La guerra civile (di Lucano)

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Testo

La guerra civile (Lucano)

LIBRO PRIMO


Cantiamo guerre più atroci di quelle civili, combattute sui campi d'Emazia, e il delitto divenuto legalità e un popolo potente che si è rivolto contro le sue stesse viscere con la destra vittoriosa e i contrapposti eserciti appartenenti allo stesso sangue e - infranto il patto della tirannia - tutte le energie del mondo sconvolto che lottano per un comune misfatto e le insegne che vanno contro quelle avversarie e le aquile contrarie alle aquile e i giavellotti minacciosi contro i giavellotti.
Quale follia, o cittadini, quale sfrenato abuso delle armi offrire il sangue latino alle genti nemiche? Mentre si sarebbero dovuti strappare alla superba Babilonia i trofei italici e mentre l'ombra di Crasso continuava ad errare invendicata, si decise di intraprendere guerre che non avrebbero avuto alcun trionfo? Oh, con il sangue che venne versato nei conflitti civili quanto spazio in terra e in mare si sarebbe potuto conquistare, là donde sorge il sole, dove la notte occulta gli astri, dove il mezzogiorno arde di ore infuocate, dove il rigido inverno, incapace di sciogliere il suo freddo anche in primavera, stringe il mare glaciale con freddo scitico: sarebbero già stati sottomessi i Seri, il barbaro Arasse e la popolazione, se esiste, che conosce le sorgenti del Nilo! Allora, o Roma, se brami tanto una guerra empia - una volta che avrai sottomesso l'orbe intero alle leggi latine - rivolgi la mano contro te stessa: fino ad ora non ti sono mancati i nemici. Ma adesso - del fatto che, nelle città d'Italia, le mura delle case diroccate minacciano di cadere e, crollate le pareti, grandi massi giacciono a terra e non c'è più alcuno che custodisca le abitazioni e soltanto qualche raro abitante vaga per le antiche città e, ancora, del fatto che l'Esperia sia irta di rovi, senza che l'aratro, per molti anni, abbia lavorato e che mancano le braccia per i campi che le richiedono - di così grandi sciagure non sei responsabile né tu, o feroce Pirro, né il Cartaginese: a nessuno è toccato in sorte di penetrare così internamente con il ferro: le ferite inferte dalla guerra civile sono le più profonde e inguaribili.
Se poi i fati non hanno trovato altro mezzo per l'avvento di Nerone e a caro prezzo si apprestano gli eterni regni per gli dèi e il cielo poté servire al suo Tonante solo dopo le guerre combattute contro i crudeli Giganti, noi, o numi, non ci lamentiamo più ormai: approviamo questi nefandi delitti, se essi hanno avuto tali conseguenze: Farsàlo sommerga di sangue i campi maledetti e se ne sazino i Mani cartaginesi, gli estremi combattimenti abbiano luogo nella funesta Munda, a questi tristi destini si aggiungano, o Cesare, la fame di Perugia e il travaglio di Modena e le flotte che si trovano sotto la rocciosa Lèucade e le guerre servili sotto l'Etna infuocato: purtuttavia Roma deve molto ai conflitti civili, dal momento che tutto ciò si è realizzato per te. Te - allorquando, completato il periodo del tuo soggiorno terreno, salirai, il più tardi possibile, verso gli astri - accoglierà la reggia del cielo, che avrai scelto, fra il tripudio dell'universo: sia che ti piaccia impugnare lo scettro sia che tu voglia montare sul carro fiammeggiante di Febo e percorrere con il fuoco errante la terra che non avrà timore del nuovo sole, ogni nume si ritirerà dinanzi a te e la natura ti lascerà il diritto di decidere qual dio vorrai essere e dove collocare il tuo regno sull'universo. Ma non scegliere la tua sede nella zona dell'Orsa né in quella opposta, dove si trova il caldo polo australe, donde vedresti la tua Roma con una traiettoria obliqua: se tu graverai su una sola parte dell'etere immenso, l'asse dell'universo sentirà il tuo peso. Equilibra con un'orbita centrale la massa del cielo: quella zona dell'etere sereno sia libera del tutto e nessuna nube sia di ostacolo dalla parte di Cesare. Allora il genere umano, deposte le armi, pensi a se stesso e ogni popolo si ami vicendevolmente: la pace, diffusa per il mondo, chiuda le ferree porte del tempio di Giano apportatore di guerra. Ma tu per me sei fin da ora un dio e se io, accogliendoti nel mio petto, divengo poeta, non vorrei sollecitare il dio che rivela i segreti di Cirra e distogliere Bacco da Nisa: tu basti ad infondere forza e ispirazione per un poema romano.
È mia intenzione portare alla luce i motivi di avvenimenti così importanti: mi si rivela una fatica immane, quella cioè di svelare che cosa abbia spinto il popolo impazzito alle armi, che cosa abbia cacciato via la pace dal mondo: invidiosa è la successione dei fati, non è consentito a ciò che è giunto al culmine di durare a lungo, pesanti sono le cadute sotto un peso troppo gravoso, né Roma è più in grado di sostenersi. Così - allorquando, scardinato il meccanismo che tiene insieme il mondo, l'ora estrema avrà concluso il ciclo di tante generazioni, dando nuovamente luogo all'antico caos - tutti gli astri si mescoleranno e cozzeranno fra loro, le stelle infuocate precipiteranno nel mare, la terra non vorrà estendere le sue spiagge e respingerà le acque, Febe si dirigerà contro il fratello e, sdegnatasi di percorrere l'orbita obliqua, chiederà per sé il giorno e tutta la struttura del mondo, ormai scardinatasi, sconvolgerà le leggi dell'universo. La grandezza precipita su se stessa: gli dèi posero questo limite alla crescita della prosperità. Né la Fortuna offre ad alcuna popolazione straniera la propria invidia contro un popolo potente per terra e per mare: tu, o Roma, sei la causa dei tuoi mali, tu, resa possesso comune di tre padroni, e i patti funesti di un dominio mai prima affidato a tante persone. O malamente concordi e resi ciechi da una eccessiva ingordigia, che giova mescolare le forze e tenere il mondo sotto il vostro dominio? Finché la terra sosterrà il mare e l'aria la terra e il sole continuerà a svolgere la sua lunga fatica e la notte terrà dietro al giorno sempre con le medesime costellazioni, quelli che hanno in comune un dominio non saranno mai leali fra loro e chi detiene il potere non sopporterà di dividerlo con un altro. Non cercate esempi presso altre popolazioni e non ricercate troppo lontano gli esempi di simili destini: le vostre mura furono le prime ad essere macchiate di sangue fraterno. Ed allora la contropartita di una così mostruosa follia non era la terra né il mare: un piccolo rifugio mise di fronte i due contendenti che aspiravano al dominio.
La discorde concordia ebbe breve durata e la pace venne stipulata non per volere dei capi: l'unico ostacolo che si frapponeva alla futura guerra era Crasso. Come il sottile istmo, che taglia le acque e separa i due mari e non consente che i flutti si fondano (se la terra si ritirasse, lascerebbe infrangere il mare Ionio nell'Egeo), così, non appena Crasso - che teneva separate le crudeli armi dei capi - con la sua miseranda morte macchiò di sangue latino l'assiria Carre, il disastro partico scatenò il furore romano. O Arsàcidi, con quella battaglia avete ottenuto più di quanto crediate: avete dato ai vinti la guerra civile. Il dominio è diviso con le armi e la sorte di un popolo potente, che è padrone del mare, della terra e di tutto il mondo, non permise che ci fossero due contendenti. Infatti Giulia, rapita anzi tempo dalla crudele mano delle Parche, recò nel regno dei morti il pegno dell'unione del sangue e le torce nuziali divenute funeste con un sinistro presagio. Che se il destino ti avesse concesso un più lungo periodo di vita, soltanto tu avresti potuto trattenere da un lato il marito, dall'altro il padre, entrambi impazziti, ed unire le loro mani armate, dopo aver strappato ad essi il ferro, come le Sabine, gettatesi nel mezzo della mischia, unirono i generi ai suoceri. Con la tua morte invece la lealtà venne spazzata via e fu consentito ai capi di muover guerra. Il valore, che spingeva a rivaleggiare, fornì la spinta: tu, o Grande, temi che le nuove imprese dell'avversario oscurino i tuoi antichi trionfi e che la gloria conseguita nella guerra contro i pirati sia superata da quella derivante dalla conquista delle Gallie; tu, invece, sei sollecitato dalla lunga consuetudine con le fatiche della guerra e dalla Fortuna che non tollera di occupare il secondo posto: né Cesare può sopportare che qualcuno venga prima di sé né Pompeo che qualcuno gli stia accanto. Non è lecito sapere chi dei due abbia dato di piglio alle armi per motivi più giusti: ciascuno adduce a propria giustificazione un giudice importante: la causa del vincitore piacque agli dèi, quella del vinto a Catone. Né vennero l'un contro l'altro sullo stesso piano: l'uno, mentre gli anni declinavano verso l'età tarda, reso più pacato dalla consuetudine con l'attività civile, aveva disimparato con la pace l'arte del condottiero e, bramoso di fama, dava molto al volgo, si lasciava trascinare completamente dall'umore del popolo e godeva dell'applauso del suo teatro, senza allestire nuove forze, dal momento che faceva invece grande affidamento sulla fortuna di un tempo. S'innalza, ombra di un grande nome, come una quercia imponente in un campo fecondo, recante le spoglie di un popolo antico e i doni sacri dei capi e, non riuscendo più ad aderire con forti radici al terreno, sta in piedi solo con il suo peso: effondendo nell'aria i rami nudi, fa ombra con il tronco, non con le fronde, e, sebbene ondeggi, minacciando di crollare al primo soffio dell'euro e si innalzino intorno tanti alberi dal solido tronco, purtuttavia solo essa è venerata. In Cesare non era soltanto il nome o la fama del condottiero, ma un valore incapace di riposo e la sola vergogna vincere senza combattere: aspro e indomabile, scatenava la sua violenza dovunque lo chiamasse la speranza o l'ira, non risparmiava mai le sue armi impugnate empiamente, incalzava da presso i suoi trionfi, forzava la benevolenza accordatagli dagli dèi, scagliandosi contro tutto ciò che fosse di ostacolo al suo desiderio di dominio totale e soddisfatto di aprirsi la via con la rovina. Così il fulmine, provocato dai venti attraverso le nubi, brilla con il risuonare dell'etere percosso e con il fragore dell'universo, fende il giorno e atterrisce i popoli sgomenti, costringendoli a chiuder gli occhi con la sua fiamma obliqua: infuria nel cielo e, dal momento che nulla è di ostacolo al suo sprigionarsi, provoca, precipitando e risollevandosi, stragi per gran tratto e ricompone gli sparsi fuochi.
Queste le cause per i capi; ma anche fra i cittadini lavoravano nascostamente i germi della guerra, che hanno travolto da sempre i popoli potenti. Infatti - allorquando la Fortuna, sottomesso il mondo, recò eccessive ricchezze e i costumi si corruppero di fronte all'abbondanza e alla prosperità e il bottino di guerra, ottenuto ai danni dei nemici, spinse al lusso - non ci fu più limite all'oro e ai palazzi e la fame disprezzò le mense di un tempo; gli uomini indossarono abbigliamenti, che a stento era ammissibile che portassero le giovani; si fuggì la povertà ricca di eroi e si fece venire da ogni angolo del mondo ciò per cui tutti i popoli periscono. Allora unirono insieme un gran numero di campi ed allargarono, servendosi di coloni stranieri, tutti quei terreni che un tempo erano stati arati dal duro vomere di Camillo e lavorati dalle antiche zappe dei Curii. Non era più quel popolo, che traeva giovamento da una tranquilla pace e che si nutriva della propria libertà, mentre le armi tacevano. Di qui le facili ire; fu ritenuto una leggera infrazione, quello a cui potesse spingere l'indigenza, e un grande onore, da ricercare con le armi, riuscire ad avere un potere superiore a quello della patria: la violenza era ormai la misura del diritto. Di qui i plebisciti e le leggi coartate ed infrante e i tribuni che, insieme con i consoli, sovvertivano la legalità, di qui i fasci ottenuti con la corruzione e il popolo che vendeva all'asta il suo favore e i brogli elettorali, esiziali per Roma, che rinnovavano ogni anno le lotte nel venale Campo. Di qui l'usura divoratrice e l'interesse avido nelle scadenze e la lealtà spazzata via e la guerra vantaggiosa per molti.
Ormai Cesare aveva superato con grande rapidità le gelide Alpi e aveva deciso grandi sommovimenti e la guerra futura. Non appena giunse sulla riva del piccolo Rubicone, apparve al condottiero la grande immagine della Patria in ansia, luminosa nella notte oscura, tristissima nel volto e con i bianchi capelli che cadevano dal capo turrito; essa, con la chioma scarmigliata e le braccia nude, così parlò, mescolando i gemiti alle parole: «Dove procedete ancora? Dove recate le mie insegne, o soldati? Se venite nel rispetto della legge o come cittadini, vi è consentito giungere fin qui». Allora l'orrore scosse le membra del condottiero, gli si drizzarono le chiome e, costretto da un improvviso torpore, ristette sul limitare della riva. Ma subito disse: «O Tonante, che proteggi dall'alto della rupe Tarpea le mura dell'Urbe, o Penati Frigi della stirpe Giulia e mistero di Quirino assunto in cielo e Giove Laziare, che hai la tua sede in Alba alta, e fuochi di Vesta e Roma, somma divinità, favorite la mia impresa! Non mi lancio contro di te con le armi delle Furie: ecco, io Cesare son qui, vincitore in terra e in mare, dovunque, e anche ora (purché me ne sia data la possibilità), tuo soldato. Il vero colpevole sarà colui, che mi ti renderà nemico». Subito dopo ruppe gli indugi della guerra e fece passare rapidamente le insegne attraverso il fiume gonfio: come, nei desolati campi della Libia infuocata, un leone, scorto un nemico da presso, si ferma incerto, mentre raccoglie tutta la sua ira, e poi, spronandosi con forti colpi di coda, drizza la criniera ed emette dalle grandi fauci un profondo ruggito, allora, anche se una lancia vibrata da un agile Mauro si infigge nel suo corpo o se gli spiedi gli si conficcano nel largo petto, balza, incurante di così vaste ferite, tra le armi.
Il rosseggiante Rubicone nasce da una piccola fonte e procede con brevi onde, allorquando brucia la fervida estate, e scorre nel fondo delle valli e si pone, come esatto confine, tra i campi gallici e le terre occupate dai coloni italici. Allora esso era reso più forte dall'inverno e ne avevano accresciuto il corso il terzo giorno del novilunio con la sua falce apportatrice di molta pioggia e la neve delle Alpi che si scioglieva agli umidi soffi dell'euro. Per prima la cavalleria si dispose trasversalmente alla corrente del fiume, pronta a sostenere l'urto delle onde: quindi il resto dell'esercito passò, guadando facilmente le acque del fiume, la cui violenza era stata infranta.
Cesare, non appena, superato il fiume, toccò l'altra riva e si fermò nei campi italici, che gli erano stati interdetti, disse: «Qui, in questo momento, abbandono la pace e il diritto calpestato: seguo te, o Fortuna. Ormai i patti non abbiano più valore: ci siamo affidati al destino; che sia la guerra a giudicare». Detto questo, il condottiero trascina instancabile il suo esercito con il favore delle tenebre, procede più veloce del colpo lanciato dalla fionda baleare e della freccia scagliata dal Parto, che si volge improvvisamente, e incombe minaccioso sulla vicina Rimini. Gli astri, abbandonato Lucìfero, fuggivano i raggi del sole e ormai sorgeva il giorno che avrebbe visto i primi sconvolgimenti della guerra: le nubi si opposero a quella triste luce sia che gli dèi avessero così deciso sia che esse fossero state spinte via dall'austro burrascoso. Non appena i soldati, conquistato il foro, ebbero l'ordine di porvi le insegne, lo stridore dei litui e il clangore delle trombe fecero risuonare, insieme ai rauci corni, l'empio segnale di guerra. La gente ne fu sconvolta e i giovani, balzati giù dai letti, dettero di piglio alle armi appese ai sacri Penati, così come le trovavano dopo un lungo periodo di pace: afferrarono gli scudi, la cui protezione esterna cadde a pezzi, e i giavellotti senza più punta e le spade ruvide per l'effetto della nera ruggine. Allorquando rifulsero le ben note aquile e le insegne romane ed essi scorsero, al centro delle schiere, Cesare in posizione eminente, si irrigidirono per la paura e il terrore si impadronì delle membra divenute fredde; essi allora volsero nel cuore silenziosi lamenti: «O queste nostre mura infelicemente innalzate in prossimità dei Galli e condannate da una infausta localizzazione! Tutti i popoli godono di una pace duratura e di una grande tranquillità: noi invece siamo preda e primo luogo di scontro di avversari impazziti. Meglio, o Fortuna, ci avresti fornito una sede nella zona orientale ed erranti dimore nel gelido nord piuttosto che renderci sorveglianti delle porte del Lazio. Noi per primi abbiamo assistito alle invasioni dei Sènoni, all'irrompere dei Cimbri, alla guerra d'Africa e al dispiegarsi della rabbia teutonica: tutte le volte che la Fortuna ha trascinato Roma in guerra, la via per il conflitto è passata per di qua». Così ciascuno con gemiti nascosti, dal momento che non osò palesare il timore: il dolore non si manifestò e la quiete fu la stessa di quando i campi sono silenziosi, allorché gli uccelli sono muti per il freddo, e di quando il mare tace senza un mormorio.
La luce aveva dissolto le gelide ombre della notte ed ecco che i fati incalzano con le fiamme della guerra, stimolano al combattimento gli animi ancora esitanti e spazzano via ogni scrupolo: la Fortuna si prende cura di giustificare le azioni di Cesare e trova motivi per il suo intervento armato. Infranto il diritto, il Senato, agitando minacciosamente il fantasma dei Gracchi, caccia dalla città ormai divisa nelle opposte fazioni i tribuni dissidenti. Essi, che si dirigono verso le insegne di Cesare, ormai in movimento e vicine, sono accompagnati dall'arrogante Curione, il quale metteva in vendita la sua abilità oratoria e che un tempo era espressione della volontà del popolo ed aveva avuto il coraggio di difendere la libertà e di mettere sullo stesso piano della plebe i potenti in armi. Quando egli scorse il condottiero, che volgeva nel suo cuore diversi pensieri, così lo apostrofò: «Finché il tuo partito, o Cesare, trasse giovamento dalla mia voce, siamo riusciti a prolungare il tuo potere, nonostante l'opposizione del Senato, allorquando mi era possibile parlare dalla tribuna e tirare dalla tua parte i Romani ancora esitanti. Ma da quando le leggi furono messe a tacere, schiacciate dalla guerra, siamo cacciati dalla patria e sopportiamo un esilio volontario: la tua vittoria ci renderà nuovamente cittadini. Mentre il partito contrario ondeggia, non rafforzato da alcun sostegno, rompi gli indugi: a quelli che son pronti ha sempre nuociuto rimandare. Una pari fatica ed un uguale timore sono ripagati con un risultato ben più importante: per dieci anni le tue cure di guerra sono state assorbite dalla Gallia (ben poca parte della terra!): se riuscirai a vincere poche battaglie, Roma avrà sottomesso per te il mondo. Ora, al tuo ritorno, non ti accoglie la pompa di un lungo trionfo né il Campidoglio richiede i sacri allori: una divorante invidia ti nega tutto e con grande difficoltà ti si riuscirà a perdonare di aver sottomesso tante popolazioni. Il genero ha stabilito di cacciare il suocero dal dominio: non puoi dividere il mondo, puoi possederlo da solo». Quando ebbe detto queste cose, accese una grande ira in lui, già di per se stesso pronto alla guerra, e lo infiammò così come viene eccitato dal clamore il destriero elèo, che già incalza alle porte dello steccato in cui è rinchiuso e cerca di forzarne le sbarre.
Immediatamente Cesare adunò presso le insegne i manipoli armati e, come riuscì a placare con l'espressione del suo volto il tumulto ansioso della truppa che si raccoglieva e riuscì ad imporre il silenzio con la destra, così parlò: «O compagni di lotta, che, sperimentando con me i mille pericoli del combattimento, vincete ormai da dieci anni, questo ha meritato il sangue sparso nei campi settentrionali e le ferite e le morti e gli inverni trascorsi ai piedi delle Alpi? Roma è squassata da un grande sommovimento di guerra, non diversamente che se il cartaginese Annibale avesse superato le Alpi: le coorti vengono rese più forti con l'aggiunta di reclute, il legno di tutti i boschi viene utilizzato per costruire una flotta e si comanda di incalzare Cesare per terra e per mare. Che cosa accadrebbe se le mie insegne fossero travolte da una sconfitta e le feroci popolazioni galliche mi assalissero alle spalle? Proprio adesso siamo attaccati, ora che la Fortuna mi è favorevole e che gli dèi ci chiamano a cose altissime. Venga al combattimento quel condottiero infrollito da un lungo periodo di pace con truppe raccogliticce e il suo partito in toga e il loquace Marcello e, vuoti nomi, i Catoni. Senza alcun dubbio saranno i clienti più infimi e prezzolati a saziare per tanto tempo la brama pompeiana di potere ininterrotto! Egli guiderà il carro del trionfo pur senza avere l'età prevista dalla legge e, una volta strappato il potere, non lo abbandonerà più! Perché piangere sulle campagne devastate in tutto il mondo e sul popolo affamato costretto a divenire schiavo? Chi non sa delle truppe installatesi nel foro impaurito, quando le spade, con un luccichio sinistro, circondarono con un insolito cordone protettivo un tribunale terrorizzato, e, allorché i soldati osarono irrompere nel bel mezzo del processo, le insegne di Pompeo si strinsero intorno al colpevole Milone? Anche ora, affinché la vecchiaia non lo renda un cittadino stanco ed appartato, egli, ormai abituato ai conflitti civili, appresta guerre nefande, egli che ha ben imparato a superare Silla, maestro di scelleratezze; e come sono sempre in preda al furore le feroci tigri, che nelle selve di Ircània, mentre cercano rifugio nelle tane delle madri, si nutrono abbondantemente del sangue degli armenti scannati, così anche a te rimane la sete, o Grande, abituato a leccare il ferro di Silla: il sangue, una volta che la bocca lo abbia gustato, non consente che le fauci, lordatesene, si ammansiscano. Purtuttavia qual fine avrà un così lungo strapotere? Quale sarà il limite dei delitti? Almeno, o empio, il tuo Silla ti insegni ormai a discendere da codesto tuo potere. Dopo i Cìlici erranti e le battaglie sostenute con lo stanco re del Ponto e che ebbero a stento termine grazie al veleno barbarico, io, Cesare, sarò dato come ultima provincia a Pompeo, poiché non avrò obbedito all'ordine di deporre le aquile vittoriose? Se mi è stata strappata la ricompensa delle mie fatiche, si concedano almeno a costoro, pur senza che io sia più il loro capo, il premio di una lunga guerra: questi soldati ottengano il trionfo sotto qualsiasi guida. Dove si ritirerà, terminate le guerre, la loro esausta vecchiaia? Quale sede essi, una volta congedati, occuperanno? Quali campi saranno dati da arare ai nostri veterani, quali mura a loro ormai stanchi? O forse, ancor meglio, i pirati diverranno coloni? Sollevate, sollevate le insegne, ormai da tempo vittoriose; è necessario servirsi delle forze, che siamo riusciti ad acquisire: colui che nega il dovuto concede tutto a chi impugna le armi. Né verrà meno l'assistenza celeste, dal momento che non cerco con le mie armi né preda né dominio: sottraiamo i tiranni alla città già pronta a divenir schiava».
Così parlò. La truppa dubbiosa si agitava, con un sordo brusio, in preda all'incertezza: la devozione per la famiglia faceva breccia negli animi, per quanto resi feroci dalle stragi, e negli spiriti orgogliosi, ma d'altra parte essi erano trascinati dal crudele amore delle armi e dal timore che provavano nei confronti del loro condottiero. A questo punto Lelio, che recava i gradi di primipìlo ed era insignito delle fronde di quercia, che si riferivano al salvataggio di un cittadino, esclamò: «Se è consentito e conforme al diritto, o massimo reggitore del nome romano, esprimere con sincerità quel che penso, noi ci lamentiamo del fatto che la tua pazienza ha tenuto ferme per tanto tempo le tue forze. Ti era forse venuta meno la fiducia in noi? Mentre il caldo sangue muove questi nostri corpi pronti ad agire e le nostre forti braccia sono in grado di scagliare giavellotti, sopporterai uno che indossa la toga in maniera indegna della propria origine e lo strapotere del Senato? È dunque meschino fino a questo punto vincere in un conflitto civile? Orsù, guidaci attraverso le popolazioni della Scizia, attraverso i guadi infidi delle Sirti, attraverso le torride sabbie della Libia assetata: questo braccio, per lasciarsi dietro il mondo sottomesso, ha tenuto a freno con il remo le gonfie onde dell'Oceano ed ha infranto la violenza del Reno spumeggiante sotto il cielo del nord: è necessario che per me sia la medesima cosa potere e voler eseguire i tuoi comandi. Né è un mio concittadino colui contro il quale udrò squillare la tua tromba, o Cesare. Per le tue insegne vittoriose in dieci campagne e per i tuoi trionfi conseguiti su ogni tipo di nemico, io proferisco questo giuramento: se tu mi ordinassi di immergere la spada nel petto del fratello o nella gola del padre o nelle viscere della moglie gravida, eseguirei accuratamente i tuoi ordini, pur con la destra riluttante; se mi comandassi di spogliare gli dèi e di appiccar fuoco ai templi, la fiamma della zecca castrense fonderebbe le statue delle divinità; se mi ordinassi di porre l'accampamento nei pressi dell'etrusco Tevere, andrei avanti, audace misuratore di confini, nei campi italici. L'ariete, sospinto da queste mie braccia, abbatterà i massi di tutte quelle mura che tu vorrai radere al suolo, anche se dovesse essere Roma la città, che tu avrai deciso di scalzare dalle fondamenta». A queste parole diedero il loro immediato assenso tutte le coorti e, alzate le mani, le promisero a qualunque guerra egli le avesse chiamate. Tale si innalza al cielo un clamore, quale - allorché il tracio borea si abbatte sulle rocce dell'Ossa pieno di pini - il rumore con cui gli alberi della selva si piegano e nuovamente si innalzano verso il cielo.
Cesare, non appena si accorge che i soldati sono totalmente disposti alla guerra e che i fati incalzano, - per non trattenere con un qualche indugio la Fortuna - richiama le coorti sparse per le terre di Gallia e, tolte le insegne, converge da ogni parte su Roma. I soldati Romani abbandonano le tende piantate nell'insenatura del Lemanno e gli accampamenti che, innalzantisi sul curvo fianco dei Vosgi, tenevano a bada i bellicosi Lìngoni dalle armi variopinte. Altri lasciano i guadi dell'Ìsara, che, scorrendo per un lungo percorso con acque sue, confluisce in un fiume molto più conosciuto e non mantiene fino allo sbocco in mare il suo nome. I biondi Ruteni vengono liberati dal presidio romano, che da lungo tempo risiedeva sul loro territorio. Sono lieti di non dover più sopportare le navi latine il mite Àtace e il Varo, divenuto frontiera d'Italia per l'avanzamento dei confini; ci si rallegra dove il porto consacrato sotto il nome di Ercole incombe sul mare con le sue cave rupi (né il coro né lo zefiro possono qualcosa su di esso: soltanto il circio sconvolge le sue spiagge e tien lontane le navi dal sicuro approdo a Monaco) e dove si trova l'incerto lido, che la terra e il mare rivendicano a sé con successione alterna, quando il grande Oceano avanza o indietreggia con i flutti che si ritirano. Se si tratti di un vento che, soffiando dall'estremo orizzonte, sconvolga il mare e poi lo abbandoni o se sia il flutto della vagante superficie, spinto da un corpo celeste, a gonfiarsi durante il periodo lunare o se sia l'infuocato sole, per assorbire le onde che gli servono di nutrimento, a far innalzare l'Oceano e a portarne i flutti alle stelle -, questo ricercatelo voi, che vi preoccupate di indagare il lavorio del mondo: per me rimani sempre nascosta, o causa, qualunque tu sia, che provochi movimenti così frequenti, seguendo la volontà degli dèi. Allora muovono le insegne i soldati che occupavano la zona dei Nemèti e le rive dell'Atùrio, là dove la curva spiaggia dei Tarbelli racchiude il mare che vi si insinua dolcemente, e sono felici per l'allontanamento del nemico i Sàntoni, i Biturìgi e gli agili Suessiòni dalle lunghe armi, i Lèuci e i Remi abilissimi nello scagliare i giavellotti, i Sèquani espertissimi nel maneggio e nelle evoluzioni a cavallo e i Belgi che hanno imparato molto bene a guidare il carro da guerra escogitato dai Britanni e gli Arverni che ebbero l'ardire di definirsi fratelli dei Latini, come gente discesa dalla medesima stirpe troiana, e i Nervii spesso ribelli e coloro che si macchiarono del massacro di Cotta, infrangendo il patto, e i Vangìoni che ti imitano, o Sàrmata, con le larghe brache, e i truci Batàvi, che sono eccitati dal suono stridulo della tromba dal bronzo ricurvo; e là dove scorre il Cinga, dove il Rodano con veloci onde trascina in mare l'Àrari e dove una popolazione, alta sui monti, abita le impervie Cevenne, bianche di neve.
[I Pìttoni esenti da tributi coltivano i loro campi e gli accampamenti romani non circondano più gli erranti Tùroni. Gli Andi, stanchi di ammuffire fra le tue nebbie, o Meduana, ormai riprendono lena nei placidi flutti della Lòira. L'illustre Gènabo si libera delle truppe di Cesare]. Anche voi, o Trèviri, siete lieti che la guerra vada da un'altra parte e voi, Liguri, ora rasati e che eravate un tempo i guerrieri forniti di più abbondante capigliatura in tutta la Gallia chiomata, e quelli che placano con orrendi sacrifici di sangue il crudele Teutàte e il tremendo Eso sugli spaventevoli altari e Tàrani, il cui culto non è meno orribile di quello tributato alla scitica Diana. Anche voi, bardi, poeti che con le vostre lodi tramandate nei secoli le anime degli eroi caduti in guerra, recitaste, resi più sicuri, i vostri carmi, sempre più numerosi, e voi, o druidi, tornaste a ripetere i vostri riti barbarici e la sinistra consuetudine dei sacrifici, abbandonati al momento in cui avevate deposto le armi. A voi soltanto è concesso di conoscere gli dèi e le potenze del cielo o affermarle inconoscibili; voi abitate boschi profondi in remote foreste sacre. Secondo quanto voi sostenete, le ombre non scendono nelle silenziose sedi dell'Èrebo e nei pallidi dominî del profondo Dite: il medesimo spirito governa il nostro corpo in un altro mondo; se voi esprimete cose di cui siete ben sicuri, la morte rappresenta il punto mediano di una lunga vita. Popolazioni, queste, che vivono nel nord, felici della loro illusione, che non sono angosciate dalla paura della morte, il più grande dei timori: di qui la totale disponibilità per quegli uomini a gettarsi sul ferro nemico e gli spiriti disposti ad accogliere la morte e il ritenere viltà far grazia ad una vita che dovrà tornare. Anche voi, posti a tener lontani dalla guerra i Caìci zazzeruti, vi dirigete alla volta di Roma ed abbandonate le selvagge rive del Reno e un mondo ormai aperto alle incursioni.
Cesare, non appena il suo immenso esercito, fusosi in un sol blocco, gli infonde l'ardire di osare imprese maggiori, penetra attraverso l'intera Italia e ne occupa le città più prossime. Inoltre una falsa diceria si aggiunge ai timori reali e fa breccia nell'animo della gente, arrecando il presagio della disfatta futura e, rapida messaggera della guerra incombente, spinge innumerevoli voci ad annunci menzogneri. C'è chi riferisce che - là dove si estende la piana di Mevània produttrice di tori - squadroni di cavalleria si precipitano audacemente in battaglia e che, alla confluenza del Nera con il Tevere, reparti cesariani a cavallo scorrazzano barbaramente; e che lo stesso Cesare, trascinando tutte le aquile e le insegne, avanza con numerose schiere a marce forzate. Non lo scorgono come lo ricordavano: si presenta ai loro spiriti più grande, più feroce e più crudele del nemico vinto. Si mormora che gli tengan dietro, strappati alle terre nordiche e alle patrie sedi, i popoli stanziati fra il Reno e le Alpi: a quelle feroci popolazioni è stato ordinato di saccheggiare l'Urbe sotto gli occhi degli stessi Romani. Così ciascuno alimenta con il suo timore le dicerie e tutti temono quel che hanno inventato, senza che vi sia alcunché di vero. E non soltanto il volgo è in preda ad un violento, quanto ingiustificato, terrore, ma anche la curia e gli stessi senatori saltano giù dai loro scanni ed il Senato in fuga affida ai consoli gli ingrati provvedimenti concernenti la guerra. Allora, incerti verso quali luoghi sicuri dirigersi e quali invece, ritenuti pericolosi, evitare, incalzano la turba che fugge disordinatamente là dove l'impeto della rotta spinge ognuno: traboccano lunghe, ininterrotte schiere di cittadini. Crederesti o che sacrileghe fiaccole abbiano appiccato fuoco alle case o che gli edifici, sotto una squassante percossa, siano sul punto di crollare: così la folla, fuggendo come impazzita a precipizio attraverso la città, si precipita fuori sconsideratamente come se l'unica via di scampo alla situazione perigliosa fosse quella di uscire dalle patrie mura. Come, allorché il torbido austro respinge dalle libiche Sirti il mare sconfinato e l'albero con le vele, che ormai non regge più, scricchiola sinistramente, il timoniere e i marinai, abbandonata la nave, si gettano in acqua e, pur non essendosi ancora infranta la struttura dell'imbarcazione, ciascuno diviene un naufrago - così lasciano la città e fuggono verso la guerra. Ormai il vecchio padre non riesce a richiamare il figlio né la sposa in pianti il coniuge, né riescono a trattenerli i patri Lari, anche solo per il tempo di far voti per la salvezza che già vedono in forse; nessuno si ferma sulla soglia di casa; si allontanano senza gettare un intenso sguardo, che forse sarebbe stato l'ultimo, all'amata città: si precipita la folla che non può essere trattenuta. O dèi, larghi nel concedere il massimo, ma scarsamente disposti a mantenerlo! Mentre Cesare incombe, vili mani abbandonano, facile preda, una città piena di popolazioni e di genti vinte e in grado di contenere l'intero genere umano, se esso vi si raccogliesse. Allorché il soldato romano si trova chiuso e assediato dal nemico in lande straniere, evita i pericoli notturni con una trincea non grande e un terrapieno messo su alla buona con la difesa di zolle strappate in fretta gli consente di dormire tranquillamente nella sua tenda: tu invece, o Roma, vieni abbandonata, sol che si ascolti la parola guerra: nessuno vuol più trascorrere anche una sola notte fra le tue mura. Bisogna purtuttavia concedere una giustificazione - certamente! - a timori così grandi: essi hanno paura, dal momento che anche Pompeo fugge.
Allora, perché neanche una qualche speranza del futuro potesse essere di sollievo agli spiriti timorosi, si aggiunsero segni inequivocabili di un destino ben più tremendo e gli dèi minacciosi riempirono di prodigi la terra, il cielo, il mare. Le oscure notti scorsero astri sconosciuti e il cielo in fiamme e videro fuochi scorrere obliquamente nell'etere attraverso il vuoto e la coda della stella spaventevole, la cometa, che sovverte i regni sulla terra. Fulmini balenarono frequenti nell'ingannevole sereno e il fuoco disegnò le forme più strane nell'aria densa: ora con una lunga luce comparve un giavellotto, ora, con bagliore diffuso, una lampada. Il fulmine brillò silenziosamente in un cielo privo di nubi e, strappando il fuoco dalle zone nordiche, colpì la cima laziare e stelle più piccole, che solitamente scorrono attraverso il vuoto durante la notte, comparvero in pieno giorno e Febe, mentre, riuniti i corni, rifletteva con l'intero suo disco la luce del sole, si oscurò improvvisamente, colpita dall'ombra della terra. Il sole stesso, nel momento in cui sollevava il capo nel mezzo del cielo, nascose il suo carro fiammeggiante con un'oscura nebbia, avvolse di tenebre il mondo e costrinse gli uomini a disperare del giorno, come quando la Micene di Tieste, mentre l'astro fuggiva a ritroso, piombò nel buio della notte. Vulcano aprì con violenza le fauci del siculo Etna, ma non fece innalzare le fiamme verso il cielo: il fuoco, volgendosi verso il basso, si riversò sul fianco del vulcano dalla parte dell'Italia. La fosca Cariddi emise dal fondo del mare flutti sanguigni; i crudeli cani abbaiarono sinistramente. Il fuoco di Vesta si spense e la fiamma, che indicava la conclusione delle Ferie latine, si divise in due parti e si innalzò con una doppia punta, imitando i roghi di Tebe. Allora la terra si abbassò sul suo asse e le Alpi scossero via dai gioghi frementi le nevi eterne. Il mare sommerse con onde gigantesche l'occidentale Calpe e la sommità dell'Atlante. Si narra che gli dèi del luogo piansero ed i Lari testimoniarono, con il loro sudore, il travaglio della città; i doni votivi caddero giù dalle pareti dei templi, orrendi uccelli contaminarono la luce del giorno e le bestie feroci, abbandonate le selve, posero audacemente i loro giacigli nel centro della città. Allora la lingua delle bestie articolò con facilità parole umane, tra gli uomini si verificarono nascite mostruose per il numero e per la forma delle membra e il neonato atterrì la propria madre; tra la gente si diffusero i tristi responsi della Sibilla cumana. Allora coloro che sono eccitati dalla crudele Bellona e si feriscono le braccia proclamarono il volere degli dèi e i Galli, scuotendo i capelli insanguinati, annunciarono lugubremente sciagure alle genti. Le tombe, contenenti i corpi che vi erano stati composti, gemettero. Allora si udirono, nei luoghi più impenetrabili delle selve, clangore di armi e voci possenti: fantasmi si avvicinarono rapidamente e coloro che coltivavano i campi del suburbio fuggirono in preda al terrore. Un'immane Erinni circondava la città, agitando un pino rovesciato con la punta in fiamme e la chioma sibilante, così come l'Eumènide penetrò nella tebana Agàve o vibrò i dardi del crudele Licurgo o come Ercole, che pur aveva veduto Dite, fu atterrito, per ordine dell'iniqua Giunone, da Megèra. Risuonarono squilli di trombe e la nera notte produsse nell'aria silenziosa il medesimo fragore di due eserciti che si scontrano. Fu visto il fantasma di Silla sorgere dal centro del Campo Marzio e predire sinistri responsi e i contadini fuggirono alla vista di Mario, il quale, infranto il sepolcro, sollevava il capo presso le fredde onde dell'Aniene.
A motivo di tutti questi avvenimenti si decretò di far intervenire, secondo l'antica consuetudine, gli aruspici etruschi. Il più vecchio di essi, Arrunte, che abitava le mura di Lucca deserta, esperto nell'interpretare i movimenti della folgore e le calde vene delle fibre e i presagi degli uccelli erranti nell'aria, ordina per prima cosa di eliminare i parti mostruosi, che la natura, che non seguiva più le sue leggi, aveva generato senza alcun seme, e di bruciare con fiamme funeste gli orrendi prodotti di uteri infecondi. Subito dopo comanda ai cittadini impauriti di fare il giro dell'intera città e ai sacerdoti, cui spettavano i sacrifici, di percorrere il lungo pomèrio agli estremi confini dell'Urbe, purificando le mura con una solenne processione. Tien dietro il gruppo degli assistenti, succinti secondo l'usanza di Gabii, e a capo del gruppo delle Vestali è la sacerdotessa adorna di bende: a lei soltanto è lecito vedere la troiana Minerva; seguono quelli che custodiscono la volontà degli dèi e i segreti responsi e riconducono il simulacro di Cibèle, dopo averlo bagnato nel piccolo Almone, e l'àugure esperto nell'osservare gli uccelli provenienti da sinistra e il settèmviro, che regola i sacri banchetti, e i Tizii sodali e il Salio che reca lieto sul collo gli scudi sacri e il flàmine con la tiara sul nobile capo. E mentre tutti costoro compiono in processione il giro della città, percorrendola tutta quanta, Arrunte raccoglie i fuochi sparsi di un fulmine e li seppellisce con un mesto mormorio e consacra il luogo alla potenza divina. A questo punto egli fa condurre ai sacri altari un toro dall'alta testa. Già aveva iniziato a versare vino e a spargere farina con il coltello ricurvo e la vittima, a lungo insofferente del temuto sacrificio, mentre gli assistenti succinti la costringevano ad abbassare le corna minacciose, offriva, piegate le ginocchia, il collo domato. Ma non sgorgò il sangue che ci si sarebbe aspettato: dalla ferita aperta colò invece uno spaventoso marciume, in luogo del sangue zampillante. Impallidì Arrunte, sbigottito per il funesto sacrificio, e afferrò le viscere della vittima per ricercarvi l'ira degli dèi. Fu sufficiente il loro colore per atterrire l'indovino: una tinta paonazza molto diffusa chiazzava con macchie di sangue le pallide viscere segnate da note orrende e impregnate di sangue gelido ormai rappreso; l'aruspice scorge il fegato fradicio di putredine ed osserva le vene minacciose dalla parte infausta; non è possibile scorgere la fibra del polmone anelante e una sottile fessura taglia le parti vitali; il cuore è immobile e le viscere emettono putredine attraverso fessure aperte e gli intestini svelano le loro parti più riposte; e - segnale funesto, che mai apparve in alcun sacrificio senza conseguenze - ecco che l'aruspice vede crescere su una protuberanza del fegato un'altra escrescenza: una parte penzola corrotta e putrescente, una parte palpita e muove, incutendo spavento, le vene con rapida pulsazione. Non appena Arrunte colse da tutto ciò il fato di immani sventure, esclamò: «A stento è lecito, o numi, che io possa rivelare al popolo quel che state provocando; infatti io non ho celebrato il sacrificio in tuo onore, o sommo Giove: nel petto del toro ucciso si sono insediati gli dèi infernali. Abbiamo paura di eventi inesprimibili, ma si abbatteranno su noi cose ancora peggiori di quel che possiamo temere. Gli dèi volgano in meglio quel che abbiamo visto e non si presti alcuna fede all'esame delle viscere, ma che piuttosto Tagète, il fondatore di quest'arte, si sia inventato tutte queste cose». Così il vate etrusco vaticinava i suoi responsi, avvolgendoli in lunghi e tortuosi giri di parole.
Ma Fìgulo - che si era dedicato alla conoscenza degli dèi e dei misteri del cielo e che l'egiziana Menfi non sarebbe riuscita ad eguagliare nell'osservazione delle stelle e nello studio del ritmo che muove gli astri - disse: «O questo mondo vaga attraverso il tempo senza alcuna regola e gli astri scorrono con movimenti non prefissati oppure, se sono i fati a muovere ogni cosa, per Roma e per il genere umano si prepara una rovina ormai imminente. La terra si spalancherà e le città sprofonderanno oppure l'aria infuocata distruggerà la zona temperata? L'infida terra negherà i suoi prodotti oppure tutte le acque saranno avvelenate? Qual disastro mai state approntando, o dèi, con quale rovina vi apprestate ad incrudelire? L'estremo giorno di una lunga serie si è raccolto in un momento solo. Se nella parte più alta del cielo il gelido e infausto pianeta Saturno accendesse neri fuochi, l'Acquario verserebbe piogge da diluvio universale e l'intera terra sarebbe sommersa dalle acque. Se ora, o Febo, incalzassi con i tuoi raggi il crudele leone di Nèmea, tutto il mondo sarebbe preda del fuoco e l'etere brucerebbe arso dal tuo carro, che scorre sotto la sua volta. Ma questi fuochi non appaiono. Tu, o Gradìvo, che accendi il minaccioso Scorpione dall'ardente coda e ne infiammi le chele, che cosa appresti di spaventoso? Infatti il mite Giove è nascosto profondamente nella zona occidentale, il favorevole pianeta Venere non brilla più, il veloce Cillènio ferma il suo moto: il solo Marte occupa il cielo. Per quale motivo gli astri hanno abbandonato i loro itinerari e sono trascinati ed errano oscuri per l'universo, mentre brilla in maniera eccessiva il fianco di Oriòne armato di spada? Incombe il furore delle armi e il potere del ferro sconvolgerà ogni diritto con la violenza, sarà considerato un atto di valore il delitto sacrilego e questa follia durerà per molti anni. Che giova invocarne la fine dagli dèi? Codesta pace giunge con un padrone. Porta avanti, o Roma, una serie ininterrotta di mali e continua - libera ormai soltanto per la guerra civile - per lungo tempo la strage!».
Questi presagi avevano sufficientemente atterrito il popolo pauroso, ma altri, ben peggiori, lo incalzano. Infatti, come una baccante, invasata dall'ogìgio Lièo, corre giù dalla vetta del Pindo, così una matrona scorrazza attraverso la città sbigottita, svelando con queste parole Febo che le opprime il petto: «Dove sono trascinata, o Peàn? In quale terra mi deponi dopo avermi rapita in cielo? Scorgo il Pangèo, bianco per le sue vette nevose, e la piana di Filippi sotto le rocce dell'Emo. Dimmi che furore è questo, o Febo, in preda al quale si scontrano le schiere romane, provocando così una guerra senza nemici. In qual luogo lontano sono trasportata? Mi conduci ai limiti orientali, là dove il mare si muta nelle onde del Nilo di Lago: riconosco quel tronco informe, che giace sulla sabbia del fiume. Sono trascinata sopra il mare verso le infide Sirti e l'arida Libia, dove la triste Enìo ha trasferito le truppe, che prima avevano combattuto in Tessaglia. Ora mi trasporti sulle cime nuvolose delle Alpi e sugli alti Pirenei. Ritorno poi nell'Urbe: nel mezzo del Senato si svolgono empie guerre. Risorgono nuovamente i partiti ed io ripercorro ancora una volta il mondo. Concedimi di contemplare nuovi lidi e una nuova terra: io ho già visto Filippi, o Febo». Dopo aver detto ciò, giacque esausta, abbandonata dall'invasamento profetico del dio.

