Opere e giorni (Eschilo)

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Testo

Opere e giorni (Esiodo)
%@OPERE E GIORNI


(IL PROEMIO)
Muse di Pieria, che date la gloria coi canti,
Zeus qui ora cantate, al padre vostro inneggiando:
per opera sua gli uomini sono illustri e oscuri,
noti e ignoti, a piacimento di Zeus grande.
Facilmente egli dona la forza, facilmente abbatte chi è forte,
facilmente umilia chi è grande e l'umile esalta,
facilmente raddrizza chi è storto e dissecca chi è florido,
Zeus che tuona profondo ed abita le eccelse dimore.
Ascoltami, a me guardando e porgendo l'orecchio: con giustizia le sentenze raddrizza,
tu; io a Perse voglio alcune verità raccontare.
(LE DUE CONTESE)
Di Contese non c'è un solo genere, ma sulla terra
due ce ne sono: l'una chi la capisce la loda,
ma l'altra è degna di biasimo, perché hanno un'indole diversa ed opposta:
l'una infatti favorisce guerra cattiva e discordia,
crudele, nessun mortale l'ama, ma costretti,
per volontà degli dèi, rispettan la triste Contesa.
L'altra la generò per prima Notte oscura
e l'alto Cronide, che nell'etere ha la dimora, la pose
alle radici della terra, e per gli uomini è molto migliore:
essa anche chi è pigro risveglia al lavoro;
perché se uno è senza lavoro e guarda ad un altro che,
ricco, si sforza ad arare e a piantare
e a far prosperare la casa, è allora che il vicino invidia il vicino
che si adopera per arricchire; e buona è questa Contesa per gli uomini;
e il vasaio è geloso del vasaio, e il fabbro del fabbro
e il mendico invidia il mendico, il cantore il cantore.
O Perse, tu queste cose nel tuo animo poni,
né la Contesa che gode del male distolga dal lavoro il tuo cuore
per stare a guardare le liti ascoltando la piazza.
Breve tempo per preoccuparsi di contese e discorsi
rimane a chi non ha in casa mezzi abbondanti per vivere,
che la terra produce, raccolti nella giusta stagione, il grano di Demetra.
Tu, quando di ciò avrai abbondanza, muovi pure liti e contese
per i beni degli altri. A te però un'altra volta non sarà possibile
fare così: ma via, dirimiamo ora la nostra contesa
secondo retta giustizia che, venendo da Zeus, è la migliore.
Già infatti le nostre parti le abbiamo divise, ma molto altro cercavi
di prendere e di portartelo via, prodigando i tuoi omaggi ai re
mangiatori di doni, i quali con questa giustizia a giudicare sono disposti.
Stolti, perché non sanno quanto più grande è la metà dell'intero
né quanto grande ricchezza si cela nella malva e nell'asfodelo.
(IL MITO DI PANDORA)
Gli dèi infatti tengon nascosto agli uomini il sostentamento,
ché facilmente, allora, potresti lavorare un solo giorno
e per un anno ne avresti, anche restando nell'ozio,
presto il timone lo potresti appendere sul fumo
e sarebbe finito il lavoro dei buoi e dei muli pazienti;
ma Zeus lo nascose adirato dentro il suo cuore.
Perché Prometeo dagli astuti pensieri lo aveva ingannato,
per questo meditò agli uomini tristi sciagure:
nascose il fuoco; ma ancora di Iapeto il figlio valente
lo rubò per gli uomini a Zeus dai saggi consigli
di nascosto a Zeus fulminatore, in una ferula cava.
A lui Zeus che aduna le nuvole disse adirato:
«O figlio di Iapeto, tu che fra tutti nutri i pensieri più accorti,
tu godi del fuoco rubato e di avermi ingannato,
ma a te un gran male verrà, e anche agli uomini futuri:
io a loro, in cambio del fuoco, darò un male, e di quello tutti
nel cuore si compiaceranno, il loro male circondando d'amore».
Così disse e rise il padre di uomini e dèi:
a Efesto illustre ordinò poi che, veloce,
intridesse terra con acqua, vi ponesse dentro voce umana
e vigore e, somigliante alle dee immortali nell'aspetto, formasse
bella e amabile figura di vergine; poi ad Atena
che le insegnasse i lavori: a tesser la tela dai molti ornamenti,
e che grazia intorno alla fronte le effondesse l'aurea Afrodite
e desiderio tremendo e le cure che rompon le membra;
che le ispirasse un sentire impudente e un'indole scaltra
ordinò ad Ermete, il messaggero Argifonte.
Così disse, e quelli obbedirono a Zeus Cronide signore;
allora di terra formò l'illustre Zoppo
un'immagine simile a vergine casta, secondo la volontà del Cronide;
la cinse e l'adornò la dea glaucopide Atena,
attorno le dee Grazie e Persuasione signora
le posero auree collane, attorno a lei
le Ore dalle belle chiome intrecciaron collane di fiori di primavera;
ed ogni ornamento al suo corpo adattò Pallade Atena.
Dentro al suo petto infine il messaggero Argifonte
menzogne e discorsi ingannevoli e scaltri costumi
pose, come voleva Zeus che tuona profondo, e dentro la voce
le pose l'araldo di dèi e chiamò questa donna
Pandora, perché tutti gli abitatori delle case d'Olimpo
la diedero come dono, pena per gli uomini che mangiano pane.
Poi, dopo che l'inganno difficile e senza scampo ebbe compiuto,
ad Epimeteo il padre mandò l'illustre Argifonte,
araldo veloce, a portare il dono degli dèi; ed Epimeteo
non volle porre mente, come a lui Prometeo diceva,
a non accogliere mai dono da Zeus Olimpio, ma rimandarlo
indietro, che qualche male non dovesse venire ai mortali:
però solo dopo che l'ebbe accolto, quando subì la disgrazia, capì.
Prima infatti sopra la terra la stirpe degli uomini viveva
lontano e al riparo dal male, e lontano dall'aspra fatica,
da malattie dolorose che agli uomini portan la morte
- veloci infatti invecchiano i mortali nel male -.
Ma la donna, levando con la sua mano dall'orcio il grande coperchio,
li disperse, e agli uomini procurò i mali che causano pianto.
Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all'orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori
volò, perché prima aveva rimesso il coperchio dell'orcio
per volere di Zeus egioco che aduna le nubi.
