Lettera di Seneca

Materie:Appunti
Categoria:Latino

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Testo

SENECA – EPISTOLA LXXVII
La morte di Marcellino
Seneca saluta il suo Lucilio
All’improvviso apparvero le navi alessandrine, che sono solite essere mandate avanti ad annunciare l’arrivo della flotta che seguirà: le chiamano tabellarie. La loro vista è gradita agli abitanti della Campania; tutta la popolazione di Pozzuoli sta sui moli e dallo stesso genere delle vele riconosce le alessandrine per quanto in una moltitudine di navi: a loro sole infatti è lecito spiegare il siparo, che tutte le navi hanno in alto. Niente infatti aiuta la navigazione tanto quanto la parte più alta della vela: da questo soprattutto viene spinta la nave. Così ogni volta che il vento aumenta ed è più forte di quanto è utile, viene abbassata l’antenna. Il vento ha meno forza dal basso. Quando oltrepassano Capri ed il promontorio, da cui “alta da una tempestosa cima Pallade sorveglia”, alle altre viene ordinato di limitarsi alla velatura normale: il siparo è segno delle navi alessandrine. In questo correre di tutta la gente che corre verso la spiaggia, ho provato un grande piacere dalla mia pigrizia, poiché pur stando per ricevere le lettere dei miei corrispondenti non ero impaziente di sapere quale fosse là la situazione dei miei affari, cosa mi portassero: già da tempo per me niente va perduto né viene acquisito. Questo, anche se non fossi vecchio, lo dovrei provare, ora però molto di più: per quanto poco io possedessi, tuttavia per me ormai resterebbe più di provvista che di strada, soprattutto essendo entrati in quella via, che non è necessario percorrere fino alla fine. Un viaggiò sarà imperfetto, se ti sarai fermato a metà o prima del luogo desiderato: la vita non è imperfetta, se è onesta. Dovunque morirai, se la finirai bene, è completa. Spesso anzi bisogna morire sia con un atto di forza sia per cause non importanti: infatti non sono le più importanti queste che ci trattengono. Tullio Marcellino che avevi conosciuto molto bene, ragazzo tranquillo e vecchio prima del tempo, colpito da una malattia e non inguaribile ma lunga e fastidiosa che esigeva molte cure, iniziò a pensare alla morte. Convocò molti amici: ognuno o perché era pauroso cercava di convincerlo a ciò a cui avrebbe convinto se stesso, o perché era un adulatore e un lusingatore, dava quel consiglio che immaginava sarebbe stato più gradito a lui che rifletteva. Il nostro amico Stoico, uomo egregio e, per lodarlo con le parole con cui è degno di essere lodato, uomo forte e strenuo, mi sembra che lo abbia esortato ottimamente. Così infatti iniziò:
- Non tormentarti, mio Marcellino, come se riflettessi di cose grandi. Non è una gran cosa vivere: tutti i tuoi servi vivono, tutti gli animali: gran cosa è morire onorevolmente, saggiamente, coraggiosamente. Pensa da quanto tempo tu faccia le stesse cose: cibo, sonno, passione, per questo cerchio si corre. Può voler morire non solo il saggio, il coraggioso o il misero ma anche l’infastidito. Non aveva bisogno di un consigliere, ma di un aiutante: i servi non volevano obbedire. Per prima cosa tolse loro il timore e spiegò che la servitù andava incontro ad un pericolo, essendo incerto, se la morte del padrone fosse stata volontaria: d’altra parte uccidere un padrone è tanto di cattivo esempio quanto proibirglielo. Quindi ammonì lo stesso Marcellino che era cosa gentile, come finita la cena le pietanze rimaste vengono divise tra i commensali, così finita la vita che venisse dato qualcosa a coloro, che erano stati servi per tutta la vita. Marcellino era di animo semplice e generoso, anche quando ciò veniva fatto dal suo: perciò distribuì piccole somme tra i servi che piangevano e per di più li consolò. Non ebbe bisogno di una spada, né di spargere sangue: per tre giorni non mangiò e ordinò che proprio nella stanza fosse posto un baldacchino. Quindi fu portata dentro una vasca, in cui stette un giorno e versata ripetutamente acqua calda a poco a poco perdeva le forze, come sosteneva, non senza un qualche piacere, quanto suole portare un soave sfinimento noto a me, che talvolta l’animo ha abbandonato. Mi sono dilungato in una storia a te gradita: conoscerai infatti la fine non dolorosa né misera del tuo amico. Per quanto infatti si sia dato la morte, tuttavia è morto assai delicatamente ed è scivolato via dalla vita. Ma questa storia non sarà stata nemmeno inutile: spesso infatti tali esempi li esige la necessità. Spesso dobbiamo morire ma non vogliamo, moriamo e non vogliamo. Nessuno è tanto inesperto da non sapere che prima o poi deve morire: tuttavia quando vi è giunto vicino temporeggia, trema, implora. Non ti sembra forse il più stolto di tutti quello che piange perché non era vissuto mille anni prima? Ed anzi è stolto chi piange perché non vivrà tra mille anni. Queste cose sono equivalenti, non sarai né sei stato: l’uno e l’altro tempo è alieno da noi. Sei stato gettato in questo momento, che ammettiamo tu possa estendere, fin dove lo estenderai? Perché piangi? Perché preghi? Sprechi la tua forza.