LIBRO SECONDO


Ed allora fu evidente l'ira degli dèi e l'universo manifestò sintomi inequivocabili di guerra e la natura, ben consapevole di tutto ciò, sovvertì la struttura del mondo con una disordinata produzione di fenomeni mostruosi e rese palmare l'empietà. Perché mai, o reggitore del cielo, hai deciso di aggravare gli uomini già angosciati con l'ulteriore travaglio di apprendere, attraverso funesti presagi, i disastri futuri? Sia che il padre dell'universo (non appena ottenne, quando il fuoco si ritirò, il dominio informe della materia originaria) abbia fissato in eterno le cause, con cui stabilisce ogni cosa, costringendo anche se stesso all'osservanza della legge, ed abbia posto entro i confini inamovibili del fato il mondo e le sue generazioni, sia che niente sia stato stabilito e, invece, la sorte erri incerta e provochi e riprovochi il succedersi degli eventi ed il caso domini gli avvenimenti umani: si realizzi senza alcun preavviso quel che si sta apprestando, l'animo umano sia inconsapevole della tragedia imminente: chi teme abbia almeno la possibilità di sperare.
Perciò, non appena compresero in quanti disastri per il mondo si sarebbe concretizzata la veracità della rivelazione dei numi, si fermò - segno funesto! - nell'Urbe ogni attività: tutte le cariche pubbliche si celarono sotto abbigliamenti plebei e la porpora non accompagnò più i fasci. Allora tutti trattennero i lamenti e furono percorsi da un immenso, muto dolore. Così, non appena si è verificata la morte di qualcuno, la casa tace sbigottita, quando sul corpo giacente non è ancora iniziata la lamentazione funebre e la madre con le chiome sciolte non esorta ancora le ancelle a percuotersi il petto con forza, ma si getta sulla salma ormai irrigidita per la fuga della vita e tocca il volto esanime e gli occhi che appaiono minacciosamente spalancati; non compare però ancora il dolore e non c'è più la paura: ella si piega sulla propria sventura e, assente, la osserva. Le matrone lasciarono gli abiti usuali e, in tristi gruppi, riempirono i templi: alcune cosparsero di pianto i simulacri degli dèi, altre batterono il petto sulla dura terra, sgomente si strapparono i capelli sulla sacra soglia e colpirono con grida frequenti le orecchie dei numi, avvezze ad essere devotamente invocate. Non tutte si prostrarono nel tempio del sommo Tonante: si divisero gli dèi ed esse - destinate a suscitare il risentimento contro i numi - non disertarono nessun altare. Ed una di loro, lacerandosi le guance intrise di lacrime e con le braccia livide per le percosse, esclamò: «O madri infelici, ora percuotetevi il petto, ora strappatevi le chiome: non procrastinate questo dolore e non riservatelo alle sciagure estreme. È possibile piangere adesso, fino a che la sorte dei condottieri rimane incerta: quando uno dei due avrà vinto, quello sarà il momento di gioire». Con tali sollecitazioni il dolore si esasperava ancora di più.
Analogamente gli uomini, che andavano in guerra e si dirigevano verso gli opposti accampamenti, si lasciavano andare a giuste rampogne nei confronti dei numi crudeli: «O triste infelicità, non esser nati per affrontare i Cartaginesi a Canne e alla Trebbia! Non cerchiamo la pace, o dèi: infondete ira nei popoli, eccitate città inferocite; faccia lega insieme il mondo intero, si precipitino dall'achemenia Susa le truppe dei Medi, l'Istro scitico non tenga più a freno i Massàgeti, l'Elba e la foce del Reno mai domata riversino su di noi dall'estremo nord i biondi Svevi; fate che noi diventiamo nemici per tutte le genti: ma allontanate la guerra civile. Da una parte incalzino i Daci, dall'altra i Geti; l'uno affronti gli Ibèri, l'altro rivolga le insegne contro le faretre orientali: nessuna mano sia disponibile per te, o Roma, e per il conflitto civile. E ancora, se avete deciso, o numi, di annullare il nome d'Italia, l'etere intero, in preda al fuoco, piombi giù a terra tra i fulmini. O padre crudele, colpisci contemporaneamente le due fazioni e i loro capi, mentre ancora non lo meritano. Cercano forse, con un numero così elevato di delitti spaventosi, di decidere chi sarà dei due a dominare su Roma? A stento avrebbe avuto un significato scatenare la guerra civile, purché nessuno dei due fosse riuscito a raggiungere il suo scopo». L'amore verso la patria, destinato a perire, si sfoga in tali lamenti.
Gli infelici genitori sono tormentati da un cruccio: essi odiano il loro destino di vivere a lungo in una gravosa vecchiaia e di poter assistere a un secondo conflitto civile. E qualcuno, andando alla ricerca di avvenimenti che potessero avere un rapporto con la grande paura, ricorda: «I fati non apprestavano sconvolgimenti diversi da questi, allorquando, dopo aver trionfato sui Tèutoni e sui Libici, Mario, ormai esule, dovette nascondere il capo tra le piante palustri piene di fango: gli stagni di un suolo che tutto ingoia e le vaste paludi celarono quel che tu, o Fortuna, avevi affidato loro. Successivamente le ferree catene ed un lungo languire in prigione logorarono il vecchio ed egli, che, lieto, sperava di morire da console nell'Urbe sconvolta, scontava in anticipo il fio dei suoi delitti. La morte stessa rifuggì sovente dall'eroe ed invano fu concesso il potere di uccidere l'odiato avversario ad un nemico: costui, infatti, nel momento stesso in cui lo stava colpendo, si irrigidì e lasciò cadere la spada dalla mano intorpidita: gli era balenata nelle tenebre del carcere un'immensa luce, aveva scorto le tremende divinità del delitto ed il Mario futuro e, terrorizzato, aveva percepito queste parole: "Guai a te se oserai toccare il collo di costui; egli deve alle leggi del fato molte morti prima della sua: abbandona un furore inutile". Se desiderate vendicare, o Cimbri, il disastro del vostro popolo annientato, mantenete in vita questo vecchio: egli, protetto dall'ira tremenda dei numi - e non certo per la benevolenza di qualche divinità -, è sufficiente (feroce eroe!) al fato che brama di annichilire Roma. Egli stesso, sbattuto dal mare violento in una terra nemica e costretto a vivere in capanne abbandonate, giacque nel regno spopolato del vinto Giugurta e calpestò le ceneri puniche. Cartagine e Mario si confortarono a vicenda delle vicissitudini del destino e, ugualmente prostrati, perdonarono gli dèi. In Africa egli radunò le ire libiche: non appena la fortuna tornò a favorirlo, liberò torme di schiavi e le carceri, dopo aver fuso il ferro dei ceppi per ricavarne armi, scatenarono orde feroci. Nessuno poteva fregiarsi delle insegne del comando, se non colui che avesse già consuetudine con il delitto e avesse portato con sé nell'accampamento l'empietà. Oh destino! Che giorno, che giorno fu quello, in cui Mario vittorioso conquistò le mura e con quale passo scorrazzò la Morte crudele! Perirono nobili e plebe, la spada aprì larghi vuoti e non si fece eccezione per alcuno. I templi sono pieni di sangue ed i pavimenti grondanti divengono scivolosi per le numerose stragi. Nessuno ebbe vantaggio dall'età: non ci fu ritegno nell'abbreviare i giorni ai vecchi ormai giunti agli anni estremi né nello spezzare, sul primo affacciarsi alla vita, il destino nascente dell'infelice bimbo: per quale delitto i piccoli poterono meritare di essere uccisi? Ma ormai è sufficiente poter morire. L'impeto stesso del furore trascina ed appare sintomo di lentezza cercare un colpevole. Gran parte perisce per accrescere il numero delle vittime ed il vincitore, sporco di sangue, svelle la testa recisa da un corpo che non conosce, sol perché ha ritegno di andare a mani vuote. Sola speranza di salvezza è baciare tremando la destra lorda di sangue: pur se mille spade fossero pronte ad eseguire nuovi comandi di morte, a stento sarebbe dignitoso per veri uomini, o popolo degenere, ottenere in questo modo un lungo periodo di vita, a maggior ragione ottenerne uno breve ed infamante, in attesa del ritorno di Silla. Chi avrebbe la possibilità di piangere i lutti di tante persone? A stento ti si potrebbe ricordare, o Bèbio, fatto a pezzi da innumerevoli mani che si sono accanite su di te, o te, Antonio, che avevi presagito tali sciagure, la cui testa un soldato, tenendola per la lacera canizie, depose, grondante di sangue, sulla mensa imbandita. Fìmbria fece a brani i Crassi già mutilati; l'orrida trave grondò del sangue di un tribuno ed anche te, o Scèvola, che non avesti la protezione di Vesta violata, scannarono proprio dinanzi alla parte più riposta del tempio ed ai fuochi sempre accesi, ma la stanca vecchiezza fece sì che dalla gola sgorgasse poco sangue, che non riuscì perciò a spegnere la fiamma. A tali misfatti tien dietro il settimo anno del consolato di Mario. Quello fu però il limite della vita per lui che aveva sofferto tutto ciò che la sorte cattiva può apprestare, che aveva goduto tutto quel che può venire da quella migliore e che aveva compiuto l'intero percorso del destino di un uomo. Quanti corpi stramazzarono presso Sacriporto o quanti mucchi di cadaveri giacquero a Porta Collina, allorquando il centro dell'universo e l'impero del mondo poco mancò che cambiassero sede ed i Sanniti sperarono di infliggere ai Romani ferite ben più profonde che non quelle inferte alle Forche Caudine. A così orrende e numerose stragi si aggiunse in più la vendetta di Silla. Egli tracannò quel po' di sangue che rimaneva a Roma e, mentre amputava gli arti già troppo infetti, il rimedio andò oltre la misura e la mano, tenendo dietro al cammino della malattia, si spinse troppo in là. Morirono i colpevoli, ma quando soltanto i colpevoli avevano la possibilità di sopravvivere. Allora non fu posto più alcun freno agli odii ed il furore, non più trattenuto dalla coercizione delle leggi, si scatenò. Non c'era uno solo che decidesse ogni cosa: ciascuno compiva i delitti per sé. Il vincitore aveva dato gli ordini una volta per tutte. Il servo trafisse con l'empia spada le viscere del padrone; i figli si impregnarono del sangue del padre, si litigò per decidere a chi spettasse il capo reciso del genitore; i fratelli si precipitarono a guadagnare le ricompense poste sulla vita dei fratelli. I sepolcri si riempirono di gente in fuga e i corpi vivi si mescolarono con i cadaveri e i nascondigli delle belve non riuscirono a contenere tante persone. Uno, impiccandosi, si schianta la gola, un altro, gettandosi nel vuoto, si sfracella nel violento impatto con il suolo: essi strappano così le loro morti al vincitore sanguinoso; un altro ancora innalza da sé una catasta di legna e, mentre il suo sangue non è ancora completamente sgorgato, si lancia tra le fiamme e, finché ne ha la possibilità, brucia nel fuoco. Le teste dei capi sono condotte, infilzate sui giavellotti, attraverso la città atterrita e vengono ammucchiate nel centro del foro: colà si poteva calcolare quanti giacevano morti in ogni luogo. La Tracia non vide penzolare uno spettacolo così macabro dalle stalle del tiranno bistònio o la Libia dagli usci di Antèo né la Grecia addolorata pianse membra così mutilate nella reggia di Pisa. Allorquando i corpi si sciolsero nella putrefazione e, trascorso non poco tempo, ebbero perso i lineamenti, furono raccolti dagli infelici genitori che, terrorizzati, sottrassero quelli che erano riusciti a riconoscere. Ricordo che io stesso, desideroso di porre sul rogo che gli era stato vietato il volto informe del fratello ucciso, osservai attentamente tutti i morti e i cadaveri fatti a pezzi, frutto della pace sillana, per vedere a quale tronco si adattasse il suo capo reciso. Perché mai dovrei ricordare lo spirito di Càtulo placato dal sangue? Allorché Mario offrì, come vittima, quelle orrende espiazioni al sepolcro non sazio, mentre le ombre forse non desideravano i tristi, funebri sacrifici; allorché scorgemmo i suoi arti mutilati e le ferite, che erano state inferte in tutte le sue membra, e, sul corpo, per quanto fosse tutto pieno di lesioni, nessun colpo mortale: spaventoso costume di empia crudeltà questo di ritardare la morte a uno che sta spirando. Le mani caddero mozzate e la lingua tagliata guizzò e colpì con un muto movimento l'aria. Uno gli tagliò via le orecchie, un altro le nari dell'adunco naso, un altro ancora gli strappò gli occhi dalle orbite e glieli cavò per ultimi, dopo che essi avevano osservato lo strazio delle membra: a stento si poteva prestar fede a un crimine così orrendo e cioè che un solo corpo abbia potuto sopportare torture così crudeli. Allo stesso modo, quando crolla un edificio, le membra sono schiacciate e travolte sotto l'enorme peso né giungono più informi sulla spiaggia i corpi dei naufraghi. Che vantaggio c'è a perdere la ricompensa e ad alterare i lineamenti del volto di Mario, come se fossero di poco conto? Era necessario che si potessero riconoscere le sue fattezze, perché quello scempio, orrendamente esibito, piacesse a Silla. La Fortuna di Preneste vide tutti i suoi coloni morire trafitti e l'intero suo popolo soccombere in un'unica strage. Allora il fiore dell'Esperia, quel che rimaneva della gioventù del Lazio, cadde e sporcò con il suo sangue i recinti dell'infelice Roma: che tanti giovani soccombessero per una morte crudele, fu sovente causa la fame o il mare in tempesta o crolli improvvisi o una rovina proveniente dalla terra o dal cielo o un episodio di guerra: non fu mai una punizione. I vincitori muovevano a stento le mani in mezzo a una fitta folla e fra schiere esangui di gente uccisa. Compiuta la strage, i corpi non riescono neanche a stramazzare e traballano con la testa oscillante, sono incalzati da altri corpi di numerosi uccisi e i cadaveri portano a compimento la strage: i corpi soffocano con il loro peso la gente ancora viva. Impassibile, noncurante spettatore di così atroci delitti, Silla siede ed osserva dall'alto seggio: non ha il minimo scrupolo di aver ordinato la morte di tante migliaia di persone. L'onda del Tevere ricevette e raccolse tutti i cadaveri, vittime della repressione sillana: i primi caddero nel fiume, quelli che seguivano si ammucchiarono sui corpi. Le imbarcazioni, che avanzavano velocemente, si incastrarono formando un blocco: l'acqua a valle dell'ostacolo, costituito dai resti sanguinosi della strage, defluì in mare, mentre quella che seguiva si fermò presso l'ingorgo. Ormai la violenza del sangue che aumentava sempre di più si aprì la strada spargendosi per tutta la campagna e, precipitandosi velocemente nel Tevere, ne ingrossò le acque che erano bloccate, sì che né il letto del fiume né le rive riuscirono a trattenere le onde, che restituirono perciò i corpi alla pianura: infine il Tevere, sfociato faticosamente nelle acque del Tirreno, divise il ceruleo mare con un torrente di sangue. Per tutto ciò Silla meritò di esser chiamato salvezza del mondo e di avere il soprannome di Fortunato, per tutto questo meritò che gli fosse innalzato un tumulo nel Campo Marzio? Queste sofferenze si ripeteranno nuovamente, la guerra si svolgerà secondo la medesima successione di eventi e questa sarà in eterno la conclusione dei conflitti civili. Ma avvenimenti più funesti stimolano le nostre paure e lo scontro si verifica con conseguenze dannose ben più tragiche per il genere umano. Per Mario ed i suoi seguaci in esilio la riconquista di Roma costituì la massima ricompensa della guerra, mentre la vittoria di Silla si concretizzò nella totale distruzione del partito avverso: ma costoro a ben altro li chiami, o Fortuna, ed essi, già potenti da un pezzo, vengono a battaglia. Nessuno dei due darebbe esca alla guerra civile per limitarsi ad essere ciò che fu Silla». Così piangevano gli affranti vecchi, mentre rievocavano il passato ed erano presi dall'angoscia per il futuro.
Ma il terrore non attanagliò il cuore del magnanimo Bruto, il quale, in un così grande timore di paurosi sconvolgimenti, non si unì a coloro che erano preoccupati; egli invece, durante la notte che invita al sonno, quando la parràsia Èlice volgeva l'obliquo carro, bussò alla modesta casa del congiunto Catone. Lo trovò che rifletteva con insonne sollecitudine sui destini dello Stato e sulle sventure della città, preoccupato per gli altri ma non per sé, e così iniziò a parlargli: «O tu, ormai unica certezza della virtù espulsa e da tempo esiliata da ogni terra e che nessun turbine della fortuna riuscirà mai a strapparti, indirizza il mio spirito vacillante e rafforzami stabilmente eliminando la mia incertezza. Gli altri seguano pure Pompeo o le insegne di Cesare: per Bruto l'unico condottiero sarà Catone. Tu ti prefiggi la pace, mantenendo indefettibile il tuo cammino in un mondo incerto oppure hai deciso di legittimare il conflitto civile, rendendoti partecipe dei delitti dei capi e delle stragi di un popolo impazzito? Ciascuno è trascinato in lotte delittuose da motivi personali: gli uni dall'offesa arrecata alla loro casa e dalle leggi che incutono timore in tempo di pace, gli altri dalla necessità di sfuggire alla fame con le armi e di non rispettare, nel disastro che coinvolge il mondo intero, gli obblighi assunti. Nessuno è spinto alla guerra dall'entusiasmo; si combatte per il miraggio di una grande ricompensa: soltanto tu ami la guerra per la guerra? Che vantaggio hai avuto dal non farti toccare per tanti anni dalla corruzione del tuo tempo? Per aver coltivato la virtù da sempre, otterrai solo questo premio, che altri intraprenderanno la guerra già colpevoli, mentre tu lo diventerai. O dèi, non consentite che anche queste mani adoperino armi funeste né che i giavellotti scagliati dal suo braccio si trovino nella oscura nube formata dalle armi da lancio: perché un valore così eccelso non si sprechi invano, ogni evento della guerra si riverserà su di te. Chi - ancorché cadendo per la ferita inferta da un altro - non vorrà morire colpito dalla tua spada e costituire così un delitto compiuto da te? Meglio condurre una vita tranquilla e solitaria lontano dalla guerra: come i corpi celesti scorrono perennemente nel loro inamovibile cammino, mentre l'aria prossima al mondo si accende di fulmini e le zone inferiori della terra accolgono i venti e lo zigzagare abbagliante dei lampi e l'Olimpo supera le nubi: per la legge stabilita dagli dèi la discordia sconvolge le cose più piccole, mentre quelle grandi rimangono tranquille. Con quanta letizia Cesare apprenderà che un cittadino così importante ha deciso di partecipare alla lotta! Egli infatti non si cruccerà che sia stato anteposto al suo l'accampamento di Pompeo: Cesare è molto gradito a Catone, se a costui è gradita la guerra civile. Gran parte dei senatori e un console che si prepara al combattimento sotto il comando di un privato ed altri personaggi ragguardevoli ci esortano; a loro puoi aggiungere Catone, soggiogato da Pompeo: ormai in tutto il mondo soltanto Cesare sarà libero. Che se si deve entrare in guerra in difesa delle leggi della patria e salvaguardare così la libertà, ora vedi in Bruto non tanto il nemico di Pompeo o di Cesare, quanto colui che - dopo il conflitto - sarà il nemico del vincitore». Così parlò; e a lui Catone rispose con sacre parole che sgorgavano dalla parte più riposta del suo animo: «Dichiariamo che le guerre civili costituiscono la nefandezza suprema. Ma un valore noncurante dei pericoli terrà dietro all'indicazione dei fati: sarà un crimine per gli dèi aver reso colpevole anche me. Chi vorrà assistere, privo di qualsiasi timore, alla caduta degli astri e del mondo? Chi, se crollasse l'alto cielo e se la terra ondeggiasse sotto il peso e la spinta dell'universo, potrebbe trattenersi dallo sbattere le mani? Popolazioni ignote e re che vivono, al di là del mare, in altre zone del mondo parteciperanno alla follia italica e alle guerre romane, mentre soltanto io me ne starò tranquillamente da parte? Tenete lontano da me, o numi, questo furore, e cioè che Roma - che scuoterebbe con la sua caduta l'insensibilità di Dahi e Geti - crolli senza che io me ne preoccupi minimamente. Come il dolore costringe il padre, rimasto privo dei figli, a procrastinare a lungo le cerimonie funebri presso i sepolcri ed egli è consolato dal fatto di poter inserire le mani tra i neri fuochi e - innalzata la funebre pira - di tenere egli stesso le tetre torce, così non mi si riuscirà a strappar via prima che io abbia avvinto il tuo corpo esanime, o Roma, e il tuo nome, o Libertà: terrò dietro, fino in fondo, al tuo vacuo fantasma. Vada pur così: i numi sacrifichino completamente e senza pietà i Romani: non facciano mancare alla guerra il sangue di nessuno. Oh, se mi fosse possibile far convergere tutti i castighi sul mio capo, consacrato alle divinità del cielo e dell'inferno! Le torme dei nemici sommersero Decio, votato agli dèi infernali; mi trafiggano pure gli opposti eserciti, si scagli su di me con i suoi dardi l'orda barbara del Reno: io vi andrò incontro ed accoglierò tutte le armi e le ferite della guerra. Possa il mio sangue riscattare le genti e con la mia uccisione si sconti tutto quello che il comportamento dei Romani ha meritato di pagare. Perché mai devono perire popoli disposti ad esser sottomessi e a subire un crudele dominio? Lanciatevi con le armi soltanto su di me, che cerco di proteggere senza alcun risultato le leggi e il diritto ormai inutile. La mia gola darà la pace e la fine dei mali ai popoli italici: per chi vorrà dominare dopo di me non sarà più necessaria la guerra. Perché non seguire le insegne dello Stato e Pompeo come capo? Se la fortuna gli si dimostrerà benigna, di sicuro egli si prefiggerà il dominio di tutto il mondo: vinca quindi egli con me ai suoi ordini, perché non creda di aver vinto per sé». Così disse, stimolando l'acre ira del giovane ed eccitandone l'eccessivo ardore per la guerra civile.
Nel frattempo, mentre il sole scacciava le fredde tenebre, risuonarono le porte, attraverso cui irruppe piangendo la veneranda Marcia, che aveva lasciato il funerale di Ortensio. Unita vergine, un tempo, ad un marito migliore, successivamente - allorché ebbe adempiuto all'unione generando un terzo figlio - fu concessa per popolare con la sua fecondità un'altra casa e per riunire due famiglie con il sangue materno. Ma, dopo aver deposto nell'urna le ceneri di Ortensio, anelante nel misero volto, strappandosi le chiome scarmigliate e battendosi con frequenti colpi il petto, con la cenere del sepolcro addosso (non altrimenti sarebbe piaciuta al primo marito), così si espresse tristemente: «Finché potevo contare sul sangue e sull'energia di madre, o Catone, ho adempiuto ai tuoi comandi e ho concepito figli da ambedue i mariti: con le viscere esauste e spossata dai parti ritorno, ma in condizione di non poter essere più ceduta ad un ulteriore marito. Ridonami i casti patti del primo matrimonio e dell'unione concedimi soltanto il nome: mi sia consentito far scrivere sulla mia tomba "Marcia di Catone" e nei lunghi tempi a venire non si rimanga in dubbio se ho mutato il primo matrimonio cacciata o ceduta. Tu non mi accogli come compagna di felicità o in momenti lieti: io vengo per dividere con te le preoccupazioni e le fatiche. Concedimi di seguirti nell'accampamento: per qual motivo dovrei esser lasciata in un luogo sicuro, mentre Cornelia sarà probabilmente più vicina al conflitto civile?».
Queste parole piegarono quell'uomo eccezionale e - nonostante la circostanza non fosse propizia all'unione, dal momento che il destino chiamava alla guerra - purtuttavia si decise a riaffermare soltanto il vincolo del giuramento senza alcuno sfarzo esteriore e ad ammettere alla cerimonia gli dèi come testimoni. I serti festosi non pendono dalla soglia incoronata né la candida benda è distesa sugli stipiti, non vi sono le torce nuziali né il talamo troneggia su gradini d'avorio né compaiono le vesti screziate d'oro o la matrona che, con in capo la corona turrita, evita di toccare la soglia alzando il piede; il velo rosso, destinato a proteggere con delicatezza il timido pudore della sposa, non copre il suo volto chinato né la cintura adorna di gemme stringe le vesti ondeggianti né una bella collana adorna il suo collo né un piccolo mantello, scendendo dalla sommità delle spalle, circonda le nude braccia. Così come si trova, ella conserva il triste abbigliamento del lutto ed abbraccia il marito nello stesso modo con cui si stringe ai figli; la porpora viene completamente nascosta dalla lana adoperata per il lutto. Non si sentono gli usuali frizzi piccanti né il severo marito accoglie, secondo l'usanza sabina, i motti festosi e pungenti. Nessun parente od amico si raccoglie intorno a loro per festeggiarli: celebrano il rito del matrimonio in silenzio, lieti dell'augurio di Bruto. Catone non allontana l'irta chioma dal viso venerabile né il severo volto si illumina di gioia (non appena aveva visto impugnare le armi funeste, aveva lasciato crescere e scendere sulla fronte austera i bianchi capelli e sulle guance la barba, in segno di lutto: egli soltanto, non preso da interesse o da odio di parte, era disposto a piangere sul genere umano), né tenta di unirsi, come un tempo, alla moglie: la sua intransigenza si oppone anche ad un amore legittimo. Questi i costumi, questa la condotta indefettibile del rigoroso Catone: osservare la misura, non travalicare il limite, seguire la natura, votare la vita alla patria e convincersi di non esser nato per sé ma per tutti gli uomini. Per lui era un banchetto vincere la fame, una sontuosa dimora ripararsi con un tetto dalle intemperie, una veste preziosa mettersi addosso una ruvida toga, secondo l'antica consuetudine quirite, e fine ultimo dell'amore la generazione dei figli; padre dell'Urbe, suo marito, osservante della giustizia, cultore dell'onestà più rigida, retto nell'interesse della comunità: nel suo comportamento non penetrò mai un piacere che pensasse solo a se stesso.
Frattanto Pompeo, mentre, in preda al timore, si ritirava con le sue truppe, conquistò le mura campane del colono troiano. Egli decise che la città dovesse essere il centro delle operazioni e di lì, impiegando tutte le sue energie, fece in modo che si inviassero, per rintuzzare l'attacco nemico, piccole unità di soldati autonome, là dove l'Appennino con le sue ombrose vette innalza l'Italia, che in nessun altro punto si erge con le sue cime più alte, avvicinandosi molto al cielo. Al centro i monti si alzano fra i due mari, l'inferiore e il superiore; da un lato delimita i colli Pisa, sui cui guadi si infrangono le acque tirreniche, dall'altro Ancona, battuta dalle onde dalmatiche. I monti danno luogo, con abbondanti sorgenti, ad enormi fiumi e fanno scendere, in direzioni opposte fra loro, i corsi d'acqua verso i due mari. Sul fianco sinistro scorrono il veloce Metàuro, il vorticoso Crustùmio, il Sapi con il suo affluente Isàuro, la Sena, l'Òfanto che sfocia nelle acque dell'Adriatico e l'Erìdano, che ingoia più terre di ogni altro fiume e che trascina in mare boschi divelti, prosciugando di acque l'Esperia. È tradizione che questo fiume sia stato il primo a far ombra alle rive con una corona di pioppi e che abbia avuto onde in grado di sopportare i raggi del sole, allorché Fetonte, mentre conduceva precipitosamente il carro del Sole attraverso un'orbita obliqua, infiammò il cielo con le briglie infuocate, arroventando la terra che era rimasta senz'acqua. Esso non avrebbe una portata inferiore a quella del Nilo, se questo fiume non straripasse nelle arene africane attraverso le pianure dell'Egitto; non sarebbe inferiore al Danubio, se questi, mentre solca il mondo, non accogliesse affluenti che dovrebbero gettarsi in altri mari e non sfociasse, non più solo, nelle onde scitiche. L'acqua, scendendo per i declivi montuosi dal lato destro, dà origine al Tevere e al profondo Rùtuba; di là scorrono il rapido Volturno, il Sarno che esala nebbie notturne, il Liri che, spinto dalle acque dei Vestini, attraversa i regni ombrosi di Marìca, il Sele, che sfiora le lande salernitane, il Magra, che non consente il passaggio delle navi a causa dei fondali bassi e si getta nei flutti della vicina Luni. Là dove l'Appennino innalza il suo dorso e si erge ancora di più verso il cielo, scorge le campagne galliche e si ricollega con le Alpi che digradano. Successivamente, reso fecondo da Umbri e Marsi e dissodato dall'aratro sabello, abbraccia con le sue rupi piene di pini tutti i popoli indigeni del Lazio e non lascia l'Italia prima di essere delimitato dalle onde di Scilla, estendendo le sue rocce fino ai templi di Giunone Lacìnia. Esso aveva una lunghezza superiore a quella dell'Italia, finché il mare non aveva separato i confini e le onde non avevano spinto indietro le terre; ma, dopo che la terra fu sommersa dal duplice mare, le estreme propaggini montuose si allontanarono dal siculo Pelòro.
Cesare, ormai in preda alla folle frenesia della guerra, esulta nel procedere soltanto con spargimento di sangue, nel non scorrazzare nei territori italici privi di nemici, nel non fare irruzione in campi abbandonati, nel non aver perso tempo nelle sue marce di guerra, nell'affrontare un combattimento dopo l'altro. È felice non tanto di entrare attraverso porte aperte quanto di infrangerle e non tanto di calpestare i campi tra la rassegnazione degli agricoltori quanto di devastarli con il ferro ed il fuoco: si vergogna di avanzare per una via permessa e di sembrare un cittadino. Allora le città del Lazio, in preda al dubbio e all'incertezza per le loro incostanti preferenze - ancorché pronte, al primo scatenarsi della guerra, alla resa -, purtuttavia rinforzano con un massiccio terrapieno le mura, le circondano tutto intorno con uno scosceso baluardo di massi ed apprestano sulle alte torri oggetti di lancio da scagliare sul nemico. Il popolo è più favorevole a Pompeo e la fedeltà combatte contro il minaccioso terrore. Così avviene quando, allorché l'austro la fa da signore sul mare con soffi spaventosi, tutti i flutti gli tengon dietro; se la terra, riapertasi nuovamente battuta dal tridente di Eolo, fa prorompere l'euro sulle onde gonfie, i flutti, sebbene percossi dal nuovo vento, sono pur sempre soggetti al primo e l'onda obbedisce al noto, nonostante che il cielo sia divenuto dominio dell'euro apportatore di nubi. Il terrore riusciva però agevolmente a cambiare gli animi e la fortuna recava con sé una fedeltà dubbiosa.
La popolazione dell'Etruria, rimasta priva di protezione per la fuga del pauroso Libone, e quella umbra, dopo la cacciata di Termo, hanno ormai perduto la loro libertà. Silla, che fugge al solo udire il nome di Cesare, non partecipa al conflitto civile sotto gli auspici paterni. Varo - non appena gli squadroni di cavalleria si mossero ed attaccarono Osimo -, attraversando sconsideratamente diverse città senza neanche curarsi di proteggersi le spalle, fugge per boschi e luoghi rocciosi. Lèntulo è cacciato dalla rocca di Ascoli; il vincitore insegue da presso gli avversari in fuga e ne dissolve l'esercito: di schiere così numerose rimane il solo condottiero con le insegne, che non sono più alla testa di nessuna coorte. Anche tu, o Scipione, abbandoni senza difesa la rocca di Nocera, che ti era stata affidata, sebbene in quell'accampamento si trovino dei giovani fortissimi, che precedentemente erano stati tolti alle truppe cesariane per timore dei Parti: con questi soldati Pompeo aveva rimpiazzato le perdite subite da Cesare in Gallia e, mentre il suocero lo provocava alla guerra, il Grande gli consentì di poter spargere sangue romano.
Ma tu, o bellicoso Domizio, rimani a Corfìnio circondata da solide mura: si trovano ai tuoi ordini le reclute, che una volta furono messe a fronteggiare l'assassino Milone. Non appena egli vede da lontano un'enorme nube alzarsi sul campo e le truppe che brillano, riflettendo con le loro armi il sole splendente, esclama: «Compagni, precipitatevi giù sulle rive del fiume e distruggete il ponte. Ed anche tu, o corrente, vieni fuori tutta quanta dalle sorgenti montane e trascina con te tutte le acque, sì da frantumarne la struttura e da portarne via spumeggiando i pezzi che lo compongono. La guerra si fermi a questo punto e su questa sponda il nemico se ne rimanga inattivo. Trattenete il condottiero, che è solito avanzare fulmineamente: se Cesare sarà costretto a fermarsi qui, per noi sarà una vittoria». Non disse altro e fece scendere a precipizio giù dalle mura una veloce schiera, ma invano. Infatti, non appena Cesare, battendola sul tempo, scorse dai campi che il ponte era stato abbattuto e che il cammino era perciò stato interrotto, esclamò, in preda ad un'ira violenta: «Non è sufficiente cercare nelle mura un nascondiglio al vostro terrore? Ostruite i campi e tentate di tagliarmi fuori con il fiume, o vili? Ma neanche se il Gange cercasse di allontanarmi con i suoi flutti violenti, Cesare non si farà fermare da nessun fiume, una volta che ha oltrepassato il Rubicone. Affrettatevi, o cavalieri, e voi, fanti, avanzate e salite sul ponte che sta per crollare». Non appena ebbe parlato, i veloci cavalieri si precipitarono a briglia sciolta verso la pianura e forti braccia scagliarono al di là della riva una gran quantità di dardi, quasi un nembo. Ridotto all'impotenza il corpo di guardia, Cesare entrò nel fiume ormai sguarnito e si spinse fin sotto le sicure rocche del nemico. E già aveva fatto innalzare le torri, che avevano il compito di scagliare grandi massi, e la macchina da guerra era spinta sotto le mura, quando ecco (nefandezza della guerra!) che, spalancate le porte, i soldati trassero fuori il loro capo in catene, che si fermò dinanzi all'altezzoso concittadino; e Domizio, con atteggiamento profondamente nobile e con una espressione minacciosa nel capo eretto, richiese per sé il ferro. Cesare sapeva bene che quello reclamava il castigo, paventando il perdono, e così gli parlò: «Vivi, anche contro la tua volontà, e continua a vedere la luce solo perché io te lo concedo. Sii per la fazione dei vinti la speranza e l'esempio vivente della mia generosità, oppure, se ti piace, tenta nuovamente la via delle armi e, se sarai tu il vincitore, non prendo nessun accordo con te per un simile perdono». Così parlò ed ordinò di allentare i legami che gli avvincevano le mani. Oh, quanto sarebbe stato preferibile che la fortuna avesse potuto risparmiare l'onore romano, anche a costo di una vittima! Il castigo supremo per un cittadino era esser perdonato per aver combattuto nell'esercito della patria ed aver eseguito gli ordini di Pompeo e dell'intero Senato. Domizio soffocò senza timore l'ira che lo invadeva e disse tra sé: «Ti dirigerai alla volta di Roma e a un ricettacolo di pace, o degenere? Ti appresti a non gettarti nell'ira furibonda della guerra, tu che già da un pezzo sei pronto a morire? Precipitati senza esitazione, togli via ogni indugio alla morte e disprezza il dono di Cesare».
Nel frattempo Pompeo, che non era al corrente della cattura del suo ufficiale, preparava l'esercito per rafforzare il suo partito con nuove energie. E mentre - al sorgere del giorno - stava già impartendo l'ordine di dar fiato alle trombe, convinto di dover mettere alla prova l'ira dei soldati che si stavano mettendo in marcia, si rivolse con voce degna di venerazione alle coorti silenziose: «O voi che dovete vendicare i delitti e che seguite le insegne migliori, o esercito veramente romano, a cui il Senato affidò le armi dello Stato, richiedete con il vostro desiderio lo scontro! I campi italici, orrendamente devastati, sono in fiamme, la rabbia gallica si sta riversando attraverso le gelide Alpi, ormai il sangue ha insozzato le sacrileghe spade di Cesare. Meglio, o numi, se siamo stati i primi ad essere colpiti dai danni della guerra: l'empietà avrà avuto inizio da loro: fra poco Roma, con me a capo, richieda il castigo e la pena. Codesta infatti non può essere definita soltanto una battaglia giusta, bensì la manifestazione dell'ira vendicatrice; né questa si può chiamare guerra più di quando Catilina si apprestò ad appiccar fuoco alle case insieme con Lèntulo, complice della sua follia, e con l'insensata violenza di Cetègo, solito a portare il braccio scoperto. O miserevole rabbia del condottiero! Mentre il destino voleva, o Cesare, porti fra i Camilli e i grandi Metelli, tu te ne stai con i Cinna e i Marii. Sarai stroncato, senza alcun dubbio, come Lèpido stramazzò ad opera di Càtulo, come Carbone, sepolto in Sicilia, fu giustiziato dalle nostre scuri e come Sertòrio che, esule, sollevò contro di noi i feroci Ibèri; anche se - ti prego di credermi - provo disagio nel collocarti, o Cesare, fra costoro e nel vedere che Roma ha opposto il mio braccio alla tua follia. Avesse voluto il cielo che, dopo le guerre contro i Parti, Crasso, vincitore, fosse tornato sano e salvo dalle rive della Scizia, così che tu cadessi, nemico dell'Urbe, per la stessa causa di Spartaco. Se i numi hanno deciso che anche tu ti debba aggiungere ai miei titoli di merito, ecco, la mia destra è ancora capace di scagliare un giavellotto, e l'ardente sangue mi scorre nuovamente caldo nel cuore: imparerai che non fugge dinanzi alla guerra chi è riuscito a vivere in pace. Cesare mi chiami pure svuotato di ogni energia ed ormai finito: non lasciatevi scoraggiare dalla mia età: sia pure nel nostro esercito più vecchio il capo, purché nel loro lo sia il soldato. Son salito fin dove un popolo libero può far giungere un cittadino e non ho lasciato nulla al di sopra di me se non il regno: non brami un potere privato, tu che ti appresti a superare Pompeo nell'Urbe. Saranno dalla mia parte sia i due consoli che una schiera di condottieri. Cesare riuscirà vincitore del Senato? Non trascini ogni cosa con un corso così cieco, o Fortuna, né sei così sfrontata! Infondono forse coraggio a Cesare la Gallia ribelle e i molti lustri impiegati a sottometterla? O il fatto di essere fuggito dalle gelide onde del Reno e, chiamando Oceano uno stagno di profondità incerta, di aver voltato, in preda alla paura, le spalle ai Britanni, di cui si era messo in caccia? O forse si gonfiarono le sue vuote minacce per il fatto che la fama della sua follia ha cacciato l'Urbe in armi dalle sedi della patria? Pazzo, non te fuggono tutti: seguono me! Allorquando io ho guidato su tutto il mare le fulgenti insegne, prima che la luna celasse per due volte il suo disco pieno, i pirati, in preda al terrore, abbandonarono ogni parte del mare stesso e richiesero una sede in un'angusta zona di terra. E ancora io, più fortunato di Silla, costrinsi alla morte il re, che non era stato domato e che, fuggiasco attraverso le vie del mare di Scizia, si frapponeva alla realizzazione dei destini di Roma. Non c'è zona del mondo che non mi conosca e tutta quanta la terra, in ogni sua parte, è occupata dai miei trofei: da un lato il Nord mi vede vincitore presso le gelide onde del Fasi; dall'altro mi sono noti l'asse mediano del caldo Egitto e Siène, dove l'ombra non ruota da nessuna parte; temono le mie leggi l'Ovest e il Beti, che, il più occidentale di tutti i fiumi, si getta nel mare soggetto al flusso e al riflusso; mi hanno conosciuto gli Arabi sottomessi, gli Enìochi feroci in guerra ed i Colchi divenuti celebri per il furto del vello; hanno timore delle mie insegne i Cappàdoci, i Giudei, che adorano un dio invisibile ed irraffigurabile, e la molle Sofène; ho sottomesso gli Armeni, i feroci Cìlici ed il Tauro: qual guerra mai ho lasciato a mio suocero, se non il conflitto civile?».
Le parole del condottiero non furono accolte dalle acclamazioni dei suoi soldati, i quali non chiesero di affrettare gli squilli per il combattimento promesso. Lo stesso Pompeo percepì la paura e decise di ritirare le insegne e di non gettare nei rischi di uno scontro così decisivo un esercito già vinto dalla fama di Cesare, anche se nessuno di loro l'aveva ancora visto. Come un toro, sconfitto nella mandria al primo scontro, si dirige verso le parti più nascoste dei boschi ed esule nei campi deserti saggia le corna dando di cozzo nei tronchi e torna a pascolare solo quando, irrobustita la testa e il collo, è soddisfatto dei muscoli tesi e subito, alla testa degli altri tori, guida l'armento nei balzi che gli piacciono, nonostante gli sforzi in contrario del pastore - così Pompeo, svantaggiato nel rapporto di forze, abbandonò l'Italia e, fuggiasco attraverso i campi d'Apulia, trovò ricetto nelle sicure rocche di Brindisi.
Questa città fu un tempo possesso dei coloni dittèi, che navi cecròpie trasportarono, profughi attraverso il mare, da Creta, allorquando le vele proclamarono falsamente che Tèseo era stato sconfitto. Un angusto tratto di terra dell'Italia, che ormai si restringe, spinge nel mare quella tenue lingua, che racchiude le onde dell'Adriatico come fra corna ricurve. Tuttavia in questa gola così stretta, in cui si insinua il mare, non potrebbe esserci un porto, se un'isola non facesse scaricare sui suoi scogli la violenza dei cori e non respingesse le onde stanche. Da una parte e dall'altra la natura ha posto di fronte al mare aperto monti rocciosi ed ha tenuto lontani i venti, in modo che le imbarcazioni potessero rimanere all'attracco, assicurate da una fune anche debole. All'esterno si estende per largo tratto la superficie del mare, sia che si faccia vela verso i tuoi porti, o Corcìra, sia che ci si diriga a sinistra verso l'illirica Epidamno, che si tende in avanti sui flutti dello Ionio. Questo è il rifugio dei naviganti, allorquando l'Adriatico sprigiona tutta la sua violenza e i Ceràuni si immergono nelle nubi e la calabra Sasòna è sommersa dai flutti spumeggianti.
Allora, quando per Pompeo svanì l'estrema speranza in quel che si era lasciato alle spalle e non gli fu possibile far convergere la guerra presso i rudi Ibèri, dal momento che c'era da attraversare l'enorme catena montuosa delle Alpi, egli si rivolse al figlio più grande: «Ti comando di saggiare le zone più riposte del mondo: smuovi l'Eufrate e il Nilo, fin dove è giunta la fama del nostro nome, e le città dove è conosciuta Roma sotto la mia guida; fai tornare a navigare i coloni di Cilìcia sparsi per i campi; scuoti i re egiziani e il fedele Tigrane. Non tralasciare, ti prego, l'esercito di Fàrnace né le popolazioni nomadi delle due Armenie, le orde rifèe, i feroci guerrieri delle rive del Ponto e quelli che vivono presso la stagnante palude Meòtide, che è in grado di sorreggere, con le sue acque congelate, i carri e... ma perché sto parlando tanto? Porterai, o figlio, la guerra nell'intero Oriente e solleverai in tutto il mondo le città sottomesse: tornino a combattere tutti coloro che io ho vinto. E voi, o consoli, che date il vostro nome ai Fasti latini, recatevi in Epiro non appena borea prenda a spirare; e di lì, attraverso i campi dei Greci e dei Macèdoni, procuratevi nuove forze, finché la stagione invernale offre la possibilità di rimanere in pace». Così parlò: tutti obbedirono agli ordini e mollarono gli ormeggi delle cave imbarcazioni.
Ma Cesare, sempre incapace di starsene tranquillo e lontano dalle armi, affinché al destino non sia possibile mutare alcunché, insegue e incalza da presso le orme del genero. Ad altri sarebbero sufficienti tante mura conquistate al primo assalto, tante rocche occupate dopo averne scacciato i nemici, la stessa Roma, capitale del mondo, la più importante preda di guerra, agevole a soggiogarsi: ma Cesare, che si getta a capofitto in ogni impresa, ritenendo che nulla sia compiuto, quando rimane ancora qualcosa da fare, incalza inesorabile e, nonostante sia padrone dell'Italia intera, dal momento che Pompeo ne occupa il lido estremo, si rammarica di doverla dividere con lui. Né vuole che i nemici riprendano a navigare sul mare aperto: fa gettare massi rocciosi in acqua e blocca così un largo tratto di mare. Questa fatica va però vanamente perduta nell'enormità della distesa marina: i flutti voraci ingoiano tutti i massi e li frammischiano con la sabbia; allo stesso modo - se l'alto Èrice cadesse in mezzo ai flutti del mar Egeo o se la vetta del Gàuro si staccasse dalla montagna e precipitasse fin nel più profondo dello stagnante Averno - nessuno scoglio emergerebbe dalle onde. Così - dal momento che nessun peso riusciva a trattenere i massi sul fondo - Cesare, tagliati interi boschi, decide di legarne insieme i tronchi con enormi catene: la fama tramanda che simili vie avesse costruito sull'acqua l'arrogante Persiano, allorché, con estrema audacia, riuscì ad avvicinare per mezzo di ponti l'Europa all'Asia e Sesto ad Abìdo, inoltrandosi sulle onde del vorticoso Ellesponto, senza alcun timore dell'euro o dello zefiro, mentre faceva trasportare per via di terra imbarcazioni nel cuore dell'Athos. Così l'insenatura viene sbarrata dalle selve abbattute: sull'esteso terrapieno si costruiscono le opere di difesa ed alte torri ondeggiano sulle acque.
Pompeo, scorgendo la rotta verso l'alto mare bloccata da una nuova terra, si tormentava nell'animo con angosciose preoccupazioni, chiedendosi come potesse riaprirsi la strada verso il mare aperto e portarvi così la guerra. Sospinte dal noto, con le vele gonfie e le funi tese, alcune imbarcazioni sfondarono frequentemente l'estremità superiore dell'ostacolo, aprendo così una via ai battelli, e balliste, manovrate da braccia robuste, scagliarono nella notte fiaccole con molte lingue di fuoco. Infine, non appena a Pompeo sembrò giunto il momento di una fuga nascosta, ordinò ai suoi compagni di fare in modo che gli equipaggi non lanciassero grida sulla spiaggia, di non far risuonare la buccina per annunciare il trascorrere delle ore e di non far avvertire i marinai con la tromba, perché prendessero il largo. Ormai la Vergine, ultima delle costellazioni a sorgere, aveva iniziato a precedere la Bilancia, che avrebbe accompagnato il sole, allorché silenziosamente essi mollarono gli ormeggi. Non si udirono voci, mentre l'ancora era tirata su dal fondo compatto; mentre i pennoni venivano curvati e si innalzava l'alto albero, i timonieri timorosi tacevano e i marinai srotolarono dall'alto le vele, senza scuotere le forti funi, in modo da non provocare alcun sibilo. Il loro condottiero faceva voti e ti pregava, o Fortuna, perché gli fosse almeno consentito di abbandonare quell'Italia, che tu gli impedivi di mantenere. A stento i fati lo concessero: il mare infatti, colpito dai rostri, risuonò per largo tratto e la superficie si animò di flutti, provocati dalle scie di tante navi.
Allora i nemici - penetrati in città attraverso le porte, che l'atteggiamento dei cittadini, cambiato con la fortuna, aveva fatto spalancare - precipitandosi di corsa attraverso i bracci ricurvi del porto, si diressero verso la spiaggia e si rammaricarono che la flotta nemica fosse ormai in alto mare: oh, vergogna, la fuga di Pompeo rappresentò una ben misera vittoria! Uno stretto passaggio, più angusto del flutto eubòico, che batte Càlcide, immetteva verso il mare aperto. Qui due imbarcazioni - incappate nelle mani di reparti apprestati per affrontare la flotta - furono costrette a bloccarsi e qui per la prima volta il mare - trasferitosi il conflitto sulla terra ferma - rosseggiò del sangue dei cittadini. Il rimanente della flotta si allontanò privo delle ultime navi; come - allorché l'imbarcazione di Pàgasa si stava dirigendo verso le onde del Fasi - la terra fece uscire dai flutti le rocce ciànee: Argo sfuggì agli scogli con la poppa infranta e le Simplègadi percossero inutilmente il mare vuoto e si fermarono per non muoversi più. Già il colore del cielo ad oriente annunziava il sorgere del sole, la luce, non ancora bianca, rosseggiava e toglieva gradualmente lo splendore agli astri più vicini, ormai si offuscavano le Plèiadi, i carri di Boòte, che stava declinando, svanivano nel cielo ormai chiaro, stelle più grandi scomparivano e Lucìfero fuggiva il giorno che si andava riscaldando. Tu, o Pompeo, tenevi ormai il mare, ma non eri più assistito dai fati che ti erano benigni, allorché inseguivi i pirati per tutto il mare: la Fortuna, stanca dei tuoi trionfi, si è allontanata da te. Cacciato con la moglie, i figli e tutta la tua casa, te ne vai esule, anche se gruppi di cittadini accompagnano te, ancora grande: si va alla ricerca di una sede lontana per una rovina indegna. Gli dèi hanno deliberato che la tua tomba debba essere sulle arene egiziane, non per privarti di un sepolcro in patria, ma per risparmiare l'Italia: lontano e in una landa remota la Fortuna asconda questa empietà e la terra romana si conservi non macchiata dal sangue del Grande.