E infinite tristezze vagano fra gli uomini
e piena è la terra di mali, pieno n'è il mare;
i morbi fra gli uomini, alcuni di giorno, altri di notte
da soli si aggirano, ai mortali mali portando,
in silenzio, perché della voce li privò il saggio Zeus.
Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.
(IL MITO DELLE RAZZE)
Ora, se vuoi, darò coronamento al mio dire con un altro racconto,
bene e in modo opportuno, e tu nel tuo cuore riponilo,
come medesima origine fu agli dèi e ai mortali.
Prima una stirpe aurea di uomini mortali
fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore.
Erano ai tempi di Crono, quand'egli regnava nel cielo;
come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,
lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava
la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia,
nei conviti gioivano, lontano da tutti i malanni;
morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni
c'era per loro; il suo frutto dava la fertile terra
senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti,
sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti,
ricchi d'armenti, cari agli dèi beati.
Poi, dopo che la terra coprì questa stirpe,
essi sono démoni, per il volere di Zeus grande,
benigni, sulla terra; custodi degli uomini mortali
della giustizia hanno cura e delle azioni malvagie,
vestiti di nebbia, sparsi dovunque per la terra,
datori di ricchezza: ebbero infatti questo onore regale.
Come seconda una stirpe peggiore assai della prima,
argentea, fecero gli abitatori delle olimpie dimore,
né per l'aspetto all'aurea simile né per la mente,
ché per cent'anni il fanciullo presso la madre sua saggia
veniva allevato, giocoso e stolto, dentro la casa;
ma quando cresciuti giungevano al limitare di giovinezza
vivevano ancora per poco, soffrendo dolori
per la stoltezza, perché non potevano da tracotante violenza
l'un contro l'altro astenersi, né gli immortali venerare
volevano, né sacrificare ai beati sui sacri altari,
come è legge fra gli uomini secondo il costume. Allora costoro
Zeus Cronide li fece morire adirato, perché gli onori
non vollero rendere agli dèi beati che possiedono l'Olimpo.
E poi, quando anche questa stirpe la terra ebbe coperto,
costoro inferi beati sono chiamati presso i mortali,
genî inferiori, ma onore anche loro accompagna.
Zeus padre una terza stirpe di gente mortale
fece, di bronzo, in nulla simile a quella d'argento,
nata da frassini, potente e terribile: loro di Ares
avevano care le opere dolorose e la violenza, né pane
mangiavano, ma d'adamante avevano l'intrepido cuore,
tremendi; grande era il loro vigore e braccia invincibili
dalle spalle spuntavano sulle membra possenti;
di bronzo eran le armi e di bronzo le case,
col bronzo lavoravano perché il nero ferro non c'era.
E costoro, dalle loro proprie mani distrutti
partirono per la tenebrosa dimora di gelido Ade,
senza fama; la nera morte per quanto temibili
li prese e lasciarono la splendente luce del sole.
E poi, dopo che anche questa stirpe la terra ebbe nascosto,
di nuovo una quarta, sopra la terra feconda,
fece Zeus Cronide, più giusta e migliore,
di eroi, stirpe divina, che sono detti semidei,
anteriore alla nostra sulla terra infinita.
Questi li uccise la guerra malvagia e la battaglia terribile
alcuni a Tebe dalle sette porte, nella terra di Cadmo,
combattendo per le greggi di Edipo,
altri poi sulle navi al di là del grande abisso del mare
condotti a Troia, a causa di Elena dalle belle chiome;
là il destino di morte li avvolse;
ma poi lontano dagli uomini dando loro vitto e dimora
il padre Zeus Cronide della terra li pose ai confini.
Abitano con il cuore lontano da affanni
nell'isole dei beati presso Oceano dai gorghi profondi,
felici eroi ai quali dolce raccolto
tre volte in un anno, abbondante, produce il suolo fecondo,
lontano dagli immortali, ed hanno Crono per re;
... lo liberò infatti il padre di uomini e dèi,
ed ora, con quelli, ha il suo onore, come conviene.
Zeus, poi, pose un'altra stirpe di uomini mortali
dei quali, quelli che ora vivono...
Avessi potuto io non vivere con la quinta stirpe
di uomini, e fossi morto già prima oppure nato dopo,
perché ora la stirpe è di ferro; né mai di giorno
cesseranno da fatiche e affanni, né mai di notte,
affranti; e aspre pene manderanno a loro gli dèi.
Però, anche per questi, ai mali si mischieranno dei beni.
Ma Zeus distruggerà anche questa stirpe di uomini mortali
quando nascendo avranno già bianche le tempie;
allora né il padre sarà simile ai figli né i figli al padre;
né l'ospite all'ospite, né l'amico all'amico
e nemmeno il fratello caro sarà come prima;
ma ingiuria faranno ai genitori appena invecchiati;
a loro diranno improperi rivolgendo parole malvagie,
gli sciagurati, senza temere gli dèi; né
ai genitori invecchiati di che nutrirsi daranno;
il diritto starà nella forza e l'uno all'altro saccheggerà la città.
Né il giuramento sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto
o dabbene; piuttosto l'autore di mali e l'uomo violento
rispetteranno; la giustizia sarà nella forza e coscienza
non vi sarà; il cattivo porterà offese all'uomo buono
dicendo parole d'inganno e sarà spergiuro;
l'invidia agli uomini tutti, miseri,
amara di lingua, felice del male, s'accompagnerà col volto impudente.
Sarà allora che verso l'Olimpo, dalla terra con le sue ampie strade,
da candidi veli coperte le belle persone
degli immortali alla schiera andranno, lasciando i mortali,
Vergogna e Sdegno: i dolori che fanno piangere resteranno
agli uomini e difesa non ci sarà contro il male.
(L'USIGNOLO E LO SPARVIERO)
Ora una favola ai re narrerò, a loro che pure sono assennati.
Ecco quello che lo sparviero disse all'usignolo dal collo screziato
su in alto, fra le nubi portandolo serrato nell'unghie;
quello pietosamente, dagli artigli adunchi trafitto,
piangeva; ma l'altro, violento, gli fece questo discorso:
«Sciagurato, perché ti lamenti? ora sei preda di chi è molto più forte;
andrai là dove io ti porterò, pur essendo tu bravo cantore;
farò pasto di te, se voglio, oppure ti lascerò.