Smetti di sperare che con la preghiera si pieghino le volontà degli dei.
Prestabilite e fisse sono ed inoltre sono guidate dalla grande eterna necessità: andrai là dove tutti vanno. Cosa c’è di nuovo per te? Sei nato secondo questa legge: ciò è accaduto a tuo padre, a tua madre, ai tuoi antenati, a tutti quelli prima di te, ciò accadrà a tutti quelli dopo di te. Un destino invitto e non mutabile da alcuna forza ti ha legato e trascina tutto. Che moltitudine di quanti moriranno ti seguirà? Quale ti accompagnerà? Più forte saresti, come penso, se morissero insieme a te: ebbene molte migliaia sia di uomini che di animali nello stesso momento in cui tu esiti a morire liberano l’anima in vari modi. Tu invece non pensavi che prima o poi saresti giunto là dove da sempre ti dirigevi? Non c’è alcun viaggio senza fine. Ora ritieni che dovrei elencarti gli esempi di grandi uomini? Riferirò quelli di ragazzi. Si ricorda a memoria quel famoso spartano ancora ragazzo che catturato gridava “non servirò” nella sua lingua dorica, e tenne fede a quelle parole: appena gli fu ordinato di eseguire un servizio servile e oltraggioso, gli veniva ordinato di portare un vaso sudicio, si ruppe la testa sbattendola contro il muro. Tanto vicina è la libertà: e qualcuno si adatta a servire? Non preferiresti che tuo figlio morisse così piuttosto che diventasse vecchio per inerzia? Dunque cosa c’è, per cui dovresti essere turbato, se è proprio anche di un ragazzo morire? Considera che non vorrai andare ma che vi sarai condotto. Fa sì che sia del tuo diritto ciò che è di altri. Non farai tuo lo spirito del ragazzo, per dire “non servo”? infelice servirai gli uomini, le cose, la vita: infatti la vita se manca il coraggio di morire è servitù. Hai forse qualcosa per cui dovresti aspettare? Hai esaurito gli stessi piaceri, che ti ritardano e trattengono: non ce n’è uno nuovo per te, nessuno ormai non odioso per la sazietà stessa. Quale sia il sapore del vino, quale del vino con miele, lo sai; non c’è nessuna differenza, per la tua vescica cento o mille anfore potrebbero passare: sei un sacco. Di cosa sappia l’ostrica, la triglia lo sai benissimo; niente per te la tua lussuria ti riserverà intatto in futuro: ebbene queste sono le cose da cui a malincuore ti fai strappare. Che altro c’è, che ti duoli ti venga tolto? Gli amici? Sai essere un amico? La patria? La consideri in verità di così grande valore che ritarderesti il pranzo? Il sole? Che, se potessi, spegneresti: che cosa hai mai fatto degno di luce? Ammetti che tu non sei reso più restio a morire dal rimpianto né della curia, né del foro, né del mondo stesso: a malincuore tu lasci il mercato dei viveri, in cui non hai lasciato nulla. Temi la morte: come mai la sfidi in mezzo ad una mangiata di funghi? Vuoi vivere: lo sai davvero? Temi di morire: cosa ancora? Questa vita non è una morte? Caio Cesare, quando uno dalla barba bianca lunga fino al petto della schiera dei prigionieri gli chiese la morte mentre percorreva la via Latina, “ora dunque” – disse “vivi?”. Questo bisogna dire a coloro per cui la morte sarebbe un aiuto: “temi di morire: ora però vivi?”. “Ma io – dice – voglio vivere, che faccio molte cose con onestà: a malincuore lascio i doveri della vita, a cui adempio fedelmente e con impegno”. Perché? Tu non sai che anche il morire è uno tra i doveri della vita? non lasci alcun dovere: non è determinato un certo numero di doveri, che devi espletare. Ogni vita è breve: infatti se guardassi ai fatti, anche quella di Nestore lo è, quella di Sattia è breve, che ordinò che sul suo monumento funebre fosse scritto che aveva vissuto 90 anni. Vedi che qualcuno c’è che si gloria di una lunga vecchiaia: chi avrebbe potuto sopportarla, se fosse accaduto che compisse il centesimo? Come una commedia, così la vita non importa quanto sia lunga ma quanto bene sia stata condotta. Per niente è importante in quale momento tu muoia. Morirai dove vorrai. Solo imponiti una buona fine.
Stammi bene.

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