LIBRO TERZO


Allorquando l'austro, soffiando nelle vele che fuggivano, spinse la flotta e le navi iniziarono a solcare l'alto mare, tutti i marinai si misero ad osservare le onde dello Ionio: soltanto Pompeo tenne gli occhi fissi all'Italia, fino a quando non svanirono al suo sguardo i porti della patria, i lidi che non avrebbe più rivisto, le cime coperte di nubi e i monti dal profilo incerto. Poi, ormai stanco, scivolò in un sonno pesante. Gli apparve allora un'immagine di rabbrividente orrore: Giulia alzava il triste volto attraverso la terra che si apriva e, come una Furia, stava ritta in mezzo alle funeree fiamme: «Cacciata dai Campi Elisi, sede dei beati», ella gli diceva, «fui trascinata, dopo lo scoppio del conflitto civile, nelle tenebre dello Stige, fra le anime dei colpevoli: ho visto con i miei occhi quali fiaccole le Eumènidi reggevano per agitarle sulle vostre armi; il nocchiero dell'Acheronte in fiamme si sta apprestando a compiere un gran numero di viaggi; il Tàrtaro si sta ampliando per poter accogliere un maggior numero di dannati; a stento le Parche - per quanto si diano da fare tutte e tre con la destra veloce - bastano alla bisogna, esauste come sono per il taglio di tanti stami. Quando eravamo insieme, o Pompeo, hai celebrato festosi trionfi: la fortuna è cambiata con il matrimonio e Cornelia, condannata dal destino a trascinare sempre alla rovina mariti potenti, si unì a te nel vincolo nuziale, quando il mio cenere era ancora caldo. Lei non si distacchi mai dalle tue insegne in guerra e sui mari, purché mi sia consentito spezzare i tuoi sonni agitati e voi non abbiate mai tempo per il vostro amore: Cesare riempia i vostri giorni e Giulia le vostre notti. L'oblio della sponda del Lete, o marito, non mi ti ha fatto dimenticare e i sovrani del regno del silenzio mi hanno concesso di seguirti. Verrò nel mezzo delle schiere, quando condurrai il combattimento: mai la mia ombra ti permetterà, o Grande, di non essere il genero di Cesare. Inutilmente cerchi di spezzare con il ferro i tuoi obblighi: il conflitto civile ti renderà mio». Dopo aver detto queste parole, l'ombra scomparve, svanendo dall'abbraccio del marito trepidante.
Pompeo, per quanto i numi e i Mani minacciassero rovina, reso ancora più grande dalla certezza dei mali, si precipitò a combattere con queste parole: «Perché mai ci lasciamo atterrire dalla visione di una vuota immagine? O la morte non lascia alle anime sensibilità alcuna o la morte stessa è niente». Già il sole stava per inabissarsi in mare e del suo disco infuocato era immerso nei flutti tanto, quanto manca alla luna, allorché sta per diventare piena o quando lo è appena stata: allora una terra ospitale offrì alle navi un agevole attracco: gli equipaggi arrotolarono le funi e, calato l'albero, si diressero a forza di remi verso il lido.
Cesare - allorché i venti trascinarono via le navi in fuga e la lontananza fece scomparire la flotta ed egli rimase il solo condottiero sul lido italico - non gioì per il successo di aver cacciato Pompeo: si rammaricava che i nemici potessero navigare sicuri. Nessuna fortuna, infatti, era bastevole per quell'uomo irruente né la vittoria aveva un peso tale da convincerlo a rimandare la guerra. Allora cacciò dal suo animo le preoccupazioni delle armi e, proponendosi come obiettivo la pace, pensava a come cattivarsi il vano entusiasmo del volgo, ben consapevole che la necessità determina inesorabilmente le cause dell'ira e i determinanti cambiamenti del favore. Soltanto la fame, infatti, rivendica per sé le città ed i potenti comprano il timore, allorché forniscono il nutrimento al volgo inerte: la plebe, quando è digiuna, non sa cosa sia la paura. A Curione fu comandato di portarsi nelle città siciliane, dove il mare ha coperto con onde improvvise la terraferma o dove ha diviso le terre dell'interno cambiandole in rive (lì è estrema la violenza del mare e le acque sono sempre in movimento, per evitare che i monti divisi si riuniscano). La guerra si diffuse anche sulle spiagge della Sardegna. Tutte e due le isole sono celebri per i loro campi ricchi di messi e prima di loro e in maggior quantità nessun'altra terra ha riempito di frumento che venisse da lontano l'Italia e i granai di Roma: esse sono superate a stento in abbondanza dalla Libia, allorché - cessando gli austri di soffiare e spingendo borea le nubi in direzione sud - quella regione produce un'annata feconda per l'abbondanza delle piogge.
Allorquando il condottiero ebbe disposto in questo senso, si avviò, vittorioso, verso le dimore della patria, trascinando con sé un esercito non in assetto di guerra, ma di pace. Oh, se fosse rientrato a Roma dopo aver soggiogato unicamente le popolazioni galliche e quelle nordiche, che fila di trofei e di simboli di guerra avrebbe potuto mostrare dinanzi a sé in un lungo corteo e come le genti del Reno e quelle che si affacciano sull'Oceano avrebbero seguito, in catene, gli alti carri insieme con i nobili Galli e i biondi Britanni! Quale trionfo è andato perduto con la tua vittoria eccessiva! Le città non lo videro incedere fra il clamore di una folla in festa, ma in silenzio, poiché dominava la paura, e in nessun luogo la turba si fece incontro al condottiero. Nonostante ciò, egli è felice di costituire motivo di così grande timore per le genti e preferirebbe non essere amato.
Ed ormai Cesare era andato al di là della rocca di Anxur a picco sul mare, dove l'umida via attraversa le paludi Pontine, dove si trova l'alta selva e il dominio di Diana scitica e dove c'è la strada che consente ai fasci latini di giungere sulla sommità di Alba: e già da un'alta rupe egli scorse da lontano la città che non vedeva dall'inizio della guerra condotta nel nord e, contemplando le mura della sua Roma, così si espresse: «E tu, sede dei numi, sei stata abbandonata dai tuoi validi difensori, che pur non erano incalzati da nessuna guerra? Per quale città allora si dovrà combattere? È stato un dono del cielo, se ora non si è abbattuto sui lidi del Lazio il furore delle popolazioni orientali con i Sàrmati veloci, uniti ai Pannonii e con i Geti mescolati ai Daci: la fortuna, o Roma, ha risparmiato te e il tuo pauroso condottiero, dal momento che è scoppiato soltanto un conflitto civile». Dopo aver così parlato, entra nella città, che è in preda al terrore. Corre voce infatti che Cesare abbia intenzione di distruggere le mura di Roma conquistata dopo avervi appiccato nere fiamme e di fare scempio dei suoi numi; questo è il criterio della loro paura: ritengono che Cesare voglia tutto quello che può. Non fingono voti giocondi e non riescono ad escogitare acclamazioni in una gioiosa confusione: a stento c'è spazio per l'odio. Un folto gruppo di senatori, uscito dai luoghi in cui si era nascosto, si affolla nel tempio di Apollo, senza che ci sia qualcuno in grado di poterlo convocare formalmente; i sacri scanni non rifulgono occupati dai consoli; non è presente il pretore, che è per legge la seconda autorità dello Stato; rimangono vuoti anche i seggi curuli: Cesare è tutto e il Senato è solo uno spettatore degli ordini impartiti da un semplice cittadino. I senatori prendono posto pronti a ratificare, anche se egli dovesse richiedere per sé il dominio o i templi e per il Senato stesso la morte o l'esilio: ed è un caso fortunato il fatto che Cesare abbia più ritegno nell'impartire ordini di quanto ne abbia la città nell'assoggettarsi a lui.
Purtuttavia la libertà sfociò nell'ira, per saggiare se, per mezzo di un solo uomo, la legalità fosse in grado di resistere alla violenza: il bellicoso Metello, non appena vide che si stava tentando di sfondare con un enorme ariete il tempio di Saturno, affrettò il passo e, fendendo le truppe cesariane, si piazzò dinanzi alle porte non ancora aperte dell'edificio sacro (fino a tal punto la brama dell'oro è l'unica a non conoscere la paura delle armi e della morte: vanno in malora le leggi ormai distrutte, senza che nessuno faccia qualcosa per impedirlo, e tu, o ricchezza, la più misera di tutte le cose, fosti in grado di suscitare uno scontro); il tribuno, tentando di opporsi alla rapina del vincitore, dichiarò con voce squillante: «Il tempio si spalancherà solo se su di esso si abbatteranno violenti colpi che attraverseranno il mio corpo e tu, o ladrone, non rapinerai le ricchezze, se non dopo averle insozzate con il mio sacro sangue. Non v'è alcun dubbio che l'oltraggio arrecato alla potestà tribunizia provoca la vendetta divina: le maledizioni scagliate da un tribuno non abbandonarono Crasso neanche in guerra e lo hanno condannato a crudeli battaglie. Sfodera ormai la spada; non ti deve incutere timore il fatto che ci siano molte persone ad assistere ai tuoi delitti: ci troviamo in una città abbandonata da tutti. Il soldato sacrilego non ricaverà alcun bottino da noi: ci sono popoli che tu potresti annientare, mura che tu gli potresti donare. Non è certo l'indigenza che ti costringe a depredare i vantaggi di una pace ormai purtroppo esaurita: tu hai la guerra al tuo comando, o Cesare». Il vincitore, esasperato da queste parole, esclamò: «Speri inutilmente di ottenere una morte onorata: la mia mano non si sporcherà del tuo sangue, o Metello: nessun onore ti renderà degno dell'ira di Cesare. La libertà è forse rimasta al sicuro perché tu ne hai preso le difese? Malgrado il trascorrere del tempo, le cose non si sono ancora confuse a tal punto che le leggi non preferiscano essere eliminate da Cesare, se deve essere la voce di Metello a mantenerle intatte».
Così aveva parlato, ma, dal momento che il tribuno rimaneva immobile vicino alle porte del tempio, arse di un'ira ancora più violenta: percorse con lo sguardo le spade crudeli che gli stavano intorno, dimenticando che stava fingendo un atteggiamento di pace. Allora Cotta fece pressione su Metello perché recedesse da un'impresa troppo rischiosa: «La libertà di un popolo soffocato dal dominio», disse, «perisce, se tu vuoi affermarne l'esistenza: se invece riuscirai a volere quanto ti verrà comandato, allora riuscirai a conservare una traccia di libertà. Noi, vinti, siamo costretti a sottostare a tante iniquità: l'unica giustificazione della nostra vergogna e della nostra paura degenere è costituita dal fatto di non esserci potuti sottrarre. Cesare spazzi via al più presto i maligni semi di una guerra crudele. Le sciagure riescono a smuovere i popoli, se essi hanno leggi che li proteggono: l'indigenza di chi serve danneggia non se stessa, ma il padrone». E subito si spalancarono le porte del tempio, mentre Metello veniva trascinato via. Allora la rupe Tarpea risuona e proclama con grande stridore che le sue porte vengono aperte: allora è recata fuori la ricchezza del popolo romano, ben conservata nella parte più nascosta del tempio e che nessuno aveva toccato per tanti anni: essa rappresentava il risultato delle guerre puniche, di quelle sostenute contro Pèrseo e contro Filippo, della fuga da Roma dei Galli in preda al terrore (e proprio per quell'oro Fabrizio non vendette Roma al re), di tutto quello che voi, o sobri avi, avevate messo da parte, dei tributi inviati dalle ricche popolazioni dell'Asia, di quello che la minoica Creta dovette consegnare al vincitore Metello, di quel che Catone riportò da Cipro con lunghi viaggi per mare. Allora vengono portate fuori le ricchezze dell'Oriente e i tesori dei sovrani delle estreme regioni del mondo fatti prigionieri e che furono esibiti nei trionfi di Pompeo: il tempio viene depredato con una nefasta rapina ed allora per la prima volta Roma fu più povera di Cesare.
Nel frattempo la fortuna di Pompeo aveva trascinato nella guerra, attraverso il mondo intero, città, che sarebbero poi rovinate con lui. Invia truppe la Grecia, che era la regione più vicina ai luoghi del combattimento: Anfissa, la rocciosa Cirra e il Parnàso, rimasto con le due cime abbandonate, mandano schiere focesi; si riuniscono i condottieri della Beozia, che cingono il veloce Cefìso con la sua acqua fatidica e la cadmea Dirce, e le truppe di Pisa e dell'Alfèo, che invia, attraverso il mare, le sue acque alle popolazioni della Sicilia; allora l'Àrcade abbandona il Mènalo e il soldato di Trachis l'erculeo Eta; si affrettano i Tespròti e i Drìopi e i Selloi di antica stirpe abbandonano le querce silenti della cima caonia; sebbene la leva militare avesse reso deserta tutta quanta Atene, purtuttavia poche navi occupano il porto consacrato ad Apollo e tre sole imbarcazioni vorrebbero che si prestasse fede alla battaglia di Salamina. E già scende in guerra l'antica Creta, cara a Giove, con cento popolazioni, con Cnosso abile nell'uso della faretra e con Gortina non meno esperta degli Orientali nel tirare con l'arco; e ancora gli abitanti della dardania Òrico e gli Atamàni che vagano nelle profonde selve e gli Enchelii che ricordano, con la loro antica denominazione, la morte di Cadmo trasformato, l'Absirto della Còlchide, che spumeggia nelle onde dell'Adriatico, quelli che coltivano i campi del Penèo e che con l'aratro tessalico si stancano ad arare l'emonia Iolco (da qui per la prima volta si salpò, allorché l'inesperta Argo confuse insieme genti sconosciute su una spiaggia violata e per prima mise di fronte gli uomini ai venti e ai furibondi flutti del mare e, grazie a quella imbarcazione, si aggiunse un nuovo tipo di morte a quelli già stabiliti dal destino). Allora viene abbandonato il tracio Emo e Fòloe, che si favoleggiò abitata da una popolazione biforme. Si lasciano lo Strìmone, abituato ad affidare gli uccelli della Bistònia al tiepido Nilo e la barbara Cone, dove l'Istro perde le acque sarmatiche e con una delle sue molte foci lambisce Pèuce, che si trova già nel mare, e la Mìsia e l'Idàlia bagnata dal gelido Caìco e Arisbe tanto povera di zolle; si aggiungono gli abitanti di Pìtane e Celène, la quale, vinta e condannata da Febo, piange i tuoi doni, o Pàllade, là dove il Màrsia, discendendo con corso retto, sfocia nel Meandro pieno di curve e i due corsi d'acqua sembrano, data la loro lentezza, tornare indietro; e la terra che consente al Pattòlo di uscir fuori dalle miniere che producono oro e dove l'Ermo, non meno prezioso, attraversa i campi. Anche le truppe d'Ilio con la loro maledizione addosso si dirigono verso l'accampamento destinato a perire e non sono trattenute dalla leggenda di Troia né da Cesare proclamante la sua discendenza dal frigio Iulo. Ecco anche i popoli della Siria, l'Oronte, ora abbandonato, e Nìnive felice (così si favoleggia), Damasco ventosa con Gaza, Idume abbondante di palme e Tiro instabile con Sidone ricca di porpora. L'Orsa minore, che è un punto di riferimento per queste navi più stabile di quanto non lo sia per altre, le guida alla guerra in linea retta e non attraverso una rotta tortuosa (i Fenici furono i primi - se vogliamo prestar fede alla leggenda - che osarono fissare le parole in segni stabili, ancorché rudimentali: e Menfi non aveva ancora appreso ad intrecciare i papiri del fiume e soltanto uccelli, fiere ed altri esseri scolpiti sulle pietre conservavano il linguaggio magico). Viene abbandonata la selva del Tauro e Tarso fondata da Pèrseo e l'antro coricio, determinato dall'erosione delle rocce; Mallo ed Ege lontana risuonano di cantieri navali e i Cìlici vanno per il mare su navi non più pirate. La fama della guerra ha messo in subbuglio anche le lontane zone dell'Oriente, là dove si adora il Gange, che, unico fiume al mondo, osa far sboccare le sue foci di fronte al sole nascente e spingere le sue onde contro l'euro, proprio là dove il condottiero macedone, dopo aver raggiunto l'Oceano, si fermò ed ammise di essere vinto dalla grandezza del mondo e là dove l'Indo, che trascina le sue acque veloci in bracci divisi, non si accorge di unire i suoi vasti flutti all'Idaspe; si aggiungono quelli che bevono dolci succhi dalle canne tenere e che, tingendosi i capelli con un preparato a base di croco, fermano le vesti fluenti con fibbie di pietre colorate e quelli che ergono i propri roghi e vi salgono da vivi quando le pire sono già in preda alle fiamme: oh, che motivo di gloria è per questo popolo costringere il destino e, ormai stanchi della vita, donare agli dèi quel che ne rimane! Ecco i feroci Cappàdoci, che non coltivano lo scosceso Amàno, e gli Armeni, che occupano il Nifate, da cui rotolano massi. I Coàtri abbandonano le selve, che giungono fino al cielo. E voi, o Arabi, entrate in un mondo sconosciuto, meravigliandovi del fatto che l'ombra delle selve non proceda verso sinistra. Allora la follia romana spinge i lontani Oresti e i condottieri carmàni (il cui cielo, che si inclina verso l'austro, non scorge l'Orsa immergersi tutta quanta, mentre il veloce Boòte riluce in una notte di breve durata) e la regione degli Etiopi, che non sarebbe sovrastata da nessuna parte del cielo con le sue costellazioni, se non vi giungesse l'estremità dello zoccolo del Toro ricurvo e con la zampa piegata; e quelli che abitano nella regione in cui il grande Eufrate nasce insieme al rapinoso Tigri: essi sgorgano infatti, in Persia, dalla medesima fonte ed è incerto - allorquando i due fiumi si uniscono insieme - quale nome sia più opportuno attribuire alle acque; ma il fecondo Eufrate, scorrendo nei campi, compie il medesimo ufficio del Nilo, mentre la terra ingoia il Tigri in un'improvvisa apertura e nasconde il suo corso sotterraneo; poi, facendolo risgorgare da una nuova fonte, consente che il fiume si getti finalmente in mare. Fra le truppe di Cesare e l'esercito avversario i bellicosi Parti mantengono la loro adesione incerta, lieti di aver posto di fronte due nemici. Le erranti popolazioni della Scizia, circondate dalle gelide onde del Battro e dalle sterminate selve dell'Ircània, cospargono le frecce di veleno. Ed ecco anche gli spartani Enìochi, rude popolazione esperta nel maneggio, ed i Sàrmati imparentati con i crudeli Moschi; ed ecco le genti stanziate là dove il Fasi attraversa le doviziose campagne dei Colchi, là dove scorre l'Alis, che fu fatale a Creso, là dove il Tànai, discendendo dalle vette rifèe, conferisce alle sue rive nomi diversi e, confine comune dell'Asia e dell'Europa, dividendo zone limitrofe, amplia ora l'una ora l'altra, a seconda del suo procedere; là dove il mar Nero accoglie e scarica le acque della palude Meòtide, che lì divengono flutti tempestosi, e sottrae la fama alle colonne d'Ercole, dal momento che non è più voce comune che soltanto attraverso Càdice si passa nell'Oceano. Ed ecco anche le popolazioni essedonie e gli Arimaspi, che tengono fermi i capelli con fermagli d'oro, ed i forti Arii e i Massàgeti, che saziano la lunga fame della guerra contro i Sàrmati, mangiando i cavalli con cui fuggono, e i rapidi Geloni. Neanche quando calarono dai dominî di Mèmnone, Ciro, guidando il suo esercito, o il Persiano, che calcolava i suoi soldati dal numero dei dardi lanciati, o quando il vendicatore dell'amore del fratello batté il mare con una flotta sterminata, tanti re obbedirono ad un solo comandante e mai si unirono insieme tanti popoli così diversi per consuetudini e per lingua. La Fortuna riunì tante popolazioni per mandarle insieme verso una rovina catastrofica e per apprestare esequie degne della morte di Pompeo. Il cornìgero Ammone acconsentì che si inviassero in battaglia le truppe della Marmàrica dall'intero territorio libico, dai Mauri stanziati nella zona occidentale fino alle spiagge orientali delle Sirti paretònie. E affinché a Cesare potesse arridere la fortuna di avere tutto in una volta sola, Farsàlo gli accordò il mondo intero, perché egli lo vincesse.
Cesare - non appena ebbe lasciato le mura di Roma terrorizzata - trascinando l'esercito superò di un balzo le Alpi piene di nubi e, mentre le altre popolazioni eran prese da paura al solo ascolto di quanto si diceva di lui, i giovani focàici ebbero il coraggio di rimanere fedeli, pur in una situazione incerta, agli impegni presi, contrariamente alla superficialità dei Greci, e di proporsi come obiettivo una causa e non i fati. Nonostante tutto però, essi si apprestarono prima a tentar di piegare, con un discorso pieno di proposte pacifiche, il suo indomabile furore e la sua dura intenzione e, facendosi precedere dai rami della cecròpia Minerva, pregarono il nemico, che ormai incombeva: «Tutti i periodi di cui parla la storia di Roma fanno fede che, nelle guerre condotte contro popolazioni straniere, Marsiglia ha sempre condiviso il vostro destino. Ed anche in questa circostanza, se tu vai in cerca di trionfi in zone ignote del mondo, accogli le nostre destre, consacrate a combattere contro gli stranieri. Ma se, invece, in contrasto fra voi, state preparando eserciti maledetti e funeste battaglie, noi non parteciperemo al conflitto civile e ci limiteremo a piangere: nessuno di noi contribuirà alle empie ferite. Se la follia della guerra fornisse le armi ai numi o se i Giganti nati dalla terra dessero l'assalto alle stelle, purtuttavia la religiosità degli uomini non avrebbe l'ardire di parteggiare per Giove con le armi o con i voti e i mortali, inconsapevoli della sorte degli dèi, apprenderebbero soltanto dai fulmini che il Tonante è ancora l'unico sovrano del cielo. Si aggiunga il fatto che da ogni parte accorrono innumerevoli popolazioni e gli uomini non provano ancora orrore per il contagio dei delitti, rimanendovi indifferenti, in modo che la guerra civile abbia bisogno di soldati costretti a combattere. Possano avere tutti l'intenzione di rifiutare il vostro destino né altri combattenti intraprendano queste battaglie. A chi non verrà meno la destra, quando scorgerà il padre, ed a chi i fratelli, che si trovano nell'esercito nemico, non impediranno di scagliare i dardi? Si appressa la fine del mondo, se ora consentite che impugnino le armi coloro che possono farlo legalmente. Di questo insomma noi ti preghiamo: lascia le aquile spaventose e le insegne ostili lontane dalla nostra città, affidati alle nostre mura e fa sì che, accolto Cesare, la guerra ne rimanga fuori. Ci sia un luogo libero da delitti e sicuro per te e per Pompeo, così che - se il destino si prende a cuore la sorte di una città, che non ha mai subito sconfitte, - ci sia un luogo in cui possiate incontrarvi senza armi, ammesso che abbiate l'intenzione di raggiungere un accordo. D'altronde, se la grave situazione della guerra in Spagna richiede la tua presenza, perché modifichi il tuo veloce cammino? Noi non rappresentiamo elementi determinanti nelle azioni di questo conflitto: non abbiamo mai avuto esiti fortunati nelle nostre guerre, esuli dalle originarie sedi della patria e - dopo aver trasportato qui la rocca bruciata della Fòcide ed aver trovato, su un lido straniero, sicuro ricetto tra mura non forti - il nostro solo motivo di onore è costituito dalla lealtà. Se tu ti appresti a porre l'assedio alle nostre mura e ad abbattere con la violenza le porte, noi siam pronti ad accogliere fuoco e frecce sulle nostre case, a cercare sorsi d'acqua nei ruscelli deviati, a leccare, in preda alla sete, la terra scavata e, se dovesse mancare cibo bastevole per tutti, allora siam pronti ad insozzare le nostre bocche mangiando cose orride a vedersi e disgustose a toccarsi. La nostra gente non ha timore di affrontare per la libertà quel che Sagunto soffrì, quando fu assediata dai Cartaginesi: verranno scagliati tra le fiamme i fanciulli strappati dal seno materno e succhianti inutilmente le mammelle, che, a causa della fame, non daranno più latte; la moglie chiederà al caro marito di essere uccisa, i fratelli si colpiranno vicendevolmente e, se costretti, preferiranno questa guerra civile alla vostra». Così i giovani Greci avevano terminato il loro discorso: allora l'ira del condottiero, già svelata dal turbamento del volto, esplose in queste parole: «I Greci ripongono una fiducia illusoria nella nostra foga: per quanto ci stiamo affrettando verso la zona più occidentale del mondo, abbiamo tempo per distruggere Marsiglia. Esultate, o coorti: ci vengono incontro battaglie, per dono degli dèi. Come al vento vengon meno le sue forze e si perde nello spazio vuoto, se non gli fanno ostacolo selve fitte di tronchi, e come un grande fuoco si spegne, se non incontra qualcosa che gli si opponga, così mi è di danno non avere nemici e considero uno scacco la mancata reazione di quelli che possono esser vinti. Ma (essi dicono) se io, senza più dignità, avanzerò solo e senza armi, allora le porte si apriranno dinanzi a me: essi non vogliono soltanto tenermi fuori, ma imprigionarmi. Certo, desiderano sfuggire i funesti contagi del conflitto. Pagherete il fio per aver chiesto la pace e imparerete che, finché ci sarò io, non c'è nulla di più sicuro della guerra, con le truppe al mio comando». Così disse e comandò di modificare il cammino e di marciare contro la coraggiosa città: allora scorse le mura sbarrate e difese da densi gruppi di soldati.
Abbastanza vicino alle mura si innalzava un colle, sulla cui cima si estendeva una piccola radura: questo luogo parve a Cesare adatto ad esser circondato da un lungo sistema di fortificazione ed oltremodo opportuno per porvi un accampamento sicuro. La parte più prossima alla città si elevava in un'alta rocca della medesima altezza del colle e nell'avvallamento tra i due luoghi si trovavano dei campi. Allora Cesare prese una decisione, che si sarebbe potuta realizzare con un'immane fatica, quella cioè di unire con un grande terrapieno le due alture che si fronteggiavano. Prima però, per tagliar fuori l'intera città dall'entroterra, fece costruire una lunga fortificazione che andava dall'accampamento sul colle fino al mare, accerchiò con un fossato le fonti ed i campi coltivati e fece innalzare terrapieni di zolle e di terra compatta con dense merlature. Fu un onore memorabile e perpetuo quello toccato alla città greca, di essere riuscita - senza cedimenti e senza farsi abbattere dal terrore - a rallentare il corso precipitoso di una guerra, che tutto incendiava, e ad esser vinta, dopo aver opposto, essa sola, resistenza, mentre Cesare travolgeva ogni cosa: che grande merito aver ritardato i fati e aver fatto perdere quei giorni alla Fortuna, che bramava di imporre quell'uomo al mondo intero! Allora ogni selva è abbattuta e i tronchi vengono tagliati affinché - dal momento che la parte centrale era tenuta insieme da terra friabile e da cespugli - il terreno fosse stretto ai lati da una solida palizzata, in modo che il terrapieno non cedesse sotto il peso delle torri.
Si trovava da quelle parti un bosco sacro, in cui nessuno aveva messo piede da lunghissimo tempo, e che cingeva con i suoi rami intrecciati l'aria oscura ed ombre gelide, dal momento che la luce del sole risultava incredibilmente lontana. Lì non avevano sede i Pani abitatori dei campi o i Silvani sovrani delle selve o le Ninfe, bensì i barbari riti sacri alle divinità: lì erano innalzati altari sinistri ed ogni albero era purificato con sangue umano. Se dobbiamo dare un qualche credito all'antichità, che si è sempre inchinata con meraviglia di fronte al divino, perfino gli uccelli avevano timore di fermarsi su quei rami e le belve di riposarsi in quelle tane; né il vento o i fulmini, sprigionatisi dalle fosche nubi, si abbattevano su quella selva: un brivido pervadeva ogni albero senza che soffiasse alcuna brezza tra le foglie. Inoltre una gran quantità di acqua cadeva da tetre fonti e sinistre statue di dèi erano ricavate, con un procedimento rozzo e approssimativo, dai tronchi intagliati. La stessa muffa e il pallore del legno putrescente provocavano terrore negli uomini sbigottiti, che non hanno paura delle divinità rappresentate in raffigurazioni fissate dalla consuetudine: tanto lo spavento è ingigantito dal fatto di non conoscere gli dèi, di cui si deve aver timore. Ed ormai correva voce che sovente profonde caverne mugghiavano a causa di movimenti tellurici, che i tassi piombavano a terra e subito dopo si drizzavano nuovamente, che incendi sembravano appiccarsi ai boschi, i quali però non bruciavano, e che mostruosi serpenti si avvinghiavano ai tronchi e strisciavano tutto intorno. Gli uomini non affollavano quel luogo per partecipare direttamente alle cerimonie del culto, ma lo abbandonavano agli dèi: allorché il sole è a metà del suo cammino o la cupa notte invade il cielo, lo stesso sacerdote paventa l'ingresso nel bosco e teme di incontrarne il signore.
Cesare ordinò che questa selva venisse abbattuta a colpi d'ascia; essa infatti non aveva subito danni nella guerra precedente e si innalzava, foltissima, tra i monti già privati dei boschi, vicino alle opere di fortificazione. Ma le forti braccia tremarono e, scossi dalla maestà del luogo che incuteva timore, i soldati erano convinti che, se avessero percosso i sacri tronchi, le scuri sarebbero tornate indietro colpendoli. Cesare - non appena vide che le coorti erano avviluppate come da una sorta di profondo torpore - per primo ebbe l'ardire di dar di piglio ad una bipenne e di calarla con forza su un'alta quercia; così poi parlò tenendo il ferro ancora affondato nel tronco che aveva contaminato: «Ormai - perché nessuno di voi abbia la più piccola esitazione ad abbattere il bosco - credete pure che sia io a compiere la profanazione». Allora la folla dei soldati si accinse ad obbedire, non perché fossero tranquillizzati per aver eliminato i loro motivi di perplessità, ma perché valutavano l'ira degli dèi e quella di Cesare. Piombarono a terra gli orni, furono abbattuti gli elci pieni di nodi, e le querce di Dodòna, gli ontani - che costituiscono il legname più acconcio per costruire imbarcazioni - e i cipressi, che testimoniano il lutto delle classi alte, allora per la prima volta furono privati delle loro chiome e, tolte le fronde, fecero passare la luce del giorno e i densi tronchi mantennero in piedi il bosco che stava cadendo, per quanto ci si accanisse contro di esso. Le popolazioni galliche, a tale spettacolo, emisero gemiti, ma i soldati, all'interno delle mura, esultarono: chi infatti potrebbe ritenere che gli dèi possano essere offesi impunemente? Ma già: la buona sorte favorisce sovente i colpevoli ed i numi riversano la loro ira soltanto sugli infelici! Non appena si ricavò una quantità di legname sufficiente dalla selva tagliata, questo venne trasportato attraverso i campi sui carri requisiti e i contadini piansero il raccolto di un anno perduto, dal momento che i buoi erano stati sottratti al curvo aratro.
Cesare tuttavia, non sopportando che la guerra ristagnasse presso le mura di quella città, comandò che le operazioni belliche continuassero, mentre egli marciava alla volta delle truppe di stanza in Spagna, ai limiti occidentali del mondo. Venne allora innalzato un terrapieno con tavole rivestite di punte e ad esso furono aggiunte due torri, che avevano la stessa altezza delle mura; non c'era alcuna base che le fissasse in terra: esse scorrevano per un largo tratto grazie ad un meccanismo segreto. Non appena questa enorme macchina prese ad oscillare, gli assediati pensarono che un vento, che cercava di fuoriuscire, scuotesse le vuote zone profonde della terra e si meravigliarono che le mura fossero rimaste in piedi. Dall'alto delle torri piovono dardi sulle alte rocche della città: ma una forza ben maggiore spinge le armi greche sui corpi romani: infatti le lance non vengono scagliate soltanto con le braccia: lanciate con violenza dalla balista tesa, non si contentano di trafiggere un solo fianco, ma, aprendosi la strada attraverso le armi e i corpi, volano via lasciandosi dietro una scia di morte: ai dardi rimane, dopo le ferite inferte, ancora uno spazio da percorrere. Ed ogni volta che un masso viene scagliato dalla violenta spinta della catapulta - come avviene a una rupe, che si stacchi dalla vetta di un monte a causa del tempo e del soffio dei venti - precipitando sfonda ogni cosa e non soltanto uccide e schiaccia corpi, ma ne sparge le membra in brani sanguinolenti. Purtuttavia, non appena i più coraggiosi si fanno sotto le mura, protetti da una fitta testuggine, e i Romani per primi formano una siepe di armi intrecciate, mentre gli scudi messi avanti proteggono gli elmi, i proiettili, che prima colpivano lanciati da lontano, ora cadono dietro le spalle; e non è una fatica agevole per i Greci modificare il tiro e cambiare il lancio di una macchina già predisposta a scagliare lontano: essi perciò si limitano a far rotolare con le sole braccia dei massi, fidando unicamente sul loro peso. Finché ci fu un blocco formato dalle armi, questo respinse tutti i dardi, così come avviene quando i tetti risuonano colpiti dalla grandine, che non arreca alcun danno; ma, dopo che il valore dei soldati, che erano ormai esausti, cominciò a vacillare e si frantumò la compattezza della protezione, le armi, ormai isolate, non riuscirono più a sopportare i continui colpi. Allora si fa avanti una vìnea, coperta da poca terra, sotto le cui strutture e nascosti dietro la fronte ben protetta i soldati si apprestano a scalzare le fondamenta e ad abbattere con il ferro le mura. A questo punto un ariete, macchina più efficiente delle altre a causa dei colpi, che vengono inferti sospesi a mezz'aria, si sforza di frantumare la struttura del muro spesso e di praticarvi un'apertura. Ma lo schermo protettivo è annientato dalle fiamme, dai frammenti di enormi rocce, dal lancio frequente di pali e da quello di travi in preda al fuoco: i soldati allora, esausti e spossati per questa inutile fatica, ripiegano dirigendosi verso il loro accampamento.
Il desiderio supremo dei Greci era che le mura rimanessero in piedi. Ora sono loro che prendono l'iniziativa strategica e gli audaci giovani, di notte, dopo aver coperto con gli scudi le torce brillanti, scattano all'attacco. Non hanno come dardi aste o archi apportatori di morte, bensì il fuoco, ed il vento, spargendo rapidamente gli incendi, li diffonde con grande celerità attraverso le fortificazioni romane. E le fiamme, nonostante lottino contro il legno ancor verde, non dispiegano lentamente la loro forza, ma, ravvivate da ogni torcia, tengon dietro alle larghe volute del nero fumo e distruggono non solo le selve, ma anche enormi massi; in tal modo dure rocce si riducono in polvere: il terrapieno rovina ed al suolo sembra ancora più grande.
Gli sconfitti non fecero allora più affidamento sulla lotta combattuta sulla terra ferma: decisero perciò di tentare la sorte sul mare. A loro non piacque adornare le imbarcazioni con magnifiche immagini dei numi protettori dipinte sul legno: misero invece insieme tronchi non lavorati - come quelli che si tagliano sui monti - ricavandone solide zattere per gli scontri navali. Ed ormai la flotta, insieme con la nave di Bruto piena di torri, era giunta in mare, seguendo la corrente del Rodano, ed occupò i lidi delle Stècadi. Anche i soldati greci vollero affidare alla sorte ogni loro forza e dettero le armi sia a persone molto avanti negli anni sia ad adolescenti; ma non soltanto con combattenti venne rafforzata la flotta, che già si trovava al largo: furono riutilizzate anche le imbarcazioni fuori servizio, presenti nei cantieri navali. Non appena il sole, diffondendo al mattino i suoi raggi sulle onde, ne provocò la rifrazione sulle acque ed il cielo apparve senza una nuvola e - dal momento che né borea né gli austri soffiavano più - il mare, senza onde, era pronto per la lotta, ciascun pilota avviò la propria imbarcazione dal punto di attracco e la flotta di Cesare da una parte e quella greca dall'altra avanzarono spinte da braccia ugualmente forti: le navi tremarono sospinte dai remi e colpi frequenti fecero sobbalzare le alte poppe. Un insieme di imbarcazioni di diverso tipo - e cioè le forti triremi, le navi spinte da un quadruplice ordine di rematori e quelle che immergevano in acqua un numero ancora superiore di remi - si sistemarono presso le ali della flotta romana. Questo schieramento si collocava di fronte al mare aperto: in tale disposizione ad arco le liburne risultavano, rispetto alle ali, situate più indietro, soddisfatte di innalzarsi sull'acqua con un doppio ordine di remi. Ma la nave ammiraglia di Bruto, più alta di tutte, era spinta da sei file di rematori e procedeva immergendo la prua nei flutti: anche il più alto ordine di remi toccava da lontano la superficie del mare.
Non appena l'intervallo tra le due flotte divenne tale da poter essere superato con una sola spinta di remi, si mescolarono nell'aria innumerevoli voci: il clamore sommergeva il rumore dei remi e non si riusciva neanche a sentire il suono delle trombe. Allora i vogatori batterono la distesa cerulea, ripiombarono sui banchi e percossero i petti con i remi. Non appena i rostri urtarono, con violento fracasso, nei rostri, le navi rincularono e i dardi scagliati coprirono l'aria ricadendo nel mare vuoto. E ormai le ali si allargavano, dal momento che le navi si stavano sparpagliando, e vascelli nemici si infiltravano da diverse direzioni nello schieramento smagliato. Come - tutte le volte che i flutti lottano con gli zefiri e con gli euri, le onde vanno da una parte e dall'altra - così, allorché le poppe, solcando i gorghi, provocarono scie in direzioni diverse, le onde, determinate dai remi di una nave, vennero rimandate indietro da quelli di un'altra. Le imbarcazioni greche erano esperte nel provocare a battaglia e nel sottrarsi poi al combattimento con un lungo giro, pur senza sospendere l'azione, e nel non perder tempo nelle modifiche di direzione; la flotta romana, invece, presentava scafi più stabili ed una consuetudine più vicina ai combattimenti terrestri. Allora Bruto così si rivolse al pilota, che si trovava al timone della nave che recava l'insegna: «E tu permetti che le flotte vaghino sul mare e vuoi gareggiare nell'arte del manovrare? Vieni ormai allo scontro, poni di fronte ai rostri focesi la parte centrale delle nostre navi!». Il timoniere obbedì ed offrì ai nemici il fianco delle imbarcazioni. Allora tutte quelle navi, che cozzarono contro le chiglie di Bruto, rimasero incastrate, a causa dell'urto violento, nei legni contro cui erano andate a sbattere; altre vennero bloccate da arpioni e solide catene, nonché dall'intrico dei remi: lo scontro si concentrò su un mare tutto coperto. Ormai non è più possibile lanciare dardi con le braccia e le ferite non sono più inferte con frecce scagliate da lontano, ma si combatte corpo a corpo: pur trattandosi di una battaglia navale, è la spada a farla da padrone. Ciascun combattente lotta dalla fiancata della propria nave, teso in avanti a colpire gli avversari, e nessuno di quelli che soccombono cade sulla sua imbarcazione. Il sangue schiumeggia alto sui flutti e l'acqua si copre di grumi sanguinolenti. Le navi, che erano state immobilizzate dal lancio di catene, non possono unirsi a causa dei mucchi di cadaveri che vi si interpongono. Altri, mezzi morti, vanno a picco e bevono l'acqua del mare mescolata al proprio sangue; altri ancora, mentre traggono rantoli in lotta con la morte che tarda a venire, periscono per l'improvviso crollo delle navi che si schiantano. Frecce vaganti uccidono in acqua e qualunque arma cada per forza di gravità, senza aver raggiunto il suo bersaglio, trova dove ferire in mezzo ai flutti.
In una nave romana, accerchiata da imbarcazioni focesi, gli uomini si dividono, precipitandosi a difendere con uguale ardore l'uno e l'altro fianco; e, mentre Cato combatte dall'alto della poppa e, coraggiosamente, trattiene un aplustre greco, viene trafitto nello stesso momento alla schiena e al petto: i due dardi si urtano al centro del corpo ed il sangue non sa da quale ferita uscire, finché un abbondante fiotto non spinge fuori entrambe le aste e spezza la sua vita, diffondendo la morte nelle ferite.
Qui guida la sua nave anche l'infelice Telone: nessuna mano più della sua è abile nel guidare le navi, quando il mare è sconvolto, e nessuno è più esperto di lui nel prevedere il tempo dell'indomani, sia che egli osservi il sole o i corni della luna, sì da sistemare le vele in relazione ai venti che soffieranno. Costui aveva infranto con il rostro la struttura di un'imbarcazione romana, ma viene trafitto in mezzo al petto da dardi vibranti e la mano del pilota moribondo fa cambiare rotta alla nave. Mentre Giàreo tenta di arrampicarsi sulla poppa alleata, viene colpito nei fianchi a mezz'aria e, trattenuto dal ferro, rimane, inchiodato allo scafo, a penzolare nel vuoto.
V'erano anche due fratelli gemelli, motivo di vanto di una madre prolifica, generati dalla stessa matrice per destini dissimili: la morte atroce li differenziò e gli infelici genitori, eliminata ogni possibilità di errore, riconobbero l'unico superstite, causa di pianto ininterrotto: egli infatti mantiene sempre vivo il dolore ed offre ai genitori affranti l'immagine e il ricordo del fratello perduto. Allorché i remi si intrecciarono fra loro come i denti obliqui di un pettine, uno dei due fratelli ebbe l'ardire di aggrapparsi con una mano, da una nave greca, a un'imbarcazione romana; essa gli venne però troncata da un pesante colpo: purtuttavia, per lo sforzo che aveva compiuto per afferrarsi, la mano rimase attaccata e, morta, si irrigidì per i nervi contratti senza lasciare la presa. Nella sventura si accrebbe il suo valore: pur con la mano mozzata si accese di nobile ira e riprese a combattere con la forte sinistra, protendendosi sul mare per afferrare la destra: ma anche l'altra gli venne troncata insieme con il braccio. Ormai senza più scudo e dardi, non volle celarsi nella parte più riposta della nave, ma si espose ai colpi e, facendo scudo con il petto scoperto alle armi del fratello, venne trafitto da numerose punte: continuò a resistere e, ormai moribondo, bloccava i dardi che avrebbero mietuto grande strage fra i suoi compagni. Allora concentrò nelle membra esauste la vita che stava fuggendo dalle numerose ferite, irrigidì i muscoli con tutto il sangue superstite e, con i nervi ormai senza forza, balzò sulla nave nemica per arrecarle danno con la sola massa del corpo. L'imbarcazione, appesantita dai cadaveri dei combattenti e carica di una gran quantità di sangue, subì colpi frequenti sui fianchi obliqui e, dopo aver imbarcato acqua attraverso le falle, sommersa fino alla sommità della tolda, colò a picco trascinando con sé i flutti vicini in un gorgo vorticoso: il mare si spalancò, aperto dalla nave che si inabissava, e le acque tornarono a distendersi là dove prima c'era il vascello.
Quel giorno offrì al mare numerosi, strabilianti casi di morti diverse. Un arpione, mentre ghermiva con gli uncini spietati una nave, afferrò Lìcida, che sarebbe stato sommerso nel profondo, se i compagni non l'avessero impedito, trattenendolo per le gambe. Egli, strappato, si lacerò in due parti, né il sangue sgorgò lento, come avviene per una ferita: infrante le vene, esso si riversò da ogni parte e il flusso vitale che attraversa le membra si perse nell'acqua. La vita di nessun combattente ucciso fuoriuscì attraverso una via così larga: la parte inferiore del tronco diede alla morte membra senza più organi vitali; ma, là dove si gonfiano i polmoni e palpitano le viscere, il fato ebbe maggiori esitazioni e, dopo una lunga lotta con questa parte del corpo, riuscì a stento a far morire tutte le membra di quel soldato.
Una nave - mentre i suoi combattenti, trascinati dall'impeto della lotta, si precipitavano da una parte, facendola inclinare e lasciando vuota la parte che non fronteggiava i nemici - a causa del peso raccolto in un solo punto, si rovesciò e con lo scafo coprì il mare e l'equipaggio, che, non avendo la possibilità di muovere le braccia nel profondo, annegò imprigionato nell'acqua. Allora si assistette ad uno spettacolo unico di morte spaventosa, allorquando due navi trafissero con i loro rostri un giovane che stava nuotando: il petto si aprì nel mezzo a quei colpi così brutali e, frantumatesi le ossa, le membra non riuscirono ad impedire che i bronzi rimbombassero: schiacciato il ventre, dalla bocca vennero fuori le viscere miste a bava e a sangue. Dopo che le navi, facendo forza sui remi, si fermarono e riuscirono ad allontanare i rostri, il corpo, precipitato tra le onde con il petto trafitto, lasciò passare l'acqua attraverso le ferite. La maggior parte di un equipaggio che era naufragata, lottando a lungo con la morte a forza di braccia, nuotava verso una nave alleata per ricevere aiuto; ma - mentre si afferravano in alto con le braccia ai bordi dell'imbarcazione, nonostante la ciurma cercasse di impedirlo e mentre la nave oscillava e sarebbe affondata, se avesse accolto altre persone - vennero colpiti dagli sciagurati compagni sulle braccia e piombarono giù, separati dalle loro mani, lasciando penzolare le braccia da una nave greca: i flutti non riuscirono a far galleggiare ulteriormente i tronchi pesanti.
Ed ormai il furore aveva apprestato nuove armi ai soldati, che, avendo scagliato quelle di cui erano in possesso, ne erano rimasti privi: uno lanciò un remo contro i nemici, altri addirittura, con braccia robuste, un aplustre completo e, spinti da una parte i rematori, strapparono i banchi e ne rotearono i pezzi: fracassarono le navi per il combattimento. Trattennero i cadaveri degli uccisi, che stavano andando a picco, strappando loro i dardi che li avevano colpiti. Molti, rimasti senz'armi, dettero di piglio alla freccia, che li aveva mortalmente colpiti, la svelsero dalla ferita e premettero le viscere con la sinistra, in modo che il sangue consentisse ancora ad essi di infliggere colpi efficaci e potesse poi fuoriuscire solo nel momento in cui avessero rilanciato l'asta nemica.
Nulla tuttavia arrecò maggior danno, in questo scontro navale, del disastro provocato dal fattore opposto. Infatti il fuoco, acceso da torce estremamente infiammabili e alimentato dallo zolfo sparsovi sopra, si diffuse rapidamente: per di più, le imbarcazioni offrirono facilmente alimento alle fiamme che le divorarono, agevolate ora dalla pece, ora della cera liquefatta. Né i flutti riescono ad aver ragione degli incendi ed il fuoco consuma ferocemente i frammenti delle navi sparsi sul mare. Uno imbarca acqua per poter spegnere così le fiamme, altri, per non farsi sommergere, si abbrancano a rottami che bruciano: fra tanti tipi di morte, il solo che li sgomenta è quello, con cui cominciano a morire. Ma si manifesta anche il valore dei naufraghi: essi raccolgono i dardi gettati in acqua, li passano alle navi e muovono faticosamente le mani tra i flutti, cercando di vibrare qualche debole colpo. E, se rimangono privi di armi, utilizzano il mare: il nemico si aggrappa crudelmente al nemico e gioisce nel trascinarlo, dopo averlo immobilizzato, a fondo con sé. In quello scontro navale si trovava anche un focese, bravissimo nel trattenere il fiato sott'acqua, nell'osservazione del fondo, se qualcosa fosse andata a picco, e nel togliere la presa troppo tenace dell'ancora, tutte le volte che non si riusciva a tirarla su, pur tendendo al massimo la fune. Costui, quando riusciva a trascinar giù a fondo un nemico dopo averlo afferrato, tornava poi a galla sano e salvo: ma, mentre è convinto di riemergere attraverso onde sgombre, va ad urtare contro uno scafo e rimane così, alla fine, sott'acqua. Altri si afferrano con le braccia ai remi nemici e trattengono la fuga delle navi. Si pone la massima attenzione nel non sprecare la propria morte: molti offrono i loro corpi feriti alle navi ed annullano l'efficacia degli urti dei rostri.
Il fromboliere Lìgdamo scagliò, con una fionda balearica, una palla contro Tirreno, che stava ritto sulla sommità della prua, e con il duro piombo gli sconquassò le cave tempie. Gli occhi, spinti via dalle loro sedi naturali, dopo che il sangue ebbe spezzato tutte le connessioni, schizzarono fuori: egli rimase in piedi, sbigottito che la luce gli fosse stata improvvisamente sottratta, e ritenne che quello fosse il buio della morte; ma, quando si accorse che il vigore pervadeva ancora le sue membra, esclamò: «O compagni, così come siete abituati a fare con le macchine da guerra, sistematemi in posizione eretta, in modo che anch'io possa scagliare dardi. Utilizza, o Tirreno, fin l'ultimo tuo respiro per qualsiasi evento bellico tu debba affrontare. Questo tuo corpo, che è ormai quasi un cadavere, può offrire un grande vantaggio nella lotta: sarà colpito in luogo di un combattente vivo». Dopo aver così parlato vibrò contro i nemici dardi - pur senza vedere - ma non per questo inefficaci. Essi infatti centrarono, tra il basso ventre e i genitali, Argo, giovane di nobile discendenza, il quale, stramazzando, fece penetrare, con il peso del corpo, ancor più dentro il ferro. Nel settore opposto della nave ormai conquistata si trovava il misero padre di Argo, che, quand'era giovane, non sarebbe arretrato in battaglia di fronte a nessun focese: poi la sua forza, vinta dall'età, era scemata ed egli, esausto per la vecchiezza, era allora un simbolo, ma non un combattente. Costui, scorto l'atroce spettacolo, si trascinò, con frequenti cadute, attraverso i banchi del lungo scafo e giunse a poppa presso il figlio che ancora respirava. Non gli scorsero lacrime giù per le guance, non si percosse il petto, ma si irrigidì nell'intero corpo, distendendo le braccia: calò la notte e tenebre infinite avvolsero i suoi occhi e, per quanto cercasse di distinguerlo, non riuscì più a vedere l'infelice Argo. Questi, scorto il padre, sollevò il capo incerto e il collo, che non ce la faceva a star dritto: aprì la bocca, ma non fu in grado di emettere alcun suono; chiese soltanto baci con il volto silenzioso e fece cenno alla mano del padre, affinché questi gli chiudesse gli occhi. Non appena il vecchio si liberò dal torpore che lo aveva invaso e il dolore crudele riprese energia, disse: «Non sprecherò il tempo concessomi dagli dèi spietati: mi trapasserò questa gola da vecchio. Perdona, o Argo, l'infelice genitore per aver fuggito il tuo abbraccio e i tuoi ultimi baci. Il caldo sangue non è ancora fuoriuscito interamente dalle tue ferite: giaci tra la vita e la morte e puoi ancora sopravvivermi». Così disse e, nonostante avesse coperto di sangue fino all'elsa la spada con cui si era inferto un colpo nelle viscere, si lanciò con un balzo nel mare profondo: non volle affidare ad un'unica morte lo spirito bramoso di precedere la fine del figlio.
Ormai i fati dei condottieri prendono una piega ben precisa e l'incertezza della guerra non è più tale. La maggior parte della flotta greca è affondata, mentre altre navi, cambiato equipaggio, trasportano i propri vincitori; soltanto poche riescono a riguadagnare, con una fuga precipitosa, gli arsenali. Come risuonò nella città il pianto dei genitori! come si batterono il petto sulla riva le madri! Spesso una moglie credette di ravvisare i lineamenti del marito nei volti alterati dall'acqua ed abbracciò un cadavere romano e presso le pire già accese gli infelici padri lottarono per un corpo mutilato: ma Bruto, vincitore dello scontro navale, fu colui che assegnò all'esercito di Cesare il titolo della prima vittoria sul mare.

LIBRO QUARTO


Nel frattempo Cesare, lontano, nelle estreme lande della terra, aizzava crudelmente una guerra che non mieteva molte vittime, ma che era destinata a segnare momenti fondamentali nel destino dei condottieri. Afranio e Petreio si dividevano equamente la direzione delle truppe pompeiane: essi si avvicendavano concordemente nel comando e, nella difesa del terrapieno, i gruppi di guardia obbedivano agli ordini, alternantisi, dell'uno e dell'altro. Oltre a schiere latine, nell'esercito erano inquadrati gli zelanti Asturi, gli agili Vettòni e i Celti, che, separatisi dall'antica stirpe dei Galli, mescolavano il loro nome con quello degli Ibèri.
Un terreno fecondo dà luogo a un colle non alto e si innalza in un leggero pendio: lì si trova Ilerda, città di antica fondazione; dinanzi ad essa scorre con corso tranquillo il Sìcori, non ultimo dei fiumi occidentali: tra le sue rive è gettato un ponte di pietra con una grande arcata, che è sempre pronto ad affrontare le onde invernali. L'altura vicina è occupata dalle truppe di Pompeo, mentre Cesare pone l'accampamento su un colle non meno alto: il fiume divide al centro i due campi opposti. Da un lato si allarga la pianura estendentesi per vastissimo tratto, che a stento lo sguardo riesce ad abbracciare e che tu delimiti, o Cinga rapinoso, alle cui acque non è concesso di urtare i flutti e le rive dell'Oceano: l'Ibèro infatti, che domina su queste terre, mescola le sue acque con le tue e ti toglie il nome.
Il primo giorno di guerra non provocò spargimento di sangue, ma fece mostra delle forze dei condottieri e delle loro svariate insegne. Il delitto fu motivo di dispiacere: la vergogna trattenne le armi dei contendenti impazziti ed essi donarono alla patria e alle leggi infrante un solo giorno. Cesare però, al calar della notte, circondò improvvisamente le schiere con un fossato e, mentre le avanguardie rimanevano ferme, egli ingannò i nemici stendendo intorno all'accampamento una fitta successione di manipoli. Al sorgere del nuovo giorno impartì l'ordine di salire, con un assalto improvviso, sul colle, che, trovandosi in mezzo, separava la sicura Ilerda dall'accampamento. Verso il colle stesso il terrore e la vergogna incitarono in egual misura i nemici, i quali per primi, con una rapida avanzata, conquistarono l'altura. Alle truppe di Cesare il luogo appare promesso dal valore e dalle armi, a quelle di Pompeo dal fatto di averlo già occupato. I soldati cesariani, appesantiti dalle armi, si inerpicano sulle alte rupi e vi si attaccano, dal momento che vengono a trovarsi come in posizione rovesciata: rovinerebbero all'indietro, se non fossero sostenuti dagli scudi dei compagni che li seguono. Nessuno ha la possibilità di scagliare un dardo: mentre stanno per cadere e cercano di rimanere in piedi appoggiandosi ai giavellotti infissi in terra, mentre si afferrano alle rocce e alle piante, trascurano i nemici e cercano di aprirsi un varco con le spade. Cesare scorge le sue truppe che stanno per rovinare in basso: comanda allora alla cavalleria di assalire in forze e, avanzando in circolo verso sinistra, di porsi a protezione dei fianchi. Così i fanti possono ritirarsi facilmente senza che alcuno li incalzi e il vincitore, non avendo la possibilità di combattere, rimane inutilmente abbarbicato in alto.
Fino a quel momento le armi erano state l'elemento risolutivo: gli altri eventi della guerra furono determinati dal tempo malsicuro e dai suoi diversi mutamenti. La stagione invernale, costretta dal torpido gelo e dagli asciutti aquiloni, addensava l'aria e tratteneva le piogge nelle nubi: le nevi bruciavano i monti e lo stesso avveniva sui vasti campi ad opera della brina, che normalmente si scioglie non appena compare il sole: tutta la terra confinante con l'orizzonte, dove si immergono gli astri, si era disseccata e indurita a causa del sereno dell'inverno. Ma, dopoché il primaverile Ariete - che trasportò Elle caduta -, volgendosi indietro a contemplare gli astri, accolse il calore del sole e - equivalendosi nuovamente i periodi con le bilance della giusta Libra - i giorni cominciarono ad allungarsi, allora la luna, allontanatasi dal sole, non appena risplendette con il corno che si scorgeva a malapena, espulse il borea e fiammeggiò al soffio dell'euro. Questo vento spostò verso Occidente, spirando dalla regione dei Nabatèi, tutte le nubi che incontrò nella zona del cielo in cui soffiava e tutte le nebbie che aduggiano gli Arabi, quelle esalate dalla regione del Gange, quelle che si raccolgono fino al primo sorgere del sole, quelle che aveva sospinto il coro, quando oscura il cielo d'Oriente, e quelle che si erano distese sugli Indiani. Le nubi, rimosse dal cielo orientale, incendiarono l'aria e non furono in grado di premere opprimentemente sulla parte centrale del mondo, ma vennero trascinate via in fretta dall'euro con la loro umidità: la zona settentrionale e quella meridionale rimasero prive di pioggia e l'aria umida si raccolse sulla sola Calpe. Qui, fin dove giunge lo zefiro e dove l'alta volta del cielo racchiude il mare, le nubi, non avendo la possibilità di procedere oltre, si ammassarono in fitti cumuli e lo spazio, che si trova fra la terra e il cielo, a stento riuscì ad accogliere, saturo come era, tanta aria fosca. Ed ormai esse, premute dal cielo, si raccolsero in piogge copiose, che si riversarono molto fittamente; ed i fulmini non riuscirono a salvaguardare il loro fuoco, nonostante brillassero con frequenza: la pioggia spegneva la fiamma delle folgori. Successivamente l'arcobaleno circondò il cielo con un circolo incompleto, senza che si riuscisse a distinguerne i colori, a causa della loro insufficiente lucentezza e, bevendo le onde dell'Oceano, ne afferrava i flutti innalzandoli fino alle nubi, restituendo così l'acqua che era caduta dal cielo. Ed ormai le nevi dei Pirenei, che il sole non era mai stato in grado di far sciogliere, fluirono via e le rocce, infranto il gelo, si inumidirono; allora il flusso delle correnti, che nasceva dalle fonti consuete, non si incanalò nei soliti sentieri: una così grande abbondanza d'acqua rifluì dalle sponde nel letto dei fiumi. Già l'esercito di Cesare nuotava naufrago nella pianura e l'accampamento oscillava sotto la spinta dell'abbondanza delle acque: grandi pozze si erano formate nell'alto terrapieno. Disagevole allora divenne razziare il bestiame e i solchi sommersi non offrirono più alimento: i soldati, sparsisi a saccheggiare sui campi nascosti dall'acqua, si smarrirono nei meandri dei sentieri allagati. Ed ormai la fame crudele, che è da sempre la prima compagna delle grandi sventure, incalzava e i soldati si trovavano in una situazione di disagio, pur senza nemici che li assediassero: ed essi, che non erano certo prodighi, spesero tutto il denaro che avevano per comprare un po' di pane. Oh, corruzione del guadagno che rende pallidi: ci furon di quelli che non mangiarono, pur di vendere il grano in cambio dell'oro! Già le alture e le colline scompaiono, ormai un'unica palude ricopre tutti i fiumi e li sommerge in un'immane voragine, risucchia profondamente le rocce, trascina con sé le tane delle fiere, ingoia le belve stesse e con improvvisi vortici sconvolge le acque turbinanti e, più violenta dell'Oceano, ne rigetta i flutti. Né la notte sotto la volta stellata riesce a percepire il sorgere del sole: l'orrendo aspetto del cielo e le tenebre senza fine sconvolgono i contorni delle cose. Così giace la zona più bassa della terra, su cui incombono le nevi ed inverni perenni: essa non scorge astri nel cielo, non genera nulla, attanagliata dal freddo infecondo, ma con i suoi ghiacci modera il caldo torrido delle costellazioni della zona centrale. Così stabilisci, o sommo fattore del mondo, così decidi, o Nettuno, che per sorte occupi il secondo posto e che reggi il tridente marino: tu ammassa nell'aria nembi sempre gravidi di pioggia e tu impedisci il ritorno di tutti i flutti che hai scatenato. I fiumi non scorrano più in basso verso il mare, ma siano rimandati indietro dalle sue onde e la terra sconvolta venga sommersa dalle acque: il Reno e il Rodano inondino queste pianure, i fiumi allontanino dal corso usuale le loro onde: dissolvi in questa direzione le nevi rifèe, riversa qui tutti gli stagni, i laghi e le paludi esistenti e sottrai queste misere terre al conflitto civile.
Ma la Fortuna, lieta per il piccolo timore che era riuscita ad incutere al condottiero, tornò ad essergli completamente propizia e gli dèi gli dimostrarono, più del solito, il loro favore, meritandone il perdono. Ormai l'aria era divenuta più rarefatta, il sole, dominando le piogge, aveva ridotto in fiocchi le fitte nubi, le notti fiammeggiarono all'avvicinarsi del giorno, l'umidità si ritirò nel suo luogo naturale, allontanandosi dagli astri, e tutta l'acqua sospesa in aria si diresse verso il basso. Le selve cominciarono a risollevare le chiome, i colli a riemergere dagli stagni e le valli, sotto la luce del sole, ad indurirsi. Non appena il Sìcori riebbe le sue rive e abbandonò i campi, per prima cosa, inumiditi dei virgulti di salice color argento, li intrecciarono insieme e ne fecero piccole imbarcazioni, le quali, con un rivestimento di pelli di giovenchi e in grado di trasportare passeggeri, balzarono sulle acque gonfie. Così i Veneti navigano sul Po che ristagna e i Britanni sugli acquitrini dell'Oceano; così, quando il Nilo occupa ogni cosa, a Menfi si utilizza il papiro, che vive nell'acqua, per farne piccole imbarcazioni. Una schiera di soldati, fatta passare su questi battelli, lavorò alacremente a tagliare tronchi e a piegarli da tutte e due le parti; temendo però l'aumento del livello del fiume violento, non sistemò le strutture del ponte proprio sulle sponde, ma le fece giungere fin in mezzo ai campi. E, affinché il Sìcori non avesse l'ardire di provocare una nuova inondazione, il fiume venne dirottato in canali diversi e, dispersa così la sua corrente in piccoli corsi d'acqua, esso pagò la colpa del suo straripamento. Allorché Petreio vide che tutto procedeva secondo il destino di Cesare, abbandonò l'alta Ilerda e non fece più affidamento sulle forze del mondo conosciuto, ma andò alla ricerca - dirigendosi verso le estreme zone della terra - di popolazioni non ancora sottomesse e, feroci per amore della morte, sempre disposte a combattere.
Cesare, scorgendo i colli deserti e l'accampamento vuoto, comanda di dar di piglio alle armi e di non utilizzare ponti o guadi, ma di attraversare il fiume a forza di braccia. I soldati obbediscono e si precipitano di corsa al combattimento su quelle strade, da cui si sarebbero tenuti lontani anche in caso di fuga. Subito dopo, impugnate nuovamente le armi, rifocillano il corpo bagnato e riacquistano la mobilità degli arti quasi congelati con una marcia veloce, finché l'ombra diminuisce, mentre il giorno giunge al suo punto centrale. Ed ormai la cavalleria incalza la retroguardia, che non sa se fuggire o affrontare il combattimento.
Nella pianura due rupi innalzano gioghi rocciosi, incavati al centro da una valle; alle sue spalle il terreno si innalza dando luogo ad alture eminenti, tra cui si trovano, ben nascosti in anfratti ombrosi, sentieri sicuri. Cesare è ben consapevole che, qualora i nemici avessero occupato queste gole, la lotta avrebbe deviato verso luoghi inattaccabili e tra popoli feroci; perciò così parla: «Procedete senza uno schieramento preordinato e rinfocolate il combattimento interrotto dalla fuga; fate mostra dei vostri volti minacciosi - espressione della guerra - e non sia consentito a quei vigliacchi soccombere con una morte vile: ricevano dritto nel petto il ferro, anche se fuggono». Dopo aver detto queste parole, prevenne i nemici, che si stavano dirigendo verso le alture. Lì piantarono gli accampamenti molto vicini fra loro e divisi da un sottile terrapieno. Allorquando - dal momento che, data la distanza pressoché inesistente, potevano osservare agevolmente - scorsero con chiarezza e contemplarono vicendevolmente i volti [e lì videro i fratelli, i figli e i padri], compresero l'orrore e l'empietà del conflitto civile. Per breve tempo non parlarono, limitandosi a salutare i propri parenti con cenni o facendo segno con le spade; poi, non appena l'amore non fece tenere in alcun conto gli ordini ricevuti (dal momento che esso divampò per sollecitazioni ben maggiori), i soldati osarono passare al di là della trincea, spalancando le braccia per stringere a sé i nemici. Uno urla il nome dell'ospite, un altro quello del parente, altri ancora, coetanei, ricordano gli interessi comuni di quando erano ragazzi: e chi non aveva riconosciuto neanche un nemico, non doveva essere certo un Romano. Inumidiscono di lacrime le armi, spezzano i baci con i singhiozzi e, nonostante i combattenti non si siano ancora macchiati di sangue, sono presi dal terrore, pensando a quel che avrebbero potuto compiere. Perché ti percuoti il petto, o dissennato, perché ti lamenti? Perché spargi pianti inutili e non ammetti che obbedisci al delitto di tua spontanea volontà? Fino a questo punto hai paura di quello che tu stesso rendi temibile? Cesare dia pure il segnale del combattimento: tu non obbedire a quel crudele richiamo; levi pure le insegne: tu rimani fermo; così la discordia civile scomparirà e Cesare, divenuto privato cittadino, proverà affetto per il genero.
Ora avvicinati, o Concordia, tu che abbracci ogni cosa con un vincolo eterno, o salvezza delle cose e dell'universo intero e amore divino del mondo: ora la nostra generazione ha il grande potere di decidere del futuro. Scompaiono gli schermi di tante scelleratezze, il popolo, se si renderà colpevole, non avrà più alcuna giustificazione: hanno riconosciuto i loro parenti. O volontà sinistra del destino: per un brevissimo momento di tregua, dai forza a stragi sì spaventose!
Dominava la pace e i soldati si aggiravano, mescolandosi agli altri, nei due accampamenti; sulla dura terra apprestavano tavole comuni e comuni libagioni; rilussero fuochi appiccati con l'erba secca e, accostati i giacigli, prolungarono, raccontandosi le guerre, le notti insonni, in quale pianura avevano piantato le tende per la prima volta, con quale forza era stata scagliata l'asta. Mentre ostentavano le loro imprese e rigettavano l'accusa di scelleratezza - dal momento che la colpa di tutto ricadeva unicamente sul fato -, gli infelici ribadivano i loro giuramenti ed ingigantivano con il loro amore ogni futura empietà. Infatti Petreio, quando venne a conoscenza del patto di pace e considerò venduti sé e i suoi, eccitò al combattimento delittuoso gli schiavi e, circondato da quella schiera scellerata, gettò fuori dall'accampamento i nemici disarmati, divise con il ferro i parenti stretti nell'abbraccio e infranse la pace con grande spargimento di sangue. Un'ira feroce gli dettò parole destinate a rinfocolare la lotta: «O soldati dimentichi della patria e delle vostre insegne, voi certo non potete offrire questo alla vostra causa, di tornare ad essere, cioè, sconfitto Cesare, sostenitori del Senato: ma senza dubbio potete essere vinti. Finché non verranno meno le armi e l'incertezza del destino e il sangue che sgorgherà da molte ferite, vi precipiterete verso un padrone e sosterrete insegne, che un tempo avete maledetto? E Cesare dovrà essere implorato da voi affinché vi abbia tra i suoi schiavi, senza che vi sia alcuna differenza? Avete supplicato la vita anche per i condottieri? Giammai la nostra salvezza costituirà il prezzo di un empio tradimento: la guerra civile non si propone certo l'obiettivo di tenerci in vita. Siamo attratti dall'espressione "pace": i popoli non estrarrebbero l'acciaio, che si cela profondamente nelle viscere della terra, nessun muro proteggerebbe le città fortificate, i destrieri non incederebbero fieramente alla pugna, le flotte non avanzerebbero a disseminare sulle acque i vascelli turriti, se fosse possibile in qualche modo ottenere con onore la libertà in luogo della pace. Ecco, i miei nemici sono vincolati dal giuramento ad un empio delitto: voi invece tenete in non cale la vostra lealtà, dal momento che, pur combattendo per una causa giusta, osate sperare anche il perdono. Orrenda morte del pudore! Ora, o Grande, inconsapevole del destino, appresti schiere in tutto quanto il mondo e spingi alla lotta i re che dominano sugli estremi lembi della terra, mentre forse con il nostro accordo ti è già stata assicurata la salvezza». Con queste parole sconvolse gli animi di tutti e riattizzò l'entusiasmo per il delitto. Così le bestie feroci, non più abituate alle selve, rinchiuse nelle gabbie, divengono mansuete e depongono l'espressione minacciosa del volto, imparando a sottomettersi all'uomo: ma se un po' di sangue giunge fino alle loro bocche ardenti, ecco che ritornano la rabbia e il furore e le loro fauci, che hanno ripreso confidenza con il gusto del sangue, si gonfiano, mentre la loro ira esplode e a stento riesce a trattenersi dal colpire il domatore impaurito. I combattenti allora procedono in ogni nefandezza e quegli atti mostruosi, che la fortuna avrebbe provocato per la malevolenza degli dèi nella notte cieca della guerra, li commise la fedeltà: tra le mense e i letti trafiggono i petti, che poco prima avevano riscaldato con il loro abbraccio e, sebbene in un primo momento avessero dato di piglio alla spada con gemiti, non appena sentono il ferro, nemico della giustizia, impugnato saldamente nella destra, odiano i loro parenti e amici, mentre feriscono e rafforzano con i colpi gli animi che vacillano. E già l'accampamento ribolle per il tumulto [e, nell'orrida mescolanza di scelleratezze, mozzano le teste dei padri] e, come se il delitto perpetrato di nascosto non avesse valore, esibiscono ogni tipo di mostruosità sotto lo sguardo dei capi: si rallegrano di macchiarsi di quelle atrocità.
Tu, o Cesare, per quanto privato di molti soldati, riconosci la benevolenza dei numi: infatti la fortuna non ti fu più favorevole nei campi tessalici, né sul mare della focese Marsiglia, né conseguisti una vittoria così grande sui flutti egiziani, se è vero che, per questo solo crimine della guerra civile ad opera dei tuoi avversari, tu sarai il condottiero della causa più giusta.
I capi non osarono far rimanere in accampamenti tanto vicini le schiere, che si erano macchiate di uccisioni così empie, e indirizzarono di nuovo la fuga verso le mura dell'alta Ilerda. La cavalleria, avviandosi loro contro, tolse ogni possibilità di dirigersi verso la pianura e chiuse i nemici sulle aride alture. Allora Cesare arse dal desiderio di circondare gli avversari, privi d'acqua, con un fossato scosceso e di non consentire che l'accampamento fosse prossimo alle sponde o che le mura di fortificazione contenessero dentro di sé sorgenti abbondanti.
Quando videro di essere ormai avviati alla morte, la paura si cambiò in un'ira impetuosa. I soldati scannarono i cavalli, che non erano di alcun aiuto per gli assediati, ed infine, costretti a non fare più alcun affidamento sulla fuga, abbandonata ogni speranza, si lanciarono sui nemici, pronti a morire. Cesare, allorché li scorse precipitarsi in basso senza alcun ordine e correre votati a morte sicura, esclamò: «Ormai non scagliate i dardi, o soldati, contro i nemici che vengono all'assalto: la guerra non abbia per me nessuno spargimento di sangue. Non si vince impunemente chi presenta la gola al nemico: ecco, questi giovani che non fanno alcun conto di sé e disprezzano la vita, moriranno arrecandoci danno: non sentiranno i colpi ricevuti, si lanceranno sulle spade, godranno del sangue versato. Abbandoni questa foga i loro animi, venga meno questo ardore stolto, essi non abbiano più la volontà di morire». Così, senza accettare la lotta, fece sì che il loro impeto minaccioso ribollisse invano e che si placassero, finché la notte fece apparire le sue stelle in luogo del sole tramontato. Poi, quando non ci fu più alcuna possibilità di scontro e di morte, l'ira feroce a poco a poco scomparve e gli animi si raffreddarono, come in un petto ferito ferve un furore adirato, mentre è ancora recente il dolore del colpo ricevuto e il caldo sangue offre ai nervi possibilità di movimento e la pelle non si è ancora raggrinzita sulle ossa: se il vincitore, conscio del colpo andato a segno, sta in piedi e trattiene la mano, allora un freddo torpore avvince le membra e lo spirito, sottraendo ogni energia, dopo che il sangue, seccandosi, ha rimarginato le ferite.
Ormai senz'acqua, per prima cosa scavano nel terreno alla ricerca di vene nascoste e di linfe occulte e lavorano non solo con rastrelli e dure zappe, ma anche con la spada e cercano di ricavare un pozzo, che dal colle giunga, con una trivellazione, fino al livello della pianura ricca d'acqua: non così in profondità e lontano dalla luce potrebbe affondare nelle viscere della terra il pallido ricercatore dell'oro asturiano. Ma, nonostante tutto questo, non si riuscì a percepire il suono di nessun corso d'acqua sotterraneo né zampillarono nuove sorgenti dalla roccia percossa, né grotte trasudarono rugiada, pure in piccola quantità, né la ghiaia venne scossa da una vena d'acqua anche lieve. Allora furono tirati fuori dall'alto i giovani, spossati per il molto sudore e lasciatisi andare esausti sulle dure pietre, e voi, acque cercate invano, faceste in modo che essi fossero insofferenti del vapore secco. E, stanchissimi, non rifocillarono i corpi indeboliti con il cibo, ma preferirono digiunare, traendone giovamento. Se un campo più molle sembra possa fornire un po' di umidità, con ambedue le mani spremono sulla bocca le pingui zolle; se ristagna una pozza torbida di fango, i soldati vi si gettano sopra, per bervi oscenamente a gara e, moribondi, tracannano acqua, che avrebbero rifiutato da vivi; a mo' di bestie asciugano le mammelle tese degli animali e, quando non c'è più latte, succhiano dai seni esausti sangue ributtante. Allora tritano erbe e foglie, afferrano rami roridi di rugiada e ne tiran fuori, se ve ne sono, succhi spremendo i non ancora maturi virgulti dell'albero o la tenera fibra. O fortunati coloro, che un barbaro nemico in fuga annientò nei campi, mescolando veleno alle sorgenti: anche se tu, o Cesare, versassi palesemente nei fiumi marciume decomposto di bestiame o il pallido aconìto, che nasce sulle rupi dittèe, i giovani romani, pur sapendolo, tracannerebbero quell'acqua. Le viscere sono bruciate come dal fuoco e le bocche si irrigidiscono secche ed aspre per la lingua, che è coperta di squame; già le vene divengono marce, i polmoni, non vivificati più da alcuna linfa, restringono gli alterni passaggi dell'aria e una dolorosa respirazione strazia il palato coperto di piaghe: nonostante tutto, spalancano la bocca ed aspirano con voluttà l'aria notturna. Attendono le piogge, che poco prima avevano inondato ogni cosa, e non distolgono lo sguardo dalle nuvole prive d'acqua. E perché la mancanza di linfa prostri ancora di più quegli infelici, si aggiunga il fatto che essi non sono accampati sopra l'arida Mèroe o sotto il cielo del Cancro, dove i Garamànti arano nudi, ma, costretto fra lo stagnante Sìcori ed il vorticoso Ibèro, l'esercito, in preda alla sete, osserva i fiumi vicini.
I condottieri, ormai vinti, desistettero e Afranio, che aveva preso l'iniziativa della pace, condannate le armi, si fermò supplice ai piedi del vincitore, guidando nell'accampamento nemico le sue schiere più morte che vive. Pur pregando mantenne la dignità, non infranta dalle sciagure, e, ripensando alla sua fortuna di prima e all'attuale situazione, ebbe in tutto l'aspetto di un vinto sì, ma di un capo, e chiese mercé senza paura: «Se il destino mi avesse atterrato sotto un avversario indegno, la mia forte destra non si sarebbe certo sottratta ad infliggermi la morte: ma adesso il solo motivo che mi spinge ad impetrare la salvezza, è di reputarti degno, o Cesare, di donarci la vita. Non siamo trascinati da spirito di parte né abbiamo impugnato le armi perché avversassimo le tue intenzioni: il conflitto civile ci trovò al comando di soldati, e, finché ce ne fu la possibilità, siamo rimasti fedeli alla causa originaria. Non vogliamo essere d'impaccio al corso del destino: ti offriamo le popolazioni dell'Occidente, ti apriamo la via verso quelle orientali e faremo in modo che tu non debba preoccuparti del mondo, che ti lasci alle spalle. La guerra per te non è stata risolta né dal sangue versato sui campi né dalle armi né dalle tue schiere esauste: ai tuoi nemici perdona la sola colpa di averti fatto vincere. Non si chiedono grandi cose: concedi tranquillità a loro stanchi, fa' in modo che possano trascorrere lontani dalle armi la vita che tu offri ad essi. Considera che le nostre truppe giacciano annientate sui campi; non è infatti dignitoso che le schiere sconfitte si mescolino con quelle fortunate e che i prigionieri prendano parte al tuo trionfo. Questa folla ha seguito fino in fondo il proprio destino. Ti preghiamo solo di questo: non costringerci, vinti, a vincere con te».
Così parlò; e Cesare, ben disposto e con volto tranquillo, venne incontro ai loro desideri e li esonerò da ogni vincolo di guerra e da ogni punizione. Non appena si fissaroro i patti di una pace equa, i soldati corsero giù verso i fiumi, che non erano più sorvegliati, piombarono sulle sponde e resero torbida l'acqua, non più proibita, bevendo a sazietà. Il fatto che tracannassero incessantemente liquido, senza neanche prender fiato, impedì che l'aria circolasse nelle vene vuote, bloccò e soffocò il respiro; e il male ardente non venne meno, continuando ad avere impellente bisogno di acqua, per quanto le viscere ne fossero già piene. Poco dopo tornarono la forza ai nervi e l'energia agli uomini. O lusso dissipatore mai pago di quel che si appresta con poco, o fame instancabile di cibi ricercati per terra e per mare e ostentazione di mense raffinate, imparate, quanto poco sia sufficiente a mantenere in vita e quanto poco la natura richieda: quei soldati in preda al morbo non si risollevano con un vino d'annata, sigillato al tempo di un console di cui non si ricorda più neanche il nome, e non bevono in tazze d'oro o di murra, ma tornano a vivere bevendo acqua pura: sono bastevoli per gli uomini un corso d'acqua e i doni di Cèrere.
Sciagurati quelli che devono combattere! Allora i soldati, dopo aver abbandonato le armi al vincitore, sicuri anche se con il petto indifeso, si sparsero nelle loro città, senza poter più nuocere e privi di preoccupazioni. Con il dono della pace, quanto si pentirono di aver lanciato dardi con la forza dei muscoli, di aver sopportato la sete e di aver impetrato inutilmente agli dèi battaglie favorevoli! Per quelli che sono adusi alla benevolenza di Marte rimangono tanti scontri incerti, tante fatiche da compiere in tutto il mondo: perché la fortuna non vacilli mai nella sua incostanza, bisogna vincere tutte le volte, bisogna versare sangue in ogni terra e bisogna tener dietro a Cesare attraverso le tante vicissitudini del suo destino. Fortunato colui che è in grado di conoscere, mentre l'universo squassato sta rovinando, il luogo in cui potrà posare. Non ci sono combattimenti che chiamino loro esausti, le trombe non interrompono i loro sogni tranquilli. Sono accolti dalla moglie e dai figli innocenti, dalla piccola e modesta casa e - non certo coloni costretti ad emigrare - dalla loro terra. Ed anche questo peso ha risparmiato ad essi, ormai senza più preoccupazioni, la Fortuna, il fatto cioè di non dover essere fautori di nessuno: questi ha concesso la salvezza, quello era stato il loro condottiero. Così, essi soli felici, osservano la guerra civile, senza augurarsi che vinca l'uno piuttosto che l'altro.
La Fortuna però non si dimostrò la stessa in tutto il mondo: essa infatti ebbe l'ardire di osare qualcosa nei confronti della fazione cesariana. Là dove l'onda dell'Adriatico percuote l'estesa Salona e il tiepido Iader fluisce verso i molli zefiri, Antonio, facendo affidamento sulla bellicosa popolazione dei Curicti, che erano stanziati in una zona circondata tutt'intorno dall'Adriatico, pone il campo sull'estremità del lido, al riparo dalle incursioni nemiche, a patto di non tener conto della fame, che è in grado di far capitolare anche i luoghi ben protetti. Il terreno non produce nutrimento per il pascolo dei cavalli e il biondo grano non offre alcuna messe: i soldati avevano tolto ogni erba ai campi e, dopo aver miseramente brucato la terra con i denti, avevano strappato le erbe secche dalle zolle dell'accampamento. Non appena scorgono sulla spiaggia della terra, che è loro di fronte, i compagni, con Bàsilo alla loro testa, tentano di escogitare un nuovo sistema per dileguarsi sul mare. Infatti non preparano imbarcazioni dalla lunga carena o dalle alte poppe, come si usava: legano invece insieme tronchi robusti e, per sostenerne il peso, adottano un accorgimento inusuale. La zattera si appoggia da ogni parte su botti vuote, che, assicurate in una ininterrotta successione con lunghe catene, sostengono ai due lati i tronchi sistemati trasversalmente; i rematori poi non si trovano esposti ai colpi sul ponte scoperto, ma percuotono le onde dall'interno, fra i tronchi, ed offrono il fenomeno di un procedere silenzioso, dal momento che non fanno uso delle vele e non battono l'acqua dall'esterno. Allora rimangono nello stretto, fino a quando la marea non provochi il ritiro delle onde e, per il loro riflusso, non venga allo scoperto la sabbia. Ed ormai, mentre il mare si ritira, riappaiono le spiagge: l'imbarcazione scivola velocemente verso l'alto mare, seguita da altre due consimili. Su tutte si innalza un'alta torre, mentre le impalcature lignee oscillano minacciosamente con i loro merli.
Ottavio, che era a guardia del mare di Illiria, non volle attaccare subito la zattera e tenne a freno le sue veloci imbarcazioni, finché la preda gli si potesse accrescere con una navigazione propizia e, senza intervenire, spinse verso l'alto mare quelli che sconsideratamente avevano preso il largo. Nello stesso modo il cacciatore - fino a quando non sia riuscito a bloccare i cervi terrorizzati, che hanno paura persino dell'aria che odora di penne, o non abbia sollevato le reti sui paletti già sistemati - trattiene le fauci abbaianti del veloce molosso e non lascia liberi i cani spartani e cretesi, consentendo che si slanci nella selva solo quello che, con il muso al suolo, fiuta le tracce e, individuata la preda, non abbaia, limitandosi ad indicare il nascondiglio della preda con lo scuotere il guinzaglio.
Sulle zattere, che si sono riempite rapidamente di soldati in preda all'ansia, essi abbandonano l'isola nell'ora in cui l'ultima luce riesce ancora a trattenere le prime tenebre della notte. Allora un soldato di Pompeo, proveniente dalla Cilìcia, appresta sul mare, con consumata esperienza, una trappola e, lasciando libera la superficie dell'acqua, sospende a una certa profondità delle catene, facendole fluttuare senza tenerle tese e le assicura agli scogli della costa illirica: la prima e la seconda zattera non si impigliano in quei cavi, la terza, invece, viene agganciata e trascinata dalle catene fino alle rocce. Scogli cavi incombono sul mare e, pur essendo sempre sul punto di crollare, rimangono prodigiosamente fermi ed ombreggiano, con i loro alberi, le acque sottostanti. Il mare trascina qui le imbarcazioni infrante dall'aquilone e i cadaveri degli annegati, celandoli in oscuri anfratti: i flutti nascosti restituiscono poi la preda e, allorquando le caverne vomitano nuovamente le acque, le onde, altissime e violente, superano con il loro ribollire la tauromenia Cariddi. Qui si bloccò l'imbarcazione, carica di coloni opitergini, che venne circondata da navi, che avevano lasciato i loro ormeggi, mentre altri soldati si affollarono sugli scogli e sul lido.
Vulteio, che era a capo della zattera, si accorse dell'agguato silenzioso sotto le onde e, dopo aver invano tentato di spezzare le catene con il ferro, affrontò, senza alcuna speranza, il combattimento, non sapendo da che parte offrire il petto e da che parte le spalle. Purtuttavia, in quella contingenza, il valore, anche se colto di sorpresa, realizzò quel che era in grado di compiere: migliaia di soldati si gettarono sulla nave bloccata, contro una sola coorte, e per di più incompleta; il combattimento ebbe però breve durata, dal momento che la notte soffocò con l'ombra la luce incerta e le tenebre imposero la pace.
Allora Vulteio rincuorò con nobili parole la coorte sbigottita e timorosa di quel che sarebbe avvenuto: «O giovani, abbiamo una sola notte di libertà, e per di più di scarsa durata: prendete, in così poco tempo, le decisioni estreme. Nessuno dispone di una vita breve, se in essa ha il tempo di scegliersi la morte, né inferiore è la gloria dell'olocausto supremo, o giovani, se affronterete con decisione il fato che incombe su di voi: dal momento che tutti gli uomini ignorano quel che li attende, è identico motivo di lode per l'animo sia perdere gli anni di vita sperati sia affrettare la fine nel momento estremo, purché sia la nostra iniziativa ad accelerare il destino: nessuno è costretto a voler morire. Non abbiamo alcuna possibilità di fuga, da ogni parte i nostri concittadini mirano alle nostre gole: decidete per la morte e ogni timore scomparirà: bramate quel che non potete evitare! Tuttavia non dobbiamo morire nella cieca nube della guerra o allorché i dardi avvolgono, oscurandole, le schiere che si sono scontrate; allora i cadaveri giacciono confusi sul terreno, la morte si perde nel mucchio e il valore, sommerso, scompare: noi, invece, gli dèi han posto in una nave, che è sotto gli occhi degli alleati e dei nemici: il mare fornirà testimoni, li fornirà la terra, li offrirà l'isola dalla cima delle rupi, ci osserveranno i due eserciti dai luoghi del lido in cui si trovano. Non so, o Fortuna, quale grande e memorabile esempio stai apprestando con la nostra morte. I nostri giovani sarebbero in grado di andare ben al di là di tutte quelle prove fornite con il ferro attraverso il tempo dalla lealtà e dal senso di sacrificio di combattenti. Ed infatti, o Cesare, siamo consapevoli che è ben poca cosa gettarsi per te sulle proprie spade: ma non rimangono a noi, assediati come siamo, possibilità maggiori per dimostrarti il nostro immenso affetto. La sorte invidiosa ha tolto non poco alla nostra gloria, dal momento che siamo circondati e siamo lontani dai nostri vecchi e dai nostri figli. Il nemico sappia però di aver di fronte eroi indomiti: tema perciò il nostro furore e gli animi pronti a morire e si rallegri del fatto che non sia stato bloccato un maggior numero di navi. I nostri avversari tenteranno di attirarci con patti e vorranno corromperci proponendoci una vita vergognosa: volesse il cielo che si impegnassero a farci grazia e ci spingessero a sperare di salvarci, in modo che una sola morte possa avere una gloria più grande: che essi non ritengano che la speranza ci abbia abbandonato, allorché ci saremo trafitti le viscere con il caldo ferro. Dimostrandoci estremamente valorosi, dobbiamo meritare che Cesare, perduti - fra tante migliaia - pochi soldati, possa chiamare questa una grave sconfitta. Anche ammettendo che il destino ci consentisse di ritirarci, non vorrei schivare quel che incombe. Ho gettato via la mia vita, o compagni, e sono completamente sconvolto dalle sollecitazioni della morte che mi attende: è tutta una follia. Riconoscere che il morire sia motivo di felicità è consentito soltanto a coloro sui quali incombe la fine prossima: gli dèi infatti nascondono ciò a quelli destinati a vivere ancora, perché possano continuare a farlo». A queste parole l'entusiasmo eccitò gli spiriti di tutti quei nobili giovani: mentre, prima che Vulteio parlasse, essi osservavano gli astri nel cielo con gli occhi umidi e paventavano che l'Orsa piegasse il suo timone, ora, invece, allorché le esortazioni scesero nei loro animi forti, bramavano il giorno. Allora il cielo non si attardò nel far scivolare gli astri sul mare; il sole infatti si trovava nella costellazione di Leda, allorché la sua luce risulta intensissima quando il Cancro è vicino: la notte, di breve durata, incalzava le saette tessaliche.
Il giorno, ormai sorto, svelò gli Istriani ritti sulle rocce e i bellicosi Liburni sul mare, insieme con la flotta greca. In un primo tempo essi cercarono, smettendo di combattere, di vincere con i patti e di vedere se la vita potesse divenire, con l'indugio della morte, più piacevole per essi che erano già circondati. Quei giovani, però, ormai consacrati al sacrificio, dal momento che avevano rinunciato a vivere, stavano ritti e incuranti del pericolo, decisi a uccidersi, e nessuno sconvolgimento agitò gli spiriti di quegli eroi pronti ad affrontare il momento supremo ed essi, pochi di numero, sostennero contemporaneamente, per terra e per mare, la violenza di innumerevoli schiere: così grande è la confidenza nella morte. Quando parve che il combattimento avesse fatto scorrere una quantità di sangue sufficiente, l'ira si allontanò dai nemici. Per primo lo stesso Vulteio, che era a capo dell'imbarcazione, chiedendo la morte dopo aver messo a nudo la gola, esclamò: «Chi c'è tra i miei soldati, la cui destra sia degna del mio sangue e che testimoni, colpendomi, l'assoluta certezza di voler morire?». Non disse altro: subito molte spade gli trapassarono le viscere. Egli li lodò tutti, ma, mentre stava esalando l'ultimo respiro, uccise, con un colpo gradito, quello che per primo lo aveva colpito. Allora si precipitarono gli uni sugli altri e realizzarono, nel solo loro partito, tutta l'empietà della guerra. Così dal seme di Cadmo balzò fuori la coorte dircèa, i cui componenti si uccisero fra loro, sinistro augurio per i fratelli tebani; così i figli della terra, generati nei campi del Fasi dai denti dell'insonne drago - scatenatosi il loro furore ad opera di formule magiche - sommersero di sangue fraterno i grandi solchi e persino Medea provò orrore per il misfatto da lei stessa perpetrato con erbe ancora sconosciute. Così quei giovani periscono per un patto di reciproca uccisione e nella fine di quegli eroi l'aspetto meno significante è proprio la morte: contemporaneamente uccidono con ferite mortali e stramazzano: nessuno fallisce il colpo, anche se inferto con mano morente. E non sono le spade che si abbattono sui corpi a provocare le ferite: le armi sono colpite dai petti e su di esse si conficcano le gole. Allorché, con esito cruento, i fratelli si avventarono sui fratelli e i figli sui padri, essi colpirono con tutta la loro forza con la mano che non tremava. La sola pietà per chi feriva era di non dover colpire nuovamente. Ormai sul punto di spirare si tiravan dietro per il vasto ponte le viscere che erano fuoriuscite e versavano in mare una gran quantità di sangue: piaceva guardare la luce disprezzata ed osservare con espressione orgogliosa i vincitori e percepire la morte che si approssimava. Ormai la zattera era piena di corpi insanguinati ed i vincitori affidarono i cadaveri ai roghi, mentre i capi si meravigliavano che un condottiero potesse esser considerato tanto. La Fama, che corre in lungo e in largo per il mondo, non parlò mai di nessuna nave con lodi così alte. Purtuttavia, anche dopo simili esempi di eroismo, le genti ignave non impareranno come non sia impresa difficile sfuggire la schiavitù con la morte: il dominio tirannico è temuto a causa del ferro, la libertà si consuma sotto le armi crudeli e non si sa che le spade sono state date perché nessuno sia schiavo. O morte, volesse il cielo che tu non sottraessi alla vita i codardi e che invece tu toccassi solo ai valorosi!
Non meno violenta di quella fu la guerra che si accese allora nei campi di Libia. Infatti l'audace Curione si era mosso con le sue navi dalla spiaggia di Lilibeo e, sfruttando il soffio di un aquilone non troppo impetuoso, aveva attraccato in un punto ben noto del litorale africano, tra le rocche semidistrutte della grande Cartagine e Clìpea. Per prima cosa egli piantò l'accampamento lontano dal mare biancheggiante, là dove il Bàgrada si trascina lentamente attraverso l'arida sabbia. Di lì si diresse verso le alture e le rocce corrose da ogni parte, in quella zona che un'antica voce, in fondo veritiera, chiamava il regno di Antèo. Curione, che bramava conoscere il motivo di quella antica denominazione, fu reso edotto, da un incolto abitante del luogo, di fatti che si tramandavano da molte generazioni: «La Terra, non ancora spossata dopo aver generato i Giganti, concepì negli antri di Libia un figlio tremendo; e fu per lei un motivo di giusto orgoglio, più di quando ebbe Tifone o Tizio o il feroce Briàreo ed essa fece grazia al cielo, per non aver innalzato Antèo nei campi di Flegra. E per di più la Terra aggiunse un'altra dote alle forze già possenti del figlio, e cioè che le sue membra, per quanto stanche, riacquistassero novello vigore non appena avessero toccato la madre. Questo gigante aveva una spelonca per casa; si narra che egli si nascondesse sotto un'alta rupe, che si nutrisse di leoni dopo averli catturati e che non si servisse per dormire di pelli di fiera o di foglie, ma che recuperasse le forze ponendosi a giacere sulla nuda terra. Dovettero soccombere i coloni dei campi libici e così anche quelli che vi furono sospinti dal mare. Egli comunque, non volendo sfruttare il vantaggio che gli sarebbe derivato dal gettarsi in terra, ne disprezzò l'aiuto: per quanto rimanesse in piedi, non poteva, a motivo della sua forza, esser vinto da alcuno. Infine la fama del flagello sanguinoso, divulgatasi per il mondo, fece approdare alle spiagge di Libia il magnanimo Alcìde, che affrancava dai mostri le terre ed il mare. L'eroe gettò via la pelle del leone cleoneo, Antèo quella di un leone libico; lo straniero versò sul corpo l'olio, secondo la consuetudine della palestra olimpica, mentre Antèo, per il timore di non riuscire a toccare sufficientemente con i piedi la madre, rovesciò sulle membra come aiuto sabbia calda. Si afferrarono, con molti viluppi, mani e braccia; cercarono a lungo di afferrare con i possenti bicipiti il collo dell'avversario, ma invano: le teste rimasero immobili, le fronti fisse e si meravigliarono di avere di fronte un campione dotato della medesima forza. L'Alcìde non volle, al primo scontro, utilizzare tutte le sue forze ed esaurì Antèo, la cui stanchezza venne rivelata dal respiro frequente e dal sudore gelido, che emetteva il suo corpo spossato; allora la nuca esausta è scossa, il petto è incalzato dal petto, le gambe vacillano, colpite da oblique percosse: ormai Ercole vincitore abbranca la schiena dell'avversario che cede, lo stringe nel mezzo premendolo sui fianchi, gli allarga le cosce, facendo leva con un piede, finché Antèo stramazza con tutte le membra distese. L'arida terra assorbe rapidamente il sudore: le vene si riempiono di caldo sangue, i muscoli si gonfiano, le membra si induriscono nuovamente ed egli, con novelle energie, allenta la stretta di Ercole. L'Alcìde si fermò, stupito da una energia così grande e non ebbe paura allo stesso modo - per quanto fosse alle prime armi - quando scorse nelle acque dell'Ìnaco formarsi dei serpenti dall'idra fatta a brani. Tornarono a scontrarsi nuovamente pari, l'uno facendo affidamento sulle forze della madre, l'altro sulle proprie. Mai fu lecito alla crudele matrigna nutrire speranze maggiori: scorse, inondati dal sudore, le membra e il collo dell'eroe, che non ne aveva versato neanche una goccia, allorché aveva sostenuto il cielo. Non appena Ercole abbrancò nuovamente le membra stanche, Antèo, senza attendere l'urto dell'avversario, si lasciò cadere in terra e si rialzò più forte per aver acquistato nuovo vigore: tutta l'energia presente nella terra si riversa nelle stanche membra: il gigante lotta, ma è la Terra a subirne la stanchezza. Infine, allorché l'Alcìde si accorse del giovamento che l'avversario traeva dal toccare la madre, esclamò: "Devi stare in piedi, non ti affiderai più alla terra, dal momento che te lo impedirò. Sarai schiacciato, con tutte le membra avvinghiate, contro il mio petto: qui cadrai, o Antèo". Dopo queste parole, sollevò in alto quello, che si sforzava di toccare il suolo. La Terra non fu in grado di far fluire energia nelle membra del figlio morente: l'Alcìde lo strinse ai fianchi e per lungo tempo, tenendolo sospeso, non lo poggiò in terra, nonostante il petto di Antèo fosse già in preda a un gelo inerte. Da questo episodio l'antichità leggendaria, custode dei tempi antichi e orgogliosa di sé, indicò le terre con questa denominazione. Ma Scipione diede a queste alture un nome più prestigioso, lui che richiamò il nemico dalle rocche del Lazio: infatti qui egli pose l'accampamento quando sbarcò sul territorio libico. Ecco, tu scorgi gli avanzi dell'antico vallo: in questo luogo per primo dominò la vittoria di Roma».
Curione, lieto (come se la fortuna dei luoghi potesse condurre la guerra e riservargli il fato dei condottieri di un tempo), pose, fin troppo fiducioso, le tende infauste nel luogo fortunato, togliendo a quelle alture l'augurio propizio e, per quanto inferiore di forze, sfidò i feroci avversari.
Tutta l'Africa, che si era piegata alle insegne di Roma, si trovava allora sotto il dominio di Varo, il quale, ancorché facesse affidamento sulle truppe latine, purtuttavia aveva chiamato a raccolta da ogni parte quelle del re Giuba, i popoli libici e gli eserciti, che seguivano il re dalle zone più lontane della terra. Nessun sovrano ebbe mai un dominio così vasto: le estremità della sua estensione, nel senso della longitudine, sono chiuse, dalla parte occidentale, dall'Atlante (in prossimità di Càdice), dalla parte di mezzogiorno, da Ammone, confinante con le Sirti; per quanto concerne l'estensione nel senso della latitudine, l'infuocata distesa dello sconfinato dominio tiene separato l'Oceano dalle terre aride della zona torrida. In quello spazio si trovano popolazioni che, in gran numero, affollano gli accampamenti: gli Autòloli, i Nùmidi erranti, i Getùli sempre all'erta su cavalli senza briglie, i Mauri che hanno lo stesso colore degli Indi, i Nasamòni privi di mezzi, i Marmàridi veloci insieme con i Garamànti bruciati dal sole, i Màzaci che, nello scagliare i dardi vibranti, eguaglierebbero i Medi, la popolazione dei Massìli, che, cavalcando senza sella, guidano i cavalli toccando leggermente con un bastone i loro musi che non conoscono freni ed i cacciatori Afri, soliti, abbandonate le loro capanne, a viver nomadi ed avvezzi, quando non si fidano più delle armi, a gettare sui leoni inferociti i loro larghi mantelli. Giuba apprestava le armi non soltanto per le discordie civili, ma si gettava, indispettito, in braccio alla guerra anche per il suo rancore privato. Curione infatti, nello stesso anno in cui aveva profanato le cose divine e quelle umane, aveva cercato, con un decreto tribunizio, di scacciare Giuba dal trono degli avi e di liberare la Libia dal tiranno, mentre rendeva te, Roma, dominio di un despota: ora perciò, memore di quell'offesa, egli reputava questa guerra una logica conseguenza del fatto di essere sempre il sovrano legittimo.
Ed ormai Curione era preoccupato a causa di queste notizie riguardanti il re ed anche per il fatto che i suoi soldati non avevano mai mostrato una totale fedeltà alla causa di Cesare (erano stati presi prigionieri nella rocca di Corfìnio e non avevano mai fatto buona prova sulle onde del Reno): infidi per i nuovi capi e malcerti per il precedente, ritenevano lecito esser fedeli ad entrambi. Allora, dopo che Curione vide che tutti erano scoraggiati per un'inerte paura e che le sentinelle, che avrebbero dovuto vigilare di notte sul vallo, avevano disertato, disse fra sé con cuore turbato: «Con l'ardire si può nascondere un grande timore: sarò io ad impugnare le armi per primo. I miei soldati vadano al combattimento, finché sono in grado di controllarli: l'inattività è solita far mutare gli animi. Elimina la riflessione con il combattimento: allorché, impugnata la spada, sopravviene il tristo piacere della guerra e gli elmi celano la vergogna, a chi viene in mente di fare un raffronto tra i capi e di soppesare i loro motivi? Uno combatte là dove si trova; come avviene negli scontri dell'arena fatale, dove non è un antico rancore a far duellare quelli che vi scendono a misurarsi: essi si odiano per il solo fatto di essere stati posti di fronte». Dopo aver così parlato, fece schierare le truppe nella pianura. La Fortuna, che lo avrebbe ingannato con futuri insuccessi bellici, lo accolse benevola: egli infatti sbaragliò Varo in campo aperto e fece a pezzi la retroguardia, priva di ogni difesa in una fuga vergognosa, finché non ne fu impedito dall'accampamento.
Ma, dopo che Giuba fu messo al corrente della sconfitta di Varo, lieto che fosse suo appannaggio la gloria della guerra, si avvicinò furtivamente con i suoi soldati e tentò di celare la notizia del suo sopraggiungere imponendo il silenzio, con il timore di incutere soltanto paura ad un nemico, che non aveva preso le sue precauzioni. Sàbbura, che per i Nùmidi veniva subito dopo il re, è mandato avanti perché provochi con un'esigua schiera il primo scontro, facendo credere che fosse lui il responsabile della guerra. Giuba raccoglie in una valle le sue truppe; come l'astuto avversario degli àspidi egiziani sembra prendersi beffe di loro e ne suscita l'ira con l'ombra che non sta mai ferma ed afferra, lanciandosi obliquamente, con un morso infallibile la gola del rettile, che alza vanamente il capo nell'aria: esso non viene toccato dal veleno mortale, che schizza inutilmente perdendosi, mentre le fauci si indeboliscono e si sgonfiano. La fortuna era stata favorevole a questa azione e Curione, risolutamente, senza curarsi di controllare le forze del nemico nascosto, comanda alla cavalleria di fare nottetempo delle sortite e di compiere scorrerie per largo tratto nella pianura sconosciuta. Al primo sorgere dell'aurora egli ordina che le insegne escano dall'accampamento, nonostante lo si pregasse molto (ancorché invano) di temere gli inganni libici e le guerre dei Punici sempre contaminate da frodi: la fortuna aveva consegnato il giovane al destino di una fine incombente e il confitto civile trascinava con sé il suo promotore. Egli guidò le sue insegne sulle alte rupi, per ripidi sentieri, ed improvvisamente scorse i nemici dalla sommità delle alture. Essi, per trarlo in inganno, si ritirarono un poco, in modo che Curione, abbandonata la collina, facesse schierare le sue truppe nella vasta pianura: egli, senza rendersi conto di quella finta e convinto che stessero fuggendo, scese con i suoi soldati - sentendosi già vincitore - nei campi in basso. Allora per la prima volta si svelò il tranello e i Nùmidi in fuga, occupate le alture, chiusero da ogni parte l'esercito in mezzo, suscitando lo sgomento del capo e dei soldati destinati a soccombere. I paurosi non tentarono di fuggire né i forti di affrontare il combattimento; i destrieri, al suono delle trombe, non colpirono i sassi con gli zoccoli né sfregarono la bocca sul duro morso del freno, non diedero le criniere al vento né drizzarono le orecchie né si sforzarono di muoversi con l'incerto scalpitio delle zampe: le teste si abbassano stanche, dagli arti esala il sudore e dalla bocca secca penzola la lingua arida, i petti gemono raucamente, oppressi da un respiro affannoso ed i fianchi esausti sono scossi da contrazioni dolorose, mentre una bava ormai secca va incrostandosi sui freni insanguinati. Ed ormai non si affrettano, per quanto costretti e stimolati da colpi, frustate o sollecitazioni con gli sproni: le bestie sono spinte in avanti con percosse sanguinose; ma nessuno trasse vantaggio dal cercare di eliminare la lentezza dei destrieri né quello si poteva certo definire un assalto impetuoso: era soltanto un accostarsi ai nemici e un offrire spazio ai dardi e alle ferite. Invece, non appena i nomadi africani lanciarono la cavalleria contro la schiera nemica, la pianura rimbombò e la terra si sbriciolò e una nube di polvere - simile a quella provocata dal vento bistònio - velò l'aria, provocando una tenebra improvvisa. Allorché poi il miserevole destino della guerra piombò sui fanti, non si ebbe assolutamente alcuna incertezza sull'esito dello scontro: la morte occupò tutti i momenti del combattimento. Non ci fu infatti la possibilità di avanzare e di scontrarsi con i nemici: così i soldati, accerchiati da ogni parte, vennero travolti dai colpi inferti da vicino e da quelli provocati dalle aste scagliate da lontano, destinati come erano a soccombere non solo per le ferite ed il sangue, ma anche per la gran quantità dei dardi e per il peso del ferro. Ed allora grandi schiere si concentrarono formando un piccolo circolo e se qualcuno, in preda al timore, cercava di infiltrarsi in mezzo ai suoi, a stento si aggirava indenne fra le spade dei compagni e la folla si addensava man mano che le prime file, ritraendosi, rendevano il cerchio più ridotto. Ormai i soldati, stretti fra loro, non avevano più la possibilità di manovrare le armi e le membra, stipate in uno spazio strettissimo, si sfregavano tra di loro: i petti armati si infrangevano urtando contro le altre corazze. I Mauri vittoriosi non poterono assistere allo spettacolo che la Fortuna offriva loro; non riuscirono a scorgere i fiumi di sangue e la caduta dei corpi, che piombavano a terra: tutti i morti, stretti in quella folla, rimasero in piedi.
La Fortuna evochi, con un rituale spaventoso, le invise ombre della crudele Cartagine, il sanguinoso Annibale ed i Mani punici accolgano questi sacrifici così sinistri. O numi, è un sacrilegio che la rovina di Roma in terra di Libia giovi a Pompeo e ai desideri del Senato: che l'Africa ci vinca piuttosto per il suo esclusivo vantaggio. Curione, quando scorse le sue schiere disperse nella pianura e la polvere, assorbita dal sangue, gli consentì di contemplare l'enormità del disastro, non se la sentì di continuare a vivere dopo una sconfitta così grande o di confidare nella fuga: cadde sui cadaveri dei suoi, lanciandosi verso la morte e forte di un valore disperato.
A che ti giova adesso avere sconvolto i rostri ed il foro, da dove, vessillifero della plebe, nella rocca dei tribuni, eccitavi il popolo alla rivolta? A che ti giova l'avere tradito i diritti del Senato e l'avere spinto a scontrarsi in guerra il genero e il suocero? Giaci a terra prima che la malaugurata Farsàlo abbia posto i due condottieri l'uno di fronte all'altro e ti è stato negato di assistere al conflitto civile. Questo è il fio che voi, o potenti, pagate con il vostro sangue all'infelice città, così scontate la guerra con la vostra vita. Fortunata Roma e senza dubbio felici i suoi cittadini, se gli dèi avessero avuto a cuore la libertà così come si preoccupano della vendetta: ecco, il nobile corpo di Curione nutre gli uccelli di Libia, senza che sia protetto da una tomba qualsiasi. Ma noi - dal momento che non gioverà passare sotto silenzio tali accadimenti, la cui fama riesce a travalicare l'arco dei secoli - offriamo a te, o giovane, il degno elogio, che la tua vita ha meritato. Roma non produsse un altro cittadino dotato di pregi così grandi o a cui le leggi dovessero essere maggiormente debitrici, sol che avesse seguito il giusto. All'Urbe furono di nocumento i periodi di corruzione, dopo che gli intrighi, il lusso e il temibile potere della ricchezza trascinarono nel turbine del male gli spiriti dubbiosi: il punto di svolta fu determinato dal cambiamento di Curione, conquistato dal bottino dei Galli e dall'oro di Cesare. Si siano pure arrogati il diritto della spada sulle nostre gole il potente Silla, il feroce Mario, il sanguinoso Cinna e la stirpe di Cesare: ma a chi mai fu consentito un potere così grande? Loro hanno comprato Roma, egli l'ha venduta.