Stolto è chi vuole opporsi ai più forti:
resta senza vittoria e alla vergogna aggiunge dolori».
Così disse il veloce sparviero, l'uccello che vola con le ali distese.
(GIUSTIZIA E VIOLENZA)
O Perse, tu ascolta Giustizia e la violenza non favorire;
la violenza è un male per la povera gente, e nemmeno il potente
facilmente la può sopportare e resta schiacciato da quella
quando nella Sventura s'imbatte; l'altra strada, quella per giungere
al giusto, è migliore; la giustizia ha la meglio sulla violenza
quando giunge il momento: lo sciocco impara a suo danno.
Là subito va Giuramento, insieme alle tòrte sentenze,
e di Giustizia c'è il pianto, trascinata dagli uomini
mangiatori di doni, che con tòrte sentenze amministrano la giustizia;
là li segue piangendo nella città e nelle dimore dei popoli,
vestita di nebbia, portando sciagure per uomini
che l'hanno bandita e non amministrano il giusto.
Ma per quelli che a cittadini e stranieri sentenze amministrano
rette e mai s'allontanan dal giusto,
la loro città fiorisce e il popolo in essa risplende;
sulla terra c'è Pace nutrice di giovani, né mai a loro
la guerra tremenda destina Zeus onniveggente;
né mai agli uomini che seguono retta giustizia s'accompagna Fame
né Sventura, e nelle feste si godono i frutti dei sudati lavori;
per loro la terra produce vitto abbondante e sui monti la quercia
in cima produce le ghiande, in mezzo porta le api;
e le greggi lanose le opprime il vello pesante;
le donne partoriscono figli simili ai padri;
di beni fioriscono, per sempre; né sulle navi
andranno perché produce frutti la fertile terra.
A coloro che invece malvagia violenza hanno cara e spregevoli azioni
il Cronide Zeus onniveggente destina giustizia;
spesso anche un'intera città si trova a soffrire per un solo cattivo
che si rende colpevole e macchina scelleratezze:
per loro manda dal cielo un grande castigo il figlio di Crono,
fame e insieme la peste, le genti vanno in rovina,
le donne non partoriscono più, vanno distrutte le case
per il volere di Zeus olimpio; ancora altre volte
il loro esercito grande distrugge, oppure le mura,
o sulle navi nel mare il Cronide si prende vendetta.
O re, ora voi meditate, anche voi,
questa giustizia; presenti infatti, fra gli uomini,
gli immortali guardano quanti, con tòrte sentenze,
si fanno ingiustizia fra loro senza curare gli dèi.
Tre volte dieci per mille sono, sulla terra feconda,
gli immortali mandati da Zeus, custodi degli uomini,
che guardano alle loro sentenze e all'opere scellerate,
vestiti di nebbia, sparsi dovunque su tutta la terra.
E c'è Giustizia, la vergine, nata da Zeus,
nobile e veneranda per gli dèi che hanno l'Olimpo;
e quando qualcuno l'offende e, iniquamente, la disprezza,
allora sedendo presso Zeus padre, figlio di Crono,
a lui racconta gli ingiusti pensieri degli uomini: che paghi
il popolo le scelleratezze dei re i quali, nutrendo propositi tristi,
le loro sentenze stravolgono iniquamente parlando.
A questo pensate, o re, raddrizzate le vostre parole,
voi mangiatori di doni, e le vostre inique sentenze scordate;
a se stesso prepara mali l'uomo che mali per altri prepara
e un cattivo pensiero pessimo è per chi l'ha pensato;
lo sguardo di Zeus tutto vede e tutto notando
anche questo, se vuole, scorge, né gli fallisce
qual è questa giustizia che la città racchiude dentro di sé.
Ora certo io, nemmen io, fra gli uomini giusto
esser vorrei, e nemmeno mio figlio; perché è un male uomo giusto
restare se l'ingiusto riceve migliore giustizia.
Ma ho fede che ciò ancora non voglia compiere Zeus saggio.
O Perse, tali cose nel cuore riponi
e ascolta giustizia, e violenza dimentica.
Tale è la legge che agli uomini impose il figlio di Crono:
ai pesci e alle fiere e agli uccelli alati
di mangiarsi fra loro, perché fra loro giustizia non c'è;
ma agli uomini diede giustizia che è molto migliore;
se infatti qualcuno è disposto a dare giuste sentenze
cosciente, a lui dà benessere Zeus onniveggente;
ma chi sia testimone e, deliberatamente, commette spergiuro
e mènte e Giustizia offendendo pecca senza rimedio,
oscura dopo di lui la sua stirpe sarà;
migliore invece sarà la stirpe dell'uomo che il giuramento rispetta.
A te le cose giuste che penso dirò, o Perse sciocco;
la miseria la si può avere anche in grande abbondanza
e facilmente: la strada è piana ed è molto vicina.
Ma davanti alla prosperità sudore hanno messo gli dèi
immortali: per quella lungo e arduo è il sentiero
e aspro dapprima, ma quando sei giunto alla cima
ti diventa facile allora, pur essendo difficile.
(NECESSITÀ DEL LAVORO)
L'uomo migliore è colui che tutto capisce da sé,
sapendo ciò che in séguito e infine meglio sarà;
capace è anche colui che obbedisce a chi bene gli parla;
ma chi non sa capire da sé né ciò che sente da altri
si pone nel cuore, quello è un uomo da poco.
Ma tu ricorda sempre i miei consigli:
lavora Perse, stirpe divina, perché Fame
ti odî e t'ami l'augusta Demetra dalla bella corona,
e di ciò che occorre per vivere t'empia il granaio.
Fame sempre è compagna dell'uomo pigro;
e uomini e dèi hanno in odio chi, inoperoso,
vive ai fuchi senz'arma somigliante nell'indole,
i quali la fatica dell'api consumano in ozio,
mangiando; a te sia caro occuparti di opere adatte
perché del cibo nella sua stagione raccolto ti si empia il granaio.
Grazie al lavoro gli uomini hanno grandi armenti e son ricchi,
e lavorando sarai molto più caro agli dèi
e anche agli uomini, perché i pigri hanno in odio.
Il lavoro non è vergogna; è l'ozio vergogna;
se tu lavori, presto ti invidierà chi è senza lavoro
mentre arricchisci; perché chi è ricco ha successo e benessere.
