecubum et prelo domitam Caleno
Tu bibes uvam: mea nec Falernae
Temperant vites neque Formiani
Pocula colles.
Carmina I,20

Il convito in Orazio assume l’immagine del circolo di Mecenate; i frequentatori sono gli esponenti della cultura romana, che condividono il pensiero del poeta e ai quali egli si rivolge come pubblico preferenziale della sua opera. D’altra parte la profonda amicizia che lega Mecenate ai suoi dotti clienti emerge dal tono scherzoso della lettera oraziana e dal riferimenti espliciti ad avvenimenti della vita del benefattore (l’applauso in teatro). In sostanza quindi il convito risulta il corrispettivo del giardino epicureo e ne condivide gli elementi fondanti; esso perde la sua connotazione sociale e mondana assunta in età repubblicana ed ancor più durante il periodo imperiale; diviene così un centro letterario e più in generale culturale, nel quale si sviluppa una profonda forma di analisi esistenziale, necessaria per giungere all’essenza delle cose e cercare di sconfiggere il sentimento di angoscia generato dalla crisi religiosa in atto.

FILOSOFIA E STILE

Nell’ultima parte dell’analisi dell’opera di Orazio ci concentreremo sullo stile del poeta e sul suo profondo legame con le concezioni filosofiche finora esposte.
Se si escludono gli “Epodi” (la prima opera della carriera), considerati ormai unanimemente un esercizio di stile, la produzione letteraria oraziana si presenta come piuttosto uniforme e caratterizzata dal comun denominatore di una forma misurata e ricercata. Tutte le composizioni sono smussate, perfezionate da un minuzioso labor limae; non sono quindi presenti suoni forti o aspri, come mancano del tutto figure retoriche eccessive. Allo stesso modo anche il vocabolario risulta quotidiano, semplice e nello stesso tempo fine, quasi a voler dare al lettore un senso di pace e tranquillità.
Lo stile, è chiaro, riflette tutto il pensiero dell’autore e diviene lo strumento privilegiato della sua diffusione: Orazio promuoveva uno forma di vita semplice, povero e pacifico come unico antidoto all’incomprensibilità del mondo ed al conseguente senso di angoscia; il corrispettivo a livello compositivo non poteva quindi non essere una scrittura capace di infondere un pacato senso di familiarità e di comprensione umana, antidoto ai mali che colpiscono l’uomo.

Esempio