LIBRO QUINTO


Così la Fortuna, con una successione di vittorie e di sconfitte, riserbava entrambi i condottieri - travolti, ora l'uno ora altro, dai rovesci bellici - ai campi della Macedonia. Ed ormai l'inverno e l'Atlàntide che declinava nel cielo gelido avevano cosparso di neve l'Emo e si avvicinava il giorno, che conferisce i nuovi nomi ai Fasti e venera per primo Giano, che scandisce le stagioni. Mentre è ancora in vigore l'ultimo periodo dell'ufficio, che sta scadendo, i due consoli convocano in Epiro i senatori dispersi qua e là a causa dei loro impegni bellici. Una sede remota e squallida accolse i più ragguardevoli fra i Romani e la curia, ospite sotto un tetto straniero, ascoltò i segreti dello Stato: chi potrebbe, infatti, definire accampamento tanti fasci e tante scuri, impugnate secondo il diritto e la legalità? Il venerabile consesso apprese ai popoli di non essere il partito di Pompeo, ma che Pompeo era nel partito.
Non appena il silenzio dominò nella mesta assemblea, Lèntulo, alzandosi, così parlò dal suo scanno elevato: «Se nei vostri animi è ancor viva la forza degna del carattere latino e dell'antica stirpe, non badate in qual terra ci troviamo raccolti e quanto lontano dalla nostra città conquistata sediamo qui a convegno: riconoscete invece l'aspetto del vostro consesso e, sul punto di decidere ogni cosa, in primo luogo stabilite questo: per i regni e i popoli non deve sussistere alcun dubbio: noi siamo il Senato. Infatti, se la fortuna ci dovesse condurre sotto il gelido carro dell'Orsa iperbòrea o nella zona ardente, dove il cielo, rinserrato dal calore, non consente che i giorni e le notti abbiano una durata diversa, ci seguirà l'autorità suprema e con essa il comando. Allorché la rupe Tarpea arse ad opera dei Galli e Camillo si trasferì a Veio, Roma fu là: mai l'ordine senatorio ha perduto i suoi diritti, per il solo fatto di aver mutato sede. Cesare regna su case in preda alla tristezza e vuote, sulle leggi messe a tacere e sul foro chiuso da una sinistra interruzione; la curia è composta soltanto da quei senatori, che furono messi al bando quando la città non si era ancora spopolata: tutti quelli appartenenti a un ordine così ragguardevole, che non sono andati in esilio, si trovano qui. Il primo furore della guerra ha disperso coloro che non si erano macchiati di delitti e godevano di una lunga pace: ora tutte le membra tornano nuovamente nella loro sede. Ecco, i numi, in luogo dell'Esperia, ci offrono in compenso le forze del mondo intero: un nemico giace sepolto tra i flutti illirici; Curione, il rappresentante più autorevole del senato cesariano, è caduto negli aridi campi di Libia. Sollevate le insegne, o condottieri, forzate il corso del destino, affidate la vostra speranza ai celesti e la Fortuna vi infonda tanto coraggio, quanto ve ne dette, mentre facevate in modo che il nemico non vi catturasse, la consapevolezza della vostra causa. La nostra carica spirerà alla fine dell'anno: voi, o senatori, il cui potere non avrà mai fine, provvedete per l'interesse di tutti e stabilite che Pompeo sia il capo supremo». Il Senato accolse quel nome con un clamore festoso ed affidò a Pompeo il destino della patria e quello proprio. Allora vennero conferiti riconoscimenti ai re e ai popoli, che li avevano meritati: così ricevette doni la febea Rodi, potente sul mare, e i rudi giovani del gelido Taìgeto; ricevette elogi Atene, celebre per antica fama; la Fòcide acquistò l'indipendenza, grazie al comportamento della sua Marsiglia; allora vennero tributati onori a Sàdala, al forte Coti, a Deiòtaro, fedele in guerra, e a Rascùpoli, che dominava su una gelida terra; il Senato ordinò altresì che la Libia fosse soggetta al potere di Giuba. Oh, triste destino: persino a te, Tolomeo, vergogna della Fortuna e crimine degli dèi, degnissimo sovrano di un popolo infido, fu concesso di cingere il capo con il diadema di Pella! Accogli, mentre sei ancora un ragazzo, una spada crudele per le tue genti e voglia il cielo che questo avvenga soltanto per loro: ti si dona la reggia di Lago, cui si aggiungono la gola del Grande, il regno strappato alla sorella e un crimine per il suocero.
Scioltosi il consesso, la folla chiede le armi; e, mentre i popoli e i capi si apprestano al combattimento, pur nell'incertezza di quel che sarebbe accaduto e nell'oscurità della sorte, il solo Appio ha timore di affrontare i rischi della guerra: egli sollecita i numi a svelargli l'esito degli eventi e fa aprire i penetrali delfici del profetico Febo, chiusi ormai da un gran numero di anni.
A una distanza identica dalla parte occidentale e da quella orientale, il Parnàso si innalza verso il cielo con due cime, monte consacrato a Febo e a Bròmio, in onore del quale le Baccanti, facendone un unico culto, celebrano ogni tre anni le feste delfiche. Allorché i flutti, durante il diluvio, inondarono le terre, soltanto questa vetta emerse, rappresentando il punto di divisione fra il mare e gli astri; ma tu, o Parnàso, riuscisti a stento, allontanandoti dalle onde, a sollevare la sommità di una cima, dal momento che l'altro giogo rimaneva sotto l'acqua. E lì Peàn, vendicatore della madre scacciata mentre era ancora in preda al travaglio del parto, uccise Pitòne con frecce inesperte, quando Temi aveva ancora il potere sulla terra. Peàn, non appena vide spirare da larghe fenditure della terra una presenza divina ed esalare dal suolo venti parlanti, si celò negli antri sacri e, collocatosi nella parte più riposta, Apollo vi divenne oracolo.
Quale dei numi si nasconde in quel luogo? Quale potenza, calata dal cielo, si degna di abitare racchiusa nelle cieche grotte? Qual dio del cielo, che pur possiede tutti i segreti dell'eternità ed è a conoscenza del futuro del mondo, acconsente ad abitare la terra e, pur grande e potente, è disposto a rivelarsi ai popoli e a sopportare il contatto con gli uomini, sia che predica il fato sia che divenga fato quel che egli comanda con la sua predizione? Forse, inserita nel centro della terra sì da sostenerla (reggendo il mondo che si libra nello spazio vuoto), una gran parte dell'intero Giove spira attraverso gli antri di Cirra ed è attratta, riunendovisi, verso il Tonante celeste. Allorquando questo nume si raccoglie nel petto della vergine, percuotendone l'anima umana, risuona e fa parlare la profetessa, così come ribolle la vetta sicula quando le fiamme premono dentro l'Etna o come quando Tifèo, sepolto per sempre sotto il peso di Inàrime, si agita e circonda di vapori gli scogli campani.
Questa potenza è disponibile per chiunque e non si nega a nessuno: rifugge soltanto dal flagello delle umane passioni. Colà non si pronunciano voti di malaugurio con sussurrio indistinto: infatti il nume, predicendo cose fisse e immutabili, soffoca il desiderio degli uomini e, benevolo con i giusti, ha concesso sovente una sede a coloro che avevano abbandonato intere città, come ai Tìrii; ha concesso altresì di rigettare le minacce della guerra, come ricorda il mare di Salamina; ha eliminato ire, mostrando come si potesse por termine alla sterilità della terra; ha anche eliminato un'aria pestifera. Le nostre generazioni son rimaste prive del dono più grande dei numi, da quando la sede delfica fu costretta a tacere, allorché i re, temendo gli eventi futuri, impedirono agli dèi di parlare. Ma le profetesse cirrèe non si rattristarono per il divieto e sono liete dell'inattività del tempio: infatti se il dio si insinua nel petto di qualcuna di esse, una morte prematura è la pena o il prezzo per averlo accolto: il corpo umano ondeggia per le sollecitazioni e gli urti del dio, che squassano le fragili vite.
Così Appio, risoluto ad indagare il destino finale d'Italia, incalza i tripodi, inattivi da tempo immemorabile, ed il silenzio dell'antro enorme. Colui che era preposto alla custodia del luogo sacro ricevette l'ordine di schiudere la sede veneranda e di mettere in contatto con la divinità una profetessa impaurita: ghermì perciò Femònoe, che vagava senza preoccupazioni tra le sorgenti castalie e le parti più nascoste dei boschi, e le impose di precipitarsi alle porte del tempio. La sacerdotessa di Febo, terrorizzata all'idea di dover sostare sulla terribile soglia, si sforzò - con un inganno destinato a rivelarsi inutile - di far deflettere Appio dall'ardente desiderio di apprendere il futuro, con queste parole: «Perché mai, o Romano, una stolta speranza di verità ti travolge? Il Parnàso tacque, dopo aver sigillato la sua apertura, e spinse il dio a non rivelarsi, sia che la potenza del nume abbia abbandonato questi antri e si sia indirizzata verso le zone più lontane del mondo, sia che - allorquando Delfi bruciò per il fuoco appiccato dai barbari - le ceneri siano state trasportate nelle enormi caverne e non abbiano più consentito il passaggio a Febo, sia che, per decisione divina, Cirra taccia e siano sufficienti a svelarvi l'arcano del futuro le predizioni affidate all'antica Sibilla, sia che Peàn - che suole tenere i malvagi alla larga dai suoi templi - non abbia trovato nella nostra epoca alcuno degno di accogliere il suo responso».
Ma l'inganno della vergine si svelò nella sua evidenza e la sua paura fornì la prova della presenza degli dèi, che lei si sforzava di negare. Allora le sue chiome furono strette con una benda sulla fronte, mentre quelle che le ricadevano sulle spalle vennero legate con una candida fascia e con una ghirlanda di alloro focese. Il sacerdote la spinse nel tempio, nonostante ella, in preda al dubbio, opponesse resistenza. Femònoe, presa dalla paura del fatidico penetrale, peraltro ancora lontano, si fermò nella sezione iniziale del tempio e, fingendo che il dio agitasse il suo cuore, che era invece tranquillo, pronunciò, inventandosele, alcune parole, cercando di dimostrare - ma senza che si percepisse alcun mormorio indistinto - che il suo spirito era sollecitato dal furore divino: ma, così facendo, arrecava offesa non tanto ad Appio, al quale riferiva cose non vere, quanto ai tripodi e alla fede in Febo. Le parole non spezzate da una voce tremante, che non aveva la forza di riempire lo spazio del vasto antro, la ghirlanda d'alloro non sconvolta dal drizzarsi dei capelli, il fatto che la soglia del tempio rimanesse immobile e così anche la selva, svelarono il suo terrore di lasciarsi andare a Febo. Appio si accorse che i tripodi rimanevano immoti e furibondo esclamò: «Pagherai, o empia, la giusta pena sia a noi sia agli dèi, di cui stai fingendo la presenza, se non penetrerai nell'antro e non cesserai di predire con parole che non ti vengono dalla divinità, mentre ti si consulta su sconvolgimenti così grandi da far vacillare il mondo». A questo punto la vergine, in preda al terrore, cercò rifugio presso i tripodi e, trascinata nel vasto antro, vi si fermò e ricevette nel suo cuore, che non vi era abituato, il dio, il quale infuse nella profetessa il soffio dello speco, che non aveva ancora esaurito la sua forza, pur dopo tante generazioni: così Peàn, impadronitosi dello spirito cirrèo, si impossessò, potente come non mai, delle membra della sua sacerdotessa, ne espulse la coscienza anteriore e comandò alla natura umana di cedergli completamente. Ella, fuori di sé, impazza attraverso gli spazi vuoti del tempio, agitando per l'antro il capo non più suo e scuote via dalla testa, che muove in qua e in là, e dalle chiome irte le bende e i serti di Febo e fa cadere i tripodi, che si frappongono al suo procedere disordinato, ed è consunta da un grande ardore, dal momento che è invasa dal tuo furore, o Febo. E al dio non basta percuoterla e ferirla, ardendola nelle sue fibre più intime: che anzi la frena, poiché non è concesso alla profetessa svelare quello che sa. Tutto il tempo si raccoglie in un solo punto e tanti secoli soffocano quel petto infelice: si squaderna dinanzi a lei una successione inesauribile di eventi, tutto il futuro si sforza di venire alla luce ed i fati lottano per impadronirsi della sua voce: non mancano né il primo né l'ultimo giorno del mondo né le dimensioni dell'Oceano né il numero dei granelli di sabbia. Così nell'antro eubòico la Sibilla cumana, sdegnata che tante genti si servissero del suo furore profetico, estrasse con mano superba - da una congerie tanto numerosa di fati - quello romano: così Femònoe è tormentata dall'invasamento di Febo, finché, con grande travaglio, trova te, o Appio - che avevi deciso di consultare il dio celato nella terra castalia - mentre cercava a lungo proprio te, che non apparivi fra destini così importanti. Allora infine un folle furore fluisce dalla bocca bavosa e dalla gola semisoffocata fuoriescono gemiti e mormorii sonori: allora nella vasta caverna rimbombano urla raccapriccianti e risuonano le ultime parole della vergine ormai sottomessa dal dio: «O Romano, riuscirai a sfuggire, senza aver danno, da grandi pericoli, alle minacce della guerra e soltanto tu sarai in grado di ottenere la tranquillità in una vasta convalle dell'isola di Eubea». Apollo soffocò le altre parole nella gola della profetessa.
O tripodi, custodi arcani dei destini del mondo, e tu, o Peàn, che domini il vero e a cui i numi non possono nascondere nessun giorno del futuro, per qual motivo esitate a rivelare il momento supremo dell'impero che rovina, l'uccisione dei capi, la morte dei re e tante popolazioni destinate ad essere travolte nel sangue italico? Forse i superi non hanno ancora stabilito un'empietà così grande e tanti destini rimangono in sospeso, dal momento che fino ad ora gli astri esitano a condannare la testa di Pompeo, o forse tu taci l'impresa della spada vendicatrice e il fio pagato per tanti delitti e l'impero che torna nuovamente alla vendetta dei Bruti, sì che la Fortuna adempia la sua opera?
A questo punto le porte, colpite dal petto della profetessa, si spalancarono ed ella si scaraventò fuori del tempio. Il furore permane in lei, che non ha rivelato ogni cosa, e il dio, che essa non è riuscita ad espellere, la padroneggia ancora ed ancora la costringe a stravolgere gli occhi feroci e a guardare nell'immensità del cielo, mentre il suo volto - ora dominato da un'espressione di paura ora torvamente minaccioso - non è ancora tornato normale e costante: ora le pervade il viso e le guance livide un ardore rosseggiante, ora un pallore che incute paura e che non è certo segno di timore; né il cuore esausto trova requie, ma come il mare, gonfiandosi ai soffi di borea, emette rauchi gemiti, così sospiri senza parole scuotono il petto della profetessa. E mentre dalla luce sacra, in cui aveva avuto la visione dei fati, ella veniva riportata a quella di ogni giorno, piombarono le tenebre: Peàn fece fluire nelle sue fibre lo stigio Lete, perché portasse via con sé ogni traccia dei segreti dei numi. Allora la verità fuggì dal suo cuore ed il futuro fece ritorno ai tripodi di Febo, mentre ella, ripresasi a stento, stramazzò a terra.
E tu non fosti terrorizzato dall'approssimarsi della morte, o Appio, ingannato da responsi equivoci: mentre era ancora incerto chi avrebbe dominato il mondo, tu, completamente preso da una vana speranza, ti apprestavi ad impossessarti del dominio di Càlcide eubòica. Folle! Quale dei numi, all'infuori della Morte, poté metterti in grado di non farti ascoltare lo schianto della guerra e di non esser toccato dai mali del mondo? Occuperai un luogo appartato del lido eubòico, rinserrato in un sepolcro memorabile, dove la rocciosa Caristo e Ramnunte - che venera le divinità nemiche degli orgogliosi - restringe lo stretto e dove il mare, compresso, ribolle in gorghi vorticosi e l'Eurìpo trascina - con flutti che fanno mutare rotta - le navi calcìdiche verso Àulide, infausta alle flotte.
Nel frattempo, sottomessa l'Iberia, Cesare ritornava con l'intenzione di portare le insegne vittoriose in un'altra zona del mondo, quando sembrò che i numi dessero una diversa direzione al corso degli eventi, che fino ad allora avevano avuto un così fortunato svolgimento. Infatti il condottiero, mai battuto in combattimento, ebbe timore di veder vanificati, nel suo stesso accampamento, i risultati dei suoi misfatti, allorquando i suoi soldati, che pur gli erano rimasti fedeli in tante guerre, sazi infine di sangue, furono sul punto di abbandonarlo, sia perché le trombe, interrompendo per un momento il loro lugubre suono, e le spade, ormai rinfoderate e fredde, avessero scacciato il furore della guerra, sia perché le truppe, bramose di bottini più ricchi, si volessero dissociare dal capo e dalla sua causa, mettendo in vendita le loro spade ancora impregnate di crimini. In nessun momento periclitante Cesare aveva mai provato, come allora, da quale sommità incerta ed oscillante egli osservasse ogni cosa e come il suo punto di appoggio fosse malsicuro e barcollante. Tronco privato di tante mani e rimasto pressoché solo con la sua spada, egli, che trascinava in guerra tanti uomini, apprese che le spade sono in realtà impugnate dai soldati e non dal comandante. Ormai non era più un mormorare pauroso né l'ira era tenuta celata in cuore: essi infatti non erano più trattenuti dalla causa, che tiene a freno gli animi incerti, allorché ciascuno teme coloro, cui egli stesso incute paura, e ritiene di essere il solo a subire l'ingiustizia della tirannide. Che anzi la massa, divenuta audace, si era liberata dei suoi timori: quando si è in molti a sbagliare, la colpa rimane impunita. I soldati si lasciarono andare a numerose minacce: «Basta ormai, o Cesare, con la frenesia dei misfatti. Tu vai cercando per terra e per mare un'arma per le nostre gole e ti appresti a consumare vite di poco conto con il primo nemico che capita: la Gallia ti ha tolto una parte di noi, un'altra parte te l'ha sottratta la Spagna con le sue dure guerre, un'altra parte ancora è caduta in Italia: il tuo esercito è perito in tutto il mondo per farti vincere. A che serve avere inondato con il nostro sangue le terre nordiche ed aver sottomesso il Rodano e il Reno? In premio di tante guerre, ci hai ricompensato con la guerra civile. Allorquando cacciammo il Senato e conquistammo le dimore della patria, quale sede divina od umana ci hai consentito di predare? Abbiamo intrapreso ogni scelleratezza insozzando le nostre mani e le nostre spade, virtuosi unicamente per la nostra povertà. Come pensi di por fine alla guerra? Che cosa ritieni che ti possa bastare, se Roma è per te poca cosa? Guarda dunque i nostri capelli bianchi, osserva le mani non più valide e le braccia ormai senza forza: non possiamo più vivere, dal momento che abbiamo consumato tutto il tempo nelle guerre: lasciaci andare, ormai vecchi, a morire. Ecco i nostri voti esagerati: ci sia concesso di non deporre le membra moribonde sulla dura terra, di non esalare il nostro ultimo respiro costretti nell'elmo, di cercare una mano che ci chiuda gli occhi al momento del trapasso, di morire fra il pianto della moglie e di avere la consapevolezza che il rogo è stato eretto soltanto per noi. Ci sia consentito terminare la nostra vita tra i morbi della vecchiaia: che nell'esercito di Cesare la morte possa esser provocata non soltanto dalle armi. Perché ci attiri con la speranza, come se noi ignorassimo quali mostruosità ci apprestiamo a commettere? E noi saremmo veramente gli unici a non sapere chi ricavi il maggior profitto dal conflitto civile? Non si è ottenuto alcun risultato nelle guerre, se egli non ha capito che queste mani possono tutto: né il diritto né la forza della legge sono in grado di impedire di osarlo. Sui flutti del Reno Cesare era il mio condottiero, qui è un complice: l'impresa delittuosa mette sullo stesso piano coloro che essa è riuscita a contaminare. Per di più il nostro valore è vanificato da chi giudica senza gratitudine i nostri meriti e chiama fortuna ogni nostra impresa vittoriosa, ma sappia che noi siamo il suo destino. Riponi pure ogni tua speranza, o Cesare, in tutti i favori dei numi: se l'esercito, adiratosi, non ti obbedirà più, allora sarà la pace». Dopo aver così parlato, cominciarono a scorrazzare per tutto l'accampamento ed a chiamare il capo con volto minaccioso. Così vada, o dèi: dal momento che il rispetto e la fedeltà sono scomparse e la speranza si ripone unicamente negli istinti più bassi, la discordia ponga pur fine al conflitto civile.
Quale condottiero non sarebbe stato atterrito da un tumulto di tal fatta? Ma Cesare, abituato a far precipitare il corso fissato dal destino e godendo di mettere alla prova la sua fortuna nelle situazioni più pericolose, sopraggiunge e non attende che l'ira dei soldati sbollisca: ché anzi ha desiderio di affrontarli, mentre sono nel pieno del furore. Non si sarebbe opposto al saccheggio, da parte loro, di città e di templi, della sede tarpeia di Giove e alla violenza sulle mogli o sulle figlie dei senatori: brama che gli venga chiesto con determinazione ogni crudeltà e che siano desiderate le ricompense della guerra: dei soldati scatenati teme soltanto le sagge riflessioni. Oh, non ti vergogni, o Cesare, del fatto che solo a te piacciono le guerre, condannate dai tuoi stessi soldati? Essi saranno disgustati, prima di te, del sangue, per loro sarà pesante il diritto delle armi, mentre tu ti getterai in ogni tipo di nefandezza? Cessa e apprendi che è possibile vivere senza combattere: poni infine termine ai delitti. Crudele, che obiettivo persegui? Perché incalzi quelli che non vogliono seguirti più? La guerra civile fugge da te. Cesare si piantò su un rialzo di terra ammassata con volto intrepido e meritò di esser temuto, lui che non aveva paura, e così parlò in preda all'ira: «Soldati, voi che poco fa minacciavate, in preda al furore, con il volto e con le mani, un assente, eccovi un petto senza protezione e pronto ad essere colpito. Perciò, se desiderate la fine della guerra, gettate le spade e fuggite. Una insurrezione, che non ardisce nulla di forte, e dei giovani, che pensano soltanto a fuggire, stanchi dei successi di un condottiero imbattuto, svelano animi codardi. Fuggite e lasciatemi al mio destino e alla guerra: queste armi saranno impugnate da altre mani e, dopo la vostra cacciata, la Fortuna mi fornirà tanti uomini coraggiosi, quante saranno le armi da utilizzare. Popolazioni italiche tengon dietro, con una numerosa flotta, a Pompeo in fuga ed a me la vittoria non darà una turba che possa far suoi i risultati di una guerra, che voi avete solo iniziato, e che - sottraendovi la ricompensa delle vostre fatiche - possa accompagnare, senza aver subito neanche una ferita, il mio carro trionfale ornato di alloro? Voi, gregge di vecchi spregevoli e senza sangue nelle vene, osserverete, divenuti ormai plebe romana, i nostri trionfi. Oppure ritenete che alla marcia di Cesare possa nuocere la vostra fuga? Sarebbe come se tutti i fiumi minacciassero di sottrarre i corsi, che essi versano in mare: il livello delle acque non scenderebbe certo più in basso - nonostante l'assenza di quelli - della sua misura usuale. Pensate forse di essere così importanti per me? Giammai i numi si preoccuperanno talmente da consentire che i fati possano prendere in considerazione la vostra morte o la vostra salvezza: essi si curano unicamente degli eventi di uomini importanti: il genere umano vive per poche persone. I soldati, che sotto le mie insegne sparsero il terrore nelle regioni iberiche e in quelle nordiche, sotto quelle di Pompeo sarebbero certamente fuggiti. Labieno era un forte soldato nell'esercito cesariano: ora, fuggiasco codardo, esplora le terre ed i mari con il capo che si è scelto. Né mi dareste miglior prova della vostra fedeltà, se non combatteste, sia che foste miei nemici sia che foste miei alleati: chiunque abbandona le mie insegne e purtuttavia non entra nelle file di Pompeo, non desidera più appartenermi. Sta proprio a cuore ai numi il mio accampamento, se essi hanno deciso di farmi affrontare guerre così importanti, costringendomi a cambiare i soldati. Oh, che gran peso la Fortuna ha rimosso dalle mie spalle ormai esauste! Mi è concesso di disarmare destre, che potevano sperare ogni cosa ed a cui non basta il mondo intero: ormai condurrò la guerra soltanto per me; allontanatevi dall'accampamento, consegnate, vili Quiriti, le armi a dei veri combattenti. Il castigo, e non Cesare, tratterrà qui quei pochi, per iniziativa dei quali è divampata questa sedizione. A terra, e porgete la testa infida e il collo al carnefice. E voi, reclute senza esperienza, che costituite l'unico sostegno dell'accampamento, osservate le punizioni ed imparate sia a colpire che a morire». La moltitudine, senza osare muoversi, tremò al suono di quella voce minacciosa e un così gran numero di giovani ebbe paura di un solo uomo, che essa avrebbe potuto trasformare in privato cittadino, come se egli potesse comandare alle spade e farle muovere, anche contro la volontà dei soldati. Lo stesso Cesare ebbe timore che le mani e le armi dicessero di no a questo delitto: ma la soggezione andò ben al di là della speranza del crudele condottiero ed offrì non soltanto le spade, ma anche le gole. Niente più che l'uccidere e il perire tiene avvinti a sé gli animi avvezzi al delitto: con la stipula di un patto così crudele tornò la tranquillità ed i soldati, placati dalle punizioni, rientrarono nelle loro file.
Cesare ordina ai suoi di giungere a Brindisi in dieci tappe e di richiamare tutte le navi, che si trovavano alla fonda presso Idro - decisamente fuori mano -, presso l'antica Taranto e l'appartata spiaggia di Lèuca, presso la laguna di Salpi e Siponto, che giace ai piedi delle montagne, là dove l'àpulo Gargano, produttore di messi, facendo piegare la costa italica, si allunga nelle acque dell'Adriatico ai soffi del dalmatico borea e del calabro austro. Cesare stesso, sicuro e senza truppe, si dirige alla volta di Roma piena di paura, ormai adusa ad esser schiava di un cittadino in toga e - cedendo alle insistenze del popolo - si degna, lui dittatore, di accettare la carica suprema e con il suo consolato rende lieti i Fasti. Ed infatti tutti quei titoli, con cui ormai da lungo tempo mentiamo ai padroni adulandoli, li inventò per primo questo periodo, allorquando Cesare - perché fosse completamente signore di ogni diritto delle armi - volle stringere le scuri italiche alle spade, legando i fasci alle aquile e, impossessandosi di un vacuo titolo di comando, marchiò quella triste epoca con un'impronta degna di lei: difatti con quale altro console si sarebbe potuto segnare meglio l'anno di Farsàlo? Il Campo Marzio organizza le elezioni, che in realtà non avranno luogo, calcola i voti della plebe esclusa, compila l'elenco delle tribù, agitando i loro voti in un'urna vuota. Né è permesso prendere gli auspici dall'osservazione del cielo: l'àugure non sente più il rombo del tuono e gli esperti affermano che il volo degli uccelli è fausto, mentre il gufo vola a sinistra. Allora per la prima volta svanisce - ormai privo di ogni validità - un potere una volta venerando: soltanto perché l'età non rimanga priva di una denominazione, un console, che rimarrà in carica un mese, scandisce il tempo nei Fasti. Ed il nume, che protegge l'ilìaca Alba e che non meritava più i solenni sacrifici, una volta che il Lazio era stato sottomesso, scorse la conclusione delle Ferie latine nella notte piena di luci.
Subito dopo Cesare ricominciò la sua rapida marcia e, più veloce del fulmine e di una tigre, che ha partorito da poco, percorse i campi, che il pigro Àpulo aveva lasciato, senza più ararli e abbandonandoli alle erbacce, e, impadronitosi delle dimore minoiche di Brindisi, che si incurva sul mare, scoprì che era impossibile salpare a causa dei venti invernali e che le flotte temevano appunto le costellazioni della brutta stagione. Parve segno di codardia al capo che il momento di imprimere un ritmo serrato alla guerra si risolvesse in una sosta inutile e che si dovesse rimanere alla fonda nel porto, mentre il mare era disponibile e sicuro per coloro che non godevano della protezione della fortuna. Con queste parole egli conforta gli animi di quegli uomini non adusi alla vita sul mare: «I venti invernali - una volta che han preso possesso del cielo e del mare - lo mantengono più stabilmente di quelli cui l'insidiosa incostanza della primavera apportatrice di nubi vieta di spirare sicuri e senza interruzione. D'altronde noi non dobbiamo veleggiare lungo le rive o le rientranze del mare: dobbiamo invece tagliare in linea retta le onde con l'aiuto del solo aquilone. Volesse il cielo che questo vento incurvi la sommità estrema dell'albero della nave e continui a soffiare con energia fino alle città greche, in modo che i pompeiani, affluendo da tutte le spiagge dei Feaci, non raggiungano, a forza di remi, le nostre vele non più gonfiate dal vento. Tagliate le corde, che ancora trattengono le navi fortunate: ormai da un pezzo stiamo sprecando l'occasione di approfittare delle nubi e delle onde tempestose».
Mentre il sole scompariva sotto i flutti, erano apparse in cielo le prime stelle e la luna già provocava ombre, allorché essi sciolsero gli ormeggi delle navi, le gomene allargarono completamente le vele e gli equipaggi, volgendo le antenne, inclinarono i teli verso sinistra e spiegarono anche quelli più alti, che raccolsero i soffi che stavano perdendo forza. Mentre prima un leggero vento cominciava a soffiare nelle vele, che si gonfiarono un poco, subito dopo esse, ricadendo sugli alberi, si abbatterono al centro del ponte, dal momento che i soffi, che avevano in un primo tempo fatto muovere le navi, ora - una volta lontani dalla terraferma - non erano più in grado di tener loro dietro: il mare giace tranquillo ed i flutti, irrigiditi da un profondo torpore, rimangono immobili, più pigri delle stagnanti paludi. Così appare fermo il Bosforo, che serra le onde scitiche, quando il Danubio, trattenuto dal gelo, non riesce a far avanzare i suoi flutti e l'immensa distesa si copre di ghiaccio: le acque costringono ad arrestarsi tutte le imbarcazioni che vi sorprendono e gente a cavallo riesce a percorrere la crosta di ghiaccio, impraticabile per le navi, e la ruota del nomade Besso traccia un solco sulla palude Meòtide, sotto la quale risuona, non visto, il flutto. Sinistra appare la tranquillità della superficie e profondamente torpido il ristagnare, sull'orrido abisso, dell'acqua immobile, come quando, allorché la natura è in preda al gelo, i flutti non si muovono più e il mare, dimentico di osservare i suoi movimenti di sempre, non produce più il flusso e il riflusso, non ha più increspature, non tremola riflettendo i raggi del sole. Le imbarcazioni immobili erano esposte ad innumerevoli pericoli: da una parte la flotta nemica, che avrebbe potuto percorrere le acque immobili a forza di remi, dall'altra una fame insostenibile si sarebbe potuta abbattere su di essi, inchiodati dal torpore del mare. Per un nuovo tipo di paura furono escogitati voti mai sentiti prima: supplicavano la violenza dei venti e dei flutti, purché le onde si riscuotessero dal torpido ristagnare e ricomparisse nuovamente il mare. Ma da nessuna parte nubi o flutti minacciosi: mentre il cielo ed il mare non davano segni di vita, svanì ogni speranza di naufragio. Ma, messa in fuga la notte, il nuovo dì sollevò i suoi raggi circonfusi da una nube e, a poco a poco, smosse le profondità del mare, facendo credere ai marinai che gli Acroceràuni si muovessero. Da allora le navi cominciarono a procedere e i flutti a seguire, incurvandosi, la flotta, che - avanzando ormai con il pieno favore del vento e del mare - calò le ancore nel porto di Paleste.
Le terra - che scorse per prima i condottieri porre gli accampamenti molto vicini - è circondata dalle rive del veloce Gènuso e dell'Apso più lento. L'Apso consente la navigazione grazie ad una laguna, le cui acque esso utilizza, insensibilmente, con molle corso; il Gènuso invece è trascinato dalle nevi, sciolte ora dal sole, ora dalla pioggia: nessuno dei due si stanca per un lungo percorso, ma attraversa - dal momento che il lido è vicino - un brevissimo spazio. In questo luogo la Fortuna ha messo insieme due nomi celeberrimi e qui viene frustrata la speranza del mondo infelice, e cioè che i due capi - separati da una piccola distanza - possano condannare il delitto, cui avevano già posto mano: difatti è possibile scorgere i volti ed ascoltare le voci ed il suocero, amato da te, o Pompeo, per tanti anni, dopo la scomparsa di tanti legami d'affetto - nascite di un'unione infelice e morti di nipoti - ti vide più da presso soltanto sulle sabbie del Nilo.
La mancanza di una parte dell'esercito obbligò l'animo di Cesare, già preso dalla frenesia di attaccare battaglia, a porre un indugio ai suoi misfatti. Queste truppe erano comandate da Antonio, audace in ogni combattimento e che già, durante il conflitto civile, vagheggiava Lèucade. Costui, esitante, venne sollecitato più di una volta da Cesare con preghiere e minacce: «O tu, motivo di tanti travagli per il mondo, perché mai trattieni i numi e il destino? Il mio rapido procedere ha risolto ogni problema: ora la Fortuna ti reclama per completare positivamente una guerra iniziata con così grande decisione. Noi non siamo separati dalla Libia con le sue onde irregolari, provocate dalle Sirti piene di guadi: voglio forse affidare le tue truppe ad un abisso sconosciuto e trascinarti in perigli ignoti? O vile, Cesare ti ordina di venire presso di sé, non di procedere; io per primo ho inferto un duro colpo, travolgendo i nemici, nella parte vitale dei territori soggetti al dominio di altri: e tu hai paura del mio accampamento? Mi rammarico del fatto che si possa perdere l'occasione offerta dal fato: tutti i miei voti sono rivolti ai venti e al mare. Non trattenere i tuoi soldati bramosi di attraversare un mare incerto: se conosco bene le mie truppe, esse desiderano giungere al campo di Cesare anche se dovessero naufragare. Ed ora devo dar sfogo al mio risentimento: non ci siamo divisi equamente il mondo, dal momento che, mentre Cesare e l'intero Senato occupano l'Epiro, tu da solo sei padrone dell'Italia». Ma, dopo che egli si accorge che Antonio - nonostante fosse stato sollecitato tre o quattro volte da queste parole - continua ad esitare, convinto che fosse lui a non curarsi dei numi e non gli dèi di lui, osa prender l'iniziativa di avventurarsi sul mare (che i suoi temevano, nonostante l'ordine ricevuto), avvolto da tenebre piene di pericoli e - consapevole che le imprese temerarie incontrano il favore di un qualche dio - confida di attraversare con una piccola imbarcazione onde, che incuterebbero paura ad una flotta.
La notte, che suole invitare al sonno, aveva allentato le fatiche e le ansie della guerra, breve riposo per gli infelici, la cui condizione inferiore consentiva che potessero ristorarsi con il sonno. Ormai il silenzio dominava nell'accampamento e la terza ora aveva sostituito il secondo turno di guardia: Cesare, camminando nervosamente attraverso i vasti silenzi, si apprestava ad imprese, che a stento oserebbe uno schiavo, e, abbandonati tutti, decise di avere come compagna la sola Fortuna. Dopo che, uscito dalla tenda, passò oltre i corpi delle sentinelle addormentate (risentendosi fra sé di riuscire a sottrarsi alla loro sorveglianza), percorse la spiaggia che s'incurvava e trovò - proprio dove le onde lambivano il lido - una barca assicurata da una corda agli scogli corrosi dai flutti. Il pilota e proprietario dell'imbarcazione occupava una tranquilla abitazione - non lontana da quel luogo - non costruita con legname, ma messa insieme con sterili giunchi e canne palustri e protetta sul fianco scoperto da una barchetta rovesciata. Cesare scosse tre o quattro volte quell'uscio e fece oscillare il tetto: Amiclate si alzò dal letto, che era formato da morbide alghe, esclamando: «Qual naufrago mai giunge alla mia casa? Chi la Fortuna sollecita a sperare un aiuto dalla mia capanna?». Così parlò e, sollevato un pezzo di fune da un alto cumulo di cenere ancora tiepida, provocò una piccola scintilla, facendone scaturire il fuoco; egli non si cura della guerra: è ben consapevole che le capanne non rappresentano un obiettivo nei conflitti civili. O sicura ricchezza di una vita povera e umili Lari! O doni dei numi non ancora compresi! A quali templi o a quali case poté capitare mai di non farsi prendere dal panico, se la mano di Cesare avesse bussato alla loro porta? Allora, dischiuso l'uscio, il condottiero disse: «O giovane, attenditi ricompense più grandi dei tuoi umili desideri e dà spazio alle tue speranze: se tu, obbedendo ai miei ordini, mi trasporterai in Italia, da allora in poi non dovrai più ogni tuo sostentamento alla barca e non dovrai più faticare per portare avanti una vecchiaia in povertà. Non esitare ad offrire il tuo destino al nume, che vuole riempire la tua umile casa di inattese ricchezze». Queste le parole di Cesare, che è incapace di esprimersi con un tono ordinario e normale, pur indossando un abito plebeo. A sua volta il povero Amiclate: «Sono molti i motivi, che sconsigliano di mettersi in mare questa notte: infatti il sole, al tramonto, non ha fatto incombere nubi rosseggianti sulle onde né ha emesso raggi uniformi: la sua luce, divisasi, accennava da una parte verso il noto, dall'altra verso borea; e l'astro, con il centro pressoché privo di luce, ha consentito, al momento della sua scomparsa, che gli occhi potessero guardare la sua luce ormai debole; e la luna non si è alzata nel cielo, lucente con la falce sottile o incavata con esattezza nelle rientranze del suo giro né ha assottigliato le sue estremità in punte nette: con il suo colore rosseggiante ha preannunciato i venti; poi, pallida e triste, ha assunto un'espressione livida, che sarebbe scomparsa di lì a poco tra le nubi. E per di più non mi piace il muoversi delle selve, l'onda che colpisce la spiaggia, l'incertezza del delfino nell'affrontare i flutti, il fatto che lo smergo preferisca rimanere sulla terraferma, che l'airone - che solitamente sfiora la superficie del mare - abbia l'ardire di volare in alto, che la cornacchia cammini sul lido con passo incerto, tuffando il capo nell'acqua, come se volesse pregustare la pioggia. Però, se momenti decisivi di grandi eventi lo richiedono, non esiterò ad offrire la mia opera: o raggiungerò il lido, che mi ordinerai, o me lo vieteranno soltanto il mare e i venti».
Dopo aver così parlato, sciolse l'imbarcazione e dette le vele ai venti: al loro soffio non soltanto gli astri vaganti nell'etere segnarono, cadendo, solchi in diverse direzioni, ma sembrò che fossero scosse anche le stelle fisse, che si trovano alla sommità del cielo. Un cupo orrore avvolse la distesa marina, le onde ribollirono dappertutto minacciose con molti vortici ed i flutti torbidi, pur ignorando dove si sarebbero abbattuti i soffi che erano per sopravvenire, fornirono la prova dell'addensarsi dei venti. Allora il pilota della tremolante imbarcazione così parlò: «Osserva quali pericoli ci sta apprestando il perfido mare. Non si capisce bene se faccia soffiare gli zefiri o gli austri: flutti, che vengono da direzioni diverse, colpiscono da ogni parte l'imbarcazione. Dalle nubi e dal cielo si direbbe il noto: ma se prestiamo attenzione al muggito delle onde, è il coro a soffiare. Con una procella siffatta né la barca né noi, dopo essere naufragati, toccheremo i lidi d'Italia: l'unica salvezza consiste nel non fare più affidamento su questo viaggio e nell'invertire una rotta impercorribile. Consenti alla mia imbarcazione battuta dai flutti di riguadagnare la spiaggia, affinché la terra più vicina non si allontani eccessivamente».
Cesare però, convinto che ogni pericolo si sarebbe dileguato dinanzi a lui, replicò: «Non curarti delle minacce del mare ed affida pure le vele alla furia dei venti. Se ritieni di non poter raggiungere l'Italia perché il cielo è contrario, fa' rotta verso di essa: sono io che te lo comando. L'unico, giustificato, motivo del tuo timore consiste nel fatto che tu non conosci chi stai trasportando: si tratta di una persona, che gode costantemente del favore dei numi ed alla quale la Fortuna rende un cattivo servizio, allorquando essa interviene dopo i suoi voti. Apriti con la forza un varco in mezzo alla tempesta, reso tranquillo dalla mia protezione. Sono il cielo ed il mare a doversi affannare, non certo la nostra imbarcazione: essa, trasportando Cesare, sarà difesa dalla violenza delle onde dal suo stesso passeggero. Né lo scatenato furore dei venti riuscirà a mantenersi a lungo: questa barca sarà di giovamento ai flutti. Non piegare il timone, evita a vele spiegate il lido vicino: ti assicuro che raggiungerai il porto calabro, proprio quando non sarà più consentita alcuna salvezza per noi e per la tua barca. Tu non sai che cosa si sta apprestando con questa tempesta: la Fortuna - sconvolgendo mare e cielo - sta cercando come favorirmi». Aveva appena finito di parlare che un violento vortice si abbatté sull'imbarcazione, strappandone le funi lacere e trascinando via con sé le vele, che svolazzarono intorno al fragile albero: la struttura del battello, ormai definitivamente sconnessa, scricchiolò sinistramente.
A quel punto irruppero, scatenandosi da ogni punto dell'universo, tutti i pericoli. Ecco che tu, o coro, alzasti il capo dall'Oceano Atlantico, agitando i flutti; ed ormai il mare, mentre tu lo sollevavi, infuriava e faceva infrangere le onde sugli scogli: il gelido borea si scontrò con te, ributtando indietro i flutti e la distesa delle acque rimase incerta a qual vento piegarsi. Ebbe però la meglio la furia dell'aquilone scitico, che rovesciò le onde, e portò alla superficie le sabbie del fondo, come se fossero stati guadi. Il borea non spinse i flutti fino agli scogli ed infranse le sue onde su quelle del coro, sì che le acque - anche se fosse cessata la furia dei venti - avrebbero continuato a scontrarsi fra loro. Né sarei propenso a credere che non ci siano state le minacce dell'euro o che il noto nero di pioggia giacesse inerte, incarcerato nella roccia di Eolo: sono anzi convinto che tutti i venti, lanciatisi dal loro usuale punto di partenza, abbiano difeso, soffiando violentemente, i loro dominî, mentre l'Oceano rimaneva ad occupare il suo luogo consueto; difatti i venti, scatenando tempeste, afferrarono e trasportarono le superfici marine più piccole: il Tirreno passò nei flutti dell'Egeo e l'errante Adriatico risuonò nelle onde dello Ionio. Quante volte il mare aveva percosso invano quei monti, che quel giorno furono sommersi! Quante eccelse cime la terra sottomessa dovette abbandonare alle acque! Flutti così violenti non ebbero origine da nessun lido, ma giunsero, precipitandosi, da un altro emisfero e dal grande mare: la distesa, che circonda il mondo, provocò onde mostruose. Così il sovrano del cielo chiamò il tridente del fratello in aiuto del fulmine ormai stanco, perché si abbattesse sull'umanità, e la terra si fuse con il mare, allorché quest'ultimo travolse le genti e Teti non volle che i suoi confini fossero delimitati da nessuna terra, ma soltanto dal cielo: allora una quantità così enorme d'acqua si sarebbe innalzata fino alle stelle, se il sovrano degli dèi non avesse compresso i flutti con le nubi. Quella non fu una notte normale: non era possibile scorgere il cielo, soffocato com'era da un pallore simile a quello dell'infernale dimora, ed esso, reso pesante dai nembi, era costretto ad abbassarsi, sì che i flutti ricevevano pioggia dalle nuvole. Scomparve perfino la luce, che incute timore: non balenarono più folgori luminose e l'aria piena di nembi si squarciò nel buio. Fremettero le dimore dei numi e nelle zone alte del cielo, scosse nella loro struttura, rimbombò il tuono. La natura paventò il caos: l'armonia degli elementi parve schiantarsi e sembrò che dovesse nuovamente tornare la notte, che avrebbe confuso insieme i Mani e gli dèi. L'unica speranza di salvezza consisteva nel fatto di non essere ancora periti in un tal disastro dell'universo. Quanta tranquilla distesa marina si può osservare dall'alto di Lèucade, altrettanta ne avrebbe scorto dalla sommità dei flutti precipitarsi in basso, tremante, chi si fosse trovato in mare, e ogni volta che le onde, violente, si aprivano, l'albero della nave emergeva a stento dalla superficie. Le nubi son toccate quasi dalle vele e la terra dall'imbarcazione. Il mare, là dove si apre, ostenta le sabbie del fondo, costretto com'è ad ammassarsi in giganteschi cumuli d'acqua. La paura blocca l'abilità derivante dall'esperienza e il timoniere non sa più quali onde affrontare e a quali, invece, lasciarsi andare. La discordia del mare viene in soccorso agli sventurati ed i flutti, che lottano fra loro, non riescono a rovesciare l'imbarcazione: l'onda respinge il fianco che sta cedendo, rimettendolo in piedi, e il battello rinaviga alto in mezzo alla furia dei venti. Essi non hanno paura di Sasòna per i suoi fondali bassi né delle rocciose spiagge della Tessaglia che s'incurva né degli insidiosi porti della costa di Ambràcia: temono le sommità degli scogli degli Acroceràuni. Cesare, ritenendo che i pericoli fossero finalmente degni del proprio destino, così parlò: «Come si affannano i numi a volermi eliminare, scagliando tutta la violenza del mare addosso a me, che me ne sto seduto in una piccola imbarcazione! Se la gloria della mia fine è stata concessa al mare e negata alla guerra, io accoglierò senza paura, o dèi, qualsiasi tipo di morte mi vogliate assegnare. Anche se il giorno estremo, sopraggiunto immaturamente perché così il destino ha voluto, troncherà imprese notevoli, ne ho portate a termine di sufficientemente grandi: ho piegato le popolazioni nordiche, ho sottomesso con la paura gli eserciti nemici, Roma ha visto Pompeo venire al secondo posto; dopo aver soggiogato la plebe, ho ottenuto i fasci che mi erano stati vietati durante la guerra: nessuna carica romana mancherà alla mia epigrafe tombale e nessuno, all'infuori di te, o Fortuna - unica ad essere consapevole dei miei voti - saprà che io muoio come un qualsiasi cittadino, per quanto vada alle onde dello Stige carico di onori, dittatore e console. O numi, non ho bisogno di un funerale: abbandonate la mia salma straziata tra i flutti, mi manchino pure il sepolcro e il rogo, purché io sia sempre temuto ed atteso da ogni terra». Aveva appena pronunciato queste parole che una gigantesca ondata - mirabile a dirsi - lo innalzò insieme con l'imbarcazione semidistrutta e non lo fece precipitare dalla sommità dei flutti, ma lo trasportò con leggerezza deponendolo sulla terraferma, là dove, in una sottile striscia di spiaggia, mancavano scogli e rocce. Così egli, con il toccar terra, riacquistò insieme tanti regni, tante città e la sua fortuna.
Ma il rientro di Cesare, sul far del giorno, non sfuggì ai suoi soldati, così come era invece avvenuto durante la sua fuga silenziosa. La turba piangente circondò il capo e lo attaccò con rimproveri, misti a gemiti, che gli fecero piacere: «Dove ti ha trascinato, o crudele Cesare, il tuo sconsiderato coraggio? A quale destino abbandonavi le nostre vite di poco conto, mentre ti offrivi, perché fossi disperso, alle tempeste che non volevano? Mentre la sopravvivenza e la salvezza di tanta gente dipendono dalla tua vita e tanta parte del mondo ti ha fatto suo capo, è crudeltà aver desiderato la morte. Nessuno dei tuoi compagni ha meritato di non poter sopravvivere al tuo destino? Mentre il mare ti trascinava via, un pigro torpore immobilizzava i nostri corpi. Oh, vergogna! Il motivo, che ti ha spinto verso l'Italia, era forse il fatto che ritenevi una crudeltà mandare qualcun altro sul mare in tempesta? L'estrema disperazione fa di solito precipitare nei rischi incerti e nei pericoli di morte sicura: ma è veramente eccessivo aver affidato al mare il padrone del mondo! Perché stanchi i numi? Basta forse al destino della guerra la benevolenza della Fortuna, che si è presa cura di farti giungere al nostro lido? Sei rimasto soddisfatto del comportamento dei numi, sì che tu fossi non il padrone e il reggitore del mondo, ma solo un naufrago fortunato?». Il sole di una giornata serena li trovò - passata la notte - che discutevano di queste cose e il mare, ormai stanco, lasciò calmare, con il consenso dei venti, le onde gonfie.
Non appena i condottieri italici videro il mare stanco di procelle e soffiare nel cielo il borea purificatore, che si accingeva ad infrangere la violenza dei flutti, sciolsero gli ormeggi delle navi, che il vento e i timonieri esperti di una navigazione regolare tennero per lungo tempo unite: sulla vasta superficie la flotta avanzava con le navi schierate, come un esercito sulla terra. Ma la perfida notte tolse ai naviganti la capacità di controllare il vento e di sistemare le vele e scompigliò lo schieramento delle navi. Così le gru, quando l'inverno le scaccia, abbandonano il gelido Strìmone per abbeverarsi nelle tue acque, o Nilo, e, non appena si levano in volo, formano delle figure a caso: in un secondo momento, allorché, più in alto, il noto colpisce le ali tese, esse si mescolano insieme in gruppi confusi e la figura della lettera si dissolve per il disperdersi dei volatili. Non appena, all'alba del nuovo giorno, un vento - provocato dal sorgere del sole - si abbatté con maggior forza sulle navi, la flotta sorpassò i lidi di Lisso, dove non riuscirono a sbarcare. Giunsero così a Ninfèo: l'austro, che aveva preso a soffiare dopo il borea, aveva ormai trasformato in un porto le acque non più soggette agli aquiloni.
Confluite tutte le forze di Cesare in un unico esercito, Pompeo constatò che il momento decisivo della guerra crudele incalzava il suo accampamento e stabilì di mettere al sicuro la moglie, nascondendoti, o Cornelia, a Lesbo, che si trovava fuori mano e lontano dal tumulto della guerra spietata. Che gran potere ha l'affetto coniugale sugli animi giusti! L'amore fece anche te, o Pompeo, dubbioso e impaurito per il combattimento: la sola cosa che tu non volesti che si trovasse alla mercè della Fortuna - da cui dipendevano il mondo e i destini di Roma - fu la tua sposa. Le parole vengono meno all'animo già pronto ed è piacevole per lui, che cerca così di ritardare gli eventi che incombono, lasciarsi andare ai dolci indugi e sottrarre tempo al fato. Sul finire della notte, scrollatosi di dosso il torpore del sonno, Cornelia - mentre si avvince con un caldo abbraccio al petto del marito gravido di preoccupazioni e ne ricerca i dolci baci - si stupisce del fatto che le sue guance siano umide e, colpita da una pena misteriosa, non ha il coraggio di sorprendere Pompeo mentre piange. Egli mescola parole e gemiti: «O sposa più diletta a me della vita, non di quella di adesso che mi è di fastidio, ma di quella, che trascorrevamo allorché eravamo felici, ecco che è sopraggiunto il triste giorno, che noi abbiamo rimandato troppo o troppo poco: ormai Cesare è tutto teso allo scontro. È necessario piegarsi alla guerra e l'unico nascondiglio sicuro sarà per te Lesbo. Non provare a piegarmi: l'ho già negato a me stesso. Non dovrai sopportare una lunga separazione da me; gli eventi sopravverranno rapidi: quando il crollo è prossimo, le cime rovinano. È sufficiente per te aver notizia dei pericoli di Pompeo; il tuo amore ti ha ingannato, dal momento che sei in grado di assistere al conflitto civile. Io mi vergogno, mentre la guerra si sta scatenando, di dormire sonni tranquilli con mia moglie e, mentre le trombe di guerra squassano il mondo infelice, di svegliarmi accanto a te: ho ritegno a consegnare al conflitto civile un Pompeo non reso triste da nessuna perdita. Nel frattempo tu, più al sicuro di popoli e di re, rimani nascosta e la sorte del marito non si abbatta su di te, che sei al riparo, con tutto il suo peso. Se gli dèi avranno deciso che il nostro esercito debba avere la peggio, sopravviva la parte migliore di Pompeo e, se sarò incalzato dal destino e dal vincitore insanguinato, ci possa essere per me un luogo, dove io brami rifugiarmi». A stento Cornelia, debole, sopportò un dolore così grande e, folgorata nell'animo, perse i sensi. Ripresasi, fu in grado di esternare tristi lamenti: «Non mi è concesso, o Pompeo, lagnarmi, con il fato o con gli dèi, della nostra unione: non è né la morte né l'estrema fiamma del rogo crudele a spezzare il nostro amore: trattata in un modo, purtroppo frequente, eccessivamente plebeo, rimango sola, dal momento che il marito mi ripudia. Infrangiamo il patto nuziale al sopraggiungere del nemico, plachiamo il suocero. Così, o Pompeo, ti è nota la mia fedeltà? Ritieni veramente che per me ci possa esser qualcosa di più sicuro che per te? Non dipendiamo tutti e due, ormai da tempo, da un'unica sorte? Comandi, o spietato, a me lontana, di presentare il capo ai fulmini e a una rovina così grande? Ti sembra una sorte priva di preoccupazioni il fatto che, mentre tu continui a far voti, io debba morire? Ammettiamo che io non sia disposta ad essere schiava di malvagi e che, uccidendomi, ti segua nell'oltretomba: fino a quando la ferale notizia non mi avrà colto in terre lontane, ti sopravviverò pur sempre. Aggiungi il fatto che tu ti pieghi al destino e che mi insegni, o spietato, a sopportare un così tremendo dolore; perdona la mia sincerità: ho paura di poter soffrire. Se i voti hanno una qualche efficacia e i numi mi ascoltano, la moglie sarà l'ultima a conoscere gli eventi: se la vittoria toccherà a te, io sarò sulle rocce in preda all'angoscia e avrò timore della nave, che mi reca notizie così liete. Né il venire a conoscenza dell'esito favorevole della guerra disperderà le mie paure, se io, abbandonata in zone prive di ogni difesa, posso esser fatta prigioniera da Cesare, anche se starà fuggendo: quel lido diventerà famoso per l'esilio di un nome illustre e chi potrà non essere a conoscenza del nascondiglio di Mitilene, dimora della sposa di Pompeo? Ecco la mia ultima preghiera: se la sconfitta non ti consentirà nulla di più sicuro della fuga, quando ti sarai imbarcato, fai rotta, o misero, verso qualsiasi altro luogo, ma non qui: altrimenti verranno a cercarti sui lidi dell'isola, in cui io mi trovo». Così parlò e, fuori di sé, balzò dal letto e non volle rimandare i tormenti. Le mancò la forza di stringersi con un dolce abbraccio al petto del triste Pompeo e di avvinghiarglisi al collo: svanì l'estremo frutto di un amore così lungo, essi affrettarono il loro cordoglio e nessuno dei due, lasciando l'altro, ebbe la forza di dire «addio». In tutta la loro vita non sorse mai un giorno così triste, dal momento che essi sopportarono i mali futuri con animo fermo e irrobustito dalle sventure.
L'infelice Cornelia scivolò a terra e, raccolta dalle mani dei suoi, venne trasportata sulla sabbia della spiaggia; lì si gettò a terra e si afferrò al lido, fino a quando non fu trascinata sulla nave. Non era in preda ad un'angoscia simile, quando abbandonò la patria ed i porti d'Italia, allorché incalzava l'esercito del crudele Cesare. Te ne vai, fedele compagna di Pompeo, dopo aver lasciato il condottiero, e fuggi il marito. Qual notte insonne ti toccò passare: allora per la prima volta, nel vedovo letto, ebbe, lei non abituata a star sola, un freddo riposo ed il suo fianco rimase deserto, senza la vicinanza del marito: quante volte, appesantita dal sonno, strinse a sé, con braccia deluse, il letto vuoto, e, non pensando più al suo esilio, cercò nella notte il suo uomo! Per quanto un fuoco interno le bruciasse in silenzio le midolla, non le riusciva gradito allungare il suo corpo in tutto il letto: quella parte del talamo era riservata al marito. Ella temeva solo il fatto che Pompeo non ci fosse; ma i numi stavano apprestando eventi ancora più luttuosi: incombeva sull'infelice il momento che le avrebbe restituito il Grande.