Per te, dove t'ha posto la sorte, è meglio il lavoro.
Distogli dai beni degli altri l'animo sconsiderato
e al lavoro rivolgiti, pensa ai mezzi per vivere, così come io ti consiglio.
Non è una buona vergogna quella che accompagna l'uomo indigente,
la vergogna che gli uomini molto danneggia o aiuta;
alla miseria si aggiunge vergogna, alla fortuna l'audacia.
La ricchezza non dev'esser rubata: è molto migliore quella che danno gli dèi;
qualcuno con la violenza può conquistare un gran bene
o rubarlo con le parole, come assai spesso
suole accadere, quando il guadagno inganna la mente
dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince Vergogna;
ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la casa
a quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.
Come colui che al supplice e all'ospite usa violenza,
o come colui che del fratello il talamo ascende
e furtivo si giace con la sposa di lui, compiendo uno scellerato delitto,
o come chi, pazzo, contro gli orfani commette ingiustizia,
o come chi con l'anziano suo padre, sulla triste soglia della vecchiaia,
alterca, e l'assale con parole d'ingiuria;
contro di lui si adira Zeus stesso e alla fine
in cambio delle azioni malvagie dura gli dà ricompensa.
Ma tu da ciò allontana sempre il tuo cuore leggero.
(CONSIGLI A PERSE, I)
Per quanto è possibile fa' sacrifici agli dèi immortali
santo e puro, e belle cosce brucia per loro;
altre volte con libagioni ed offerte rivolgiti a loro in preghiera,
quando ti corichi e quando la sacra luce ritorna,
perché per te conservino benevoli l'anima e il cuore
e perché tu possa avere i beni degli altri, non gli altri i tuoi.
Chi t'ama invita alla tua mensa, chi ti è nemico tieni lontano;
e soprattutto invita chi a te vicino ha la dimora;
se qualcosa t'accade dentro il villaggio
il vicino accorre senza cintura, ma annodarsela deve il parente.
Disgrazia è avere un cattivo vicino, quanto, se buono, è grande vantaggio;
la fortuna incontra chi incontra un onesto vicino;
e il tuo bue non muore se hai un bravo vicino.
Bene misura se dal vicino tu prendi, e bene quando gli restituisci,
nella stessa misura, e anche di più, se tu puoi;
così che, avendo bisogno, anche in futuro pronto tu possa trovarlo.
Non cercare cattivi guadagni: i cattivi guadagni son pari a dei mali.
Ama chi t'ama; va' da chi viene da te;
e da' a chi ti dà e non dare a chi non ti dà;
perché a chi ha dato si dà, ma non si dà a chi non diede;
il dare è bene, il rubare è un male e porta la morte;
perché uomo che dà di buon grado, anche se molto,
è felice del dono e nel suo cuore gioisce;
colui che invece prende, seguendo impudenza,
anche se poco, questo raggela il suo cuore.
Sia pure il poco, se ad altro poco lo aggiungi
e questo fai spesso, presto diventerà molto.
Chi aggiunge a quello che ha tiene lontana la fame feroce;
non è ciò che in casa si ha che l'uomo rattrista;
meglio avere in casa, perché reca danno ciò che viene da fuori;
è bene prendere da ciò che si ha; pena al cuore
è avere bisogno di ciò che non c'è; queste cose ti esorto a pensare.
Sáziati pure quando incominci l'orcio o stai per finirlo,
quando sei a mezzo risparmia: è da miserabile risparmiare sul fondo.
Compenso pattuito all'amico sia assicurato;
e anche con un fratello, seppure con lui tu tratti ridendo, un testimone conduci:
la troppa fiducia, e così la sfiducia, rovinano l'uomo.
La tua mente non resti ingannata da una donna col sedere adornato,
che ciarla seducente: costei il tuo granaio ricerca;
chi della donna si fida si fida dei ladri.
Possa un unico figlio avere i beni paterni
da accrescere, sì che la ricchezza aumenti nella tua casa,
e, vecchio, tu possa morire un figlio lasciando;
anche se è vero che a molti Zeus darebbe infinita ricchezza:
di molti è maggiore il lavoro, maggiore il profitto.
Se è la ricchezza che il cuore desidera dentro il tuo petto
ecco il da fare, e aggiungi lavoro a lavoro. |[continua]|
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|[OPERE E GIORNI, 2]|
(IL CALENDARIO AGRICOLO)
Quando le Pleiadi sorgono, figlie di Atlante,
la mietitura incomincia; l'aratura al loro tramonto;
esse infatti quaranta notti e quaranta giorni
stanno nascoste, poi, volgendosi l'anno,
appaion dapprima quando è il momento di affilare gli arnesi.
Questa dei campi è la legge, sia per quelli che nei pressi del mare
hanno la loro dimora, sia per coloro che in valli profonde,
lontano dal mare ondoso, nella grassa pianura
hanno la casa; semina nudo, ara nudo,
nudo mieti, se alla giusta stagione tu vuoi tutti
compiere i lavori di Demetra; perché ogni frutto
cresca alla sua stagione, e perché non accada che dopo, in preda al bisogno,
tu mendicante vada alle case degli altri senza nulla ottenere.
Così anche ora sei venuto da me; ma io non ti darò altro
né altro ti aggiungerò; lavora, Perse sciocco,
i lavori che come destino agli uomini han dato gli dèi;
perché mai, coi figli e la moglie, dolente nel cuore,
tu abbia a cercar di che vivere presso i vicini, e loro di te non si curino.
Due volte e anche tre potrai pure riuscire, ma se ancora arrechi molestia
nulla otterrai e vano sarà il tuo molto parlare:
inutile solo di parole saziarsi. Ma io ti esorto:
pensa a pagare i debiti tuoi e a trovare un riparo alla fame.
Prima di tutto una casa, una donna e un bue da lavoro;
ma una donna comprata, non sposata, che possa seguire i tuoi buoi;
prepara gli arnesi dentro la casa tutti, adatti,
perché tu non debba chiederli ad altri, e se quello rifiuta tu privo ne resti,
la stagione opportuna trascorre e il tuo lavoro è perduto.
Non rimandare mai nulla a domani, o a dopodomani,
perché chi fugge il lavoro non empie il granaio,
né chi lo rimanda; la solerzia favorisce l'opera tua;
chi sempre rimanda si trova a combattere contro disgrazie.