LIBRO SESTO


I due capi, ormai decisi al combattimento, disposero gli accampamenti su due alture vicine: i soldati si fronteggiavano da presso e gli dèi videro la coppia dei propri campioni. Cesare allora, disdegnando di occupare tutte le rocche greche, ricusa di esser debitore al destino di vittorie, se non di quelle riportate sull'esercito del genero. Tutti i suoi desideri reclamano l'ora funesta per il mondo, che trascini in rovina ogni cosa: si rallegra dell'alea del fato, destinato a travolgere uno dei due contendenti. Tre volte fece schierare sulle alture tutti gli squadroni di cavalleria e le insegne che minacciavano battaglia, dimostrando di non venir mai meno alla sua intenzione di non mancare alla rovina del Lazio. Non appena si accorse che non riusciva a stimolare il genero a nessun tipo di scontro (ché anzi quello preferiva rimanere al sicuro, protetto dall'accampamento), dette l'ordine di marcia e, attraverso un sentiero nascosto tra i campi pieni di cespugli, si diresse con grande rapidità - per piombarvi sopra - verso la rocca di Durazzo. Ma Pompeo anticipò quella marcia attraverso una via, che correva lungo la costa, e stanziò l'accampamento su un colle, che gli autoctoni Taulanti chiamano Petra, e si pose a custodia delle mura efirèe e a difesa di una città salvaguardata anche solo dalle sue fortificazioni naturali. Essa infatti non è protetta da antiche opere di difesa - prodotto della fatica degli uomini, e perciò proclive, ancorché riesca ad innalzare opere così alte, a cedere alle guerre o al tempo, che spazza via ogni cosa -, ma possiede un baluardo, che nessun ferro riesce a scalfire, e cioè la posizione naturale del luogo: è infatti chiusa da ogni parte da un abisso senza fondo e da rocce, che rigettano i flutti, e, se non è un'isola, lo deve a una piccola altura. Le mura poggiano su scogli, che incutono timore alle navi, e la furia dello Ionio - allorché il mare si solleva per la violenza dell'austro - percuote templi e case e le onde colpiscono, spumeggiando, anche i punti più alti.
A questo punto una malvagia speranza si impossessa dell'animo di Cesare, bramoso di guerra, quella cioè di circondare, con un terrapieno costruito a una certa distanza, i nemici ignari, che occupano le vaste alture. Calcola con gli occhi lo spazio da utilizzare e, non contento di innalzare soltanto muri improvvisati con materiale poco resistente, fa trasportare grandi rocce e macigni strappati dalle cave, dalle dimore dei Greci e dalle mura atterrate. Si innalza un baluardo, che non potrebbe riuscire ad abbattere né un possente ariete né alcun'altra macchina da guerra, per quanto poderosa: le alture vengono infrante e Cesare porta avanti un'opera derivante dall'abbattimento e dallo spianamento delle zone ripide e scoscese incontrate: fa scavare fossati e sistema sulla sommità delle alture fortificazioni munite di torri e, circondando per lungo tratto terre, balzi, lande selvose e boschi, chiude tutti gli animali della zona con un grande accerchiamento. Pompeo può però disporre di campi e di pascoli e, per quanto circondato dal terrapieno di Cesare, è in grado di cambiare la dislocazione dell'accampamento: in quel luogo nascono e muoiono, scorrendo con fatica, numerosi corsi d'acqua e Cesare, per poter passare in rassegna il risultato delle opere d'assedio, deve fermarsi, stanco, in mezzo ai campi.
Adesso l'antica leggenda narri pure con ammirazione le mura di Troia e le attribuisca ai numi; i Parti che fuggono ammirino con stupore le mura di Babilonia, costruite con fragili mattoni: ecco, un'opera messa su in fretta e furia, nel trambusto della guerra, racchiude uno spazio equivalente a quello circondato dal Tigri e dal veloce Oronte o a quello che è sufficiente, nelle terre orientali, ai popoli assiri per il loro dominio. Una fatica così immane andò perduta: lo sforzo di tante braccia avrebbe potuto collegare Sesto ad Abìdo e far scomparire il mare frissèo, sommergendolo di terra, o separare Èfira dagli estesi regni di Pèlope, evitando così alle navi il lungo giro di Malèa, o ancora cambiare in meglio qualche parte del mondo, per quanto la natura possa opporvisi. L'area della guerra è racchiusa in questa zona: qui si dà nutrimento ad un sangue destinato a scorrere per ogni terra, qui son contenute sia le stragi di Tessaglia che quelle di Libia: la furia dei cittadini ribolle in un'arena troppo stretta.
L'inizio della costruzione delle opere d'assedio ingannò Pompeo, come avviene a colui che, al sicuro tra i campi della Sicilia centrale, non sente latrare il rabbioso Pelòro, o ai Britanni di Caledonia, i quali non si accorgono dello sconvolgimento delle onde, allorché il vagante mare si agita presso i lidi rutupini. Pompeo, non appena scorge le terre chiuse da un lungo terrapieno, fa scendere le truppe dalla sicura Petra e le sparge sui diversi colli, in modo da costringere Cesare, che tentava di circondarlo, ad allentare la morsa e a sparpagliare i suoi uomini; riserva inoltre per sé, con una palizzata, un'estensione di territorio corrispondente alla distanza esistente tra l'alta Roma e la piccola Ariccia, circondata da boschi e consacrata a Diana micenea, ed equivalente allo spazio, che il Tevere percorrerebbe dalle mura dell'Urbe fino al mare, senza deviare in alcun punto il suo corso.
Non risuonano squilli di tromba, i dardi errano senza ordine e sovente diviene micidiale un giavellotto scagliato per esercitarsi. Preoccupazioni più gravi distolgono i condottieri dall'attaccare battaglia: così Pompeo è impensierito dal fatto che il terreno non produca foraggio, calpestato com'è dai cavalli in corsa: i cornei zoccoli galoppanti hanno fatto piazza pulita del terreno verdeggiante. Il destriero da combattimento giace esausto nei campi spogli e - quantunque le mangiatoie offrano in abbondanza cibo trasportato per mare - stramazza morente mentre cerca erba fresca ed interrompe, con le ginocchia tremanti, le sue evoluzioni. Mentre la putrefazione dissolve i corpi e consuma le membra, il cielo, in cui nulla si muove, raccoglie in una fosca nube il veloce contagio della pestilenza: nello stesso modo Nìsida emana esalazioni infernali da rocce piene di nebbia e dai suoi antri si solleva nell'aria la rabbia di Tifone apportatore di morte. Allora i soldati stramazzano e l'acqua - che con maggiore facilità si infetta dei germi di tutte le malattie - rende dure le loro viscere con lordure di ogni tipo. Ecco che la pelle si irrigidisce tendendosi e fa esplodere gli occhi, che si erano gonfiati; il contagio, l'infuocato e ardente morbo sacro, si diffonde sui volti, e le teste, esauste, non riescono più a star ritte. Ed ormai il fato sospinge sempre di più ogni cosa nell'abisso né il morbo pone un intervallo tra la vita e la morte: quest'ultima infatti tien dietro al languore e la peste è centuplicata dal gran numero dei morti, mentre i corpi insepolti giacciono mescolati ai vivi: la cerimonia funebre consiste nel gettare gli sventurati cittadini fuori dalle tende. Purtuttavia il mare, che si trova alle spalle, l'aria spinta dagli aquiloni, i lidi e le navi cariche di grano straniero attenuano questi travagli. Invece i nemici, che hanno grande libertà di movimento sulle vaste alture, non sono tormentati da un'aria immobile o da acque stagnanti, ma - come se fossero stretti da un incalzante assedio - sono costretti a sopportare una crudele fame. Dal momento che il grano non ha ancora raggiunto la maturazione, si assiste al miserando spettacolo della turba, che si getta sui cibi destinati agli animali, si nutre di cespugli, spoglia le selve del fogliame e strappa da sconosciute radici erbe sospette, che potrebbero rivelarsi mortali: tutto quello che essi riescono a rendere molle con il fuoco o a frangere a morsi o a far scendere nello stomaco attraverso la gola escoriata e una gran quantità di cibi, che le tavole degli uomini non conoscevano ancora: i soldati si gettano su ogni cosa, pur assediando un nemico sazio.
Non appena Pompeo stabilì di rompere l'accerchiamento, di uscirne fuori e di spaziare in ogni direzione, non utilizzò le ore della notte, che nascondono tutte le cose con le tenebre, e rifiutò sdegnosamente una via d'uscita ottenuta ad ogni costo con un raggiro, sì da evitare il combattimento con Cesare: bramava di venir fuori dalle mura diroccate in più punti e, con un assalto al terrapieno, di abbattere le torri, attraverso tutte le spade e là dove bisognava aprirsi la via con una strage. Gli sembrò però più adatto un punto del vicino terrapieno, dove le opere di fortificazione di Minùcio cessavano e macchie cespugliose e dirupate coprivano con fitti alberi il suo esercito. Spinse i suoi uomini in quella direzione, senza che la loro presenza venisse rivelata dalla polvere, e si presentò improvvisamente sotto le mura. Il balenio di tante aquile latine brillò nello stesso momento nei campi e tante trombe emisero il loro squillo. I nemici attoniti furono abbattuti dal terrore, sì che la vittoria non dovette nulla al ferro. L'unico effetto che il loro valore riuscì ad ottenere fu quello di cadere uccisi là dove avrebbero dovuto resistere: ormai mancavano i soldati da colpire e andava perduta la nube formata da tanti dardi. Allora fiaccole lanciate con forza scagliarono fuochi di pece e le torri scosse oscillarono minacciando di crollare: il terrapieno gemette sotto i frequenti colpi dell'ariete che vi si abbatteva contro. Ormai le aquile pompeiane erano uscite sulla sommità dell'alta trincea e dinanzi ad esse si squadernava, per essere conquistato, il mondo: quel luogo, che la Fortuna - anche se si fosse servita di mille squadroni e di tutto quanto l'esercito di Cesare - non avrebbe potuto strappare ai vincitori, un uomo solo fu in grado di sottrarlo, impedendo che fosse conquistato e, finché egli riuscì ad avere un'arma in pugno e a non soccombere, negò che Pompeo avesse vinto. Quest'uomo aveva nome Sceva e svolgeva il suo servizio come soldato semplice prima delle spedizioni contro le feroci popolazioni del Rodano; in quell'occasione, promosso a motivo delle numerose ferite riportate, era stato nominato centurione, dopo aver percorso tutti i gradi della carriera: uomo sempre pronto a versare sangue ed inconsapevole del fatto che il valore rappresentava un enorme delitto nelle guerre civili. Costui, allorché scorse che i compagni, abbandonato il combattimento, cercavano di salvarsi con la fuga, esclamò: «Dove vi sospinge l'empia paura, che tutti gli altri soldati di Cesare non conoscono? [O schiavi svergognati, gregge servile, senza sangue nelle vene,] fuggite dinanzi alla morte? Non vi vergognate di non essere nel gruppo dei coraggiosi e di farvi cercare nel mucchio dei cadaveri? Non troverete almeno nell'ira la forza di resistere, o giovani, visto che avete messo da parte il vostro impegno di soldati? Infatti, fra tutti quelli, attraverso cui i nemici si sarebbero potuti aprire un varco, siamo stati scelti noi: in questo giorno sarà versato molto sangue da parte dei soldati di Pompeo. Andrei più lieto fra le ombre, se Cesare fosse presente: ma la Fortuna mi ha negato un testimone siffatto: cadrò riscuotendo l'elogio di Pompeo. Spezzate le frecce con la spinta del vostro petto e fate che le spade dei nemici perdano il filo sulle vostre gole. Ormai la polvere e il boato dei crolli vanno in posti lontani ed il loro fragore ha colpito le orecchie di Cesare, che non sospetta nulla. Siamo noi i vincitori, o compagni: mentre noi moriamo, verrà chi conquisterà di nuovo la rocca». Queste parole provocarono un furore più violento di quello che esplode al primo suono delle trombe di guerra, e i soldati, pieni di ammirazione, tengon dietro all'eroe, bramosi di vederlo in azione e di sapere se il valore, incalzato dal numero dei nemici e dalla posizione sfavorevole, possa valere più della morte. Sceva si pone sul terrapieno che sta franando e per prima cosa butta giù i cadaveri dalle torri che ne son piene, seppellendo così con i corpi i nemici che si fan sotto: egli utilizza come oggetti di lancio tutte le rovine, sia travi che pietre, e minaccia di gettarsi egli stesso sul nemico. Ora con un palo, ora con una dura picca fa precipitare giù dal muro i petti avversari e taglia con la spada le mani, che sono ormai riuscite a raggiungere la sommità della trincea; ad alcuni fracassa con un sasso la testa e le ossa, facendo schizzar fuori il cervello maldifeso dalla debole protezione; ai capelli e alla barba di altri appicca fuoco: gli occhi ardono sfrigolando.
Non appena i cadaveri, accumulandosi, portarono allo stesso livello la sommità del muro e il terreno, Sceva si gettò, superando d'un balzo le armi, in mezzo alle schiere nemiche, con la medesima rapidità e agilità con cui il veloce leopardo salta in mezzo alle punte degli spiedi dei cacciatori. Allora, incalzato da fitti gruppi di nemici ed assalito da ogni parte, ha la meglio perfino su quelli che lo assalgono alle spalle. Ed ormai la punta della spada, smussata e senza più filo a causa del sangue che vi si è raggrumato, [colpisce, facendoli a pezzi e non ferendoli, i nemici,] ha perduto l'ufficio di arma: fa a pezzi, non ferisce, i corpi. Un'intera turba lo incalza, tutte le armi sono su di lui: non vi fu alcuna mano incerta né una lancia che non colpisse l'obiettivo. La Fortuna assiste così allo scontro di una coppia di contendenti mai veduti prima: un esercito e un uomo. Il robusto scudo rimbomba per i colpi frequenti, le schegge dell'elmo incavato premono e bruciano le tempie e l'unica protezione delle parti vitali, ormai messe allo scoperto, è costituita soltanto dalle aste conficcate sulle ossa. Per qual motivo ora, o folli, sprecate, con giavellotti e frecce veloci, i colpi, che non giungeranno mai nelle parti vitali? Sceva potrebbe essere stroncato solo da una falarica lanciata da corde ritorte o da un enorme masso, di quelli che si adoperano per sfondare le mura; lo potrebbe toglier di mezzo dalla soglia dell'ingresso al terrapieno soltanto il ferro dell'ariete o una balista. Egli si erge a difesa di Cesare, muro che non può essere abbattuto, e riesce a trattenere i pompeiani. Ormai non ripara più il petto con le armi e si vergogna di proteggersi con lo scudo e di non aver utilizzato la mano sinistra o di essere sopravvissuto per propria colpa: affronta da solo tutte le ferite della guerra e, recando sul petto una fitta selva di dardi, avanza a passi stanchi, scegliendo il nemico su cui gettarsi. [Simile ai mostri del mare, così la fiera di Libia] così l'elefante libico, incalzato da un gran numero di colpi, spezza tutti i giavellotti, respingendoli dal dorso rugoso e con il movimento della pelle toglie via le aste, che vi si erano conficcate: le viscere rimangono celate sicure all'interno e i dardi, che si infiggono nella bestia, non riescono a far sgorgare il sangue: le ferite inferte da tante saette e da tanti giavellotti non sono in grado di provocare la morte di un solo essere. Ma ecco che da lontano una freccia di Gortina viene scagliata da una mano cretese contro Sceva e, superando ogni più rosea speranza, gli si immerge nella testa, infilandosi nell'occhio sinistro. Egli, senza tremare, spezza - insieme alla freccia, che è difficile estrarre dall'orbita -, i legamenti nervosi e muscolari, strappa il dardo dall'occhio enucleato e lo calpesta insieme con l'arma. Non diversamente l'orsa pannonica, resa più feroce dall'essere stata colpita - allorché il cacciatore libico ha scagliato un giavellotto con una piccola fionda - si contorce sulla ferita e, furibonda, cerca di gettarsi sul dardo che l'ha colpita, ruotando su se stessa nel tentativo di afferrare l'asta che le sfugge in continuazione. Un furore rabbioso ha completamente alterato l'espressione del suo viso: il volto, inondato di sangue, non conserva più alcun aspetto umano. Il boato dei vincitori, in preda all'esultanza, colpisce il cielo: vedere Cesare ferito non farebbe provare ai pompeiani una gioia più grande di quella che provoca in loro la vista del sangue di quell'umile gregario. Sceva allora, cercando di nascondere il suo furore, soffocandolo profondamente nell'animo, assunse un aspetto dimesso, dopo aver eliminato dal suo volto ogni espressione coraggiosa e di sfida: «Risparmiatemi, o cittadini», disse, «allontanate da me il ferro; ormai altre ferite non concorreranno certo alla mia morte: non c'è più bisogno di scagliare dardi, ma anzi di toglierli dal mio petto. Sollevatemi e portatemi, ancora vivo, nell'accampamento di Pompeo: fate questo dono al vostro capo: Sceva rappresenti il simbolo della diserzione dall'esercito cesariano piuttosto che quello di una fine gloriosa». Il misero Aulo dette fiducia a quelle parole non vere e non scorse Sceva che impugnava la spada, puntandogliela contro; mentre si preparava a portar via il prigioniero e le sue armi, fu colpito alla gola da un improvviso fendente. Il valore si infiammò nuovamente ed il centurione, che aveva ripreso lena da quella sola uccisione, esclamò: «Paghi il fio chiunque ha nutrito la speranza di soggiogare Sceva: se Pompeo chiede pace a questa spada, abbassi le sue insegne dopo aver reso onore a Cesare. O forse mi ritenete simile a voi e incapace di reagire di fronte al destino? L'amore che voi provate per Pompeo e per la causa del Senato è inferiore a quello che io provo per la morte». Aveva appena pronunciato queste parole che l'avvicinarsi delle coorti cesariane fu attestato da un alto polverone; esso risparmiò a Pompeo il disonore e l'onta consistenti nel fatto che un intero esercito fuggiva dinanzi a te solo, o Sceva, a te che cadi nel momento in cui ti è stato sottratto il combattimento: era infatti la battaglia a darti nuove forze, proprio quando avevi versato tutto il tuo sangue. I suoi in folla lo raccolsero mentre scivolava a terra e gioirono nel portare sulle spalle lui ormai privo di forze: adorano in lui il simbolo vivente dell'immenso Valore, come se nel suo petto trafitto fosse racchiusa una divinità. Fanno a gara per strappare dal suo corpo i dardi che vi si erano conficcati e adornano i simulacri degli dèi e il nudo Marte con le tue armi, o Sceva: il tuo nome sarebbe stato fortunato per la gloria conseguita, se avessi messo in fuga i crudeli Ibèri o i Càntabri dalle corte lance o i Tèutoni dalle lunghe aste: tu non puoi ornare con il bottino di guerra il tempio di Giove Tonante né esultare con grida festanti, nel giubilo del trionfo: sventurato, con quanto valore ti sei procurato un padrone!
Per quanto fosse stato rigettato indietro da questa parte del terrapieno, Pompeo non rimandò il combattimento, rimanendosene inattivo nelle sue fortificazioni, più di quanto il mare si distenda, allorché, sollevandolo gli euri, manda le sue onde ad infrangersi sugli scogli o corrode il fianco di un alto promontorio, provocandone così il crollo, che si verificherà più tardi. Di lì dirigendosi sul mare tranquillo verso le fortificazioni vicine, le conquista con un doppio assalto, sparpaglia i suoi per largo tratto e fa disporre le tende su un'area molto vasta, lieto di poter avere la possibilità di cambiare posizione. Così il Po, quando è gonfio, supera le rive protette dagli argini e si abbatte su tutti i campi: se da qualche parte la terra cede e frana, non reggendo alla furia delle acque che si accumulano, allora il fiume esce dagli argini con tutta la sua forza e copre con i suoi flutti i campi che non conosce: qui le terre sfuggono ai loro proprietari, lì divengono possesso, per dono del Po, dei coloni. A fatica Cesare ebbe sentore del combattimento, svelatogli dalle fiamme che si levavano da un posto di osservazione: rinviene le mura ormai crollate nella polvere e sorprende, ormai freddi, i segni come di un'antica rovina. La pace stessa del luogo provoca la sua ira e lo mandano in furia l'atteggiamento tranquillo di Pompeo ed il suo sonno, dopo la vittoria su Cesare: si affretta alla lotta, anche se questa dovesse risolversi in un disastro, purché possa turbare la gioia dell'avversario. Di lì si abbatte minacciosamente su Torquato, che scorge gli uomini di Cesare con la stessa velocità con cui i marinai, quando l'albero della nave comincia a vibrare, sottraggono le vele alle tempeste del Circeo: fa ritirare le sue truppe all'interno presso un muro più piccolo, in modo che i soldati possano collocarsi più fittamente in un circolo più ristretto.
Cesare aveva oltrepassato le difese della prima trincea, allorché Pompeo dall'alto di tutti i colli lanciò i suoi soldati, riversandoli contro i nemici, che si trovarono così circondati. Quando il noto soffia e tutto l'Etna svuota le sue caverne e straripa in fiamme nei campi, gli abitanti delle valli di Enna temono Encèlado meno di quanto abbiano ora paura i soldati di Cesare, i quali, sconfitti da un grande polverone ancor prima di ingaggiar battaglia e resi ciechi dal terrore, incappano, mentre si danno alla fuga, nel nemico e precipitano, spinti dalla paura, nel loro destino di morte. Ci sarebbe stata allora la possibilità per la guerra civile di fare scorrere tutto il suo sangue fino alla stipula della pace, ma fu il condottiero in persona a trattenere le spade furenti. O Roma, saresti felice nel tuo diritto e libera dai tiranni, se Silla avesse vinto per te in quel luogo. È, e sarà sempre motivo di rammarico - ahimè! - il fatto che tu, o Cesare, ti sia giovato del più grande dei tuoi delitti, e cioè del fatto di combattere contro un genero devoto e pio. Oh, triste destino! La Libia non avrebbe pianto le stragi di Utica né la Spagna quelle di Munda, il Nilo, profanato di sangue sacrilego, non avrebbe trasportato un cadavere più nobile del sovrano fario, Giuba non sarebbe giaciuto nudo sulle arene della Marmàrica, Scipione non avrebbe placato con spargimento di sangue le ombre dei Cartaginesi né la vita degli uomini sarebbe rimasta priva della virtù di Catone. Quello sarebbe potuto essere, o Roma, l'ultimo giorno dei tuoi mali e Farsàlo avrebbe potuto esser tolta dai decreti del fato.
Cesare abbandonò quella zona su cui dominava una divinità ostile e con l'esercito malconcio si diresse alla volta delle terre d'Emazia. I compagni cercarono di far deflettere Pompeo - intenzionato ad inseguire le truppe del suocero, qualsiasi zona avesse attraversato durante la sua fuga - esortandolo a far vela verso le sedi della patria e verso l'Italia sgombra da nemici. Ma egli rispose: «Non tornerò in patria come ha fatto Cesare e Roma mi vedrà tornare solo quando avrò congedato l'esercito. All'inizio del conflitto avrei potuto occupare l'Italia, se fosse stata mia intenzione impegnare battaglia nei nostri templi e lottare in mezzo al foro. Pur di tenere lontana la guerra, supererei le estreme zone del freddo scitico e le regioni calde. Io, vincitore, ti sottrarrei la pace, o Roma, io che sono fuggito, perché tu non fossi oppressa dalla guerra? Oh, piuttosto Cesare ritenga che tu appartieni a lui, a patto che tu non debba soffrire in questa guerra». Così parlò e indirizzò il suo cammino verso Oriente e, percorrendo itinerari fuori mano - là dove la Candàvia spiega vasti balzi - giunge in quell'Emazia, che il destino stava apprestando per la guerra.
Il massiccio dell'Ossa segna il confine della Tessaglia, in quella zona in cui il sole fa sorgere il giorno nel periodo invernale; allorché l'estate avanzata trascina Febo verso lo zenit, nella sommità del cielo, il Pèlio oppone le sue ombre ai raggi nascenti e l'Otri pieno di boschi attenua l'effetto dell'ardente mezzogiorno e quello del calore del cocente Leone nel solstizio d'estate. Il Pindo riceve gli zefiri che gli soffiano contro e il vento iapigio, mentre, quando scende il crepuscolo, è di ostacolo alla luce; quelli che abitano alle falde dell'Olimpo non temono il borea e non sanno che l'Orsa splende per intere notti. I campi, che sono compresi, in una valle, fra queste montagne, erano un tempo costantemente ricoperti da paludi: infatti, dal momento che la pianura tratteneva i fiumi e l'aperta Tempe non aveva sbocchi al mare, i corsi d'acqua, scorrendovi, aumentavano - facendone crescere il livello - un unico, immenso stagno. Dopo che l'imponente catena dell'Ossa si separò, per opera di Ercole, dall'Olimpo e Nèreo percepì l'improvviso scrosciare dell'acqua, emerse (e sarebbe stato meglio che fosse rimasta sotto le onde) l'emazia Farsàlo, dominio del marino Achille, ed emersero anche Fìlace, che per prima approdò ai lidi retèi, Ptèleo, Dòrio, che l'ira delle Muse fece piangere, Trachìne, Melibèa, forte per la faretra di Ercole, ricompensa dell'empio rogo, Larissa, una volta potente, Argo, celebre un tempo e sulle cui rovine oggi lavora l'aratro ed il luogo in cui la leggenda colloca l'antica Tebe echiònia, dove una volta Agàve, esule, portando la testa di Pènteo, la pose sul rogo, lamentandosi di esser riuscita ad ottenere solo quella del figlio. Così la palude, irrompendo attraverso l'apertura, si suddivise in molti fiumi. Di lì scorre, per sfociare, ad ovest, nello Ionio, il limpido Eante, che ha scarsa portata, né con onde più violente procede il padre della rapita Ìside e il tuo quasi genero, o Èneo, copre con onde melmose le Echìnadi, mentre l'Evèno, sporco del sangue di Nesso, solca Calidone, patria di Meleagro. Lo Sperchèo si getta con veloce corso nei flutti malìaci e l'Anfrìso, con le sue acque limpide, bagna i pascoli di Febo, costretto a fare lo schiavo; dall'Anàuro non si levano nebbie umide né aria rugiadosa né aure leggere. Tutti i fiumi, che il mare non conosce individualmente, donano le loro acque al Penèo: l'Apìdano avanza con gorghi vorticosi e così l'Enìpeo, che acquista velocità solo quando diviene affluente dell'Apìdano. Lì scorrono anche l'Asòpo, il Fenìce e il Mela. Il solo Titarèso, quando si getta in un altro fiume, tiene separati i suoi flutti e, scorrendovi sopra, fluisce sulle acque del Penèo come se fossero campi asciutti: si dice che quest'ultimo fiume abbia origine dalle paludi dello Stige e, memore della sua fonte, non voglia sopportare il contatto con un umile corso d'acqua, mantenendo vivo il timore che gli dèi provano dinanzi a lui.
Non appena, defluiti i fiumi, apparve la superficie dei campi, i fecondi solchi si aprirono sotto il vomere dei Bèbrici; successivamente vi penetrò l'aratro manovrato dalla mano dei Lèlegi, i contadini eòlidi e quelli dòlopi ruppero le zolle, come anche i Magneti e i Mìnii, famosi i primi come cavalieri, i secondi come navigatori. Lì la nube ingravidata partorì nelle grotte peletronie gli issiònidi centauri, metà uomini e metà bestie: te, o Mònico, che batti i tuoi zoccoli sulle aspre rocce del Fòloe, te, o Reto feroce, che alle falde dell'Eta brandisci, dopo averli divelti, orni, che a stento il borea riuscirebbe a piegare, te, o Folo, ospite del grande Alcìde, te, empio traghettatore, destinato a subire i dardi di Lerna, e te, o vecchio Chiròne, che, fulgido in una fredda costellazione, colpisci con l'arco emonio lo Scorpione, ben più grande di te.
In questa terra si svilupparono i semi della guerra crudele. Per la prima volta il destriero tessalico, presagio di combattimenti funesti, balzò fuori dalle rocce colpite dal tridente marino, per la prima volta morse l'acciaio delle briglie e coprì di schiuma le redini nuove del Làpita, che cercava di domarlo. Per la prima volta una nave, attraversando il mare lungo il lido di Pàgasa, gettò gli uomini, abituati a vivere sulla terra, sui flutti che non conoscevano. Per la prima volta Iono, reggitore della terra tessalica, martellò una massa di metallo incandescente per forgiarla, riuscì a liquefare l'argento con il fuoco, fuse l'oro in monete ed il rame in enormi fornaci: lì fu possibile enumerare le ricchezze e fu proprio questo fatto a spingere gli uomini a guerre empie. Di qui scese giù Pitòne, il più grande serpente mai esistito, svolgendo le sue spire verso i campi di Cirra; di lì provengono gli allori tessalici per i giochi pìtici. Di qui ancora il sacrilego Alòeo lanciò i suoi figli contro i numi, allorquando il Pèlio andò quasi ad inserirsi fra gli astri del cielo e l'Ossa, precipitandosi incontro alle stelle, mancò poco che ne impedisse l'usuale cammino.
Non appena i due condottieri pongono gli accampamenti in questa terra maledetta dal destino, il presentimento della guerra incombente sconvolge tutti ed è palese che si avvicina a grandi passi l'ora grave del cimento decisivo e che il fato si sta ormai compiendo. Gli animi paurosi sono in preda al terrore e pensano al peggio; pochi, dando prova di fiducia e di forza, trasferiscono speranza e timore nei casi incerti che li attendono. Ma, mescolato alla folla degli inetti, v'era Sesto, figlio indegno del grande Pompeo, al quale egli - esule e ladrone nelle acque di Scilla - contaminò, pirata siculo, i trionfi riportati sul mare. Costui, spinto dalla paura a conoscere anticipatamente il corso del destino, insofferente di indugi ed ansioso per tutti gli avvenimenti futuri, non consultò i tripodi di Delo né gli antri della Pìzia, non decise di ricercare che cosa indicasse Dodòna - nutrice dei primi uomini con i frutti della terra - con il bronzo di Giove, né di consultare chi fosse in grado di conoscere i fati dalle viscere degli animali sacrificati, chi potesse chiarire che cosa significassero i voli degli uccelli, chi fosse capace di osservare i fulmini nel cielo e di scrutare le stelle con l'attenzione e l'esperienza degli Assiri, o qualsiasi altro mezzo nascosto o misterioso, ma pur sempre lecito: egli conosceva invece orrendi rituali di magia, rifiutati dagli dèi stessi, e gli altari profanati da cerimonie spaventose: professando la sua fede nel mondo infernale, l'infelice era convinto che gli dèi sapessero ben poco. Quel suo furore crudele, ma al contempo vano, è rafforzato dal luogo stesso e dalla vicinanza dell'accampamento alle mura delle Emònidi, la cui attività neanche la più orrenda e immaginosa fantasia riuscirebbe a superare: esse riescono a compiere tutto quel che di incredibile può esservi. E per di più la terra di Tessaglia fa nascere sulle rocce erbe velenose e sassi capaci di percepire e di intendere i maghi, che proclamano misteri funesti. Lì crescono una gran quantità di prodotti che hanno la possibilità di recar violenza persino agli dèi: nelle terre emonie la straniera della Còlchide raccolse le erbe, che non aveva portato con sé. I sacrileghi canti di quella gente crudele costringono i numi - sordi a tanti popoli - ad ascoltarli. Soltanto la loro voce nefanda penetra nelle profondità dell'etere e fa giungere agli dèi recalcitranti parole che costringono e dalle quali non possono distoglierli le preoccupazioni del mondo e del cielo ruotante. Non appena l'empio mormorio giunge agli astri, anche se la persiana Babilonia e la misteriosa Menfi spalancassero tutti i penetrali degli antichi maghi, la strega tessalica allontanerà i numi dai loro altari, attirandoli a sé. A causa della formula di incantesimo delle streghe tessaliche, un amore, non stabilito dal destino, invade cuori, che non si erano mai aperti a quel sentimento, e persone, anziane e serie, bruciano di fiamme, che non si addicono alla loro età. E non hanno efficacia soltanto i filtri velenosi o le escrescenze piene di succo, che esse sottraggono alla cavalla che ha appena partorito, pegno dell'amore futuro: lo spirito è annullato dall'incantesimo, pur senza essere stato contaminato da alcun veleno. Il rito magico del filo, attorcigliato secondo modi e giri noti solo alle maghe, avvinse coniugi non più legati dall'unione del talamo e dalla potenza dell'attraente bellezza. Si fermò il regolare succedersi dei fenomeni naturali ed il giorno, differito, interruppe il suo corso regolare, dal momento che la notte si era insolitamente allungata: il cielo non obbedì più alle sue leggi ed il mondo - che suole muoversi con rapidità - nell'ascoltare la formula dell'incantesimo rallentò sino a fermarsi: Giove si meravigliò che i poli del cielo non ruotassero, nonostante imprimesse loro un rapido movimento. Ed ancora: riempiono ogni cosa di pioggia, coprono di nubi il caldo sole e fanno tuonare il cielo senza che Giove ne sappia nulla: con le medesime formule e con le chiome scarmigliate spazzano via nebbie umide e nembi. Senza che tiri un alito di vento, si gonfia il mare, che, invece - allorché gli viene ordinato di non curarsi delle tempeste - si calma, nonostante il noto cerchi di sconvolgerlo: le vele si gonfiano in direzione contraria a quella in cui soffia il vento e vi spingono la nave contro. I torrenti rimangon fermi, quasi penzolando dalle rupi scoscese, come se fossero inchiodati al loro letto ed i fiumi scorrono senza seguire la direzione determinata dalla gravità. L'estate non fece straripare il Nilo, il Meandro raddrizzò il suo corso e l'Àrari spinse il Rodano che scorreva lentamente. Le montagne abbassarono le loro vette ed appiattirono i gioghi; l'Olimpo contemplò le nubi dal basso e le nevi scitiche si sciolsero nel pieno dell'inverno e senza che fosse apparso il sole. La formula magica delle maghe tessaliche rigettò indietro il mare, che era spinto dagli astri, e protesse il litorale. Financo la terra scosse gli assi, sconvolgendo il loro equilibrio, ed il mondo, che compie normalmente il suo giro al centro dell'universo, vacillò: l'enorme peso di una massa così grande, colpito dall'incantesimo, si abbassò e permise di scorgere, attraverso le fessure della terra, il cielo ruotante tutt'intorno. Tutti gli animali in grado di uccidere e pericolosi per natura hanno paura delle maghe tessaliche e forniscono loro i mezzi per dare la morte: le tigri fameliche ed i leoni dalla nobile ira le leccano con una lingua carezzevole; per esse il serpente svolge le sue spire gelide e si allunga sul terreno pieno di brina; la vipera, che era stata fatta a pezzi, si ricompone ed i rettili muoiono contaminati dal fiato umano. Che travaglio è mai questo per i numi, di obbedire alle formule di incantesimo e ai filtri magici, cos'è mai questa paura di non tenerne conto? Qual tipo di patto vincolò e costrinse i celesti? Adempiere i comandi delle streghe è una necessità o un piacere? Esse riescono ad ottenere tutto solo perché ignorano il rispetto per gli dèi e per gli uomini o la loro forza risiede in minacce misteriose? Hanno questo diritto su tutti i numi o le loro formule esercitano un potere su un dio ben preciso, che è in grado di costringere il mondo a tutto ciò, cui egli stesso è costretto? Esse per prime trascinarono giù dal cielo vorticoso le stelle, e la luna serena, stretta da ogni parte dalla sinistra forza malefica dei loro incantesimi, impallidì e bruciò di nere fiamme, simili a quelle che ardono sulla terra, come se il nostro pianeta le impedisse di scorgere la luce del sole, ponendo la propria ombra fra sé e l'astro: la luna, dunque, tirata giù da un incantesimo, deve subire travagli così grandi, finché, fattasi ancora più vicina alla terra, non si adagia sull'erba, su cui riversa la propria schiuma.
La feroce Eritto aveva condannato, tacciandoli di eccessiva pietà, questi riti scellerati e delittuosi di quella gente crudele ed aveva introdotto in quell'arte nefanda rituali orrendi. Ed infatti era per lei un'empietà entrare in una casa o rendere omaggio ai Lari: abitava invece nelle tombe abbandonate ed occupava i sepolcri, dopo averne cacciato le ombre, grazie ai favori accordatile dalle divinità infernali: né gli dèi superni né il fatto di esser viva le impedivano di percepire la turba dei trapassati silenziosi, di conoscere le sedi stigie e i segreti del sotterraneo Dite. Una magrezza spaventosa dominava nel volto dell'empia e sul suo viso, circondato da chiome scarmigliate e che non aveva mai conosciuto il cielo sereno, gravava orribilmente un pallore infernale: se i nembi e le nere nuvole sottraggono la vista delle stelle, la maga tessalica esce dai vuoti sepolcri e si impadronisce delle folgori notturne. Calpesta, bruciandoli, i semi di una messe feconda e con il suo respiro rende pestifera l'aria, che fino a quel momento non era certo mortale. Non prega i numi e non chiede, con supplice invocazione, l'aiuto del dio né conosce le viscere propiziatrici: si rallegra nel porre sugli altari fiamme funeste e incenso, che strappa ai roghi accesi. Alle prime parole della sua preghiera, gli dèi permettono qualsiasi nefandezza ed hanno paura di ascoltare una seconda invocazione. Ella seppellisce nei sepolcri anime ancora in vita e che ancora sostengono i corpi, mentre la morte è costretta a presentarsi per altri, cui il fato aveva assegnato anni di vita; sconvolgendo i riti funebri, fa tornare il corteo dal cimitero: i cadaveri si alzano dal letto funebre. Lei strappa dalle fiamme dei roghi le ceneri fumanti e le ossa ardenti dei giovani e perfino la fiaccola, che i genitori ancora impugnano, e raccoglie i frammenti del letto funebre svolazzanti tra il nero fumo, le vesti che si trasformano in cenere e le braci, che odorano ancora di membra. Quando invece, allorché i corpi vengono sepolti nelle tombe, gli umori interni svaniscono e i cadaveri si induriscono, dal momento che non ci son più le parti più immediatamente corruttibili, allora Eritto incrudelisce avidamente su tutte le membra, immerge le mani nelle orbite e si inebria nel cavarne fuori gli occhi gelidi e rosicchia le pallide escrescenze delle mani rinsecchite. Spezza con i denti le corde e i nodi mortali, fa scempio dei corpi penzolanti, strappa dalle croci i cadaveri di quelli che vi sono stati inchiodati, afferra le viscere percosse dai nembi e le midolla ormai essiccate dal sole che vi penetra, divelle i chiodi conficcati nelle mani togliendo via l'atra putredine che cola per il corpo e l'umore rappreso e addenta i nervi, rimanendovi appesa, quando essi resistono. Si pone a sedere presso i cadaveri che giacciono insepolti, precedendo le bestie feroci e gli avvoltoi, e non preferisce fare a pezzi i corpi con il ferro o con le mani, ma attende che i lupi addentino le membra dei cadaveri, per strapparle dalle loro gole fameliche. Le sue mani non rifuggono dall'uccidere, se c'è bisogno di sangue fresco, il primo che zampilli da una gola squarciata, e non si trattiene dall'ammazzare, se i rituali esigono sangue appena sgorgato e le funeree mense richiedono viscere che ancora si muovono. Così pone sugli altari ardenti un feto, dopo averlo strappato da una ferita inferta sul ventre e non attraverso la via naturale, e, ogni volta che ha bisogno di anime forti e impetuose, si procura lei stessa i corpi. Utilizza ogni tipo di morte: strappa la prima peluria dalle guance degli adolescenti e recide con la sinistra la chioma ai giovanetti che stanno spirando; non poche volte, perfino, durante il funerale di un congiunto, la spietata strega tessalica si getta sulla cara salma e, imprimendovi baci, ne mutila la testa ed allarga con i denti la bocca irrigidita del cadavere, sì che, mordendo la parte anteriore della lingua che aderisce all'arido palato, infonde tra le labbra gelate un mormorio ed invia un empio messaggio alle ombre dello Stige.
Non appena la fama del luogo svelò questa maga a Sesto Pompeo, egli, nel cuore della notte, allorché il sole guida il mezzogiorno sotto la nostra terra, si mise in cammino attraverso i campi deserti. I complici fidati e gli aiutanti dei suoi delitti, che lo accompagnavano, mentre vagavano attorno alle tombe e ai sepolcri infranti, scorsero da lontano Eritto, che sedeva su una roccia scoscesa, là dove l'Emo, abbassando i suoi gioghi, forma le montagne intorno a Farsàlo. Ella stava provando scongiuri, che i maghi e gli dèi della magia non conoscevano, ed escogitava formule d'incantesimo per misfatti ancora più orribili. Ed infatti, temendo che la guerra, errando, potesse recarsi in un'altra zona del mondo e che la Tessaglia rimanesse priva di una strage così grande, impedì che la guerra passasse oltre Filippi, che essa contaminò con incantesimi e con filtri velenosi, per impossessarsi di tante morti e poter così utilizzare il sangue del mondo. Spera di fare a pezzi i corpi di re uccisi e di spazzar via le ceneri della gente d'Italia, sì da impadronirsi delle ossa di persone illustri e di Mani così importanti: suo unico desiderio e costante preoccupazione che cosa possa strappare dal corpo abbandonato di Pompeo o quali membra svellere da quello di Cesare.
Ed a lei rivolge per primo la parola l'inetto figlio di Pompeo: «O decoro delle Emònidi, tu che sei in grado di svelare i destini alle genti e puoi sviare il futuro dal suo cammino, ti prego di farmi sapere con sicurezza quale fine la fortuna della guerra ci sta apprestando. Non sono certo l'ultimo componente della folla romana, io, famosissima discendenza di Pompeo, sia che debba essere il dominatore del mondo o l'erede di un'immane sventura. Il mio spirito, percosso dall'incertezza, è in preda al timore, ma è pronto a sopportare paure di cui abbia contezza: strappa agli accadimenti il diritto di abbattersi improvvisi e ciechi. Tortura i numi oppure risparmia gli dèi e tira fuori dai Mani la verità: schiudi le sedi dell'Elisio, invoca la Morte in persona e costringila a confessarmi chi fra noi essa vuole cogliere. Non è certo un lavoro da poco: è degno anche per te ricercare da quale parte penda la bilancia di un destino così grande». La sacrilega Tèssala esulta che la sua fama sia così diffusa e ribatte: «Se tu, o giovane, chiedessi di conoscere fati meno importanti, sarebbe agevole rendere disponibili gli dèi - anche contro la loro volontà - a compiere ciò che vuoi. È consentito alla nostra arte magica, allorché le stelle hanno stabilito con i loro raggi la morte di una singola persona, frapporre indugi e noi siamo in grado di spezzare con erbe velenose il fiore dell'età di qualcuno, anche se gli astri gli hanno permesso di raggiungere la vecchiaia. Ma - allorquando la concatenazione delle cause deriva dalla prima origine del mondo e, se si vuol mutare qualcosa, tutti i destini ne risentono, e tutti gli uomini sono soggetti al medesimo colpo del fato - allora (e questo lo ammettiamo anche noi, la folla delle maghe tessaliche) la Fortuna possiede un potere più grande. Però, se ti contenti di conoscere anticipatamente gli eventi, sono molte e facili le strade di accesso alla verità: ce le sveleranno la terra, l'etere, il caos, i mari, i campi e le rocce del Ròdope. È facile, dal momento che c'è un'abbondanza così grande di morti recenti, far risorgere dai campi tessalici un solo corpo, in modo che la bocca del cadavere morto da poco e ancora tiepido possa parlare con voce piena e non sia un'ombra spettrale, appartenente ad un corpo le cui membra siano completamente rinsecchite dal sole, a mormorare all'orecchio parole inintellegibili».
Aveva così parlato e raddoppiate, con la sua arte magica, le tenebre della notte, vagava, con il capo ferale coperto da un'orrida nube, tra i corpi degli uccisi, abbandonati e insepolti. Di colpo fuggirono i lupi, fuggirono gli avvoltoi, dopo aver tolto gli artigli dalla preda ed aver interrotto il loro pasto, mentre la maga tessalica sceglie il corpo, che dovrà pronunciare la profezia: osservando le parti interne rese gelide dalla morte, rinviene i lobi di un polmone, che non era stato ferito, tesi e rigidi e cerca di far risuonare la voce nel corpo morto. Ed ormai i destini di molti uomini uccisi rimangono in sospeso: non si sa chi la maga voglia richiamare in vita: se avesse tentato di resuscitare dai campi di battaglia tutte le schiere e restituirle alla guerra, le leggi dell'Èrebo sarebbero state infrante ed un popolo - tolto, per un potente prodigio, allo stigio Averno - avrebbe combattuto. Alla fine sceglie un cadavere, gli pone un laccio intorno al collo e, infilato un uncino nel cappio funesto, si trascina dietro lo sventurato corpo, destinato a rivivere, su rocce e sassi, portandolo sotto l'alta rupe di una montagna incavata, che la ferale Eritto aveva consacrato ai suoi riti sinistri.
Non lontano dagli oscuri antri di Dite, la terra si abbassa e sprofonda: in quel punto una livida selva inclina verso il basso i suoi rami ed un fitto e impraticabile bosco di tassi - in cui non giunge la luce del sole e dalle cui cime non si riesce a scorgere il cielo - getta le sue ombre. In quella selva tenebre putride e muffe livide - provocate nelle caverne da una notte continua - non ricevono luce se non per mezzo di un incantesimo. Non così immobile ristagna l'aria nelle gole del Tènaro: lì c'è il triste confine fra il mondo dell'oltretomba e il nostro, dove i re del Tàrtaro non avrebbero esitazione a mandare i Mani. Infatti - per quanto la maga tessala faccia violenza ai fati - è incerto se lei scorga le ombre stigie, perché le ha trascinate lì o perché sia lei ad essere discesa fin nel regno sotterraneo. Eritto indossa un abito di vari colori e di strana foggia, al modo delle Furie; la chioma, tirata indietro, fa apparire il volto e gli irti capelli sono stretti da serti di vipere. Non appena ella scorse gli accompagnatori di Sesto sbigottiti e lui stesso tremante con gli occhi sbarrati nel volto sbiancato dalla paura, esclamò: «Deponete il timore sorto nel vostro animo terrorizzato: ecco, proprio adesso una nuova vita sarà infusa in una persona reale, sì che - per quanto atterriti - possiate sentirla parlare. Se io vi mostrassi le paludi dello Stige e le sponde crepitanti di fiamme, se, grazie a me, potessero apparirvi le Eumènidi e Cèrbero, che scuote il collo pieno di serpenti, e i Giganti con le mani incatenate sulla schiena, quale paura, o vili, sarebbe allora quella di contemplare ombre, che a loro volta mi temono?».
A questo punto Eritto, per prima cosa, riempie il petto del morto con sangue caldo - infondendovelo attraverso nuove ferite da lei stessa inferte -, pulisce le parti interne dalla putredine e vi aggiunge spuma lunare in abbondanza. A questa mistura mescola insieme tutto quel che la natura produce con parti sinistri: non mancano bava di cani affetti da idrofobia, viscere di lince, vertebre di iena feroce, midolla di cervi, che si sono nutriti di serpenti, la remora, che è in grado di tener ferma una nave in alto mare, anche quando l'euro tende le corde, occhi di serpente, le pietre, che emettono suoni quando sono riscaldate da un'aquila che cova, il serpente volante degli Arabi, la vipera nata presso le acque del Mar Rosso e che custodisce le conchiglie preziose, la pelle di un rettile libico ancora vivo, le ceneri della fenice deposta sull'altare orientale. Dopo ch'ebbe mescolato a tutte queste cose ingredienti velenosi sia di poco conto che rinomati, aggiunse fronde impregnate da un sacrilego incantesimo, erbe, sulle quali, al momento della nascita, la maga aveva sputato con la sua bocca spaventosa, e tutti i veleni, che lei aveva apprestato per il mondo. Allora la sua voce, più potente di ogni filtro ad evocare gli dèi infernali, emise in un primo momento mormorii confusi e molto differenti dalla lingua degli uomini: in quella voce erano presenti latrati di cani, gemiti di lupi, i lamenti del gufo pauroso e del notturno barbagianni, strida e ululati di fiere, sibili di serpenti, perfino il frastuono delle onde, che si infrangono sugli scogli, il rumore dei boschi e il tuono delle nuvole squarciate: quell'unica voce era composta di tanti elementi! Subito dopo ella pronuncia, con l'incantesimo tessalico, gli altri scongiuri e le sue parole giungono fin nel Tàrtaro: «O Eumènidi, voi che siete la manifestazione più empia del regno d'oltretomba e che rappresentate la personificazione del castigo dovuto ai colpevoli, o Caos, avido di sconvolgere mondi innumerevoli, o reggitore della terra, tormentato nei secoli dalla morte rimandata degli dèi, o Stige, o campi Elisi, che nessuna maga tessalica merita, o Persèfone, che hai in odio il cielo e la madre, o ultimo aspetto della nostra Ècate, per mezzo della quale io posso comunicare tacitamente con i Mani, o custode della grande sede dell'oltretomba, che dai in pasto al cane crudele le viscere offerte da noi, o sorelle, che filate in continuazione gli stami della vita umana, o traghettatore degli ardenti flutti, vecchio ormai esausto per le anime che tornano a me, esaudite i miei scongiuri: se vi invoco con un tono sufficientemente sacrilego ed empio, se non ho mai pronunciato formule di incantesimo senza essermi prima nutrita di viscere umane, se vi ho offerto molte volte grembi pieni ed ho pulito con cervello caldo membra sezionate, se dovevano rimanere in vita tutti quei fanciulli, di cui ho posto il capo e le viscere sui piatti a voi consacrati, obbedite ai miei scongiuri. Non richiedo uno spirito ormai celato negli antri del Tàrtaro ed abituato da un pezzo alle tenebre, bensì uno che, appena morto, sta scendendo nell'oltretomba: esso è immobile sul primo limitare del pallido Orco e, anche se ascolterà l'incantesimo prodotto dai miei filtri magici, morirà una volta sola. L'ombra di un soldato morto da poco riveli il destino di Pompeo al figlio del condottiero, se le guerre civili hanno meritato bene di voi».
Non appena ha pronunciato queste parole, alza il capo e la bocca piena di bava e scorge ritta in piedi l'anima del corpo disteso a terra, che paventa le membra senza vita e gli odiati sbarramenti dell'antico carcere: essa è terrorizzata al pensiero di tornare nel petto ferito, nelle viscere e negli altri organi, squarciati da colpi mortali. Oh infelice, cui è strappato ingiustamente l'estremo vantaggio della morte, il fatto cioè di non poter più morire! Eritto si meraviglia che il fato possa frapporre tali indugi e, piena d'ira contro la Morte, percuote il cadavere immobile con un serpente vivo e, attraverso le fenditure, che la terra - obbedendo all'incantesimo - ha provocato, abbaia contro i Mani, infrangendo così i silenzi del regno d'oltretomba: «O Tisìfone, o Megèra, che sei indifferente alle mie parole, perché non spingete con crudeli frustate quest'anima infelice attraverso il vuoto dell'Èrebo? Ecco che io adesso, chiamandovi con il vostro vero nome, vi costringerò ad uscire alla luce del giorno, cagne dello Stige, e lì vi abbandonerò: vi inseguirò, come se fossi custode dei cimiteri, per tombe e funerali e vi scaccerò da ogni tumulo e da ogni sepolcro. E agli dèi, ai quali sei solita mostrarti sotto un aspetto falso, svelerò te, o Ècate, putrescente nel tuo sembiante pallido, e ti impedirò di cambiare quella tua espressione infernale. Rivelerò a tutti quali banchetti, o Ennèa, ti trattengono sotto l'enorme peso della terra, per quale accordo ami il triste re della notte e quali contatti hai dovuto subire, per cui Cèrere non ha più voluto richiamarti. Infranti gli antri sotterranei, farò piombare il sole su di te, il peggiore tra i sovrani dell'universo, in modo che tu sia colpito dalla luce improvvisa. Obbedite, altrimenti dovrò costringere ad intervenire quell'essere, una volta invocato il quale la terra trema sconvolta, che può guardare in viso la Gòrgone, che percuote con i suoi stessi flagelli l'Erinni terrorizzata, che vi tiene in pugno, che occupa il Tàrtaro (che neanche voi riuscite a scorgere, dal momento che vi trovate più in alto rispetto ad esso) e che spergiura per le onde stigie».
Subito il sangue rappreso si riscalda e ridà vita alle nere ferite e scorre nuovamente nelle vene fino all'estremità delle membra: gli organi interni, percossi nel petto gelido, palpitano e la nuova vita, scorrendo nelle midolla non più abituate alla normale attività organica, si mescola alla morte. Tutte le membra vibrano, i nervi si tendono: il cadavere non si alza dal suolo utilizzando gradatamente i suoi arti, ma, tutto in una volta, è respinto da terra ed è ritto in piedi. Aperte le fessure delle palpebre, gli occhi si spalancano: l'aspetto non è ancora quello di una persona viva, dal momento che aveva cominciato ad esser quello di un morto: predominano ancora il pallore e la rigidità ed egli si stupisce di essere stato nuovamente trasportato nel mondo. La bocca, però, ancora irrigidita, non emette alcun mormorio: la voce e la lingua gli sono state fornite soltanto per dare risposte. La maga lo apostrofa: «Dimmi quel che ti ordino e ci sarà per te una grande ricompensa: se dirai il vero, infatti, ti renderò immune dagli incantesimi tessalici per sempre: arderò il tuo corpo con un tale rogo, con tale legname e con tali formule magiche che la tua anima non dovrà più subire gli incantesimi e le formule dei maghi. Sia questo il prezzo di essere tornato in vita: né gli scongiuri né i filtri magici oseranno - una volta che io ti avrò fatto morire definitivamente - spezzare il sonno del tuo lungo Lete. I vaticini oscuri si addicono ai tripodi e ai vati degli dèi: si allontanino sicuri tutti coloro che chiedono la verità alle ombre ed affrontano coraggiosamente i responsi della dura morte. Non tener celato nulla, ti prego: svela con chiarezza e con precisione gli eventi ed i luoghi e parla con quella voce, con cui i fati mi si possano rivelare». Aggiunse anche una formula di incantesimo, con la quale permise all'anima di conoscere tutto quello che le veniva richiesto. Il cadavere, triste, rispose tra le lacrime: «Richiamato dalla sponda appena toccata, non ho visto i funerei stami delle Parche. Purtuttavia sono stato in grado di sapere da tutte le anime che una feroce discordia lacera i Mani di Roma e che le armi nefande hanno infranto la quiete degli inferi: alcuni condottieri son giunti qui, in opposte schiere, dai campi Elisi, altri dal triste Tàrtaro, ed hanno rivelato quel che i fati stanno apprestando. Le anime dei beati avevano un'espressione sconsolata: ho potuto scorgere i due Decii, padre e figlio, vittime sacrificali per le guerre; Camillo e i Curii che piangevano; Silla che si crucciava con te, o Fortuna; Scipione si lamentava della sua sfortunata discendenza, destinata a morire in terra di Libia; Catone Censore - che combatté Cartagine più accanitamente di Scipione - si rattristava per il destino del nipote, che non acconsentirà mai a servire. Soltanto te, o Bruto, che fosti il primo console, allorché cacciasti i tiranni, ho scorto pieno di gioia tra i pii Mani. Catilina esultava in atteggiamento minaccioso, spezzate e infrante le catene, e così anche i Marii torvi e i Cetèghi dalle spalle scoperte; ho visto rallegrarsi i rappresentanti della parte popolare, i Drusi, che non avevano misura nel presentare leggi, ed i Gracchi, che progettavano cose grandi e temerarie. Applaudono le mani avvinte da eterni nodi d'acciaio nelle prigioni di Dite e la folla dei dannati reclama i campi delle anime beate. Il sovrano dell'inerte regno schiude le pallide sedi, rende più aspre le rocce scoscese ed appresta il duro acciaio per i ceppi e la pena per il vincitore. Riporta con te questo motivo di conforto, o giovane: le ombre attendono tuo padre e gli appartenenti alla vostra famiglia in un rifugio accogliente e pieno di pace e in una zona tranquilla del regno degli inferi riservano un luogo ai Pompeii. La gloria di una vita breve non sia per voi motivo di preoccupazione: giungerà l'ora che travolgerà nel medesimo destino tutti i condottieri. Affrettatevi a morire e, superbi nel vostro orgoglio, scendete dai vostri roghi, per quanto umili, e calpestate i Mani degli dèi di Roma. Vien chiesto anche quale sepolcro lambisca l'onda del Nilo e quale quella del Tevere: i capi lottano soltanto per il loro funerale. Tu non tentar di conoscere il tuo destino: saranno le Parche a rivelartelo, senza che io dica alcunché: ti predirà ogni cosa, divenuto vate più sicuro, il padre Pompeo nei campi di Sicilia, anch'egli incerto dove chiamarti o da dove farti star lontano, quali zone del mondo e quali costellazioni esortarti ad evitare. O miseri, temete l'Europa, la Libia e l'Asia: la Fortuna ha scandito con sepolcri i vostri trionfi: casato degno di commiserazione, in tutto il mondo non riuscirai a scorgere nulla di più sicuro dell'Emazia». Dopo che ha svelato i fati, rimane ritto con il volto triste e reclama silenziosamente la morte. C'è bisogno di scongiuri magici e di filtri, affinché il cadavere stramazzi, dal momento che i destini non possono riottenere l'anima, una volta che hanno fatto uso del loro diritto. Allora la strega innalza un rogo con molta legna: il morto si dirige verso le fiamme. Eritto si allontana dal giovane dopo averlo deposto sulla catasta accesa, consentendogli finalmente di morire. Accompagna poi Sesto verso l'accampamento di Pompeo e, mentre la luce si sta diffondendo nel cielo, la notte - costretta a trattenere il giorno - offre fitte tenebre, fino a quando essi non siano giunti al sicuro fra le tende.