(L'AUTUNNO)
Quando s'acquieta la forza del sole che brucia
e della vampa che spreme il sudore, e manda le piogge autunnali
Zeus possente, allora il corpo dell'uomo a muoversi
è assai più leggero; in quel tempo la stella di Sirio
per poco sopra le teste degli uomini nati alla morte
si volge di giorno e prende della notte una parte maggiore;
allora meglio resiste ai tarli la legna tagliata dal ferro:
le sue fronde a terra riversa e cessano dal crescere i rami;
è allora il momento di tagliarne i tronchi, memore dei lavori che la stagione richiede.
Taglia un mortaio di tre piedi e di tre braccia un pestello,
e un asse di sette piedi, così ti sarà più adatto;
se invece sarà d'otto piedi anche un maglio ne puoi ricavare;
di tre palmi taglia una ruota per un carro di dieci spanne.
Ci sono molti legni ricurvi: se la trovi porta a casa una bure
- cercando sui monti e nel piano -
di leccio: è il più saldo al lavoro dei buoi,
quando lo schiavo d'Atena al ceppo la lega,
la ferma coi chiodi e dell'aratro l'adatta al timone.
Fatti due aratri, costruendoli in casa:
uno d'un solo pezzo, l'altro commesso, perché così sarà molto meglio:
se uno si rompe dietro ai buoi attaccherai l'altro.
D'alloro e d'olmo, immuni dai tarli, siano i timoni;
di quercia il ceppo, di leccio la bure. Compra due buoi di nov'anni,
maschi: la loro forza non è facile a vincere;
sono nel pieno di giovinezza e a lavorare i migliori;
non lotteranno a mezzo del solco e l'aratro
non romperanno, lasciando il lavoro incompiuto.
Un uomo di quarant'anni, robusto, li segua,
nutrito d'un pane spartito per quattro in otto porzioni diviso,
che, al lavoro sollecito, il solco dritto ti tracci,
senza guardarsi d'intorno verso i compagni, ma all'opera
abbia la mente; un altro più giovane non è migliore di lui
nello spargere le sementi ed evitare un'altra semina;
un uomo più giovane è tutto intento dietro i compagni.
Sta' attento quando della gru la voce tu senti
dall'alto, di fra le nubi, che il grido annuale ripete;
ti porta il segno d'arare e la stagione d'inverno
t'indica, piovosa; s'addolora il cuore di chi non ha buoi;
è allora che devi ingrassare nella stalla i buoi dalle corna ricurve;
perché è facile dire «prestami i buoi ed il carro»,
ma facile è anche il negarli: «il loro lavoro già hanno i miei buoi».
L'uomo ricco soltanto d'idee dice di farselo un carro:
non sa, sciocco, che cento sono i pezzi del carro,
e che prima bisogna aver cura di raccoglierli in casa.
E non appena il tempo d'arare viene per gli uomini,
affrettati allora, gli schiavi e tu stesso;
che sia secco o che piova, arando al tempo d'arare,
di buon'ora sollecito perché ti s'empiano i campi;
rivolta in primavera la terra; d'estate arata di nuovo non ti deluderà;
semina il maggese quando ancora è leggera la terra;
il maggese tiene i mali lontani e acquieta i bambini.
Prega Zeus sotterraneo e la pura Demetra
che quando è maturo rendan pesante di Demetra il sacro frumento,
non appena incominci ad arare, quando l'estremità del manubrio
tu impugni e il pungolo spingi nelle terga dei buoi
che tirano la caviglia del giogo. Dietro, un piccolo
schiavo, tenendo la zappa, procuri pena agli uccelli
occultando il seme; buon ordine è la cosa migliore
per gli uomini, il disordine è la peggiore.
Così, piene, le spighe a terra si piegheranno
se, dopo, un buon compimento Zeus olimpio al tuo lavoro vuol dare;
dagli orci potrai levare le tele del ragno, e io ho fiducia
che godrai del vitto raccolto dentro la casa;
e potrai nell'abbondanza arrivare alla chiara primavera; né gli altri
dovrai invidiare, ma di te piuttosto sarà un altro ad avere bisogno.
Ma se attenderai il volger del sole per arare la terra divina,
accasciato tu mieterai quel poco che la mano riesce a tenere,
lo legherai tra la polvere, non molto felice,
lo porterai in un paniere e pochi staranno a guardarti.
Altre volte è diversa la mente di Zeus egioco
e ardua a capirsi per gli uomini.
Se lavori tardi la sacra terra, questo per te un rimedio sarà:
quando dapprima il cuculo canta fra le fronde della quercia
e rallegra i mortali sulla terra infinita,
allora se per tre giorni Zeus piove, né smette,
tanto da non superare lo zoccolo al bue, né da lasciarlo scoperto,
allora chi con ritardo lavora potrà raggiungere chi lavora sollecito.
Nel cuore tutto ciò custodisci, né ti sfugga
la primavera luminosa che viene, né il tempo di pioggia.
(L'INVERNO)
Passa oltre l'officina del fabbro e l'assolato sedile
nella stagione invernale, allora che il gelo l'uom dal lavoro
distoglie; allora l'uomo solerte cura molto la casa;
perché il rigore dell'inverno cattivo non ti sorprenda
nella miseria, mentre con la mano magra il piede gonfio ti premi.
Molte rampogne il pigro, che riposa su vane speranze,
quando il vitto gli manca, si rivolge nel cuore;
è una speranza non buona che nel bisogno l'uomo accompagna,
il quale, sulla panca seduto, non ha da mangiare abbastanza.
Avverti i tuoi schiavi, ancora nel mezzo d'estate:
«non sarà sempre estate, fatevi delle capanne».
Mese di Leneone, le giornate son tutte cattive, da scorticar buoi;
da quello guárdati, e dalle gelate che sulla terra
vengon, moleste, coi soffi di Borea;
Borea, attraverso la Tracia che nutre cavalli, sul vasto mare
soffia, e lo fa sollevare; gemono la terra e le selve;
molte querce dalle alte chiome e abeti frondosi
nelle gole dei monti abbatte sulla terra feconda
contro di loro picchiando; e allora geme tutta la foresta infinita;
le fiere tremano, e la coda si mettono fra le vergogne,
anche quelle che hanno la pelle coperta di lana, perché anche per quelle
gelido arriva, benché abbiano il corpo coperto di vello;
e passa anche attraverso la pelle del bue, che non lo trattiene;
e soffia attraverso al lungo pelame della capra, ma non attraverso alla pecora,
- ché troppo abbondante è il suo pelo - soffia
la forza del vento Borea; ma piega la schiena del vecchio.