LIBRO SETTIMO


Il sole, che sarebbe sorto su un giorno di lutti - procedendo dall'Oceano più lentamente di quanto l'immutabile legge dell'universo fosse solita costringerlo -, non spinse mai così i suoi cavalli in direzione opposta al movimento dell'etere e rinculò indietro, nonostante il corso del cielo lo trascinasse con sé nel suo moto: volle allora subire un'eclissi e una diminuzione di luce, circondandosi di nubi non per offrire alimento alle sue fiamme, ma perché non risplendesse in tutta la sua luminosità sulla terra tessalica.
E la notte, ultimo momento per Pompeo di una vita fortunata, illuse, con un sogno ingannevole, il suo sonno inquieto. Gli sembrò infatti di scorgere, nel suo teatro, la visione di una folla straripante, che innalzava con voci gioiose fino al cielo il suo nome e che faceva a gara nel far risuonare di applausi le gradinate: lo spettacolo e il clamore del popolo erano gli stessi di quando egli conseguì, giovane, il suo primo trionfo, dopo aver sottomesso le popolazioni bagnate dal rapido Ebro e dopo aver stroncato le insurrezioni guidate dal fuggiasco Sertòrio: pacificato l'Occidente sedeva - parimenti venerando nella semplice toga e in quella del trionfatore - tra gli applausi del Senato, ancora cavaliere romano, sia che egli, al termine della sua fortuna, riandasse, durante il sonno, con il ricordo e con preoccupazione per il futuro, ai tempi felici, sia che il riposo vaticinasse, con le solite ambiguità, cose contrarie alle visioni ed arrecasse presagi di un grande dolore, sia che la Fortuna ti proibisse di rivedere la patria ancora una volta e ti mostrasse Roma nel sogno. Non spezzate il suo sonno, o sentinelle dell'accampamento, nessuna tromba colpisca le sue orecchie. Il riposo di domani, triste e crudele a causa di quel che egli avrà visto durante il giorno, gli mostrerà da ogni parte i funesti eserciti, da ogni parte la guerra. Quando mai le genti italiche potranno godere di un sonno tranquillo come il tuo? O Roma felice, se essa ti potesse vedere anche solo in sogno! Oh, se gli dèi avessero donato, o Pompeo, alla patria e a te un solo giorno, in cui - tutti e due sicuri del vostro destino - aveste potuto cogliere l'estremo frutto di un amore così grande! Tu vai, come se dovessi morire nella città ausonia; essa - ben consapevole del fatto che sono sempre stati esauditi i voti espressi su di te - non poté mai concepire che i fati avrebbero commesso l'enorme delitto di privarla del sepolcro dell'amato Pompeo. Per la tua perdita avrebbero mescolato le lacrime - spontaneamente - giovani, vecchi e fanciulli: la folla delle donne si sarebbe percossa il petto, disciolte le chiome, come ai funerali di Bruto. Piangeranno anche adesso, per quanto temano le armi dell'iniquo vincitore e per quanto Cesare in persona possa dar notizia della tua morte, ma intanto recheranno incensi e serti di alloro al Tonante. O infelici, essi che non poterono piangerti insieme nel teatro pieno di folla, mentre i loro gemiti hanno dato fondo al dolore!
La luce del sole risplendeva nel cielo: la folla dei soldati freme in un mormorio confuso e, mentre il fato trascina con sé il mondo, chiede che si cominci a combattere. La più gran parte di quella turba disgraziata, cui non sarebbe toccato di vedere la fine di quel giorno, reclama intorno alla tenda del capo e, travolta da una intensa agitazione, affretta precipitosamente il momento della morte vicina. È presa da una rabbia sinistra: ciascuno brama di precipitare nel baratro il proprio destino e quello della patria. Pompeo è definito vigliacco e lento a muoversi: troppo paziente con il suocero e, preso dal desiderio di dominare sul mondo, anelante di regnare su tante popolazioni di ogni terra, temendo al contempo la pace. Anche i re ed i popoli orientali protestano che la guerra si tira in lungo e che essi sono tenuti lontani dalla patria. Vi piace questo, o numi, che - mentre avete deciso di sconvolgere ogni cosa - ne aggiungete l'empia responsabilità ai nostri errori? Ci gettiamo nella rovina e richiediamo armi che si rivolgeranno contro noi stessi: nell'accampamento di Pompeo si fanno voti per Farsàlo.
Tullio, il più prestigioso esponente dell'eloquenza romana - sotto la cui autorità civile il crudele Catilina ebbe paura delle scuri pacificatrici - espresse il pensiero e la voce di tutti, pieno d'ira contro la guerra e, pur bramoso dell'attività oratoria e forense, sopportava, da soldato, silenzi così lunghi. La sua eloquenza aggiunse energia ad una debole causa: «O Pompeo, in grazia di tanti meriti la Fortuna ti prega soltanto di questo, che tu ti voglia servire di lei: noi, che siamo i più autorevoli rappresentanti del tuo accampamento, ed i re alleati, ti supplichiamo, insieme col mondo intero, di consentire a che il suocero sia vinto. Per un così lungo periodo di tempo Cesare sarà causa di guerra per il genere umano? Per popolazioni assoggettate da te con grande rapidità è certamente indegno che Pompeo vinca con lentezza. Dove è andato il tuo entusiasmo, dove la fiducia nel destino? Non fai più affidamento sui numi, o ingrato, ed esiti ad affidare agli dèi la causa del Senato? I soldati, di propria iniziativa, solleveranno le insegne e si getteranno in avanti: possa tu vergognarti di vincere perché vi sei stato costretto. Se tu sei il capo legittimo, se noi conduciamo la guerra per noi stessi, ci sia consentito il diritto di scendere in battaglia contro chi vogliamo. Perché tieni lontane le spade del mondo intero dal sangue di Cesare? I dardi vibrano nelle mani, ciascuno attende a stento il segnale che tarda: affrettati, perché le tue trombe non ti lascino indietro. Il Senato brama di sapere se deve seguirti come soldato, o Pompeo, o come accompagnatore». Il condottiero gemette e colse l'inganno dei numi ed il fato ostile alle sue intenzioni; così parlò: «Se questa è la volontà di tutti, se la circostanza richiede Pompeo come combattente e non come capo, non sarò di intralcio al destino: la Fortuna trascini pure le genti in un'unica rovina e sia questo il giorno estremo per una gran parte degli uomini. Purtuttavia, ti chiamo a testimone, o Roma, che Pompeo subisce il giorno, in cui tutto crolla: il travaglio della guerra si sarebbe potuto affrontare senza alcuna ferita, avrei potuto consegnare, senza stragi, alla Pace violata il condottiero sottomesso e prigioniero. Qual furore di delitti, o ciechi? Si preparano a condurre guerre civili e temono di vincere senza versare sangue. Abbiamo tolto terre ai nemici, li abbiamo cacciati da tutto il mare, abbiamo costretto le schiere in preda alla fame a saccheggiare le messi non ancora mature ed abbiamo suscitato in loro il desiderio di preferire di morire ad opera del ferro, mescolando così le loro morti alle nostre. La guerra è in gran parte vinta per coloro che riescono ad ottenere che le reclute non temano il combattimento, anche se ne reclamano il segnale perché pungolati dal coraggio e trascinati dall'ira: la paura del male futuro ha spinto molti nei rischi più gravi. È fortissimo chi - pronto ad affrontare pericoli che incutono timore ed incalzano da vicino - è anche in grado di rimandarli. Voi siete dell'idea di consegnare alla fortuna una circostanza così propizia e di affidare alla spada la decisione della sorte del mondo: preferiscono che il comandante combatta e non che vinca. Tu, o Fortuna, mi avevi concesso Roma, perché io la governassi: riprendila divenuta più potente e proteggila nella battaglia cieca: la guerra non costituirà per Pompeo né un crimine né un motivo di gloria. O Cesare, tu mi vinci presso i numi con i tuoi iniqui desideri: si combatte. Quanti delitti e quanti mali questo giorno rovescerà sugli uomini! Quanti regni rovineranno! Come intorbidato dal sangue romano scorrerà l'Enìpeo! Vorrei che la prima lancia di questa guerra ferale colpisse il mio capo, se questo potesse cadere senza mettere in crisi la cosa pubblica e senza far crollare il nostro partito: non ci potrebbe essere una vittoria fonte di maggiore gioia per il Grande. Oggi, consumata questa strage, il nome di Pompeo sarà o odiato dalle genti o degno di commiserazione: se sarò vinto, si abbatteranno su me tutti i mali dell'estrema sventura, se vincerò, piomberà su me ogni nefandezza». Così parla e consente che gli uomini corrano alle armi, allenta le briglie al furore, come il marinaio, piegato dal coro violento, cede completamente ai venti e, venuta meno l'abilità della navigazione, la nave, abbandonata a se stessa, è sballottata dai flutti. L'accampamento, pervaso da una trepida agitazione, freme ed i cuori furenti battono nei petti con frequenza alterata: nel volto dei più il pallore della morte incombente: la loro espressione è identica al fato. È chiaro per tutti che è giunto il giorno che stabilirà per sempre il destino degli uomini e che nel combattimento imminente si deciderà quale dovrà essere la sorte di Roma. Nessuno pensa ai propri pericoli, sbigottito da una paura maggiore. Chi - scorgendo le spiagge sommerse dai flutti, il mare sulla sommità delle montagne e l'etere rovinare sulla terra insieme con il sole, in una parola il crollo dell'universo - potrebbe provar timore solo per se stesso? Non c'è tempo per la paura individuale: si ha paura per Roma e per Pompeo. Non hanno fiducia nelle spade, se la loro punta senza più filo non si infiamma sulle rocce: allora tutte le lance vengono affilate sulle pietre, gli archi sono tesi con corde più robuste, si preoccupano di scegliere le frecce con cui riempire le faretre ed i cavalieri rafforzano gli sproni e fissano meglio le briglie ai morsi. Se fosse legittimo paragonare le fatiche umane a quelle dei numi, non diversamente - allorché Flegra sollevò verso il cielo i Giganti rabbiosi - la spada di Marte divenne incandescente sulle incudini sicule, il tridente di Nettuno si arroventò un'altra volta tra le fiamme, Peàn ricostruì i dardi con cui aveva ucciso Pitòne, Pàllade sparse sull'ègida i crini delle Gòrgoni ed i Ciclopi fornirono a Giove nuovi fulmini per Pallene.
Purtuttavia la Fortuna non si astenne dallo svelare, attraverso segnali diversi, le sventure incombenti. Infatti, mentre si stavano dirigendo verso i campi di Tessaglia, tutto l'etere si oppose alla loro avanzata [e, davanti agli occhi di tutti, i fulmini squarciarono le nubi], riversò su di loro fiamme, altissime colonne di fuoco, tifoni avidi di acqua mescolati a raggi infuocati, li accecò facendo balenare folgori, strappò via i pennacchi dagli elmi, liquefece le spade, facendole colare fino all'impugnatura, strappò e fuse i giavellotti: l'empio ferro fumò nello zolfo dell'etere. Inoltre le insegne furono ricoperte da sciami innumerevoli di api e, strappate a fatica dal terreno, a causa del peso divenuto eccessivo, fecero piegare il capo all'alfiere, irrorandolo di lacrime, esse che erano le insegne di Roma e dello Stato fino al momento della Tessaglia. Il toro, pronto per essere offerto in sacrificio ai numi, fuggendo dall'ara rovesciata, si gettò precipitosamente nei campi tessalici e non si riuscì a trovare una vittima per i ferali sacrifici. Ma tu, o Cesare, quali divinità scellerate e quali Eumènidi hai invocato in tuo aiuto? A quali potenze del regno stigio, a quali orrori infernali e a quali Furie immerse nelle tenebre hai tu sacrificato, sul punto di intraprendere, in maniera così crudele, la guerra? È incerto se essi siano stati convinti da prodigi divini o da una paura eccessiva: a molti parve che il Pindo si scontrasse con l'Olimpo, che l'Emo si inabissasse nelle valli sconvolte, che dalla piana di Farsàlo si levassero di notte voci di guerra e che il sangue scorresse velocemente attraverso la palude Bebèide presso l'Ossa; rimangono inoltre sbigottiti dai loro stessi volti coperti di tenebre, dal fatto che il giorno impallidisce, che la notte grava sugli elmi e che dinanzi al loro sguardo si muovono le apparizioni dei padri morti e le anime di tutti i parenti. Ma (unico motivo di conforto per gli spiriti) la folla, che mirava alle gole dei padri e ai petti dei fratelli, prende coscienza dei suoi empi desideri, si rallegra dei presagi e ritiene che gli sconvolgimenti dell'animo ed i furori improvvisi siano un pronostico dei delitti.
C'è forse da meravigliarsi che genti, in attesa del loro ultimo giorno di vita, tremassero per una folle paura, dal momento che agli uomini è stato concesso uno spirito in grado di presagire le sciagure? Il Romano, che si trova, straniero, nella tiria Càdice o si disseta con l'acqua dell'armenio Arasse, a qualsiasi longitudine e sotto qualsiasi cielo, si rattrista senza conoscerne il motivo e riprende il suo animo dolente, inconsapevole di quel che sta perdendo nei campi di Emazia. Se si deve prestar fede alla tradizione, un àugure, seduto su un colle euganeo - là dove l'Àpono sgorga con le sue esalazioni dalla terra e si disperde l'acqua dell'antenòreo Timavo - esclamò: «Ecco il giorno estremo, si affronta il supremo cimento, si scontrano gli empi eserciti di Pompeo e di Cesare», sia che glielo avessero indicato il tuono ed i presaghi fulmini di Giove, sia ch'egli avesse scorto tutto l'etere ed i poli ruotare in un cielo, che non compiva più i suoi usuali movimenti, sia che un dio, triste, gli avesse rivelato la battaglia nel fosco pallore del sole. Senza dubbio la natura fece sorgere il giorno della Tessaglia diverso da tutti gli altri che suole produrre: se lo spirito degli uomini, con l'assistenza di un àugure esperto, avesse preso in considerazione tutti i segnali, mai visti prima, del cielo, il mondo intero avrebbe potuto scorgere Farsàlo. Oh, più grandi tra gli uomini, la cui Fortuna ha lasciato tracce sulla terra ed i cui destini hanno occupato tutto il cielo! Allorquando queste guerre verranno lette dalle genti future e dai popoli dei discendenti - sia che giungano a quelle generazioni unicamente per la loro fama sia che il mio impegno e la mia fatica possano in qualche modo contribuire al ricordo di quei grandi nomi - provocheranno speranze e timori insieme a voti destinati a perire e tutti le leggeranno, sbigottiti, come destini non trascorsi, bensì sul punto di realizzarsi, e saranno tutti dalla tua parte, o Grande.
Non appena i soldati pompeiani - colpiti dai raggi del sole che avevano di fronte - scesero dalle alture, riflettendo su esse il balenio delle armi, non si lanciarono nella pianura in maniera avventata: il disgraziato esercito prese posizione in ordine ben preciso. A te, o Lèntulo, viene affidato il comando dell'ala sinistra, costituita dalla prima legione (che si era dimostrata la migliore in guerra) e dalla quarta; a te, o Domizio, pugnace nonostante i numi ti fossero avversi, fu invece demandata l'ala destra, mentre il nucleo dello schieramento è costituito dalle truppe più forti, che - fatte venire dalla terra dei Cìlici - comandava Scipione, il quale, soldato in questa circostanza, era stato capo supremo in Libia. Lungo le correnti e le paludi dell'Enìpeo ricco d'acque avanzavano la coorte dei montanari cappàdoci ed i cavalieri del Ponto a briglia sciolta. La parte più grande della pianura distante dal fiume era occupata dai tetrarchi, dai re, dai grandi sovrani e da tutti i personaggi di rango più elevato sottomessi alla forza di Roma: in quel luogo si concentrarono i Nùmidi provenienti dalla Libia e i Cidònii da Creta, da lì furono scoccate le frecce iturèe, da lì, o Galli feroci, vi slanciaste sul nemico tradizionale, lì gli Ibèri agitarono i loro scudi per la battaglia. Strappa, o Grande, le genti a te vincitore e, sparso il sangue del mondo, annulla in una sola volta tutti i tuoi trionfi.
In quel giorno Cesare, allontanatosi dalla posizione che occupava e sul punto di far marciare improvvisamente l'esercito per saccheggiare le messi, scorse improvvisamente i nemici, che scendevano nella pianura e vide che gli si presentava l'occasione che aveva cercato tantissime volte, in cui decidere ogni cosa nell'azzardo estremo: che anzi, incapace di indugio e consumato dalla brama del dominio, aveva cominciato, per questo leggero prolungamento, ad accusare il conflitto civile perché troppo lento. Dopoché vide avvicinarsi a grandi passi il momento decisivo dei condottieri e l'ultimo scontro, si accorse che il mondo destinato a crollare indugiava per l'indecisione dei fati: anche la sua rabbia, sempre incline alla strage, perse un poco forza ed il suo animo, che di solito si riprometteva senza esitazioni eventi favorevoli, rimase in dubbio, dal momento che i suoi destini non gli consentivano di temere né quelli di Pompeo di nutrire speranza. Costrinse la paura a tacere e la fiducia, che acquistava nuova energia nell'arringare la folla, si accrebbe: «O soldati, che avete assoggettato il mondo, fortuna delle mie imprese, si approssima l'opportunità dello scontro, tante volte bramato. Non c'è bisogno di far voti: affrettate il destino con le armi. Avete nelle vostre mani la grandezza di Cesare. Ecco quel famoso giorno, che mi ricordo mi fu promesso presso le rive del Rubicone, per la cui speranza impugnammo il ferro e per cui rimandammo i trionfi, quando mi fu impedito di tornare in patria; [ecco il giorno che vi renderà i vostri cari e la vostra casa e, terminata la guerra, vi trasformerà in coloni]; ecco il giorno che, testimone il fato, mostrerà chi ha intrapreso la guerra con maggior diritto: lo scontro renderà colpevole il vinto. Se per me avete assalito la patria con le armi e con il fuoco, combattete ora con ardore ed assolvete la colpa con le vostre spade: nessuna mano è incontaminata, se un altro sarà arbitro della guerra. Non si tratta di me: affinché voi siate gente libera, il mio voto è che possiate dominare su tutti i popoli. Io stesso - per quanto desideroso di ritirarmi a vita privata e di divenire un modesto cittadino in abiti plebei - non rifiuto di essere nulla, purché a voi sia consentita ogni cosa: dominate, anche se questo dovesse significare il vostro odio per me. La vostra aspirazione a regnare sul mondo non vi costerà molto sangue: vi troverete di fronte giovani scelti nei ginnasi greci, infiacchiti dall'attività della palestra, appena in grado di combattere, o una folla confusa di barbari dai diversi idiomi, incapaci - non appena l'esercito si sarà mosso - di sopportare il suono delle trombe e il loro stesso clamore. Poche mani romane si scontreranno nel conflitto civile: gran parte del combattimento libererà il mondo da queste genti e annienterà il nemico di Roma. Andate attraverso popolazioni ignave e dominî infamanti, e al primo scontro abbattete il mondo e sia evidente a tutti che tante genti, che Pompeo ha trascinato a Roma in catene, non valgono un solo trionfo. Preoccupa gli Armeni quale condottiero rappresenti la potenza romana, o quale barbaro vorrebbe versare anche pochissimo sangue per procurare a Pompeo il dominio dell'Italia? Essi odiano tutti i Romani ma sono maggiormente infastiditi da quei capi, che già conoscono. Invece, la Fortuna mi ha affidato alle mani dei miei, delle cui imprese la Gallia mi ha fatto testimone in tante guerre. La spada di quale mio soldato io non riconoscerei? Allorché una lancia vibrante fischia nell'aria, non potrei sbagliarmi nel dire da quale braccio essa è stata scagliata. Se poi osservo i segni, che non hanno mai ingannato il vostro condottiero - i vostri visi fieri e gli occhi minacciosi -, avete già vinto: mi sembra di vedere fiumi di sangue, re travolti insieme, fatti a pezzi i cadaveri dei senatori e genti che nuotano nel sangue di una strage immane. Ma io pongo un indugio ai miei destini, io, che con queste parole, trattengo il vostro furibondo slancio verso le armi. Vogliate scusare questo ritardo frapposto al combattimento, ma la speranza mi rende trepidante; non ho mai veduto i numi così propizi e così disposti a concedermi una simile grandezza: siamo separati dalla realizzazione dei nostri voti soltanto da un piccolo tratto di terra. Sono io colui, al quale è consentito donarvi, terminato il combattimento, quel che oggi posseggono genti e re: per quale movimento del cielo o per la rivoluzione di quale astro concedete, o numi, un ruolo così importante alla terra tessalica? Oggi otterremo o la ricompensa o la punizione della guerra. Riflettete alle croci per i soldati di Cesare, pensate alle catene e al mio capo infisso sui rostri, alle membra dilacerate e alle nefandezze compiute nei recinti e ai combattimenti nel Campo Marzio chiuso: noi combattiamo il conflitto civile contro un condottiero sillano. Sono preoccupato per voi; io, senza alcun dubbio o timore, mi darò la morte con la mia stessa mano: mi vedrà trafiggermi le viscere chi di voi si volterà indietro a guardarmi, quando il nemico non sarà stato ancora sconfitto. O numi, le cui preoccupazioni si sono rivolte dal cielo alla terra e alle sofferenze di Roma, vinca colui che non ritiene necessario impugnare il ferro crudele contro i vinti e che non crede che abbiano commesso un'empietà i suoi concittadini, per il fatto di avere combattuto contro di lui. Pompeo - allorquando inchiodò in un luogo angusto le nostre schiere, che non potevano manovrare nonostante il loro valore - con quanto sangue saziò le sue armi! Purtuttavia di questo vi prego, o soldati, di non colpire i nemici alle spalle: sia ritenuto un cittadino, chi si sarà dato alla fuga. Ma, finché le armi brillano, non vi lasciate commuovere da visioni di pietà e di affetto, neanche se vi troverete di fronte, tra le file dei nemici, il padre: affondate la spada in quei volti pur degni di venerazione. Sia che colpiate con il ferro ostile il petto dei parenti, sia che non feriate in alcun modo le persone a voi care, i nemici vi accuserebbero di aver commesso un delitto, anche se uccideste uno sconosciuto. Abbattete dunque il vallo e riempite il fossato con i resti della trincea, affinché vengano fuori le schiere in ordine serrato e con tutti i loro manipoli. Non risparmiate l'accampamento: porrete le tende al di là di quel vallo, donde esce l'esercito destinato a soccombere». Cesare aveva appena concluso il suo discorso, che subito tutti gli uomini accorsero al loro posto ed afferrarono armi e vettovaglie. Accolgono gli auguri della guerra e si precipitano, sconvolgendo l'accampamento: non sono schierati, il capo non impartisce alcun ordine ed essi affidano ogni cosa ai fati. Se si fossero schierati di fronte, in quel funesto combattimento, altrettanti suoceri di Pompeo ed altrettanti pretendenti al dominio su Roma, essi non si sarebbero precipitati in battaglia in maniera così travolgente.
Non appena Pompeo scorse l'esercito nemico che avanzava di fronte e che ormai non erano più consentiti indugi alla guerra, ma che proprio quello era il giorno stabilito dagli dèi, ristette sbigottito con il gelo nell'animo: per un tale condottiero aver paura delle armi in quella maniera costituiva un augurio sinistro. Ma egli cercava di soffocare il timore, e, alto sul cavallo, passò in rassegna l'intero suo esercito. Ecco le sue parole: «Si avvicina il giorno, che il vostro valore richiede, la fine, che avete cercato, del conflitto civile. Date fondo a tutte le vostre forze: è questo l'ultimo impegno bellico ed un'ora sola trascina con sé le genti. Tutti quelli che desiderano la patria, il calore della famiglia, i figli, l'amore coniugale, gli affetti abbandonati, li conquisti con la spada: gli dèi hanno posto ogni cosa sul campo di battaglia. La causa migliore ci spinge a sperare nel favore dei numi: essi indirizzeranno i dardi attraverso le viscere di Cesare, essi hanno deciso di sancire con il suo sangue le leggi di Roma. Se si apprestassero ad offrire a mio suocero il dominio del mondo, avrebbero potuto già troncare con la morte la mia vecchiaia: gli dèi, irati con le genti e con Roma, non avrebbero mantenuto in vita il vostro condottiero Pompeo. Abbiamo raccolto tutto ciò che può contribuire alla vittoria. Si sono presentati di propria volontà, per affrontare i pericoli della guerra, uomini illustri e soldati, che somigliano a quelli, venerandi, delle antiche età: se i fati consentissero che potessero tornare in vita ai nostri giorni i Curii, i Camilli e i Decii, che si consacrarono alla morte, essi combatterebbero nelle nostre file. Popolazioni raccolte dal più lontano Oriente e innumerevoli città hanno fornito eserciti, mai così numerosi per una guerra: in questo momento possiamo fare affidamento sul mondo intero: tutti gli uomini, che vivono sotto il cielo stellato e nelle zone che vanno dal noto al borea, impugnano le armi. Non stringeremo i nemici nel mezzo, dopo averli sommersi con le nostre ali? La vittoria richiede poche braccia: la maggior parte dell'esercito combatterà soltanto con il clamore: le schiere di Cesare non equivalgono numericamente alle nostre. Immaginate che le madri, sporgendosi dalla sommità delle mura di Roma con i capelli sciolti, vi esortino al combattimento; immaginate che gli anziani senatori, i quali non sono in grado, per la loro età, di seguire l'esercito, trascinino nella polvere dinanzi a voi, bianchi, i crini venerandi e che la stessa Roma, terrorizzata all'idea di avere un padrone, vi corra incontro; immaginate ancora che il popolo di oggi e quello futuro uniscano insieme le loro preghiere rivolte a voi: questa folla vuol nascere libera, quella morire libera. Se c'è, dopo tanti pegni d'affetto, un po' di spazio per Pompeo, che vi supplica insieme alla moglie e ai figli, mi getterei ai vostri piedi, se lo permettesse la dignità del comando. Io, il Grande - esule, se non vincerete, ludibrio del suocero, motivo di vergogna per voi, - vi scongiuro di allontanare da me l'umiliazione e l'obbrobrio dei miei ultimi anni: che io, da vecchio, non impari a servire». A queste tristi parole del capo si infiammarono i cuori, il valore romano prende forza e ardire e si decide di morire, se i timori di Pompeo risultassero fondati.
Ed ecco che, da ambedue le parti, gli eserciti si precipitano in avanti con eguale furia: gli uni sono spinti dalla paura, gli altri dalla speranza del dominio. Queste braccia provocheranno dei vuoti, che il tempo non riuscirà a colmare né il genere umano sarà in grado di riempire, anche se si astenesse dall'uso delle armi: questa guerra sommergerà le genti che verranno ed eliminerà, strappando loro il giorno della nascita, le future generazioni. Allora il nome latino diverrà un mito: le rovine polverose potranno a stento indicare la passata esistenza di Gabii, Veio, Cora, dei Lari albani e dei Penati di Laurento: desolata campagna, nella quale - ma soltanto nelle notti imposte dal rituale - farà, contro voglia, la sua apparizione un senatore, che si lamenta delle prescrizioni di Numa. Non fu il tempo, che divora tutto, ad annientare queste città e a far piombare nell'oblio le testimonianze, ormai sfatte, dell'antica potenza: vediamo che tante città sono vuote a causa di un crimine civile. A che piccolo avanzo si è ridotta la folla del genere umano! Tutte le popolazioni della terra non sono in grado di riempire di abitanti le mura e le campagne: una sola città riesce a contenerci. I campi dell'Italia vengono coltivati da uno zappatore in catene, la casa, con gli aviti tetti in disfacimento, è ancora in piedi, ma crollerà senza che ci sia più nessuno ad abitarla; nessun cittadino affollerà più la sua Roma, che è invece piena della feccia del mondo: abbiamo provocato un tale disastro, che in un dominio così grande non è più possibile una guerra civile. Farsàlo è la causa di sì immane sciagura; cedano ad essa - nomi ferali - Canne e l'Àllia, da sempre maledetti nei Fasti romani: Roma ha conosciuto momenti di mali meno gravi, ma ha rifiutato di conoscere questo giorno! Oh triste destino! Questi soldati sono in grado di colmare i vuoti provocati dalle pestilenze, da epidemie, da una fame rabbiosa, da roghi di città, da terremoti, che annientano popolazioni intere - questi soldati, che la Fortuna ha trascinato da ogni parte a una morte infelice: nello stesso momento però essa mostra - e li strappa via a un tempo - i frutti di un lungo periodo di conquista, popoli e condottieri, e li fa schierare sul campo, per farti vedere, o Roma, quanto sei grande, proprio nel momento del tuo crollo. Quale città mai ha esteso più diffusamente il suo dominio sul mondo ed è passata così rapidamente di successo in successo? Ogni guerra ti ha fatto dono di popolazioni, in tutti gli anni il sole ti ha visto avanzare verso ambedue i poli; ti rimaneva da occupare una piccola estensione di territorio orientale, affinché la notte e il giorno si alternassero solo per te, solo per te il cielo si muovesse e tutti i corpi celesti scorgessero, nel loro moto, tutta la terra sotto il dominio di Roma. Ma il ferale giorno di Emazia da solo ha fatto tornare indietro il tuo destino per un periodo equivalente a tutti gli anni trascorsi. Per questo giorno sanguinoso avviene che l'India non ha paura dei fasci latini e che il console non può impedire ai Dahi di compiere scorrerie, costringendoli a chiudersi entro mura, ed egli non traccia, in vesti succinte, il solco per i Sàrmati. Ed ancora: i Parti devono essere sempre puniti da te crudelmente e la Libertà, fuggendo - senza alcuna possibilità di ritorno - l'empietà della guerra civile, si è ritirata al di là del Tigri e del Reno: tante volte cercata da noi a rischio della vita, continua a vagare, prezioso possesso dei Germani e degli Sciti, e non si volge affatto verso l'Italia: vorrei che i nostri popoli non l'avessero mai conosciuta. Vorrei che - a partire dal tempo in cui Romolo fondò le tue mura, allorché gli avvoltoi volarono a sinistra, e le popolò di un infame asilo, fino al disastro tessalico - tu, o Roma, fossi sempre stata schiava. Mi lamento dei Bruti, o Fortuna: perché mai abbiamo vissuto gli anni in cui dominavano le leggi e che prendevano nome dal console? Beati gli Arabi, i Medi e tutta la terra orientale, che i fati mantennero sotto un ininterrotto potere tirannico: tra i popoli, costretti a subire il regime dispotico, la sorte peggiore è la nostra, dal momento che ci vergogniamo di servire. Di sicuro noi non abbiamo dèi: poiché il cieco caso domina e trascina la vicenda delle generazioni, noi mentiamo quando affermiamo che esiste Giove. Egli osserverà, dalla sommità del cielo, le stragi di Tessaglia, pronto a scagliare i suoi fulmini? Di certo colpirà il Fòloe, percuoterà con le folgori l'Eta, le selve dell'incolpevole Ròdope e i pini del Mimante, mentre poi sarà Cassio a colpire il capo di Cesare? Giove, che fece sorgere la notte per Tieste e che condannò Argo a repentine tenebre, concederà la luce del giorno alla Tessaglia, piena di simili spade di congiunti, di fratelli, di padri? I numi non si danno il minimo pensiero di tutto ciò che riguarda i mortali. Purtuttavia di questo disastro avremo quella vendetta, che gli dèi consentono agli uomini: il conflitto civile creerà degli idoli pari ai superi, Roma ne adornerà i Mani di fulmini, di raggi e di astri e pronuncerà i giuramenti sulle loro ombre nei templi degli dèi.
Non appena ebbero percorso, con una velocissima avanzata, lo spazio che poneva un indugio al momento estremo del loro destino, i soldati - divisi da un piccolo tratto di terreno - osservano dove potrebbero cadere i giavellotti, che si accingono a scagliare, o quali mani nemiche potrebbero costituire un maggior pericolo per loro. Ed affinché fossero messi in grado di conoscere quali crimini spaventosi erano sul punto di commettere, scorsero, nell'esercito che li fronteggiava, i volti dei padri e, proprio vicino, i fratelli in armi. Né vollero cambiare la loro posizione: purtuttavia un torpore strinse tutti i cuori ed il sangue gelato si fermò nei petti - colpito violentemente il loro amore reciproco - e tutte quante le coorti trattennero, pur con le braccia tese, i giavellotti, che esse avevano apprestato da un pezzo. I numi ti puniscano, o Cràstino, non con la morte - castigo che tutti devono subire -, ma dandoti la possibilità di sentire anche dopo la morte: fu infatti la tua mano a scagliare l'asta, che scatenò la guerra e che per prima tinse di sangue romano la Tessaglia. O rabbia scatenata! Mentre Cesare tratteneva i suoi dardi, si poté trovare qualche mano, che anticipasse i suoi ordini?Allora l'aria rimbombò squarciata dai litui e dalla fanfara dei corni, allora le trombe osarono dare il segnale, allora il fragore salì al cielo e si diffuse sui fianchi dell'Olimpo fino alla vetta, da dove si tengono lontane le nubi e dove non giunge il fracasso dei tuoni. L'Emo ricevette il clamore nelle valli risonanti e lo restituì raddoppiato agli antri del Pèlio, il Pindo fu percorso da un fremito, le rocce del Pangèo tremarono, quelle dell'Eta emisero gemiti ed i combattenti ebbero timore delle urla del loro furore, riecheggianti in tutta la terra. Dardi innumerevoli vengono lanciati con diversi voti: c'è chi brama ferire e c'è chi desidera inchiodare le armi al suolo e conservare le mani senza colpa: il caso però trascina tutto e la Fortuna cieca rende colpevoli quelli che vuole. Allora gli Iturèi, i Medi e gli Arabi, folla scatenata e minacciosa con i suoi archi, non lanciano i dardi contro un obiettivo, ma prendono di mira soltanto l'aria, che incombe sul terreno: di lì le frecce ricadono seminando la morte, anche se essi non contaminano le loro armi straniere con alcun delitto scellerato, dal momento che l'empietà è tutta raccolta sui giavellotti romani. L'aria è coperta dal ferro e la notte provocata dai dardi incombe sul campo di battaglia. Ma quanta poca parte del massacro è opera delle frecce, che volano nell'aria! La sola spada basta all'odio civile e spinge la destra a trafiggere viscere romane. I soldati pompeiani, compatti in schiere serrate, avevano unito in fila le armi e gli scudi ed avevano a fatica lo spazio per muovere le destre armate e, così serrati, avevano paura delle loro stesse spade. L'esercito di Cesare, in preda alla follia della guerra, si scaglia, con una corsa precipitosa, sulle fitte schiere e tenta di aprirsi un varco attraverso le armi nemiche. Là dove la lorìca coperta di borchie oppone ai colpi pesanti scaglie ed il torace è protetto da una difesa sicura, anche per quella via si riesce ad arrivare alle viscere ed il colpo, inferto da ciascuno pur attraverso tante difese, risulta mortale. Un solo esercito subisce il conflitto civile, l'altro lo conduce: da una parte c'è la spada, immobilizzata dalla paura, mentre ogni arma, nell'esercito cesariano, è marchiata da una colpa bruciante.
La Fortuna non impiegò troppo tempo per rovesciare una mole così grande di potenza, ma ne travolse rapidamente le immani rovine nei vortici del fato. Non appena la cavalleria di Pompeo allargò le sue ali in tutta la pianura, giungendo sino ai confini estremi del campo di battaglia, la fanteria leggera - mescolata agli ultimi manipoli - le tenne dietro e si lanciò sui nemici in schiere feroci. Lì ogni popolazione combatteva con le sue armi, ma l'obiettivo era per tutti il sangue romano: da lì volano i dardi, da lì torce, sassi e proiettili di piombo, che, nello spazio percorso, si fondono in una massa arroventata. A questo punto Cesare, temendo che le prime file potessero vacillare per l'impatto, collocò le coorti in linea obliqua dietro le insegne e, senza far muovere le ali, lanciò un improvviso attacco sul fianco del combattimento, là dove i nemici si muovevano senza ordine: senza più pensare alla lotta e senza provare vergogna per la loro viltà, essi volsero in rotta e mostrarono che nelle guerre civili non si deve mai fare affidamento su contingenti barbarici. Non appena un destriero, trafitto da un dardo nel petto, disarcionò il cavaliere e lo calpestò, tutti i guerrieri a cavallo si allontanarono dalla pianura e, come una densa nube, si volsero indietro e si precipitarono sulle loro stesse schiere. Da questo momento in poi non ci fu più alcun limite alla strage e non ci fu più alcuna battaglia vera e propria: da una parte si combatte con le gole, dall'altra con il ferro ed un esercito non riesce tanto a vincere quanto l'altro a soccombere. Oh, Farsàlo, potesse esser sufficiente al tuo campo di battaglia questo sangue, che esce dal petto dei barbari: i fiumi non si colorerebbero di un altro sangue e la loro moltitudine ricoprirebbe con le proprie ossa tutta la tua pianura. Oppure, se preferisci essere sommersa dal sangue romano, ti prego, risparmiali: rimangano pure in vita i Gàlati, i Siri, i Cappàdoci, i Galli e gli Ibèri, che abitano le estreme lande del mondo, gli Armeni e i Cìlici: dopo la guerra civile, saranno loro il popolo di Roma. La paura, una volta manifestatasi, pervade tutti ed i fati concedono il loro favore a Cesare.
Si era giunti al centro dello schieramento pompeiano, dove si trovavano le truppe scelte: qui la guerra - che aveva disseminato tutti i campi di soldati in fuga - si fermò e la Fortuna di Cesare subì un arresto. In quel punto non combattono reparti di rincalzo, forniti dai re alleati, e non impugnano il ferro braccia chiamate in aiuto: quel luogo è ora pieno di fratelli e di padri: qui è il tuo furore, qui la tua rabbia, qui sono i tuoi delitti, o Cesare. Fuggi, o spirito poetico, questo momento della guerra e lascialo avvolto nelle tenebre: nessuna età conosca dalla mia poesia, che canta tante sventure, quanto sia sfrenata la licenza concessa ai conflitti civili. Ah, piuttosto vadano perdute le lacrime e i lamenti: io, o Roma, passerò sotto silenzio tutto quello che tu hai commesso in quello scontro. Lì Cesare - per suscitare ed aizzare la rabbia e il furore della truppa - si aggira fra le schiere e rinfocola l'ardore degli animi già eccitati, affinché non vada perduto, anche in parte, il crimine della guerra civile: egli osserva anche le spade, quali grondino sangue da tutta la lama, quali luccichino insanguinate soltanto sulla punta, quale mano tremi mentre impugna il brando, chi stringa le armi con scarsa convinzione, chi invece con tesa energia, chi combatta solo per obbedire agli ordini, chi invece lo faccia ricavandone piacere, chi muti espressione di fronte ad un cittadino ucciso. Si accosta ai cadaveri, che giacciono nella vasta pianura, si affretta a comprimere egli stesso le ferite di molti, che altrimenti farebbero sgorgare tutto il sangue. Per qualsiasi luogo si aggiri - come Bellona, che agita la frusta insanguinata, o come Marte, che spinge i Bìstoni, aizzando con percosse crudeli i cavalli dei carri atterriti dall'ègida di Pàllade - è notte fonda di delitti: da essa nascono uccisioni e stragi e risuona come il lamento di una voce immensa insieme al fragore delle armature di quelli che piombano a terra e delle spade, che si infrangono sulle spade. Cesare in persona reca le armi, fornisce i dardi ed ordina di sfigurare i volti dei nemici che si affrontano: egli stesso dà impulso alle schiere, le sospinge alle spalle ed aizza, percuotendoli con l'impugnatura di un'asta, quelli che non avanzano. Comanda di non fare impeto contro la folla ed indica i senatori: sa bene quale sia il sangue dell'impero, quale il cuore dello Stato, da quale luogo Roma possa esser conquistata, dove sia rimasta, ancora in piedi, l'ultima libertà del mondo, contro cui si devono vibrare i colpi. I nobili, mescolati ai cavalieri - persone venerabili - vengono incalzati dalle armi: sono uccisi i Lèpidi, i Metelli, i Corvini insieme con i Torquati, nomi illustri, sovente capi di imprese e sommi tra gli uomini, eccezion fatta per te, o Grande. Lì, con il volto coperto da una visiera da plebeo e senza che il nemico ti conoscesse, quale ferro impugnavi, o Bruto! Decoro dell'impero, estrema speranza del Senato, ultimo nome di una schiatta così famosa attraverso i secoli, non gettarti troppo temerariamente in mezzo ai nemici, non far avvicinare prima del tempo a te, che sei destinato a morire nella tua Tessaglia, la fatale Filippi. Non riesci ad ottenere oggi alcun vantaggio, cercando di colpire la gola di Cesare: egli non ha ancora raggiunto il potere supremo, e, pur avendo superato il culmine della umana potenza, a cui ogni cosa è soggetta, non ha ancora meritato dai fati una morte così nobile: rimanga ancora in vita e regni pure, affinché cada vittima di Bruto.
Qui muore ogni decoro della patria: in un grande tumulo giacciono cadaveri di patrizi, non mescolati a corpi di plebei. Purtuttavia, nella strage di uomini così illustri, ebbe un posto di rilievo la morte del pugnace Domizio, che il destino rendeva partecipe di tutti i disastri: in nessun luogo la fortuna del Grande dovette soccombere senza di lui. Vinto tante volte da Cesare, muore, mentre è ancora in possesso della sua libertà: stramazza lieto su un gran numero di feriti, felice di non aver potuto usufruire di un secondo perdono. Cesare lo aveva scorto in una pozza di sangue e lo aveva apostrofato: «Ecco che abbandoni le armi di Pompeo, o Domizio, mio successore: ormai la guerra si combatte senza di te». A quello però fu sufficiente un po' di respiro, che gli faceva pulsare il petto, a fargli pronunciare, mentre spirava, queste ultime parole: «Vado libero e sereno alle ombre stigie, mentre Pompeo è ancora il mio comandante, e ti scorgo non ancora padrone del ferale premio dei delitti, in dubbio sul tuo destino e inferiore a tuo genero, o Cesare. Nel momento della mia morte, mi è consentito sperare che tu - sconfitto in una guerra crudele - pagherai duramente il fio a Pompeo ed a noi». Non parlò più, la vita fuggì e fitte tenebre gli fecero rovesciare gli occhi.
Mi vergognerei, in questo funerale del mondo, se piangessi le morti innumerevoli e, tenendo dietro al destino di ciascuno, cercassi di sapere chi abbia avuto le viscere attraversate da una ferita mortale, chi abbia calpestato i suoi organi fuoriusciti, chi morendo abbia rigettato con il suo respiro la spada dalla gola, in cui era stata spinta, chi sia piombato a terra sotto i colpi, chi sia riuscito a rimanere in piedi, nonostante il suo corpo tendesse a stramazzare, chi abbia avuto il petto trapassato dalle frecce o chi una lancia abbia inchiodato al suolo, da chi sia stato lanciato attraverso l'aria il sangue che sprizzava dalle vene squarciate e ricadeva sulle armi del nemico, chi abbia ferito il petto del fratello e ne abbia mozzato il capo, gettandolo lontano, per poter poi depredare il cadavere a lui ben noto, chi abbia fatto scempio del volto del padre ed abbia voluto dimostrare - accanendovisi con furore - a chi lo osservava che non era il suo genitore la persona, che stava sgozzando. Nessuna di queste morti può avere il compianto che merita e non c'è tempo di piangere nessun caduto. Farsàlo non ha avuto la stessa importanza delle altre sconfitte: lì Roma perdeva uomini, qui invece addirittura genti; lì cadevano combattenti, qui un intero popolo; qui scorre sangue acheo, pontico, assiro: il sangue romano, fluendo a torrenti, impedisce che quello delle altre popolazioni si fermi e ristagni nella pianura. Le genti ricevono da questa battaglia una ferita troppo grave, perché riesca a sopportarla la generazione, che l'ha combattuta; quel che si perde è molto più della salvezza e della vita: noi siamo abbattuti per tutto il tempo che rimane, da queste spade sono vinte e rese schiave tutte le età. Per quale motivo la generazione successiva a questo disastro e quelle future hanno meritato di nascere sotto un dominio tirannico? Abbiamo forse combattuto da vili o ci siamo coperti le gole? Il castigo della vigliaccheria altrui pesa sul nostro capo. Se a quelli venuti dopo Farsàlo davi un padrone, avresti dovuto dare, o Fortuna, anche la guerra.
Ormai lo sventurato Grande aveva compreso che gli dèi e i fati di Roma non erano più dalla sua parte, anche se l'enormità del disastro non lo costrinse ancora ad imprecare contro il suo destino. Si drizzò in piedi su un terrapieno, da dove potesse osservare da lontano, disseminate per i campi di Tessaglia, tutte le stragi, di cui fino ad allora la battaglia in corso gli aveva impedito di rendersi conto: scorse così tanti dardi cercare la sua morte, tanti corpi sparsi ovunque e se stesso morire per tanto sangue versato. Non volle però, come è consuetudine dei disperati, trascinare ogni cosa con sé e travolgere le genti nella sua rovina: affinché la più gran parte della folla latina potesse vivere dopo di lui, si risolse a credere ancora una volta che i numi fossero degni di voti e volle trovarvi un conforto alla sua disgrazia. Così dunque pregò: «Risparmiate, o dèi, la rovina di tutti i popoli: il Grande può essere sventurato, anche se il mondo rimane in piedi e Roma riesce a sopravvivere. Se avete deciso che mi debbano essere inferte ferite più numerose, io ho una moglie e dei figli: ho consegnato al destino tanti pegni d'affetto. È cosa da poco, per il conflitto civile, sommergere me ed i miei? Rappresentiamo un disastro di scarsa importanza, se il mondo non ne viene coinvolto? Perché, o Fortuna, fai scempio di tutto e tutto cerchi di annichilire? Ormai nulla è più mio». Dopo queste parole si aggira fra le armi, le insegne e le schiere, ormai ridotte completamente allo stremo, e richiama quelli che si precipitano nelle spire di un destino prematuro ed afferma che lui non vale tanto. Né mancherebbe al condottiero l'energia per andare incontro alle spade e per offrire alla morte la gola e il petto: egli però teme che, una volta ucciso Pompeo, i soldati non fuggirebbero più e morirebbero tutti quanti sul corpo del capo, oppure desidera sottrarre la sua morte agli occhi di Cesare. Invano, o sventurato: dovunque il suocero vorrà contemplare il tuo capo, sarà necessario offrirglielo. Ma anche tu, o sposa, e il desiderio di vederti sono la causa della fuga, insieme al pensiero che i fati potrebbero aver decretato che egli possa morire lontano dalla moglie: allora un destriero, spronato da Pompeo, porta lontano dalla battaglia lui, che non ha paura dei dardi, che gli sibilano alle spalle, e che va con grande coraggio incontro al suo destino. Non v'erano gemiti o pianto: era un venerabile dolore, nella tua integra maestà, quale si addiceva che tu, o Grande, avessi, nelle sventure di Roma. Osservi l'Emazia con sguardo sicuro: i successi riportati nelle guerre non ti videro superbo, ma neanche le sconfitte ti vedranno abbattuto; come l'invida Fortuna fu inferiore a te nella letizia dei tre trionfi, così lo è anche nella sventura. Ormai libero dall'oppressione del destino, te ne vai tranquillo. Ora puoi riandare con il ricordo ai momenti felici; la speranza, che mai si riesce a soddisfare, è scomparsa: ora puoi sapere che cosa sei stato. Fuggi i combattimenti crudeli e sii testimone agli dèi che nessuno - che continui a lottare - muore ormai per te, o Grande: come l'Africa, degna di pianto per le sue disgrazie, come il disastro di Munda e il massacro perpetrato nelle acque farie, così anche la maggior parte della battaglia tessalica, che si svolge dopo la tua partenza, non sarà più la manifestazione tangibile della grande popolarità, di cui gode il nome di Pompeo nel mondo, o del suo entusiasmo per la guerra: sarà invece quella degli avversari di sempre, la Libertà e Cesare; ed i senatori, dal momento della tua fuga in poi, hanno mostrato di aver combattuto per sé. Non è forse per te motivo di soddisfazione allontanarti dal combattimento e non assistere così al massacro? Osserva le schiere che sbavano strage, osserva i fiumi, resi torbidi dallo scorrere del sangue, ed abbi pietà del suocero. Con quale animo egli farà il suo ingresso in Roma, reso più lieto dalla vittoria riportata in questa pianura? Qualunque dolore dovrai sopportare, esule solitario in regioni sconosciute, o sotto il tiranno di Faro, fa' affidamento negli dèi e nella lunga benevolenza del fato: sarebbe stato peggio vincere. Soffoca i lamenti, impedisci alle genti di piangere, elimina le lacrime e i lutti: il mondo si prostri nello stesso modo di fronte alle sventure ed ai successi di Pompeo. Guarda tranquillo i re con espressione non supplichevole, guarda le città possedute e i regni donati, l'Egitto e la Libia, e scegli una terra per morirvi.
Larissa, che fu la prima testimone della tua rovina, ha scorto il tuo nobile capo non sottomesso dal destino. Quella città, venendoti incontro come ad un vincitore, con tutti i suoi cittadini, ha spiegato tutte le sue forze fuori dalle mura: i suoi abitanti, piangendo, promettono doni, spalancano i templi e le case e bramano di esserti compagni nella sconfitta. Certo sopravvive molto di una grandissima fama e tu, inferiore soltanto a te stesso, avresti potuto aizzare di nuovo alla guerra tutte le genti ed affrontare nuovamente il fato. Queste furono invece le tue parole: «Che bisogno ha un vinto di popoli o di città? Prestate giuramento di fedeltà al vincitore». Tu, o Cesare, alto su un cumulo di cadaveri, vai ancora attraverso le viscere della patria, mentre il genero ormai ti fa dono di popoli. Il destriero conduce Pompeo lontano da quella città: gli tengon dietro gemiti, lacrime e moltissime imprecazioni dei cittadini contro i numi crudeli. Ora sei veramente in grado di constatare la realtà ed il frutto del favore cercato: i fortunati non sono mai sicuri di essere amati solo per se stessi.
Non appena Cesare vide che il sangue italico aveva sufficientemente sommerso i campi, ritenne di dover consentire una pausa alle armi dei suoi soldati e concesse la vita alle persone senza importanza ed alle schiere, che sarebbero perite invano. Ma - affinché l'accampamento non richiamasse gli sbandati e il riposo notturno non ne scacciasse la paura - stabilì di oltrepassare subito la trincea nemica, mentre il successo conseguito teneva ancor vivo l'ardore dei soldati ed il terrore paralizzava ogni cosa: egli non temette che l'ordine riuscisse sgradito ai combattenti stanchi o provati dalla battaglia. Essi non avevano bisogno di esortazioni impellenti per essere spinti al saccheggio; così dunque parlò Cesare: «La nostra vittoria è completa, o guerrieri: in premio del sangue versato rimane una ricompensa, che è mio dovere indicarvi: ed infatti non definirò come dono, quel che ciascuno di voi prenderà per sé. Ecco, l'accampamento nemico è colmo di ricchezze di ogni tipo: qui si trova l'oro strappato alle genti italiche e le tende proteggono i tesori dell'Oriente. Le fortune, raccolte insieme, di tanti re e del Grande, attendono dei padroni: affrettatevi, o soldati, a precedere coloro che voi inseguite: tutte le ricchezze, che Farsàlo ha fatto vostre, le stanno saccheggiando i vinti». Senza aggiungere altro, spinse i soldati - resi folli e ciechi dal desiderio insaziabile dell'oro - ad avanzare sulle spade e sui cadaveri dei senatori e a calpestare i condottieri uccisi: quale fossato o terrapieno sarebbe stato in grado di porre un freno a loro, bramosi della ricompensa di una guerra piena di delitti? Si precipitarono per sapere per quale compenso erano divenuti colpevoli. Trovarono una grandissima quantità di pezzi d'oro accatastati, frutto delle rapine compiute in tutto il mondo, e destinata alle spese della guerra: essa però non fu sufficiente a saziare quegli uomini, che bramavano ogni cosa. Per quanto essi si impadroniscano di tutto l'oro, che gli Ibèri estraggono dalle viscere della terra, di quello che il Tago deposita sulle sue sponde e di quello, che i ricchi Arimaspi raccolgono sulla superficie della sabbia, riterranno che questo misfatto è pagato ben poco: allorquando un vincitore si è ripromesso di conquistare la rupe Tarpea e spera ardentemente di impadronirsi dell'intera Roma per saccheggiarla, si sente defraudato dal fatto di devastare un accampamento. La sacrilega plebe prende sonno nella zona erbosa riservata ai patrizi, l'empio soldato calca il letto preparato per i re ed i criminali si sdraiano nei giacigli dei genitori e dei fratelli. Essi però sono travagliati da sonni agitati e da sogni sconvolgenti, mentre, sventurati, rivivono nei loro animi la battaglia tessalica: in tutti è ben desto il crudele misfatto, la visione delle armi tormenta tutti i loro pensieri ed essi muovono le braccia senza che vi siano armi. Io sarei propenso a ritenere che i campi abbiano emesso gemiti, che la terra colpevole abbia emanato esalazioni, che l'aria tutta fosse piena di fantasmi e che la notte terrestre fosse impregnata di un terrore infernale. La vittoria esige dai rei pene atroci ed il sonno arreca fiamme sibilanti. Ecco l'ombra di un cittadino ucciso; ciascuno è soffocato da una sua visione di terrore: uno scorge volti di vecchi, un altro sembianti di giovani, un altro ancora è tormentato in ogni istante del suo sonno dall'immagine del cadavere del fratello, mentre quella del padre opprime invece il cuore di un altro combattente: le ombre di tutti i morti si ergono dinanzi a Cesare. Non diversi erano i volti delle Eumènidi, scorti dal pelòpide Oreste, non ancora purificato presso l'ara scitica, né più annichilente sconvolgimento dell'animo colse Pènteo, quando uscì di senno, o Agàve, allorché rinsavì: in quella notte Cesare fu oppresso da tutte le spade viste a Farsàlo o da quelle, che il dì vendicatore avrebbe scorto impugnate dai senatori, e venne sferzato da mostri infernali. E quanti tormenti affliggono, a causa del rimorso, l'infelice, se egli - mentre Pompeo è ancora in vita - scorge lo Stige, i fantasmi dei trapassati e il Tàrtaro protagonisti dei suoi sogni!
Malgrado Cesare subisse tutte queste cose, dopo che la luce del giorno gli ebbe rivelato la catastrofe di Farsàlo, nessuna immagine del luogo riuscì a distogliere il suo sguardo concentrato sui campi funesti. Egli osserva i fiumi spinti dal sangue ed i cadaveri ammucchiati, che giungono allo stesso livello delle alture eminenti, guarda i cumuli dei corpi che iniziano a putrefarsi, passa in rassegna le popolazioni che seguivano Pompeo e comanda di allestire la mensa nel luogo, da cui è in grado di riconoscere i volti ed i sembianti dei morti. Gioisce nel non riuscire a scorgere il terreno di Emazia e lascia vagare il suo sguardo sui campi nascosti dai corpi: scorge nel sangue versato la Fortuna ed il favore dei numi. E - perché egli, folle, non perda la visione, che lo rallegra, dei misfatti - sottrae agli infelici caduti la fiamma del rogo e costringe il cielo colpevole a guardare l'Emazia. Il Cartaginese, che fece seppellire il console, e Canne, che arse di roghi libici, non lo sollecitano a comportarsi civilmente nei confronti del nemico: egli ricorda invece, mentre il suo furore non è ancora saziato dalle stragi, che si tratta di suoi concittadini. Non richiediamo che ogni caduto abbia il suo rogo e il suo sepolcro: concedi alle genti un solo fuoco, sì che i cadaveri vengano arsi da un'unica fiamma, oppure, se ti rallegra il dolore del genero, innalza un rogo con le selve del Pindo o con quelle dell'Eta, in modo che Pompeo possa scorgere dal mare la fiamma tessalica. Non concludi nulla con codesto tuo furore: non ha alcuna importanza, se i cadaveri si disfacciano putrefatti o se siano invece consumati dal rogo: la natura riceve nuovamente nel suo placido abbraccio ogni cosa ed i corpi contengono in se stessi le cause del loro annullamento. Se adesso, o Cesare, il fuoco non brucerà queste genti, le arderà, insieme con la terra e con le acque del mare, il rogo universale, che travolgerà il mondo e mescolerà insieme ossa ed astri. In qualsiasi luogo la Fortuna chiamerà la tua anima, vi troverai anche queste anime: non salirai più in alto nell'etere, non giacerai in un luogo migliore nella notte infernale. La morte non è soggetta alla Fortuna: la terra accoglie tutte le cose, che ha generato: chi non ha un sepolcro, è coperto dal cielo. Tu, che affliggi i popoli con morti senza sepoltura, perché fuggi questa strage? Perché abbandoni i campi, da cui esala un lezzo di morte? Bevi, se puoi, o Cesare, le acque di questo luogo, respirane l'aria. Ma i cadaveri delle genti in putrefazione ti sottraggono i campi di Farsàlo, divenendone padroni, dopo aver costretto alla fuga il vincitore.
Non soltanto i lupi della Bistònia vennero al ferale pasto della guerra emonia e non soltanto i leoni - attratti dall'odore ributtante della strage sanguinosa - lasciarono il Fòloe: ecco che gli orsi abbandonarono i loro nascondigli, i ripugnanti cani le loro tane celate, e tutte le bestie dotate di olfatto acuto percepirono l'aria corrotta dal lezzo dei cadaveri. Ed ormai accorsero lì gli uccelli, che avevano seguito da lungo tempo gli eserciti della guerra civile: voi, o gru, che siete solite cambiare gli inverni traci con quelli del Nilo, ritardaste il vostro volo verso il mite austro. Il cielo non fu mai coperto da un numero così grande di avvoltoi né mai tante ali colpirono l'aria: ogni bosco mandò uccelli ed ogni albero, sporcato di sangue dai volatili, grondò di umore rosso: più di una volta sui visi dei vincitori o sulle loro empie insegne colò dall'alto cielo sangue misto a putredine e gli avvoltoi lasciarono cadere, dai loro artigli ormai esausti, brandelli umani. Così non tutti i corpi si ridussero a scheletri né scomparvero divorati brano a brano dalle fiere: esse infatti non si preoccuparono di divorare con avidità le viscere più riposte o tutte le midolla dei cadaveri, ma si limitarono ad addentarne gli arti. La più gran parte della folla latina giace suscitando ripulse di ribrezzo: il sole, la pioggia e lo scorrere dei giorni ne disfecero i resti, amalgamandoli poi al terreno d'Emazia.
O sventurata terra di Tessaglia, con quali delitti hai offeso i numi in maniera così profonda, perché tu sola fossi schiacciata da tante morti e da tante rovine delittuose? Quanto tempo ci vorrà, perché i discendenti dimentichino e ti perdonino le disgrazie della guerra? Nascerà una qualche messe, che non sia scolorita, dal momento che il suo gambo è contaminato dal sangue dei caduti? Con quale aratro non oltraggerai i Mani di Roma? Prima di allora sopraggiungeranno nuovi eserciti ed offrirai la pianura, che non si è ancora asciugata di questo sangue, ad un secondo misfatto. Sconvolgiamo pure tutte le tombe degli avi, sia quelle che non hanno ancora subìto l'ingiuria del tempo sia quelle che, frantumate da radici vetuste, fanno scorgere le loro urne: saranno più numerose le ceneri percosse dal vomere nei solchi tessalici ed in numero maggiore le ossa urtate dai denti dei rastrelli. Nessun navigante avrebbe assicurato la fune della sua imbarcazione alle spiagge dell'Emazia, nessun contadino ne avrebbe mai arato la terra - divenuta la tomba del popolo romano -, i coloni fuggirebbero i campi pieni di fantasmi, gli armenti non pascolerebbero più nelle macchie, nessun pastore avrebbe il coraggio di consentire al gregge di cibarsi dell'erba, che cresce sulle nostre ossa, e tu giaceresti spoglia e sconosciuta - come le regioni prive di vita a causa dell'eccessivo caldo o del gelo -, se fossi stata non la prima, bensì l'unica zona del mondo a sopportare le atrocità della guerra. O dèi, sia consentito odiare le terre che si sono macchiate di questa colpa. Perché mai attribuite la responsabilità della guerra al mondo intero o perché lo assolvete del tutto? I massacri dell'Esperia, le acque di Pachino, causa di tante lacrime, Modena e Lèucade hanno reso Filippi monda da ogni colpa.