E della fanciulla fino alle tenere membra non soffia,
perché dentro la casa presso la cara madre rimane,
ignara ancora dell'opere dell'aurea Afrodite;
lei bagna le tenere membra e di grasso olio
le unge, e dentro la casa giace
nei giorni invernali, quando il senz'ossi il piede si rode
nella sua casa priva di fuoco, miserando ricetto;
né a lui il sole mostra pastura verso cui andare,
ma sul popolo e sulla città degli uomini neri
si volge, e tardi arriva a illuminare tutti gli Elleni.
Allora, cornuti o no, gli abitanti del bosco
lugubremente stridendo coi denti, per le valli boscose
fuggono; e tutti nel cuore questo hanno caro,
dove trovare riparo e possano avere un folto giaciglio
e una grotta profonda; gli uomini sono uguali al tre piedi
che ha rotta la schiena e verso il suolo ha piegata la testa;
a quello simili vagano, fuggendo la neve bianca.
Allora, io ti consiglio, indossa, a riparo del corpo,
un mantello morbido e una lunga camicia
su trama larga con molto filo tessuta,
e in quelli avvolgiti bene, perché non ti tremino i peli
e dritti sul corpo non ti si levino irsuti.
Attorno ai piedi scarpe di cuoio di bue ammazzato,
che a ciò siano adatte, allaccia, imbottite dentro di feltro.
Di capretti nati per primi, quando il gelo a suo tempo verrà,
cuci le pelli con nervi di bue perché sulla schiena
alla pioggia ti sian di riparo. E sopra la testa
metti un cappello ben fatto perché non si bagnin le orecchie.
Perché fa freddo al mattino, se Borea imperversa;
ma quelle mattine sopra la terra, dal cielo stellato,
si spande una nebbia feconda sui lavori dei mortali beati;
essa attinge ai fiumi che scorron perenni
e in alto, levata sopra la terra da tempesta di vento,
talora come pioggia cade alla sera, e talora soffia
quando Borea tracio le spesse nubi scompiglia.
Allora affréttati, compiuto il lavoro, a tornartene a casa,
perché dal cielo scura una nube non ti ravvolga,
non ti bagni le membra e ti inzuppi i vestiti.
E non ti fidare: questo è il mese peggiore,
tempestoso, aspro alle greggi, aspro per gli uomini.
Allora ai buoi la metà basta, ma gli uomini abbiano abbondanza
di cibo; son lunghe infatti le notti e portano aiuto.
A queste cose sta' attento, fin quando compiuto sia l'anno,
ritornino uguali i giorni e le notti e di nuovo
la terra, madre di tutte le cose, i vari frutti riporti.
(LA PRIMAVERA)
Quando, dopo che il sole si è vòlto, sessanta
giorni invernali Zeus abbia compiuto, allora l'astro
di Arturo, lasciata la sacra corrente di Oceano,
tutto splendente si innalza al sorgere della sera;
di séguito a lui la Pandionide rondine, col pianto suo mattutino, si lancia
verso la luce della primavera che sorge di nuovo per gli uomini;
precedila allora e pota le viti; è la cosa migliore.
Ma quando colei che si porta addosso la casa dalla terra sale sui tronchi
fuggendo le Pleiadi, allora non è più tempo di zappare le viti,
ma affila le falci ed esorta gli schiavi;
fuggi gli ombrosi riposi e i sonni dell'alba,
nella stagione di mietere, quando il sole secca la pelle.
Allora datti da fare e porta a casa il raccolto,
al sorger dell'alba, affinché il vitto ti sia sufficiente.
L'alba infatti si prende la terza parte del lavoro del giorno,
l'alba fa procedere sulla via, fa progredire il lavoro,
l'alba, che al suo apparire mette in cammino
molti uomini, e su molti buoi pone il giogo.
(L'ESTATE)
Quando il cardo fiorisce e la cicala canora
stando sull'albero l'acuto suo canto riversa
fitto da sotto le ali, nella pesante stagione d'estate,
allora più grasse sono le capre, il vino è migliore,
le donne più ardenti, ma sono fiacchi gli uomini
perché Sirio brucia la testa e i ginocchi
e secco è il corpo per via della vampa. Ma allora
è bello avere una roccia ombrosa e vino di Biblo
e una focaccia col latte e latte di capra che più non allatta,
e carne di giovenca nutrita nel bosco, che ancora non abbia figliato,
e di primi nati capretti; e bere il nero vino
sedendo all'ombra, saziato del tuo festino,
la faccia volta incontro al veloce soffio di Zefiro;
e d'una fonte che scorre perenne e pura
tre parti d'acqua versare, la quarta di vino.
Comanda agli schiavi che le sacre spighe di Demetra
trebbino non appena appare la forza d'Orione,
in luogo ben ventilato e su un'aia rotonda.
Misuralo bene e mettilo in orci. Poi quando
tutto il tuo nutrimento avrai bene riposto dentro la casa,
prendi uno schiavo privo di casa, e una serva, ma priva di figli,
a cercarti ti esorto: cattiva è la serva che ha figli;
procùrati un cane dai denti aguzzi, senza risparmio di cibo,
perché mai uno di quelli che dormon di giorno si prenda i tuoi beni.
Foraggio procurati e strame perché tu ne abbia
abbondante per i buoi ed i muli. E dopo
agli schiavi potrai far riposare le ginocchia e sciogliere i buoi.
(LA VENDEMMIA)
Quando Orione e Sirio son giunti a mezzo
del cielo, e Arturo può esser visto da Aurora dalle dita di rosa,
o Perse, allora tutti i grappoli cogli e portali in casa.
Tienili al sole per dieci giorni e dieci notti;
per cinque conservali all'ombra, al sesto versa nei vasi
i doni di Dioniso giocondo. Poi, dopo che
le Pleiadi e le Iadi e il forte Orione
son tramontati, d'arare ricordati,
è il momento opportuno, e che l'anno sia propizio ai tuoi campi.