LIBRO OTTAVO


Dopo aver ormai oltrepassato le gole di Ercole e la selvosa Tempe, percorrendo un cammino faticoso e solitario attraverso la foresta tessalica, Pompeo - spingendo il destriero affaticato dalla corsa e che non obbediva più agli sproni - cerca di alterare e di confondere le tracce della sua fuga ed il percorso del suo tortuoso procedere. Si sgomenta per lo stormire delle fronde mosse dal vento e, se qualcuno dei suoi compagni gli sopraggiunge alle spalle, lo fa venir meno per la paura, poiché egli teme di trovarsi un nemico al fianco. Nonostante sia precipitato dalla sommità del potere, egli è consapevole che il prezzo del suo sangue non è ancora diminuito di valore e, ricordando la sua fortuna passata, è convinto che la sua gola abbia ancora quel valore, che egli stesso darebbe alla testa mozzata di Cesare. Il suo aspetto ben conosciuto non gli consente di occultare la propria disgrazia in nascondigli sicuri, nonostante egli proceda per sentieri deserti. Molti soldati - mentre si dirigevano verso gli accampamenti di Farsàlo, dal momento che non era ancora di dominio pubblico la notizia della sconfitta - si meravigliarono di imbattersi nel condottiero e rimasero sbigottiti per la fulmineità della catastrofe, cui essi credevano a stento, nonostante egli fosse la prova vivente della disfatta. La presenza di un qualsiasi testimone della sciagura risulta intollerabile per il Grande. Preferirebbe essere ignoto a tutti i popoli e passare sicuro attraverso le città, protetto da un nome sconosciuto: la Fortuna però richiede allo sventurato di pagare il fio di una lunga benevolenza e lo opprime, in questi momenti avversi, sotto il peso della fama, angustiandolo con il ricordo dei trionfi di un tempo. Ora egli si accorge che il tempo degli onori è trascorso con eccessiva rapidità e maledice le imprese ed i trionfi, conseguiti quando era giovane agli ordini di Silla; ora a lui, stroncato dalla sventura, riesce gravoso il ricordo delle flotte coricie e delle insegne pontiche. Così una vita troppo lunga abbatte gli animi grandi, se essa sopravvive al potere di un tempo: se l'ultimo giorno non sopraggiunge insieme con la fine della fortuna e non previene, con una morte rapida, il sopravvenire della sventura, il successo di prima si trasforma in disonore. Chi mai ha il coraggio di affidarsi alla sorte favorevole, se non è preparato a morire?
Aveva raggiunto i lidi, dove il fiume Penèo, già rosseggiante per le uccisioni dell'Emazia, sfociava in mare. Di lì un'imbarcazione, incapace di sopportare la violenza dei venti e delle onde e che offriva a stento una certa sicurezza nella navigazione su un corso d'acqua, trasportò lui timoroso in alto mare: mentre le sue navi solcavano ancora le acque di Corcìra ed il golfo di Lèucade, egli - dominatore dei Cìlici e della terra libùrnica - sgattaiolò, impaurito passeggero, su una piccola imbarcazione. Comandò di far rotta verso le spiagge, che conoscevano bene le sue preoccupazioni, della remota Lesbo, dove allora, o Cornelia, ti nascondevi più triste che se ti fossi trovata nei campi tessalici. Presentimenti acuiscono i tuoi gravosi affanni, un tremito angoscioso sconvolge il tuo sonno, in ogni notte giganteggia la Tessaglia; allontanatesi le tenebre, ti precipiti sugli scogli di una rupe scoscesa, che si trova all'estremità della spiaggia: osservando la superficie del mare, sei sempre la prima a scorgere le vele - che ondeggiano da lontano - di una nave che sopraggiunge, ma non hai il coraggio di chiedere nulla sulla sorte del coniuge. Ecco un'imbarcazione puntare la prua ai vostri porti! Non sai, che cosa essa rechi: ma paventi il massimo dei timori, l'annuncio sinistro della sconfitta. Ecco lo sposo vinto. Perché non cominci ad esternare il tuo lutto? Potresti avere la possibilità di piangere, ma hai paura. Allora, mentre la nave si avvicinava, balzò in avanti e vide - crudele misfatto dei numi - il condottiero deformato dal pallore, con i capelli bianchi sul viso e gli abiti sporchi di nera polvere. La notte piombò sulla misera, le strappò il cielo e la luce ed il dolore le tolse il respiro: tutte le membra, prive di energia, vacillarono, il cuore si arrestò e rimase a lungo immobile, sperando inutilmente di morire. Ed ecco che, assicurata la fune al lido, Pompeo percorreva l'arenile solitario. Dopo che le ancelle fedeli lo scorsero più da presso, non si lasciarono andare a maledire il fato se non con gemiti soffocati, mentre cercavano vanamente di sollevare da terra la loro signora priva di sensi: il Grande la strinse al petto, tentando di riscaldare con il suo abbraccio le membra gelide. Poiché il sangue aveva ripreso a fluire alla superficie del corpo, ella cominciava a percepire il contatto delle mani di Pompeo e a poter sopportare la visione del volto mesto del marito, che le imponeva di non soccombere alle avversità e riprendeva con queste parole il suo dolore eccessivo: «Per qual motivo tu - che sei una donna illustre per le iscrizioni di avi tanto famosi - fai in modo che la tua nobile forza sia abbattuta dal primo urto della sventura? Hai la possibilità di acquisire una fama imperitura: non sono le armi o le leggi a procurare gloria al tuo sesso, ma soltanto la disgrazia del coniuge. Irrobustisci il tuo animo, il tuo affetto combatta contro il destino avverso, ed amami, proprio per il fatto che sono stato vinto; ora sono per te un motivo maggiore di gloria, per non avere più con me i fasci, la folla devota dei senatori e la folta schiera dei re: comincia a seguire da sola il Grande. Mentre lo sposo vive ancora, è fuor di luogo un estremo dolore, che non deve raggiungere un'intensità maggiore di questa: l'ultima manifestazione di fedeltà deve consistere nel piangere il marito. Tu non hai subìto alcuna conseguenza negativa dalla mia guerra: il Grande sopravvive alla lotta, anche se la Fortuna ha dovuto soccombere: se tu piangi per causa sua, significa che amavi soltanto lei».
Sferzata da queste parole del marito, ella, afflitta, riuscì con grande fatica a sollevarsi da terra, mentre i gemiti si spezzarono in alti lamenti: «Avesse voluto il cielo che io - moglie infelice e mai di lieto augurio per un marito - mi fossi recata nel talamo dell'odiato Cesare! Sono stata di danno al mondo per due volte: pronube mi sono state un'Erinni e le ombre dei Crassi: consacrata a quei Mani, ho recato le sventure di Assiria negli accampamenti del conflitto civile, ho fatto inabissare le genti nel crollo totale ed ho fatto in modo che tutti i numi si allontanassero dalla causa migliore. O marito grandissimo, che non meritavi di sposarmi, tanto diritto aveva la Fortuna su un capo così nobile? Perché io, empia, ti ho sposato, se dovevo fare la tua infelicità? Ora accogli la mia espiazione, che io pagherò spontaneamente: getta brano a brano nelle onde la tua sposa, perché il mare ti sia più favorevole, più certa la fedeltà dei re e più sottomesso il mondo intero. Preferirei che la vittoria del tuo esercito mi fosse costata la vita: ora purifica, o Grande, le tue vittorie con il mio sacrificio. Dovunque tu giaccia, o Giulia crudele - che hai avuto vendetta del nostro matrimonio dal conflitto civile - vieni qui e pretendi la punizione: placata dall'uccisione della concubina, risparmia finalmente il tuo Pompeo». Così parlò e, strettasi nuovamente al petto del marito, provocò il pianto in tutti. È piegato il forte cuore di Pompeo ed i suoi occhi, che non avevano pianto in Tessaglia, si inumidirono a Lesbo.
A questo punto la folla degli abitanti di Mitilene, che si accalcava sulla spiaggia, così si rivolge al Grande: «Se per noi costituirà sempre il maggior titolo di gloria l'aver custodito il pegno di un marito così importante, ti supplichiamo di degnarti di trascorrere anche una sola notte tra le mura, legate a te da un sacro vincolo, e nelle case amiche: rendi, o Grande, quest'isola luogo di pellegrinaggio per i posteri e di venerazione per i Romani, che verranno a visitarla. In caso di sconfitta, non vi sono mura più sicure in cui rifugiarti: quelle delle altre città sono in grado di confidare nella buona disposizione del vincitore, le nostre sono già oggetto di accusa. La nostra non è forse un'isola circondata dal mare, mentre Cesare dispone di poche navi? La maggior parte dei senatori si raccoglierà qui, fiduciosa nel posto: è necessario che il tuo destino si rafforzi e prenda lena in una spiaggia a te ben nota. Accogli gli ornamenti dei templi e l'oro degli dèi, accogli questi giovani, se ritieni opportuno utilizzarli per terra o per mare: serviti di tutta quanta Lesbo e di tutta la sua disponibilità. [Accogli tutto questo: affinché non se ne impadronisca Cesare, prendila tu, anche se sarai vinto]. Sottrai ad un luogo, che ha così ben meritato, questa sola onta: non sembri che tu - mentre nella sorte lieta hai potuto contare sulla nostra fedeltà - non abbia potuto farvi affidamento, allorché la fortuna ti si è rivoltata contro». Rallegrato da un così grande sentimento nelle avversità e lieto che fosse ancora viva la fedeltà nel mondo, così Pompeo rispose: «Con l'affidarvi un pegno così importante, vi ho mostrato che in tutta quanta la terra non c'è luogo più gradito del vostro: Lesbo, con questo ostaggio, ha trattenuto l'intero mio affetto: qui si trovava la dimora sacra, l'amore della famiglia, qui per me c'era Roma. Mentre fuggivo, a nessun altro lido mi sono diretto e non ho temuto di fornirvi un'occasione così propizia per ottenere il perdono di Cesare, per quanto fossi ben consapevole che la sua ira crudele si sarebbe abbattuta su Lesbo, dove la mia sposa era protetta. Ma è già sufficiente avervi reso colpevoli: ora devo tener dietro al mio destino attraverso il mondo intero. Oh Lesbo, troppo lieta per una fama imperitura, sia che tu insegni alle genti ed ai re ad accogliere Pompeo, sia che soltanto tu mi offra la tua fedeltà! Ho stabilito di cercare in quali parti del mondo si trovi il giusto e dove la scelleratezza. Accogli, o nume - se ancora ve ne è qualcuno benevolo nei miei confronti -, l'estremo mio voto: concedimi genti simili a quelle di quest'isola, che - nonostante l'ostilità di Cesare - non proibiscano ai vinti di entrare ed uscire dai loro porti». Dopo aver così parlato, fece salire sulla nave la sua triste compagna. Avresti potuto credere che tutti abbandonassero la propria terra e il suolo della patria: a tal punto, su tutta la spiaggia, si colpivano il petto e tendevano con atteggiamento ostile le braccia verso il cielo. La folla, vedendoli allontanarsi, scoppiò in pianti e gemiti non tanto per Pompeo - il cui destino aveva suscitato il loro dolore - quanto a motivo di Cornelia, che essi, per tutta la durata della guerra, avevano considerato come una loro concittadina; se ella si fosse diretta all'accampamento del coniuge vittorioso, le donne a stento sarebbero state in grado di accomiatarsi da lei senza piangere: con un affetto così grande erano stati conquistati alcuni dalla sua riservatezza, altri dalla sua onestà e dal riserbo del suo casto viso: ella infatti, senza pesare minimamente su nessuno, con animo semplice e dimesso, era vissuta - quando ancora la sorte di Pompeo era propizia - come se fosse stata sposata ad uno sconfitto.
Ed ormai il sole, scivolato nel mare fino alla metà del suo disco di fuoco, non appariva interamente né a quelli cui si celava, né a coloro cui si mostrava, ammesso che esistano. Le ansiose preoccupazioni di Pompeo si indirizzano ora alle città, legate a Roma da un patto di alleanza ed ai re dall'animo mutevole, ora alle irraggiungibili zone del mondo, che si trovano sotto l'eccessivo sole dei tropici. Più di una volta il rodìo dei suoi tristi pensieri e l'intollerabilità del pensiero del futuro hanno abbattuto gli esausti aneliti del suo animo incerto: allora egli consulta il timoniere su tutti gli astri: da quali riconosca le terre, quale sia nel cielo il punto di riferimento per la rotta, seguendo quale costellazione si può giungere in Siria, quale delle stelle del Carro indirizzi con esattezza verso la Libia. L'esperto pilota, abile nell'osservare il cielo silenzioso, così risponde: «Noi non teniamo dietro a tutti quegli astri, che scorrono scivolando nell'etere stellato, e che ingannano, a causa del continuo movimento del cielo, gli sventurati naviganti: quella che invece è guida sicura per le imbarcazioni, è la stella polare, che non si immerge mai nelle onde, che mai tramonta e che riluce luminosa con tutte e due le Orse. Finché essa sorgerà alta su di me ed io scorgerò l'Orsa minore sopra l'estremità delle antenne, significherà che stiamo procedendo verso il Bosforo ed il Ponto, che curva i lidi della Scizia. Allorquando Artofìlace scenderà dalla sommità dell'albero e Cinosùra si porterà più vicina al mare, è segno che la nave starà facendo rotta verso i porti della Siria. Ecco poi Canòpo, stella che si limita ad errare nel cielo australe e che ha paura del borea: se superi Faro e continui a procedere, mentre essa rimane a sinistra, andrai ad urtare, nel bel mezzo del mare, contro le Sirti. Ma in che direzione desideri che si faccia rotta, dove vuoi che si tendano le scotte?». Ed a lui rispose, con animo incerto, Pompeo: «In tutti i mari fa' attenzione soltanto a che la tua nave si tenga sempre alla larga dalle spiagge dell'Emazia; abbandona inoltre il cielo e il mare d'Italia: per il resto, fa' affidamento sui venti. Ho ripreso la mia compagna, il pegno, che avevo lasciato in custodia: allora ero sicuro a quali lidi dirigermi, ora sarà il caso ad indicarmi l'approdo». Queste le sue parole: il pilota allora girò le vele, che penzolavano con uguale lunghezza dall'estremità dei pennoni e piegò la nave verso sinistra per fendere le acque, che gli scogli di Àsina e di Chio rendono agitate e pericolose, e allentò le gomene di prua, mentre tese quelle di poppa. I flutti percepirono il movimento e cambiarono il loro rumore, dal momento che il rostro solcava le onde e l'imbarcazione mutava rotta. Non con la stessa abilità l'auriga, allorché con la ruota destra fa piegare l'asse verso sinistra, costringe il carro ad accostarsi alla meta senza toccarla.
Il sole ha ormai rivelato le terre, dopo aver celato gli astri. Tutti coloro che sono fuggiti disordinatamente dal disastro tessalico tengon dietro a Pompeo e per primo, dopo la partenza da Lesbo, gli si fa incontro il figlio e subito dopo il fedele gruppo dei personaggi ragguardevoli. La Fortuna, infatti, non è riuscita a strappare al Grande - ancorché travolto dal fato e costretto alla fuga dalla sconfitta - la possibilità di avere i re al suo servizio: a lui esule sono compagni i signori del mondo e quelli che impugnano gli scettri orientali. Pompeo comanda allora a Deiòtaro, che aveva seguito in ogni luogo le tracce del suo capo, di recarsi fin nelle zone più remote della terra. «Dal momento che», gli disse, «il mondo, su cui Roma dominava, è andato perduto a causa della sconfitta tessalica, ci rimane soltanto, o fedelissimo tra i re, di saggiare la fedeltà degli orientali ed i popoli, che si abbeverano nell'Eufrate e nel Tigri, che non deve - fino a questo momento almeno - preoccuparsi di Cesare. Non ti sia di peso - nel tentativo di volgere in meglio il destino di Pompeo - avventurarti fin nelle lontanissime sedi dei Medi e nelle dimore appartate della Scizia e di giungere a latitudini completamente diverse dalla nostra, per recare queste mie parole al superbo Arsàcide: "Se hanno ancora valore per voi gli antichi patti, che io ho giurato nel nome di Giove Latino, e che i vostri maghi hanno consacrato, colmate le faretre e tendete gli archi armeni con le corde getiche: io non vi ho mai costretto, o Parti - allorquando guidavo le mie truppe verso gli sbarramenti del Caspio ed ero alle calcagna degli Alani tenaci, che guerreggiavano in continuazione, e permettevo che voi poteste scorrazzare in lungo e in largo nelle pianure degli Achemènidi - a rinserrarvi, pieni di paura, nella sicura Babilonia. Al di là delle terre di Ciro e degli estremi confini del dominio caldeo - là dove il vorticoso Gange ed il nisèo Idaspe si avvicinano al mare - mi trovavo ormai più prossimo dei Persiani ai raggi del sole nascente: tuttavia, pur essendo padrone di ogni cosa, ho sopportato che soltanto voi foste assenti dai miei trionfi: i Parti, unici tra i re orientali, si trovano al mio stesso livello. E c'è di più: non una volta sola gli Arsàcidi hanno potuto salvarsi grazie a Pompeo: chi fu, infatti, dopo la sanguinosa sconfitta d'Assiria, a porre freno alle giuste ire del Lazio? Obbligati nei miei confronti da tanti debiti di riconoscenza, ora i Parti, abbattuti gli sbarramenti, si riversino su questa sponda, vietata loro per secoli, ed avanzino oltre la pellèa Zèugma. Vincete, o Parti, per Pompeo: Roma si lascerà vincere da voi"». Al re non dispiacque obbedire a Pompeo, che ordinava un'impresa così ardua, e, spogliatosi delle insegne del suo rango, si allontanò dopo aver indossato un abito tolto ad un servo. In una situazione periclitante costituisce un fattore di sicurezza per un sovrano farsi passare per una persona indigente: come un vero povero, perciò, vive con maggior serenità di quanta ne abbiano i padroni del mondo! Dopo aver lasciato il re sulla spiaggia, Pompeo fa rotta attraverso gli scogli di Icària, supera Èfeso e Colofòne dal mare tranquillo e rasenta gli scogli spumeggianti della piccola Samo; soffia dal lido di Cos una brezza leggera; successivamente oltrepassa Cnido e Rodi, che rifulge sotto il sole, e, procedendo in alto mare, taglia il grande golfo di Telmesso. Viene incontro alla nave la terra di Panfìlia e Pompeo, che fino a questo momento non ha osato rinchiudersi fra le mura di nessuna città, entra per la prima volta in te, o piccola Fasèli: infatti i pochi abitanti e le dimore abbandonate vietano di temerti: l'equipaggio della nave è più numeroso della tua popolazione. Continuando di qui il suo viaggio, Pompeo giunge in vista del Tauro e del Dipsunte, che scende da quella catena montuosa.
Avrebbe mai potuto il Grande pensare, allorché pose pace sul mare, che anche a lui sarebbe derivato un vantaggio? La sua fuga su una piccola imbarcazione lungo i lidi della Cilìcia procede sicura. Tien dietro al capo in fuga la maggior parte dei senatori e nella piccola Siedra - in un porto formato dal Selinunte, da cui partono ed in cui arrivano le navi - il Grande, molto preoccupato, si decide finalmente a parlare in un'assemblea di persone così ragguardevoli: «Compagni di guerra e di fuga, simbolo della nostra patria, ancorché io vi consulti in un lido privo di tutto, qui in Cilìcia, senza essere circondato da soldati in armi e tentando di far mutare in nostro favore il destino, fornitemi il vostro ardimento. Non fui sconfitto del tutto nei campi d'Emazia ed il mio fato non è stroncato al punto tale, che io non sia in grado di risollevare il capo e di scuoter via da me la sconfitta. Forse che i disastri libici non riuscirono a far riacquistare a Mario tutto intero il suo potere, mentre io dovrei rimanere in balia della Fortuna, pur avendo subìto un danno minore? Mille navi, con mille comandanti ai miei ordini, incrociano nel mare di Grecia: Farsàlo ha disperso le nostre forze più che annientarle. La fama delle imprese, che ho compiuto in tutta la terra, ed il mio nome, che il mondo intero ama, basterebbero, da soli, a proteggermi. Esaminate le forze e la fedeltà dei regni di Libia, dei Parti, di Faro e di tutti i sovrani, che sia vantaggioso chiamare in soccorso di Roma. Ma io vi rivelerò le mie nascoste preoccupazioni e le risoluzioni cui mi sono deciso, dopo aver lungamente riflettuto. La giovane età del re egiziano mi mette in sospetto: la fedeltà, difficile da mantenere, postula anni, la cui forza deriva dalla maturità. Inoltre è per me motivo di angoscia l'ambiguo darsi da fare del Mauro: e difatti l'empia discendenza di Cartagine, memore della schiatta, incombe sull'Italia e nel suo cuore vanitoso è dominata dal pensiero di Annibale, che contamina, attraverso rapporti indiretti di parentela, il dominio libico e gli antenati nùmidi di Giuba: questi si gonfiò d'orgoglio per le suppliche di Varo e vide che la potenza di Roma veniva al secondo posto. Per tutti questi motivi, dirigiamoci in fretta, o compagni, verso le zone orientali. L'Eufrate ci separa con le sue acque da una grande parte del mondo, gli sbarramenti del Caspio isolano terre estesissime ed appartate, in un cielo diverso dal nostro si succedono le notti ed i giorni d'Assiria ed un mare con acque di un colore diverso dalle nostre - insieme ad un altro Oceano - sono separati dal nostro emisfero. Il loro unico piacere è combattere: hanno destrieri più imponenti dei nostri, archi più robusti, e giovani e vecchi sono sempre pronti a tendere le corde apportatrici di morte, che viene inferta con colpi infallibili. Essi per primi hanno travolto con i loro archi le sarisse macedoni e conquistarono Battra, fortezza dei Medi, e Babilonia, sede degli Assiri, che andava superba delle proprie mura. Né i Parti temono eccessivamente i nostri giavellotti ed hanno l'ardire di scendere in battaglia, dopo aver saggiato le faretre scitiche nell'assassinio di Crasso. Essi inoltre non solo scagliano dardi, che hanno il loro punto di forza nelle estremità di ferro, ma imbevono anche con abbondante veleno le frecce sibilanti: persino le piccole ferite risultano micidiali e la morte sopravviene pur quando il sangue sgorga solo superficialmente. Oh, volesse il cielo che io non dovessi fare un così grande affidamento sui crudeli Arsàcidi! Destini, che troppo si oppongono ai nostri, spingono i Medi ed i numi dimostrano un'eccessiva benevolenza verso questa gente. Scatenerò questi popoli, strappati dalla loro terra, così diversa dalla nostra, e lancerò le genti orientali, dopo averle suscitate dalle loro sedi. E se mi sarò ingannato sulla fedeltà degli orientali e sui patti stipulati con i barbari, la Fortuna mi faccia pur naufragare al di là dei confini del mondo conosciuto: non mi metterò certo a pregare i sovrani di quei regni, che io ho creato. Se morirò in un'altra zona del mondo, sarà per me motivo di grande consolazione il fatto che il suocero non avrà compiuto nei miei confronti alcunché di sanguinoso o di pietoso. Ma, se io passo in rassegna tutti gli avvenimenti della mia esistenza, vedo di essere stato oggetto di grande considerazione in quella parte del mondo: la mia fama si è diffusa al di là della Meòtide, è giunta fin presso il Tànai: in una parola tutto l'Oriente mi ha conosciuto. In quali terre il mio nome ha avuto maggiore risonanza a causa delle imprese fortunate o da quali regioni ha fatto ritorno con trionfi più grandi? Favorisci, o Roma, l'azione, che abbiamo intrapreso: che cosa infatti gli dèi potrebbero concederti di più fausto del fatto di condurre il conflitto civile con le truppe dei Parti e di poter così annientare un popolo tanto potente, con il renderlo partecipe delle nostre sventure? Allorquando l'esercito di Cesare verrà a battaglia con i Medi, è necessario che la Fortuna prenda vendetta o di me o di Crasso».
Dopo aver così parlato, si accorse, dal mormorio dei presenti, che la proposta veniva rifiutata. Lèntulo emerse fra tutti per i suoi incitamenti al valore e per la sua nobile espressione di dolore, pronunciando un discorso degno di un console, che ha appena lasciato la sua carica: «Fino a questo punto il disastro di Tessaglia ha abbattuto il tuo spirito? Un solo giorno è riuscito a condannare il fato del mondo intero? Una controversia così grande deve avere la sua risoluzione in Emazia? La ferita che gronda sangue non può essere rimarginata in alcun modo? O Pompeo, la Fortuna ti ha lasciato soltanto i piedi dei Parti? Perché, fuggendo il mondo, hai in odio tutte le terre ed i cieli e vai cercando l'opposto emisfero ed astri diversi, intenzionato, servo dei Parti, a venerare i focolari caldei ed i riti dei barbari? Perché avanzi come scusa per la guerra l'amore della libertà? Per qual motivo inganni il mondo infelice, se sei pronto a divenire schiavo? Te - che i Parti ascoltarono tremando dominare Roma, che videro condurre re in catene dalle foreste ircane e dalle spiagge dell'India - ora scorgeranno stroncato dal destino, meschino e annientato, e si inorgogliranno follemente nei confronti del mondo latino, commisurando al contempo se stessi e Roma dalle suppliche di Pompeo? Non potrai pronunciare alcuna parola degna del tuo animo e del tuo destino: essi infatti, dal momento che non sono in grado di parlare in latino, pretenderanno che tu, o Grande, li preghi con le lacrime. E dovremo sopportare questa sanguinosa offesa al nostro onore, che cioè i Parti vendichino le sconfitte d'Italia prima che Roma le sue? Essa ti ha eletto a suo capo per il conflitto civile: perché mai vai svelando fra le genti scitiche le nostre ferite ed i nostri disastri, di cui esse non sono ancora al corrente? Per qual motivo spingi i Parti a varcare i loro confini? Roma ha perduto il conforto di una così immane sciagura: quello di non accogliere un despota, ma di servire a un suo cittadino. Provi piacere a trascorrere per il mondo alla testa di popolazioni, che incrudeliscono contro le mura romane, e a tener dietro dall'Eufrate alle insegne prese insieme a Crasso? Quell'unico sovrano, il quale - dal momento che il destino non aveva ancora rivelato quale dei due contendenti avrebbe favorito - si tenne alla larga dall'Emazia, adesso, conosciuto il vincitore, ne provocherà a battaglia le ingenti forze e vorrà dividere il fato con te, o Grande? Questa gente non ha tanto ardire: tutti quei popoli, che nascono tra i freddi del Nord, sono indomabili in guerra ed amano la morte: in qualunque parte invece si andrà nelle terre orientali e nella zona calda del mondo, il mite clima rammollisce le popolazioni: lì potrai vedere uomini, che indossano larghe vesti ed abiti fluttuanti. I Parti - nelle terre della Persia, nei campi sarmatici ed in quelli che si estendono nel territorio del Tigri - non possono esser vinti da alcun nemico, dal momento che hanno sempre la possibilità di fuggire: ma, là dove la terra dà luogo ad alture, non riusciranno ad arrampicarsi sulle aspre catene montuose ed a combattere nelle tenebre fonde, poiché non saranno in grado di mirare bene con l'arco, non riusciranno a tagliare, nuotando, la corrente di un fiume impetuoso, non saranno in grado, pieni di sangue in tutto il corpo, di reggere un combattimento dall'inizio alla fine, avvolti da un ardente polverone, provocato dalla calura estiva. Non conoscono l'ariete né alcun'altra macchina bellica, non sono in grado di riempire i fossati e per un Parto che insegue sarà una muraglia insormontabile tutto ciò che riuscirà ad opporsi alle sue frecce. Scontri leggeri, veloci battaglie, squadre vaganti e soldati abili più a ritirarsi che a rintuzzare gli attacchi del nemico; adoperano dardi intrisi di veleno ed il loro valore non ha il coraggio di combattere da distanza ravvicinata: preferiscono invece tendere gli archi da lontano ed affidare i loro lanci ai venti, perché provochino ferite. Nella spada risiede la forza ed ogni popolo conduce le guerre con le spade. Il primo scontro disarma i Medi, costretti a ritirarsi, se le faretre si vuotano: essi fanno affidamento soltanto nel veleno e non nella forza del braccio. Puoi considerare uomini, o Grande, coloro ai quali - per affrontare i rischi del combattimento - è insufficiente il ferro? Ricercare un soccorso, che costituisce motivo di vergogna, è per te talmente importante da andare a morire lontano dalla tua patria, nell'altro emisfero, coperto da terra barbara, chiuso in un sepolcro piccolo e misero, ma purtuttavia suscitatore di invidia, almeno fino a quando Crasso continuerà a chiedere una tomba? Ma il tuo destino è meno pesante, dal momento che la morte costituisce la pena estrema e non deve essere motivo di timore per gli uomini. Cornelia però non ha paura di una morte inferta da un sovrano infame. Ci è forse ignota la libidine dei barbari, che, resa cieca da consuetudini bestiali, contamina con un gran numero di concubine le leggi ed i patti del vincolo coniugale, così che si squadernano fra innumerevoli femmine i segreti di un talamo ignominioso? Tra vino e banchetti la reggia, uscita di senno, escogita amplessi, che nessuna legge ammetterebbe mai: una notte intera, trascorsa in rapporti con tante donne, non riesce a stancare un solo maschio. Nei talami regali giacquero sorelle e, pegni sacri, le madri; presso tutti i popoli una sventurata leggenda di un crimine, perpetrato senza volerlo, fa condannare Tebe, che aveva dato i natali ad Èdipo: quante volte però l'Arsàcide, sovrano dei Parti, nasce da una unione incestuosa! Che cosa si pensa possa costituire una nefandezza per lui, cui è consentito di ingravidare la madre? L'illustre discendenza di Metello dovrà giacere, ultima di mille mogli, nel letto barbarico. D'altronde, o Grande, su nessun'altra donna più che su di lei si riverserà la libidine del re, sollecitata dalla sua crudeltà e dai titoli nobiliari dei mariti precedenti: il Parto, sapendo che lei è stata anche di Crasso, godrà maggiormente della profanazione: lei sarà trascinata come bottino di un'antica sconfitta, dovuta ai destini d'Assiria. Ti si infigga nella memoria il ricordo dello spaventoso disastro orientale: ti vergognerai allora non solo di aver chiesto l'aiuto di un sovrano apportatore di tanti lutti, ma, ancor prima, di aver combattuto il conflitto civile. Infatti quale maggior crimine del suocero e tuo del fatto che - mentre i vostri eserciti si scontravano - andava perduta la vendetta di Crasso? Tutti i condottieri avrebbero dovuto scagliarsi contro Battra e - affinché non scarseggiassero i soldati - si sarebbe dovuto sguarnire il fianco settentrionale del dominio romano a tutto vantaggio dei Daci e delle orde del Reno, purché l'infida Susa e Babilonia rovinassero sui sepolcri dei nostri condottieri e venissero rase al suolo. O Fortuna, preghiamo che tu conceda la fine della pace per l'Assiria; e, se il conflitto civile ha avuto il suo esito in Tessaglia, il vincitore si diriga verso i Parti: è la sola popolazione di tutto il mondo, che vedrei con esultanza assoggettata da Cesare. Allorquando ti accingerai ad attraversare il gelido Arasse, non ti rivolgerà forse queste parole l'ombra del triste vecchio, trafitta dalle frecce scitiche: "Tu - che noi, ombre senza sepoltura, abbiamo sperato, dopo la nostra morte, vendicatore delle nostre ceneri - vieni a stipulare la pace?"? Allora sarai sommerso da un gran numero di attestazioni della sconfitta: i corpi senza testa dei condottieri condotti sulle mura, i luoghi in cui l'Eufrate sommerse personaggi illustri ed in cui il Tigri portò con sé e restituì i nostri corpi. Se sei in grado di passare attraverso queste crudeltà, o Grande, puoi anche riconciliarti con il suocero, che si trova nel centro della Tessaglia. Perché non rivolgi il tuo sguardo al mondo romano? Se paventi i regni posti a mezzogiorno ed il malfidato Giuba, noi andiamo alla volta di Faro e dei campi di Lago. Da un lato l'Egitto è reso sicuro dalle Sirti di Libia, dall'altro il veloce fiume dai sette rami ricaccia indietro il mare. Questa terra si contenta dei suoi beni e non ha bisogno di commerci o della pioggia inviata da Giove: il solo Nilo le consente di essere così fiduciosa. L'adolescente Tolomeo impugna lo scettro, che deve a te, o Pompeo, e che è affidato alla tua tutela. Chi dovrebbe aver paura dell'ombra di un nome? La sua giovane età lo rende innocuo. Non potrai sperare il rispetto delle leggi umane e divine né l'osservanza della fedeltà quando regna un vecchio: non si vergognano di nulla coloro che sono abituati a detenere il potere; improntata alla più grande mitezza è invece la sorte di un regno affidato ad un re giovane». Senza dire altro, convinse gli animi: quanta libertà possiedi, o ultima speranza! Il parere di Pompeo dovette cedere.
Allora abbandonarono la regione dei Cìlici e fecero rapidamente vela alla volta di Cipro, dove si trova il tempio preferito della dea memore dell'onda di Pafo, se noi realmente crediamo che le divinità possano nascere e se non è empio ritenere che i numi possano avere un inizio. Allorquando Pompeo ebbe lasciato queste spiagge, costeggiò tutta la costa rocciosa, con la quale Cipro finisce a mezzogiorno; di lì si lasciò andare alla corrente, che solca in direzione obliqua il vasto mare. Non giunse al monte, gradito ai naviganti per la sua luce notturna, ma, procedendo a fatica con le vele, toccò appena i lidi orientali dell'Egitto, là dove il settimo - e più grande - braccio del Nilo che si ramifica sfocia nei guadi di Pelùsio. Era il periodo in cui la Libra rende uguali le ore per non più di un giorno: poi la luce, diminuendo la sua durata, rifonde alle notti invernali l'abbreviazione primaverile. Non appena Pompeo venne a sapere che il sovrano si trovava sul monte Casio, fece una diversione, mentre era ancora giorno ed il vento soffiava ancora propizio.
Già un cavaliere, che era andato in avanscoperta sul lido con una veloce galoppata, aveva colmato di paura la reggia con la notizia dell'arrivo dell'ospite. C'era a malapena il tempo per prendere una decisione: si riunirono allora tutti i mostri della corte pellèa, fra i quali Acòreo, reso più tranquillo dalla vecchiaia e più posato dall'età avanzata - (egli era nato a Menfi, città dai riti mendaci, custode del Nilo, che straripa nelle campagne: sotto il suo sacerdozio più di un bue Api aveva vissuto il tempo lunare prescritto) -, fu il primo a prendere la parola nel consesso, ostentando i meriti, la fedeltà e gli impegni presi solennemente dal defunto padre del sovrano. Potino però, più capace nel persuadere i malvagi e nel conoscere l'animo dei despoti, ebbe l'ardire di parlare di morte per Pompeo. Queste furono le sue parole: «Il diritto e l'equità, o Tolomeo, spingono molti a commettere il male: la fedeltà, sempre lodata, deve poi scontare l'aiuto che dà a coloro che sono perseguitati dalla Fortuna. Adeguati ai fati e ai numi, tratta con ogni riguardo i fortunati, fuggi gli infelici. L'utilità è separata dalla giustizia dalla stessa distanza che intercorre tra gli astri e la terra o tra il fuoco e l'acqua: la forza del potere è annientata completamente, una volta che essa ha cominciato a valutare il giusto: il rispetto dell'onestà rade al suolo le rocche. È la licenza nel commettere i delitti a salvaguardare i dominî odiati, e così anche la mancanza di un limite nell'uso del ferro: compiere ogni cosa crudelmente è lecito solo se lo si fa. Vada fuori dalla reggia chi vuole essere timorato. Virtù e potere assoluto non possono stare insieme: sarà sempre in preda alla paura, chi avrà vergogna della sua crudeltà. Il Grande non abbia disprezzato impunemente la tua giovane età, ritenendo che tu non sia in grado di tener lontano dei vinti dai nostri lidi. Che uno straniero non ci privi del tuo potere; i tuoi congiunti son più vicini a te: se ti è di peso regnare, restituisci il Nilo e Faro alla sorella, che hai condannato. Orsù, difendiamo con decisione l'Egitto dalle armi latine. Tutto quello che, durante il conflitto, non apparteneva a Pompeo, non sarà neanche del vincitore. Scacciato ormai dal mondo intero e dal momento che non può fare affidamento su nulla, va in cerca di un popolo con cui morire: è trascinato dalle ombre della guerra civile. Ed inoltre non cerca di sottrarsi soltanto alle armi del suocero: fugge anche lo spettacolo dei senatori, la maggior parte dei quali gli avvoltoi di Tessaglia stanno ancora divorando; teme altresì le genti, che ha abbandonato sommerse in un unico oceano di sangue, teme i re, di cui ha travolto ogni cosa; reo della sconfitta tessalica, non trova ricetto in nessuna terra: tenta perciò di approdare nel nostro paese, che egli non ha ancora condotto alla rovina. Abbiamo un motivo fin troppo giusto, o Tolomeo, per lamentarci del Grande: "Per quale motivo insozzi con il crimine della guerra Faro, che è sempre vissuta tranquilla e ai margini del conflitto, e poni i nostri campi in sospetto al vincitore? Perché mai, dopo la sconfitta, hai preferito soltanto la nostra terra, nella quale portare i destini di Farsàlo e le tue ambasce? Noi abbiamo già una colpa da pagare con il ferro: il Senato mi conferì il potere su tua sollecitazione ed ho sempre parteggiato per il tuo esercito. Ho apprestato questa spada, che i fati mi ordinano di stringere, non per te ma per il vinto; colpirò le tue viscere, o Grande, anche se avrei preferito farlo con il suocero: siamo trascinati là dove ogni cosa è sospinta. Hai forse qualche dubbio che io, avendone la possibilità, non ritenga necessario colpirti? Quale fiducia mai nel nostro regno ti ha sospinto qui, o infelice? Non scorgi il popolo senza armi e che riesce con fatica a scavare i campi resi molli dal Nilo che si ritira?". È giusto misurare e riconoscere la propria potenza e le proprie forze: sei tu in grado, o Tolomeo, di puntellare in qualche modo il crollo del Grande, che piomba su Roma seppellendola? Hai il coraggio di sconvolgere le tombe e le ceneri di Tessaglia e di far entrare la guerra nei tuoi dominî? Prima dello scontro di Emazia non abbiamo preso posizione per nessuno dei due eserciti: ed ora daremo la preferenza a quello di Pompeo, mentre il mondo lo abbandona? Ora ti schieri contro le forze e i destini, ormai chiari, del vincitore? Non è giusto abbandonare nella cattiva sorte colui con cui si è condivisa la buona: nessuna fedeltà però elegge i suoi amici tra gli sventurati».
Tutti furono d'accordo per il delitto. Il sovrano adolescente è lieto per l'onore, cui non era avvezzo, che i suoi schiavi gli concedono di ordinare misfatti così mostruosi. Viene scelto per il delitto Achilla, il quale prepara una piccola imbarcazione con complici in armi, là dove la terra infida si estende nella sabbia del Casio ed i guadi egiziani svelano la prossimità delle Sirti. O dèi, il Nilo, la barbara Menfi e la folla rammollita della pelùsia Canòpo avranno un tale ardire? Fino a tal punto i destini del conflitto civile pesano sul mondo? Così giace la potenza di Roma? C'è una qualche possibilità per l'Egitto di esser presente ad un simile disastro e potranno parteciparvi anche le armi farie? Siate del tutto coerenti, o guerre civili: armate le mani di parenti e scacciate i mostri stranieri. Se il Grande, con una fama così illustre, ha meritato che il delitto debba essere opera di Cesare, non sei preso dal terrore, o Tolomeo, di fronte alla rovina di un nome così grande ed hai l'ardire, o essere corrotto e uomo soltanto a metà, di mettere avanti per il delitto le tue empie mani, mentre il cielo tuona la sua disapprovazione? Ammettiamo pure che non si volesse tener conto del fatto che era colui che aveva assoggettato il mondo né colui che era asceso per tre volte con il carro sul Campidoglio, il vincitore dei re, il vindice del Senato, il genero del vincitore: era soltanto un Romano e questo poteva essere sufficiente per il tiranno di Faro. Perché mai affondi la tua spada nelle nostre viscere? Non sai, empio adolescente, non sai che cosa è stato riservato al tuo destino: impugni lo scettro del Nilo ormai senza più alcun diritto: colui che ti ha donato il regno è caduto travolto dal conflitto civile.
Ormai Pompeo aveva ordinato di ammainare le vele e si dirigeva, facendo adoperare soltanto i remi, alla volta del lido nefando; verso di lui stava avanzando, su una corta imbarcazione, il gruppo degli assassini, i quali - fingendo che il dominio di Faro si spalancasse al Grande - lo convincono a trasbordare dall'alta nave nel piccolo scafo, allegando come scusa lo sbarco rischioso e la violenza delle correnti, che si infrangono sui guadi e che sono di ostacolo all'approdo per le navi straniere. Se non fossero state le leggi dei fati e l'approssimarsi di una morte sventurata - stabilita per una decisione decretata ab aeterno - a trascinare a quel lido Pompeo condannato a morire, ciascuno dei suoi compagni avrebbe dovuto cogliere i presentimenti del misfatto: se infatti le dichiarazioni di fedeltà fossero state genuine e se la reggia si fosse aperta al Grande - che aveva consentito al sovrano di impadronirsi del potere - con devozione sincera, il tiranno fario avrebbe dovuto riceverlo con l'intera flotta. Ma Pompeo si piega al fato e, quando lo invitano a lasciare la sua nave, cede all'esortazione e preferisce anteporre la morte al timore.
Cornelia cercava di precipitarsi sulla nave nemica, non riuscendo, sempre di più, a sopportare l'idea di rimaner priva del marito che stava trasbordando: ella infatti paventava una disgrazia. Ma Pompeo le disse: «Rimani, o sposa temeraria, ed anche tu, o figlio, vi prego, ed attendete il compiersi del mio destino lontano dalla spiaggia e saggiate sulla mia testa la fedeltà del tiranno». Cornelia però, che non voleva ascoltare il divieto del marito, tendeva, fuori di sé, ambedue le mani e diceva: «Dove te ne vai, o crudele, senza di me? Sono abbandonata una seconda volta, dopo essere stata allontanata dalle sventure di Tessaglia? Noi due, infelici, non ci separiamo mai con un fausto presagio. Avresti potuto - quando fuggivi verso il mare aperto - non tornare indietro ed abbandonarmi così, ben nascosta, a Lesbo, se ti apprestavi a tenermi lontana da ogni terra. O forse vuoi che io stia con te solo quando siamo in mare?». Dopo essersi così lamentata invano, si protese dal bordo della nave, ansiosa e sbigottita per la paura, e non riuscì né a volgere gli occhi verso un luogo qualsiasi né a guardare il Grande. Tutta la flotta rimase fissa, piena di angoscia, alla sorte del condottiero, paventando non tanto il ferro o il misfatto quanto il fatto che Pompeo si prostrasse umilmente a supplicare lo scettro, che proprio lui aveva donato. Mentre Pompeo si apprestava al trasbordo, dalla nave faria gli giunse il saluto di un soldato romano, di nome Settimio, il quale (che i numi si vergognino!), lasciato andare il giavellotto, era divenuto servo del tiranno, impugnandone le armi obbrobriose, crudele, violento, spietato e feroce nell'uccidere più di qualsiasi fiera. Chi, o Fortuna, non avrebbe ritenuto che tu volessi risparmiare le genti, dal momento che questo braccio era stato assente dal conflitto civile e tu hai tenuto lontano dalla Tessaglia dardi così nocivi? Ed invece distribuisci le spade in modo tale che in nessuna zona della terra ti vengono meno, ohimè!, i misfatti provocati dalla guerra civile. Disonore per gli stessi vincitori e dramma, che sarà sempre causa di vergogna, per i numi: una spada romana ha obbedito in questo modo al sovrano e l'adolescente pellèo ti ha reciso il collo con un'arma impugnata da uno dei tuoi, o Grande. Che fama avrà nel tempo a venire Settimio? Con quale appellativo potranno definire questo misfatto coloro che hanno chiamato sacrilegio l'assassinio di Bruto?
Ed ormai era giunta l'ora estrema: passato sull'imbarcazione faria, Pompeo non poteva più disporre di se stesso. A questo punto gli esecutori dell'orrido comando regio si prepararono ad impugnare le armi. Non appena vide le spade che gli si accostavano, Pompeo si coprì il volto ed il capo, sdegnandosi di offrirlo scoperto alla Fortuna; subito dopo serrò gli occhi e trattenne il respiro, per evitare di emettere grida e di contaminare, anche con un solo singulto, la sua fama imperitura. Ed allorché Achilla - che aveva convinto gli altri della necessità della sua morte - gli perforò il fianco con la spada, si lasciò andare al colpo senza emettere un gemito, quasi non tenesse conto del misfatto, tenne il corpo immobile e, sul punto di morire, saggiò il suo valore, rivolgendo nella sua mente questi pensieri: «I secoli, che parleranno sempre dei travagli di Roma, mi stanno osservando ed il futuro sta guardando da ogni parte del mondo la nave e la fedeltà faria: la gloria deve essere, in questo momento, il tuo unico pensiero. Un fortunato destino ha caratterizzato la tua lunga vita: le genti ignorano se tu sei in grado di sopportare le avversità, se, sul punto di morire, non ne dai prova. Non piegarti alla vergogna e non addolorarti per chi adempie il volere del fato: da qualunque mano tu venga colpito, pensa che è quella del suocero. Facciano pure a pezzi il mio corpo e ne disperdano le membra: purtuttavia, o numi, sono felice e nessuna divinità ha il potere di strapparmi questo bene. La sorte propizia può cambiare nel corso della vita: ma non si diviene infelici quando si muore. Cornelia e il mio Pompeo stanno guardando la mia uccisione: con una capacità di sopportazione tanto più grande, ti prego, o dolore, soffoca i gemiti: se il figlio e la sposa mi ammirano nel momento in cui vengo assassinato, essi mi amano». In questa maniera il Grande tenne sotto controllo i suoi pensieri riuscendo, sul punto di morire, a dominare il suo animo.
Ma Cornelia - che avrebbe preferito subire lo spietato assassinio piuttosto che assistervi - riempie l'aria di urla penose: «O sposo, io, scellerata, ti ho ucciso: Lesbo, fuori da ogni rotta, ti ha provocato il ritardo apportatore di morte: Cesare è giunto, così, prima di te sui lidi egiziani. Chi altri, infatti, potrebbe essere l'autore di questo delitto? Ma chiunque tu sia, inviato dai numi contro questo capo (o per l'ira di Cesare o per tuo stesso vantaggio), non sai, o crudele, dove sia veramente il cuore del Grande: ti affretti a indirizzare i tuoi colpi là dove desidera il vinto. Egli soffrirebbe una pena maggiore della sua morte, se vedesse il mio capo cadere prima del suo. Io non sono esente dalle colpe della guerra, io che, sola fra tutte le donne, gli sono stata vicina sul mare e nell'accampamento, per nulla atterrita dai fati, e l'ho accolto dopo che era stato vinto, cosa di cui hanno avuto paura persino i re. E questo ho meritato, o sposo, di essere abbandonata sulla nave sicura? E tu volevi risparmiarmi, o perfido? Ed io sarei stata degna di vivere, mentre tu cercavi la morte? Morirò, e non per mano del sovrano egizio. O marinai, lasciate che io mi getti in mare oppure che mi strangoli con una corda di gomene ritorte o che qualcuno dei compagni, degni del Grande, mi colpisca con la spada: egli potrà così rendere a Pompeo un favore da imputare alle armi di Cesare. O crudeli, mi trattenete mentre mi sto affrettando verso la morte? Tu sei ancora vivo, o sposo, e Cornelia non può più disporre di sé, o Grande: essi mi vietano di accostarmi alla morte: sono riservata al vincitore». Dopo queste parole, stramazzò fra le mani dei suoi e venne trascinata via dalla nave in fuga, in cui dominava la paura.
Nel frattempo il Grande, mentre le armi lo colpivano sulla schiena e sul petto, manteneva inalterata la bellezza del suo decoro, degno di rispetto e di venerazione, mentre l'espressione del suo viso manifestava sdegno contro gli dèi: non mutarono affatto - pur nell'istante della morte - né il suo volto né l'atteggiamento, come possono testimoniare coloro che videro il capo troncato. Difatti lo spietato Settimio, mentre sta perpetrando il delitto, ne escogita uno ancora più nefando: strappa il velo, mettendo allo scoperto il volto venerando di Pompeo moribondo, afferra il capo in cui è ancora presente il respiro ed appoggia il collo, ormai abbandonato, di traverso su uno dei banchi dei rematori. Tronca poi i nervi e le vene e spezza con reiterati colpi le vertebre: essi non conoscevano ancora il modo di spiccare, con un sol fendente della spada, la testa dal busto. Ma, dopo che il capo, troncato dal corpo, rotolò via, il cortigiano fario reclamò per sé la prerogativa di mostrarlo con la sua destra. O romano degenere, capace solo di svolgere le mansioni più basse, tronchi con l'aborrita spada il sacro capo di Pompeo, ma poi non lo porti tu stesso? O destino di un'onta suprema! Affinché il sacrilego adolescente potesse osservare il Grande, quella chioma piena di ricci onorata dai re, quei capelli resi più belli dalla nobile fronte vennero ghermiti con violenza da una mano e - mentre il viso conservava ancora tracce di vita, rantoli facevano mormorare la bocca e gli occhi si irrigidivano spalancati - fu conficcata un'asta sotto quella testa, ad opera della quale scompariva la pace, allorché comandava lo scatenarsi della guerra; questo capo dava vita alle leggi, al Campo Marzio e ai rostri, di questo volto ti compiacevi, o Fortuna di Roma. Ma la contemplazione di quel capo non fu sufficiente al despota nefando: egli desiderò che fosse conservata la prova del delitto. Vennero così tolti dalla testa, con tecnica esecrabile, il sangue e gli umori, fu rimosso il cervello, la pelle venne fatta essiccare, fu asportato tutto ciò che si sarebbe potuto putrefare ed il viso, con l'aiuto di un preparato velenoso, si solidificò.
Estrema discendenza della schiatta di Lago destinata a morire, tu, degenere, che dovrai passare il comando alla sorella incestuosa - mentre custodisci presso di te, in una grotta consacrata, il Macèdone e le ceneri dei re riposano sotto un monte appositamente innalzato, mentre i Mani dei Tolomei e la serie ignominiosa dei sovrani d'Egitto sono racchiusi, indegnamente, nelle piramidi e nei mausolei - ecco, Pompeo è lacerato dalle rocce del lido ed il suo corpo mutilato è sballottato qua e là dalle acque dei guadi! A tal punto ti riusciva intollerabile l'idea di preoccuparti di custodire intatta la salma per il suocero? Con una simile prova di coerenza la Fortuna del Grande non ha posto ostacoli, sino alla fine, allo svolgimento di fati così favorevoli, con la medesima coerenza lo fa precipitare, annientandolo, dal culmine del potere ed in un sol giorno gli fa scontare tutti i rovesci e le sconfitte, che aveva risparmiato per tanti anni proprio a lui, a quel Pompeo, che non aveva mai visto gli eventi lieti uniti con quelli tristi. Nella sorte favorevole nessun dio gli era ostile, in quella avversa nessun nume lo risparmiò: la Fortuna, dopo aver rimandato per lungo tempo, lo abbatté con un colpo solo. Adesso è sbattuto sul lido, afferrato dagli scogli mentre le onde passano attraverso le sue ferite, un oggetto, dai lineamenti sfigurati, con cui il mare sembra giocare: l'unica caratteristica, che lo fa riconoscere come il corpo del Grande, è la perdita del capo troncato.
Prima però che il vincitore approdasse ai lidi egiziani, la Fortuna apprestò frettolosamente un sepolcro a Pompeo, affinché egli non giacesse senza sepoltura o non riposasse in una tomba più fastosa: dal suo nascondiglio si precipitò alla spiaggia, pieno di paura, Cordo: questore, era stato compagno di sventura di Pompeo e veniva dal lido idàlio di Cipro, l'isola di Cìnira. Egli ebbe l'ardire di procedere attraverso il buio della notte, vincendo, con l'affetto, la paura, andò alla ricerca del cadavere tra i flutti, per condurlo a terra e trarlo sulla spiaggia. Cinzia emetteva, tra le fitte nubi, una luce scarsa e triste: nonostante ciò, il corpo era ugualmente individuabile, a causa del suo diverso colore, fra le onde biancheggianti. Egli abbracciò strettamente il cadavere, sebbene il mare cercasse di strapparglielo; allora, sopraffatto dal peso, attese l'onda e, con il suo aiuto, spinse il corpo a riva. Allorquando sostò sul lido asciutto, si piegò sul Grande e versò lacrime su tutte le sue ferite, rivolgendosi agli dèi ed agli astri, velati dalle nubi: «O Fortuna, il tuo Pompeo non richiede un sepolcro prezioso con una gran quantità di incenso, sì che un denso fumo rechi dalle membra alle stelle profumi orientali, o che cittadini romani lo portino, con affetto, sulle spalle come un padre, o che il corteo funebre lo preceda con i trofei dei trionfi di un tempo, o che il foro risuoni di canti ferali, o che l'esercito al completo sfili in lutto intorno al rogo con le armi abbassate. Concedi invece al Grande il modesto feretro di un funerale plebeo, che ponga sul fuoco, senza essenze odorose, il corpo mutilato: allo sventurato non manchino legna ed un umile uomo, che vi appicchi fuoco. Sia sufficiente, o numi, il fatto che Cornelia non si getti sul corpo con i capelli sciolti e che, abbracciando il marito, non possa comandare di accostare la torcia: purtroppo la sposa sventurata non è presente all'estremo dovere funebre, pur trovandosi non lontana da questo lido».
Dopo aver così pregato, il giovane scorse in lontananza un modesto rogo, che stava consumando - senza che alcuno fosse presente - un cadavere, che i parenti avevano evidentemente in scarsa considerazione. Di lì prese del fuoco e tolse da sotto il corpo tizzoni arsi a metà, dicendo: «Chiunque tu sia, ombra trascurata ed a cui nessuno dei tuoi sembra affezionato - ma, nonostante ciò, più fortunata di Pompeo -, perdona il fatto che una mano straniera violi il rogo innalzato per te: se una qualche capacità di percezione rimane dopo la morte, senza dubbio tu ti stai allontanando dal rogo e sopporti questa profanazione della tua sepoltura: certo provi vergogna di venire arsa, mentre giacciono ancora dispersi i resti di Pompeo». Dopo queste parole, riempì la piega dell'abito con braci ardenti e corse presso il corpo mutilato, che, quasi riafferrato dai flutti, ondeggiava sul lido. Scavò una buca nella sabbia, mise insieme quel che rimaneva di una imbarcazione rovinata, i cui pezzi giacevano tutt'intorno, e li sistemò, pieno di trepidazione, nella piccola fossa. Non c'erano legna che sostenessero la nobile salma, quel corpo non riposava su una catasta: il fuoco non venne avvicinato a Pompeo da sotto, ma di fianco. Cordo allora, seduto presso il rogo, così parlò: «O più grande fra i condottieri e sola gloria del nome italico, se questo rogo è per te più triste delle percosse dei flutti e del fatto di non avere per nulla estreme onoranze, allontana i Mani e l'anima possente da queste mie esequie; l'ostilità del destino legittima il mio comportamento: affinché i mostri del mare, le fiere, gli uccelli, l'ira dello spietato Cesare non osino alcunché nei tuoi confronti, accetta, per quanto puoi, questo rogo modesto: vi ha appiccato il fuoco una mano romana! Se la Fortuna mi concederà di tornare in Italia, le tue ceneri così sacre non giaceranno in questo luogo: Cornelia, o Grande, ti accoglierà e ti porrà dalle mie mani in un'urna. Nel frattempo devo lasciare un'indicazione sul lido con una piccola pietra, segno di riconoscimento della sepoltura: se qualcuno vorrà fare un sacrificio di espiazione per il tuo assassinio e renderti compiutamente gli onori funebri, troverà le ceneri del tuo corpo mutilato e riconoscerà il lido, in cui riportare, o Grande, il tuo capo». Non appena ebbe pronunciato queste parole, accostò l'esca, appiccando deboli fiamme: Pompeo ne è avvolto e si disfa in un fuoco, fiacco e indolente, che egli alimenta con i suoi umori.
Ma ormai la prima luce, che precede l'aurora, aveva reso pressoché invisibili gli astri: Cordo allora, interrotto il suo pietoso ufficio, cercava sbigottito un nascondiglio sulla spiaggia. Quale pena paventi, o stolto, per questo tuo delitto, a causa del quale la fama, che diffonde largamente il tuo nome, ha già cominciato a renderti celebre per il tempo a venire? Anche il suocero sacrilego avrà parole di lode per il fatto che tu hai dato sepoltura alle ossa del Grande: va' dunque sicuro del perdono, svela il luogo della tomba e chiedi il capo. L'affetto costringe Cordo a por fine alla cerimonia funebre: ghermisce le ossa semiarse, che non si sono ancora separate completamente dalle terminazioni nervose e sono ricolme delle midolla bruciacchiate, le spegne con acqua attinta dal mare, ne fa un sol mucchio e le seppellisce in poca terra. Allora - affinché anche il vento più leggero non disperda le ceneri, dopo averle messe allo scoperto - egli pone sulla sabbia un sasso e - perché qualche navigante non osi smuovere il cippo attraccandovi con una fune - scrive, su un pezzo di legno consumato, il venerato nome: «Qui giace il Grande». Sei soddisfatta, o Fortuna, di definire tomba di Pompeo questa, nella quale il suocero ha preferito che egli fosse inumato, piuttosto che lasciarlo senza sepoltura? O destra temeraria, perché rovesci sul Grande la terra di un tumulo e tieni serrato il suo spirito errante? Il suo sepolcro è anche là, dove l'ultimo lembo della terra si incontra con i flutti dell'Oceano che scorre tutt'intorno al mondo: la sepoltura del Grande va commisurata al nome di Roma ed a tutto il suo potere. Seppellisci quel sasso, colmo del crimine dei numi: se l'Eta è tutto quanto di Ercole ed i gioghi di Nisa, nessuno escluso, appartengono a Bròmio, per quale motivo un solo sasso in Egitto è proprietà del Grande? Esso potrebbe estendersi su tutti i campi di Lago, se il nome di Pompeo non fosse ricordato da nessuna iscrizione: noi, e con noi tutte le genti, andremmo erranti, o Grande, per paura di calcare le tue ceneri e non calpesteremmo per nulla le sabbie egiziane. Se reputi un sasso degno di un nome tanto venerabile, aggiungi eventi estremamente importanti e le attestazioni più memorabili delle sue imprese, aggiungi le rivolte dello spietato Lèpido, le guerre condotte sulle Alpi, l'esercito di Sertòrio stroncato dopo il richiamo del console ed il trionfo, che egli riportò, quando era soltanto cavaliere, la tranquillità con cui le genti svilupparono i loro commerci, i Cìlici resi timorosi del mare, aggiungi i barbari soggiogati e così anche le popolazioni nomadi e tutti i dominî, che si trovano sotto euro e borea. Di' pure che egli, dopo ogni episodio bellico, indossò nuovamente la toga di semplice cittadino e che, lieto per la celebrazione di tre trionfi, fece dono alla patria di molti altri. Quale tomba può contenere tutto ciò? Si innalza una ben misera sepoltura senza titoli di sorta e senza il ricordo di una così imponente successione di fasti: il nome di Pompeo, che di solito tutti leggevano in alto, sugli eminenti frontoni dei templi e sugli archi, innalzati con il bottino preso ai nemici, ora compare in basso su un tumulo, molto vicino al livello della sabbia: un viaggiatore, in posizione eretta, non sarebbe in grado di leggerlo ed il pellegrino romano procederebbe oltre, se quel nome non gli venisse esplicitamente indicato.
O terra d'Egitto, resa colpevole dal fato del conflitto civile, di certo a proposito il responso della Sibilla cumana mise in guardia i soldati italici a non approdare alle foci pelusìache del Nilo ed alle sue sponde, sommerse nel periodo estivo. O terra crudele, quale punizione potrei chiedere ai numi di infliggerti per un crimine così mostruoso? Il Nilo inverta il suo corso, rimanga fermo nella zona in cui nasce e tu - a causa delle campagne rese sterili, perché prive delle piogge invernali - ti possa ridurre interamente in sabbia polverosa, simile a quella dell'Etiopia. Noi abbiamo accolto nei templi di Roma la tua Ìside, i cani semidei, i sistri, che impongono il lutto, ed Osìride, della cui umanità fornisci la prova con il tuo pianto: invece, o Egitto, tieni racchiusi nella tua sabbia i nostri Mani. E tu, o Roma, che hai già innalzato templi al tiranno spietato, non hai ancora richiesto le ceneri di Pompeo: ancora giace esule l'ombra del condottiero. Se le prime generazioni potevano aver paura delle minacce del vincitore, ora accogli almeno le ossa del tuo Pompeo, ammesso che esse giacciano in quella terra odiata e non siano ancora state sommerse dalle onde. Chi avrà timore di un sepolcro? Chi avrà ritegno di rimuovere una tomba degna di culto e di sacrifici? Volesse il cielo che Roma ci imponesse un tale sacrilegio e decidesse di servirsi del nostro petto: felice, oh!, troppo felice, se mi toccasse di riesumare quelle ceneri e traslarle in Italia, se mi fosse consentito di profanare quel sepolcro così indegno del condottiero. Forse - allorquando Roma vorrà impetrare dai numi la cessazione della sterilità della terra o degli austri nocivi o degli eccessivi calori o dei movimenti tellurici - allora, per decisione e comando degli dèi, sarai portato nella città, o Grande, ed il sommo sacerdote recherà l'urna contenente le tue ceneri. Quale visitatore del Nilo, infatti, si incamminerà alla volta di Siène, arsa dal torrido Cancro, o di Tebe, asciutta anche sotto le Plèiadi apportatrici di pioggia, quale trafficante di merci orientali si recherà verso le acque profonde del mar Rosso o verso i porti degli Arabi, e non sarà attratto dal venerabile sasso, che indica la tua tomba, o Grande, e dalle tue ceneri, forse sparse sulla superficie della sabbia, e non sentirà l'impellente necessità di placare il tuo spirito, anteponendoti anche a Giove Casio? Un tale sepolcro non sarà di nocumento alla tua fama: sepolto sfarzosamente in un tempio, saresti un'ombra meno preziosa. Ora, o Fortuna, sei fra le più alte divinità, dal momento che giaci in questo sepolcro; il sasso, percosso dalle onde di Libia, è venerato più delle are del vincitore: sovente chi nega l'incenso alle divinità tarpee, adora una zolla etrusca, nella quale è racchiusa la potenza del fulmine. E un giorno ti sarà di giovamento il fatto che non si sia innalzato un alto monumento di marmo a perenne ricordo: un breve spazio di tempo disperderà un piccolo mucchio di polvere, la tomba scomparirà e si dilegueranno i ricordi della tua morte. Verrà un'età più fortunata, allorché non sarà accordata alcuna fiducia a coloro che indicheranno quella pietra e forse la presenza del sepolcro del Grande in Egitto sarà, per le generazioni dei discendenti, una notizia leggendaria e senza alcun fondamento reale, così come quella del Tonante a Creta.