(LA NAVIGAZIONE)
Ma se della navigazione pericolosa il desiderio ti prende,
sappi che quando le Pleiadi, d'Orione la forza terribile
fuggendo, si gettano nel mare nebbioso,
allora infuriano i soffi di ogni specie di venti.
E non è più il tempo d'avere la nave sul fosco mare,
ma, ricorda, lavora la terra, così ti consiglio;
tira in secco la nave e di pietre rincalzala
intorno, che regga l'umida forza dei venti che soffiano,
e togli il cavicchio dal fondo perché la pioggia di Zeus non la faccia marcire.
Gli attrezzi tutti in buon ordine mettili in casa,
ripiegando attento le ali della nave che valica il mare;
il timone ben fatto appendi sul fumo,
e il tempo adatto a navigare aspetta fin quando ritorni.
Allora la nave veloce spingi nel mare, e dentro il carico
metti in buon ordine perché a casa tu possa portare guadagno,
come faceva mio padre e tuo, o sciocco Perse;
andava per mare, mancando di beni per vivere,
e qui giunse una volta, compiuto un gran tratto di mare,
lasciata l'eolica Cuma, sulla sua nave nera;
non beni fuggendo, né ricchezza, né prosperità,
ma la malvagia miseria che Zeus agli uomini manda;
venne ad abitare vicino all'Elicona, in un tristo villaggio,
ad Ascra, d'inverno cattiva, aspra d'estate, piacevole mai.
Tu, o Perse, riguardo al lavoro ricordati sempre
di fare ogni cosa a suo tempo, ma soprattutto nei lavori del mare.
Loda la nave piccola, ma su una grossa poni il tuo carico:
più grosso il carico maggiore il guadagno aggiunto a guadagno
sarà, almeno se i venti i loro soffi cattivi trattengono.
E quando, rivolto al commercio il tuo cuore leggero,
vorrai fuggire il bisogno e la fame funesta,
io ti dirò le leggi del mare che molto risuona,
sia pure di navigazione inesperto, ed anche di navi;
mai infatti, finora, su nave l'ampio mare percorsi
se non verso l'Eubea da Aulide, dove una volta gli Achei
aspettando la fine della tempesta, una vasta armata raccolsero,
dall'Ellade sacra contro Troia dalle belle donne;
là io per le gare in onore del forte Anfidamante
per Calcide m'imbarcai; molti in bando
premi avevano posto del magnanimo i figli; là, io ti dico,
vincendo con un inno conquistai un tripode orecchiuto
che consacrai alle Muse eliconie
là dove dapprima m'iniziarono all'armoniosa poesia;
solo questa esperienza ho di navi molto chiodate;
ma, pur così, io ti dirò di Zeus egioco la mente
ché le Muse m'insegnarono a cantare un inno meraviglioso.
Per cinquanta giorni dopo il volger del sole,
quando volge alla fine l'estate, faticosa stagione,
è il tempo propizio ai mortali per navigare; né la nave
sconquassa il mare né gli uomini uccide,
a meno che Posidone che scuote la terra, avverso,
oppure Zeus, re degli dèi, non li vogliano perdere,
perché il compimento è in loro, ugualmente dei beni e dei mali.
Allora regolari soffiano i venti e senza pericolo è il mare;
sicuro allora, nei venti fidando, la nave veloce
spingi nel mare e tutto sopra ponivi il carico,
e affrettati prima che puoi a casa a tornare;
non aspettare il vin nuovo e la pioggia autunnale
e l'inverno che viene e i terribili soffi di Noto,
che il mare solleva e si accompagna a molta pioggia di Zeus
autunnale e cattivo fa il mare.
Un altro, di primavera, è il tempo per gli uomini di navigare:
quando dapprima, la cornacchia posandosi
tanta orma del piede suo lascia quanta la foglia agli uomini appare
sull'estremo ramo del fico, allora navigabile è il mare.
Questa è la navigazione di primavera: invero io non
l'elogio: non è cara al mio cuore,
è rischiosa: difficilmente un male potresti fuggire, ma
gli uomini la fanno nella loro mente inesperta;
le ricchezze sono la vita per i mortali infelici.
È duro morire fra i flutti; ma io t'esorto
a pensare tutto ciò nel tuo cuore; così io ti dico.
E non porre tutti i tuoi beni sui cavi navigli,
ma il più lascia, il meno imbarca;
è duro incontrare un disastro fra l'onde del mare
così com'è duro se sul tuo carro un peso eccessivo ponendo
l'asse spezzassi e il carico andasse perduto;
bada alla giusta misura: ciò che è opportuno è su tutto la cosa migliore.
(CONSIGLI A PERSE, II)
Al tempo opportuno conduciti in casa la moglie;
né dai trent'anni tu sia molto lontano
né li abbia passati da molto; delle nozze è questo il tempo opportuno;
la donna quattr'anni pubere resti, al quinto si sposi;
ma sposala vergine perché tu possa insegnarle buoni costumi.
E piuttosto sposa quella che abita a te vicino,
ma tutto ben considerando, che dei vicini il ludibrio non sposi.
Un uomo infatti non può fare migliore guadagno d'una donna
dabbene; d'una invece cattiva non può farlo peggiore;
costei, della tavola amica, per quanto l'uomo possa essere vigoroso,
lo brucia senza la torcia e lo destina a precoce vecchiaia.
Osserva intera la riverenza verso gli dèi immortali.
Non considerare l'amico uguale a un fratello;
ma se lo consideri non essere il primo a fargli del male.
Non mentirgli per il piacere di parlare; ma se lui per primo
o parlando ti fa cosa non grata o nell'agire,
ricorda di prenderti doppia vendetta; ma se di nuovo
all'amicizia vuole tornare ed è disposto a pagare la pena,
accettalo; è un uomo da poco chi si fa amico ora l'uno ora l'altro;
il tuo pensiero mai contraddica il tuo volto.
Che tu non sia detto né troppo ospitale né inospitale,
né dei cattivi compagno, né attaccabrighe coi buoni.
Né mai la povertà rovinosa, che il cuore consuma, a un uomo
tu voglia rimproverare: la mandano gli eterni beati;
un parco parlare è il tesoro più grande per gli uomini,
la migliore virtù è seguire in ciò una giusta misura;
se tu dici del male certo maggiore l'udrai.
Non ti mostrare sgarbato in un numeroso festino
fatto a spese di tutti: il piacere è maggiore, minore la spesa.
Non libare mai all'aurora a Zeus il nero vino
con mani non nette, e neppure agli altri immortali:
non t'ascolteranno, e i tuoi voti respingeranno;
non orinare dritto rivolgendoti al sole,
ricorda, quando tramonta e al suo sorgere nuovo;
non orinare mentre cammini, né lungo la strada né fuor della strada,
e neppure nudo: dei beati sono le notti;
se un uomo è pio e conosce saggi pensieri fa questo accosciato,
oppure s'appressa al muro d'un atrio ben chiuso.
E dentro la casa non mostrar le vergogne di seme sporcate,
al focolare vicino: evita questo.
Quando ritorni da funesto sepolcro
non seminare la tua discendenza, ma imbandisci un festino agli dèi.
Mai alla foce di un fiume che sbocca nel mare
o alle sorgenti tu orina, ma guardatene;
e non defecare: ciò non è bene;
né mai dei fiumi immortali l'acque scorrenti
a piedi tu passa prima d'aver pregato rivolto ai bei gorghi
con le mani lavate nell'acqua gradevole e chiara.
Chi un fiume attraversa o per malizia o nelle mani non puro
contro di lui gli dèi prendon vendetta e più tardi gli mandano pene.
Né dalla cinque rami, durante un festino gioioso di dèi,
il secco dal verde tu taglia col nero ferro;
e non porre mai il boccale del vino sopra il cratere
a chi beve: rovinosa ventura a ciò segue.
Quando tu fai una casa non la lasciare incompiuta
perché la stridula cornacchia posandosi sopra non gracchi.
Da una pentola non consacrata agli dèi non prendere il cibo
per mangiare o acqua per lavarti perché a ciò segue pena.
Non porre su sacri oggetti, perché non è bene,
un bambino di dodici giorni; ciò toglie all'uomo il vigore;
né di dodici mesi: accade la medesima cosa.
Un uomo nel bagno di donna non lavi il suo corpo:
grave, seppure breve, anche a ciò segue
una pena. Davanti a offerte che ardono
non dileggiare i misteri: anche di ciò il dio si sdegna.
(LA FAMA)
Tu fa' così e la brutta fama degli uomini evita;
infatti la fama cattiva nasce, leggera ad essere assunta
e facile assai, penosa a portarsi, dura a deporre.
La fama non tutta muore, se tanta
gente la sparge: è anch'essa un dio.
(I GIORNI)
I giorni che vengon da Zeus osserva come si deve
e falli conoscere ai tuoi schiavi: il trenta del mese è il migliore
per controllare i lavori e spartire le razioni di cibo,
quando gli uomini il vero distinguere sanno e seguire.
Questi sono i giorni che vengon da Zeus molto saggio.
Innanzi tutto il primo, il quarto, il settimo son giorni sacri;
in questo infatti Apollo dall'aurea spada fu partorito da Leto;
e poi l'ottavo e il nono del mese che inizia: sono infatti i due giorni
migliori per compiere i lavori dell'uomo;
l'undici e il dodici, ambedue buoni
sia per tosare le greggi che per mietere un pingue raccolto;
ma il dodici dell'undicesimo è molto migliore;
è allora che il ragno, che sta sospeso nell'aria, fila la tela,
nel giorno più lungo, quando la previdente raccoglie il suo mucchio;
in quello inizi la tela la donna e il suo lavoro disponga.
Ma col tredici del mese che inizia guardati
dal porre mano alla semina; ottimo è invece piantare.
Il sesto dal mezzo del mese è dannoso alle piante,
ma è buono a far nascere maschi; è dannoso invece alle femmine,
e per nascere e per il matrimonio.
Nemmeno il sesto della prima parte del mese una fanciulla a far nascere
è buono, ma per castrare i capretti e gli arieti del gregge,
e per piantare un recinto al bestiame è giorno clemente;
è buono a far nascere un maschio che amerà scherni,
menzogne, gli arguti discorsi, i furtivi colloqui.
L'ottavo giorno del mese il porco e il toro muggente
tu castra; il dodici i muli pazienti.
Il gran venti, nel pieno del giorno, un uomo prudente
sia generato; la sua mente sarà molto assennata.
Buono è il dieci un maschio per generare; per una femmina il quarto
del mezzo del mese; in quello i montoni, i buoi dalle corna ricurve, che trascinano i piedi
e il cane dai denti aguzzi e i muli pazienti
addomestica ponendo su di loro la mano. E nella tua mente bada
a evitare che nel quarto della fine e d'inizio del mese
pene ti rodano il cuore; è un giorno sacro.
Nel quarto del mese conduciti in casa la sposa
presi gli auspici, che per questo sono migliori.
Dal quinto guardati, è cattivo e nefasto;
nel quinto dicono che le Erinni abbian raccolto
Giuramento nascente, che Contesa generò, castigo per gli spergiuri.
Il sette del mezzo del mese di Demetra le sacre spighe
con grande attenzione in un'aia rotonda
getta; e che il tagliaboschi tagli i legni del letto nuziale
e legni per nave, molti, che in quella stanno congiunti.
Il quarto comincia a costruire le navi snelle.
Il nono del mezzo del mese è un giorno buono alla sera;
il nono della prima parte del mese per gli uomini è privo di mali;
è buono sia per piantare che per generare
un uomo o una donna; non è mai un giorno del tutto cattivo.
Pochi sono a sapere che il ventisette del mese è il migliore
per cominciare un orcio e per mettere il giogo sul collo
ai buoi, ai muli, ai cavalli dai piedi veloci,
la nave veloce dai molti chiodi nel mare dal colore del vino
per spingere; pochi sono che lo chiamano come si deve.
Nel quarto apri l'orcio - fra tutti il giorno più sacro -
intorno all'ora di mezzo; ma pochi sanno che quello dopo il venti è il giorno migliore del mese,
quando spunta l'aurora; meno buona è la sera.
Questi sono i giorni che ai mortali portano grande vantaggio;
gli altri sono mutevoli, innocui, non portano nulla;
chi loda l'uno e chi l'altro ma pochi sono che li conoscono;
talora una data è matrigna, madre talora.
Di tali cose beato e felice colui che, tutto questo
sapendo, lavora senza colpa davanti agli dèi,
conosce gli auspici e si guarda dal trasgredire le regole giuste.

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