LIBRO NONO


Ma lo spirito di Pompeo non rimase a giacere nel fuoco egiziano e quel mucchietto di cenere non riuscì a trattenere un'anima tanto grande: essa balzò in alto dalle fiamme e - abbandonando le membra semiarse ed il rogo indegno di lei - si diresse verso il cielo del Tonante. Nel luogo in cui l'aria oscura si incontra con la volta stellata, e cioè nello spazio esistente fra la terra e i percorsi della luna, dimorano gli spiriti degli eroi, che, per non aver commesso colpe durante la vita, la virtù del fuoco rese abitatori della zona inferiore dell'etere e ne accolse lo spirito negli eterni giri: non giungono in quel luogo coloro che sono stati sepolti con oro e incenso. Lì Pompeo, inondato dalla vera luce, osservò gli astri erranti e le stelle fisse del cielo e vide da quali e quante tenebre fosse sommerso il giorno degli uomini e sorrise dell'obbrobrio del suo corpo mutilato. Dal luogo in cui si trovava volò sui campi d'Emazia, sugli stendardi insanguinati di Cesare, sulle flotte disseminate nei mari e, vendicatore del delitto, si fermò nel sacro cuore di Bruto e dimorò nell'animo dell'invitto Catone.
Quest'ultimo - allorquando era difficile fornire un'interpretazione degli eventi e permaneva il dubbio su chi il conflitto civile avrebbe reso padrone del mondo - odiava anche il Grande, ancorché ne avesse seguito l'esercito, trascinato da un ardente desiderio di fare il bene della patria e dall'esempio dei senatori: ma, dopo la sconfitta di Tessaglia, era divenuto in tutto e per tutto seguace di Pompeo. Prese sotto la sua protezione la patria priva di un difensore, infuse nuova energia nelle membra del popolo in preda alla paura, ridiede alle destre inattive le spade che esse avevano gettato via e combatté la guerra civile senza bramare il dominio e senza paventare la schiavitù. Non compì, durante il conflitto, nessuna azione per il suo tornaconto: dopo la scomparsa del Grande, quello era, in tutto e per tutto, il partito della libertà. Ed affinché Cesare vittorioso, con una rapida azione, non li sorprendesse, disseminati sulla spiaggia, Catone si recò a Corcìra, appartata ed isolata, e con mille navi portò via con sé quel che era rimasto della sciagura di Emazia. Chi sarebbe propenso a ritenere che su un gran numero di imbarcazioni ci potesse essere un esercito in fuga? Chi potrebbe credere che il mare risultasse troppo angusto per contenere una flotta di vinti?
Successivamente fece vela alla volta di Malea, che si trova nella Dòride, e di Tènaro, ingresso dell'oltretomba, di lì raggiunse Citèra e, con l'aiuto dei soffi del borea, oltrepassò rapidamente i lidi greci e costeggiò quelli dittèi, mentre il mare si manteneva tranquillo. Di poi assalì Ficunte, che aveva avuto l'ardire di chiudere i suoi porti alla flotta, e la trasformò - con un crudele, meritato saccheggio - in un mucchio di rovine; di lì, mentre il vento soffiava placidamente, procedette dall'alto mare verso il tuo lido, o Palinuro (non soltanto sulle coste italiche sopravvive il suo ricordo: anche la Libia testimonia che il timoniere frigio amò i suoi porti tranquilli), mentre alcune navi, che avanzavano da lontano dall'alto mare, infusero negli animi il timore del dubbio, se trasportassero compagni di sventura o nemici: l'impetuosità del vincitore rendeva tutto quanto temibile e si credeva che egli potesse trovarsi su ogni nave. Ma quelle imbarcazioni erano piene di lutti, di pianti e di sventura, che avrebbero provocato il pianto finanche dell'imperturbabile Catone.
Cornelia, infatti, - dopo aver invano supplicato l'equipaggio e il figliastro di procrastinare la fuga, nella speranza che il cadavere mutilato, rigettato dal lido fario, tornasse al largo, e dopo che, invece, il fuoco le ebbe rivelato quella cerimonia funebre indegna di Pompeo - esclamò: «Dunque, o Fortuna, io non ho meritato di provocare la fiamma del rogo di mio marito, di gettarmi sul cadavere gelido dello sposo, coprendolo interamente, di strapparmi i capelli e gettarli nel fuoco, di comporre il corpo del Grande disperso tra i flutti, di versare abbondanti lacrime su tutte le ferite, di colmare le pieghe della veste con le ossa, con le ceneri tiepide e con qualunque cosa fossi riuscita a strappare alla pira ormai spenta, per distribuirle nei templi degli dèi? Il rogo arde senza alcun onore funebre: forse una mano egiziana ha reso l'estremo, offensivo omaggio allo spirito di Pompeo. Che gran fortuna per i due Crassi che i loro resti siano rimasti insepolti: a Pompeo è toccato un rogo così misero per una più accentuata malevolenza dei numi! Per me ci sarà sempre un simile destino di sciagure, non mi sarà mai concesso di tributare i giusti onori ai miei consorti e di poter piangere su un'urna piena? Ma anzi, che necessità c'è di sepolcri: perché, o dolore, cerchi oggetti esterni? Non rechi, o empia, Pompeo nel tuo cuore, che ne è tutto occupato? La sua immagine non è forse impressa fin nel più profondo delle tue viscere? Richieda i resti la moglie destinata a sopravvivere al coniuge. Purtuttavia, il fuoco che risplende adesso lontano con una luce sinistra, alzandosi dalla spiaggia egiziana, mi rivela qualcosa di te, o Grande: ma ormai la fiamma rimpicciolisce ed il fumo, che reca con sé Pompeo, scompare al sorgere del sole, mentre gli odiati venti tendono le nostre vele. Io non ho intenzione - e vi prego di credermi - di abbandonare il lido di Pelùsio: da questo momento in poi nessuna terra - che, sottomessa da Pompeo, gli permise di celebrare il trionfo, recandosi egli con il carro sull'alto Campidoglio - sarà per me più gradita. Mi è sfuggito dalla mente il Grande al tempo della sua sorte prospera: voglio lui custodito dal Nilo e mi lamento di non rimanere attaccata alla terra colpevole: il crimine rende commendevoli questi lidi. Tu, o Sesto, affronta gli eventi della guerra e guida le insegne paterne attraverso il mondo. Ed infatti Pompeo vi lasciò, affidandole alle mie cure, queste disposizioni: "Allorquando l'ora stabilita dal fato avrà deciso la mia morte, continuate, o figli, il conflitto civile e non ci sia mai possibilità per i Cesari di regnare, fino a quando rimarrà in vita qualcuno della nostra schiatta. Infondete, con la fama del nostro nome, entusiasmo ed energia nei dominî e nelle città, la cui forza è costituita dalla libertà: vi lascio questo partito e queste armi. Chiunque della famiglia di Pompeo solcherà i mari, troverà delle flotte ed il nostro erede guadagnerà alla guerra tutte le genti: abbiate soltanto il cuore intrepido e memore del diritto paterno. Sarà giusto obbedire al solo Catone, se questi continuerà a stare dalla parte della libertà". Ho adempiuto la promessa, o Grande, ed ho eseguito l'incarico assegnatomi; il tuo sotterfugio si è realizzato ed io, ingannata, sono sopravvissuta a te, affinché non tradissi la tua fiducia e non portassi nel sepolcro le parole che mi avevi affidato. Ma ormai, o marito, ti seguirò attraverso il vuoto caos ed attraverso il Tàrtaro, ammesso che esista; non è dato sapere quanto sia lontana la mia morte: ma, prima che essa sopravvenga, farò scontare la pena dovuta ad una vita che si prolunga troppo. Essa, pur avendo contemplato la tua uccisione, o Grande, ha potuto non piombare nella morte: perirà colpita dal lutto, si scioglierà in pianto; ma non utilizzerò la spada, o il laccio, o il salto a precipizio nel vuoto: è vergognoso che, dopo la tua scomparsa, non si riesca a morire di solo dolore». Dopo queste parole, si coprì il capo con un velo funebre, stabilì di continuare a vivere nelle tenebre e si nascose nelle viscere della nave, dove, avvintasi strettamente ad un crudele dolore, godette del suo pianto, riversando il suo affetto, invece che sullo sposo, sul lutto. Non la scossero le onde, l'euro che sibilava tra le sartie ed il clamore che si alzava nel momento del pericolo estremo: facendo voti opposti a quelli dell'equipaggio terrorizzato, giacque, pronta a morire, ed accolse con gioia la tempesta.
La prima tappa della nave fu, tra flutti spumeggianti, Cipro; di lì l'euro - che soffiava sul mare, ma con una forza che ormai andava attenuandosi - la spinse fino alla Libia e all'accampamento di Catone. Magno, in preda alla tristezza - dal momento che l'animo, quando la paura è grande, è presago - vide dal lido i compagni del padre ed il fratello: allora si precipitò in mezzo ai flutti dicendo: «Parla, fratello: dov'è il padre? Si trova al culmine della potenza sul mondo oppure siamo periti ed il Grande ha portato la potenza di Roma nell'oltretomba?». A queste parole Sesto replicò: «O fortunato, che la sorte ha deviato su altri lidi e che del crimine ascolti solo il resoconto: i miei occhi, o fratello, hanno la colpa di avere assistito all'assassinio del padre. Egli non è morto ucciso dalle armi di Cesare o per mano di qualcuno degno di colpirlo: a causa del sovrano corrotto, che regge le campagne del Nilo, confidando negli dèi dell'ospitalità e nei benefici concessi ai suoi ascendenti, perì vittima del regno che aveva donato. Ho visto con i miei occhi i sicari aprire il petto del magnanimo genitore e, non credendo che a tanto fosse riuscito il tiranno fario, ritenni che il suocero fosse ormai giunto sul lido egiziano. Ma quel che più mi ha sconvolto non sono stati tanto il sangue o le ferite inferte al nostro vecchio, quanto l'aver visto il capo del condottiero infisso sull'estremità di un giavellotto e condotto in giro attraverso la città: corre voce che lo si voglia conservare per esibirlo a colui che è divenuto ingiustamente vincitore e che il tiranno lo voglia come prova del crimine. Infatti io ignoro se il cadavere sia stato fatto a pezzi dalle cagne di Faro e dagli avvoltoi sempre affamati o se l'abbia consumato un fuoco, acceso di nascosto, che abbiamo scorto. Qualunque obbrobrio del destino ci abbia sottratto quelle membra, perdono ai numi un tale crimine: ma alzo il mio lamento e la mia protesta per il capo conservato». Allorché Magno ebbe ascoltato un resoconto così atroce, non espresse il suo dolore in gemiti o in lacrime, ma esplose, furibondo per una giusta pietà: «Mettete immediatamente in mare dalla riva le navi, o marinai, la flotta si scagli a forza di remi contro i venti che le soffiano di fronte. Venite, o capi, con me (in nessun luogo il conflitto civile ha avuto una ricompensa così grande) a tumulare i Mani insepolti e a saziare il Grande con il sangue del tiranno, che è uomo soltanto a metà. Non farò inabissare nella stagnante palude Mareòtide le rocche pellèe ed il corpo di Alessandro, dopo averlo dissepolto da quei sotterranei? Non strapperò dai sepolcri delle piramidi Amàsi e gli altri sovrani e non li scaraventerò nel Nilo impetuoso? Tutte le tombe devono scontare la pena per te, o Grande, che sei rimasto insepolto: svellerò dal sepolcro Ìside, che le genti adorano come una divinità, disseminerò fra la turba Osìride, ricoperto di lino, [e scannerò il sacro Api, come offerta sacrificale per le ceneri di Pompeo] ed arderò il capo del Grande su una pira innalzata con le effigi delle divinità. La terra mi fornirà materia per questo castigo: lascerò le campagne prive di agricoltori, non rimarrà più nessuno, che possa trarre vantaggio dallo straripamento del Nilo, e tu, o genitore, sarai il solo - messi in fuga uomini e dèi - a possedere l'Egitto». Dopo queste parole, trascinava furibondo la flotta in mare: Catone però trattenne l'ira del giovane, pur lodandola.
Nel frattempo - diffusasi la notizia della morte del Grande - in tutti i lidi l'etere risuonò, percosso dai lamenti: era quello un lutto, che non aveva precedenti e che nessuna età aveva conosciuto: la gente piangeva la morte di un potente. Allorquando, poi, Cornelia, sbarcando dalla nave, apparve, ridotta all'estremo dal pianto e con i capelli sciolti sparsi sul viso, si percossero ancora di più il petto e i lamenti raddoppiarono. Non appena ella giunse sul lido della terra amica, raccolse le vesti, le insegne e le armi dell'infelice Pompeo, le spoglie intessute d'oro, che quello aveva indossato un tempo, le toghe ricamate, tutti quegli abiti, che il sommo Giove aveva contemplato per tre volte, e le pose sulla pira funebre: erano quelle per la sventurata le ceneri del Grande. L'esempio venne raccolto dalla devozione di tutti ed in ogni parte della spiaggia si innalzarono roghi, sì che i Mani di Tessaglia avessero il loro fuoco funebre. Nello stesso modo - allorché l'Àpulo si prepara a rinnovare il foraggio nei campi dove le greggi hanno già pascolato e a procurare erba fresca per l'inverno, e riscalda perciò il terreno con il fuoco - il Gargano, i campi del Vùlture ed i pascoli del caldo Matino risplendono di fuochi. Ma di tutte le maledizioni, che la turba ebbe l'ardire di lanciare contro i numi, rinfacciando loro la morte di Pompeo, nessuna giunse più gradita allo spirito del Grande delle poche parole che Catone pronunciò e che scaturivano da un cuore ricolmo di verità: «È morto un cittadino che, se non ha avuto la stessa capacità degli antichi di conoscere il limite del diritto, fu però di grande utilità in questo tempo, che non ha mai avuto alcun rispetto del giusto: potente, non ha mai attentato alla libertà altrui; fu l'unico a rimanere un privato cittadino, pur se la plebe era pronta a servirlo; era guida del Senato, ma di un Senato in possesso dell'autorità. Non richiese alcunché per diritto di guerra e quel che volle che gli si desse, volle al contempo che gli si potesse negare. Ha avuto ricchezze in misura smodata, ma ne diede all'erario più di quanto ne mantenne per sé. Impugnò le armi, ma fu in grado di deporle; preferì l'attività militare a quella civile, ma, pur in armi, amò la pace; condottiero, gradì il potere, ma gli piacque anche lasciarlo. La sua casa fu pura, senza lusso e mai corrotta dalla sorte prospera del padrone: nome celebre e degno di venerazione per i popoli e che è stato di grande vantaggio per la nostra città. Un tempo - allorché si fecero entrare in Roma Silla e Mario - ebbe fine la reale certezza della libertà: con la scomparsa di Pompeo ne perisce anche l'apparenza. Ormai non si proverà vergogna a regnare: non ci sarà più il mascheramento del potere ed il Senato non sarà più lo schermo dietro cui si celerà la tirannide. O fortunato te, al quale, vinto, venne incontro l'ora estrema e per il cui assassinio il criminale egiziano offrì le spade, che tu avresti dovuto altrimenti cercare! Forse saresti potuto sopravvivere nel regno del suocero. La prima cosa, e la più importante per un uomo, è saper morire, la seconda l'esservi costretto. Se il destino dovesse spingermi in balia di un altro, fa' di Giuba, o Fortuna, un secondo Tolomeo: io non mi oppongo al fatto di esser preda di un nemico, purché questi mi abbia con il capo mozzato». Da queste parole venne al nobile spirito di Pompeo un onore funebre maggiore che se le lodi del condottiero fossero risuonate dai rostri di Roma.
Nel frattempo un fremito di discordia percorse la folla: sono pesanti, dopo la morte di Pompeo, la guerra e l'accampamento. Allora Tarcondìmoto levò le insegne, intenzionato ad abbandonare Catone. Questi però lo inseguì fin sull'estremità del lido, mentre stava fuggendo in gran fretta sulle navi, e lo bollò con queste parole: «O Cilìcio, che non conosci mai la pace, torni nuovamente a pirateggiare? La Fortuna ha tolto di mezzo il Grande e tu ritorni a fare il ladrone sul mare». Subito dopo osservò il gruppo dei ribelli: uno di loro, svelando la sua volontà di disertare, si rivolse con queste parole al condottiero: «O Catone, ti chiediamo venia, è stato l'amore verso Pompeo, e non quello per la guerra civile, che ci ha trascinato a combattere: per affetto siamo entrati nel suo partito. È morto colui, che il mondo poneva al di sopra della pace ed è morta la nostra causa: concedi che noi possiamo rivedere ancora una volta i Penati della patria, la casa vuota ed i teneri figli. Quando, infatti, cesserà la guerra, se né Farsàlo né la morte di Pompeo ne costituiranno il termine? Un lungo periodo della nostra vita si è dileguato inutilmente: ci sia consentito morire serenamente e la nostra vecchiaia possa provvedere per tempo al rogo dovuto: il conflitto civile riesce ad offrire solo a fatica una tomba ai condottieri. I vinti non dovranno assoggettarsi ad una signoria barbarica e la Fortuna crudele non mi atterrisce con la minaccia di esser sottomesso da Armeni o Sciti: divengo dominio di un cittadino togato. Colui che - quando Pompeo era in vita - occupava il secondo posto, sarà ora il primo per me. L'onore più eccelso sarà reso all'ombra veneranda: avrò, o Grande, il padrone, cui la sconfitta mi costringe, ma nessun capo. Dopo aver seguito soltanto te in guerra, seguirò, dopo la tua morte, il fato, né mi è consentito (ed è giusto che sia così) di sperarlo favorevole. La Fortuna di Cesare domina ogni cosa e la sua vittoria ha disperso le armi di Emazia: la possibilità di confidare in chicchessia è pressoché inesistente per gli sventurati ed in tutto il mondo v'è soltanto Cesare, che possa volere e sia in grado di offrire la salvezza ai vinti. Vivo Pompeo, la guerra civile costituiva un dovere: dopo la sua morte è un crimine. Se tu, o Catone, militi sempre nelle file del diritto dello Stato e della patria, allora seguiamo le insegne recate da un console romano». Dopo aver così parlato, saltò sulla nave insieme ad un gruppo di giovani in preda all'eccitazione.
La sorte di Roma era stata decisa e tutta la folla, bramosa di divenire schiava, si agitava sul lido. Dal sacro petto di Catone proruppero allora queste parole: «Dunque, o giovani, avete combattuto con gli stessi desideri dei vostri avversari: lo avete fatto, così come gli altri, per un padrone ed avete costituito un esercito pompeiano, e non romano? Dal momento che non vi affaticate per un dominio, che vivete e morite per voi e non per i capi, che non dovete conquistare il mondo per nessuno, che potete ormai vincere tranquillamente per voi stessi, evitate il combattimento, cercate un giogo per il vostro collo ancora libero e non riuscite a fare a meno di un sovrano? Ora il motivo, che fa affrontare i pericoli, è degno di uomini veri. Pompeo è stato messo in grado di far uso, come ha voluto, del vostro sangue: ora, ad un passo dalla libertà, vi rifiutate di offrire le vostre gole e le vostre spade alla patria? La Fortuna, di tre padroni, ne ha lasciato uno. Oh, vergogna! La reggia egiziana e gli archi dei soldati partici hanno dato alle leggi un aiuto maggiore del vostro. Andate, o degeneri, disprezzate il dono di Tolomeo e l'opportunità di servirvi delle vostre armi. Chi potrebbe ritenere che le vostre mani siano colpevoli di strage? Cesare crederà che voi siete stati rapidi a volgere le spalle e che foste i primi a fuggire dall'emazia Filippi. Andate pure senza preoccupazioni: agli occhi di Cesare avete meritato la vita, senza essere stati piegati da un combattimento o da un assedio. O schiavi ignobili, dopo la morte del primo padrone passate al suo successore. Per qual motivo non volete meritare una ricompensa maggiore della vita e del perdono? Trascinate sul mare la sventurata moglie del Grande, figlia di Metello, conducete come preda i figli di Pompeo, superate il dono di Tolomeo. E per di più, chi recherà la mia testa all'odiato tiranno, otterrà una grande ricompensa: questi giovani apprendano, dal prezzo pagato per il mio capo, che essi hanno seguito con vantaggio le mie insegne. Coraggio, acquistate merito con un grande misfatto: la fuga è solo un delitto da vigliacchi». Le sue parole ebbero il potere di far tornare le navi, che erano già al largo. Nello stesso modo le api - allorché abbandonano, a sciami, gli alveari che ne sono pieni e, dimenticando il favo, non uniscono le ali fra loro, ma svolazzano a loro piacimento senza gustare, pigre, l'amaro timo -, se risuona, richiamandole bruscamente all'ordine, il bronzo frigio, smettono, sbigottite, di fuggire e ricominciano, applicandosi diligentemente, a cercare il miele qua e là tra i fiori: gioisce allora il pastore nei prati iblei e si tranquillizza per aver salvato la ricchezza della sua umile capanna. Così le parole di Catone infusero negli uomini la capacità di affrontare una guerra giusta.
Allora Catone stabilì di impegnare con esercitazioni belliche e con attività ininterrotte quegli animi, che non riuscivano a star tranquilli. Per prima cosa i soldati furono costretti a manovrare, fino a stancarsi, sui lidi della costa. Subito dopo dovettero affrontare le mura e le fortificazioni di Cirene: il condottiero non aveva alcun risentimento per il fatto che la città non l'avesse accolto, e non voleva vendicarsi: la vittoria fu per Catone l'unico castigo che i vinti dovettero subire. Di lì decise di dirigersi alla volta del regno del libico Giuba, limitrofo ai Mauri. Le Sirti, però, costituivano l'ostacolo naturale all'impresa: il suo audace ardire gli fa sperare di poter superare l'intoppo frapposto dalla natura.
Può darsi che - allorquando la natura conferiva al mondo il suo primo aspetto - essa abbia lasciato le Sirti in bilico fra il mare e la terra: quest'ultima, infatti, non sprofondò, per accogliere le acque del mare, né si alzò per opporsi alle onde. L'incerta collocazione le rende una zona impercorribile: una superficie d'acqua intervallata da secche, una terra interrotta dal mare ed il rimbombo dei flutti che si abbattono su molti guadi: così la natura ha abbandonato questa parte di sé, senza assegnarle un uso qualsiasi. Un'altra ipotesi è che un tempo sulle Sirti si estendesse il mare, sì da coprirle con una gran quantità d'acqua: il veloce sole, però, che nutre i suoi raggi con i flutti, avrebbe attirato questi ultimi nelle vicinanze della zona torrida, dove essi lottano ancora con l'astro, che si sforza di farli evaporare; successivamente - allorché il tempo, che arreca rovina, farà avvicinare i raggi - le Sirti diventeranno terra vera e propria: già, infatti, la distesa delle acque non è alta sopra le Sirti ed il suo livello continua a calare per largo tratto, fino al momento in cui esse scompariranno.
Non appena i remi percossero i flutti e spinsero in avanti la pesante flotta, una fitta pioggia, provocata dal fosco austro, cominciò a scrosciare. Infuriando sul suo regno, quel vento difende con turbini la distesa delle acque percorsa dalla flotta, spinge i flutti lontano dalle Sirti e li costringe ad infrangersi su altri lidi. Allora, quando piomba sulle vele legate all'albero drizzato, le strappa ai marinai ed esse - nonostante le corde cerchino inutilmente di non farle divenire preda del noto - oltrepassano lo spazio della nave e si gonfiano al di là della prua. Se qualcuno dell'equipaggio, previdente, si sforza di inchiodare le vele alla sommità dell'antenna, non vi riesce ed è spazzato via insieme con le attrezzature spoglie. Un destino più favorevole hanno quelle imbarcazioni, che vanno a finire al largo spinte su quello che è il mare vero e proprio. Le altre, che hanno avuto gli alberi stroncati, divenendo così più leggere, fanno in modo che la forza dell'aria non abbia effetto e sono trascinate da una corrente non soggetta ai soffi dei venti, che scorre in senso opposto e che le spinge a vincere la violenza dell'austro. Il mare vien meno a queste navi e la terra, interrotta dalle acque, colpisce gli scafi: vittime di un incerto destino, alcune di esse si incagliano, altre ondeggiano sui flutti. Allora le navi si insabbiano sempre di più, dal momento che il mare si abbassa ulteriormente e spesso la terra emerge ed urta contro le carene: per quanto sospinte dall'austro, le onde sovente non sono in grado di sommergere i mucchi di sabbia. Lungi dalla costa si erge sulla superficie delle acque, senza esserne toccato, un terrapieno di terra asciutta: vi si rifugiano gli sventurati equipaggi - dal momento che le loro navi si sono incagliate nei guadi - e non vedono nessuna costa. Così una parte della flotta è vittima del mare; una parte, invece, più numerosa - che ha mantenuto la rotta manovrando meglio il timone - si mette in salvo con la fuga e, avvantaggiata dal fatto di avere marinai esperti del luogo, giunge, senza aver subìto danni, nella torpida palude di Tritone.
Questa, secondo la tradizione, è amata dal dio, che il mare, lungo tutto il lido, ascolta soffiare nella conchiglia risuonante sulla sua superficie; essa è amata da Pàllade, che, nata dal capo del padre, toccò come prima terra la Libia (essa è, infatti, la più vicina al cielo, come fa fede il calore stesso): ella scorse il suo viso riflesso nell'acqua placida, poggiò i piedi sul bordo e, dall'acqua prediletta, si chiamò Tritònide. Presso questa palude scorre in silenzio il fiume Leton, che, secondo il mito, reca l'oblio delle fonti sotterranee, e si trova, spoglio e privo di fronde, il giardino delle Espèridi, che un tempo era custodito dal drago insonne. È pieno di invidia colui che nega ai tempi antichissimi le loro leggende e richiama i poeti alla realtà! V'era una foresta d'oro, i cui rami erano appesantiti da ricchezze e da biondi frutti, v'erano un coro di vergini a guardia della splendida selva e un serpente - attortigliato con le sue spire curve allo splendido metallo - condannato a non poter chiudere gli occhi nel sonno. L'Alcìde strappò agli alberi la ricchezza ed alla selva il suo carico, lasciò che i rami pendessero vuoti senza il loro peso e recò i rifulgenti pomi al tiranno di Argo.
Pertanto la flotta, sospinta via da questi luoghi e ricacciata dalle Sirti, non riuscì a procedere oltre le acque dei Garamànti: sotto la guida di Pompeo fece sosta presso i lidi della zona meno pericolosa della Libia. Ma il coraggioso Catone, che non sopportava di interrompere la marcia, ebbe l'ardire di avanzare con i suoi soldati fra popolazioni sconosciute e, fiducioso nelle armi, di aggirare le Sirti per via di terra. Era spinto a comportarsi così dalla stagione invernale, che gli impediva di mettersi in mare, mentre i suoi - che temevano l'eccessivo calore - riponevano la speranza nella pioggia, così che da un lato la Libia non rendesse la marcia troppo dura con il suo calore e dall'altro il periodo invernale non facesse la stessa cosa, ma questa volta a motivo del freddo rigido. Sul punto di avanzare fra le sabbie aride, così parlò Catone: «O voi, che - seguendo le mie insegne - avete deciso essere l'unica salvezza il morire senza essere stati sottomessi, preparate il vostro spirito ad un'impresa grande e valorosa e ad inumani fatiche. Stiamo avanzando verso campi infecondi ed arsi, là dove domina l'eccessivo calore del sole, dove le sorgenti d'acqua son poche e le pianure bruciate brulicano di serpenti apportatori di morte: è pesante la marcia verso la legalità: chi ama la patria, che si trova in grave pericolo, avanzi attraverso il cuore della Libia e proceda su sentieri impraticabili, se non ha mai desiderato la fuga e gli è sufficiente andare avanti; infatti io non ho intenzione di ingannare nessuno e di condurre lo stuolo dei miei, nascondendo la paura. Mi accompagnino coloro che si faranno guidare dai pericoli e che pensano sia virtuoso e degno di cittadini romani subire anche le cose peggiori dinanzi ai miei occhi. Ma se c'è qualche soldato, che ha bisogno di qualcuno che gli garantisca la salvezza ed è pervaso dalla dolcezza della vita, vada pure a cercarsi un padrone, seguendo una via più comoda. Mentre io avanzerò per primo tra le sabbie e per primo calcherò le mie impronte nella polvere, mi colpisca il calore dell'aria, mi si precipiti incontro un serpente gonfio di veleno: misurate sul mio destino i vostri pericoli: abbia sete chiunque mi avrà scoperto bere, sia preda del caldo chiunque mi avrà visto cercare l'ombra delle selve, venga meno per la stanchezza chiunque mi avrà visto precedere a cavallo le schiere dei fanti: sarà evidente se io, per una qualsiasi differenza, avanzerò come condottiero o come un semplice soldato. I serpenti, la sete, il calore della sabbia sono cose dolci per il valore; la capacità di sopportazione gode delle condizioni avverse; la virtù è motivo di felicità tanto maggiore, quanto più alto è il suo prezzo: soltanto la Libia, con la quantità dei suoi disagi, è in grado di giustificare la fuga di uomini veri dal campo di battaglia». Così egli infiammò di valore e di amore per le fatiche gli animi in preda alla paura e si incamminò nel deserto per una via, da cui non si può tornare: la Libia - che avrebbe racchiuso il sacro nome del condottiero in una piccola tomba - si impossessò così del fato dell'intrepido Catone.
La Libia costituisce la terza parte del mondo, se vogliamo prestar fede in tutto alla fama; ma, se ne prendiamo in considerazione i venti ed il cielo, essa è una parte dell'Europa. Le sponde del Nilo, infatti, non hanno una distanza maggiore di quanta ne abbia lo scitico Tànai dall'estremità di Càdice, là dove l'Europa si divide dalla Libia e le spiagge, piegandosi, fanno spazio all'Oceano. Ma una parte maggiore del mondo costituisce la sola Asia: infatti, mentre le altre due formano insieme la zona in cui soffia lo zefiro, questa si estende sino al fianco sinistro di borea ed a quello destro di noto, giungendo, verso Oriente, ad occupare la regione dell'euro. Verso Occidente si estende la zona fertile della terra libica, nella quale però non sgorga nessuna sorgente: essa, infatti, accoglie le piogge settentrionali al raro soffiare degli aquiloni e rianima le sue campagne, quando il nostro cielo è sereno. Non è corrotta da ricchezza alcuna, non è consunta dal rame o dall'oro: la terra è incontaminata fin nelle sue viscere e le sue zolle sono esenti da impurità. L'unica ricchezza per la popolazione è costituita dal legno di Mauretania, che però quella non sa adoperare, rallegrandosi dell'ombra offerta dalle chiome dei cedri: sulle selve sconosciute sono piombate le nostre scuri ed accogliamo dai limiti estremi del mondo le tavole per i nostri banchetti. Inoltre tutta la costa, che si estende attorno alle mobili Sirti, si allunga sotto un calore eccessivo, prossima all'etere infuocato, ed arde le messi e soffoca le viti sotto la polvere, mentre nella terra troppo friabile non riesce ad attecchire nessuna radice. In quel clima non può svilupparsi la vita e Giove non si preoccupa minimamente di quella zona: essa giace torpida per l'oziosità della natura e - dal momento che la sabbia non viene mai smossa dall'aratro - non percepisce mai il succedersi delle stagioni. Purtuttavia un suolo così restio genera poche erbe, che la rude popolazione dei Nasamòni - stanziata in una zona vicinissima al mare e che occupa nuda quelle terre - raccoglie. Essi vivono perciò delle disgrazie del mondo, che le barbare Sirti provocano: infatti questi predatori son sempre sul chi vive lungo le spiagge del litorale ed hanno confidenza con le ricchezze, anche se nessuna nave attracca ai loro porti: in questo modo i Nasamòni, hanno, grazie ai naufragi, rapporti commerciali con il mondo intero.
Catone, stimolato dal suo intrepido valore, comanda di avanzare in questa regione. La truppa - pur senza più alcun timore dei venti e delle tempeste, dal momento che si trovava sulla terraferma - dovette affrontare le stesse paure, da cui era stata presa in mare. Infatti le Sirti, sulle loro aride spiagge, sono percosse dall'austro con una violenza più scatenata di quella con cui il vento si abbatte sui flutti: esso inoltre arreca danni maggiori alla terra. Allorché inizia a soffiare, la Libia non ne fiacca la forza opponendogli montagne e non lo disperde respingendolo con rupi: esso si avventa turbinando nell'aria libera e non si abbatte su foreste né si scatena piegando tronchi annosi: il suolo è piatto in ogni suo punto e, non frenato nel suo procedere, l'austro avventa a briglia sciolta la rabbia eolia e spinge con violenza una nube, che turbina in vortici di sabbia e che non arreca pioggia: la massima parte della rena si alza e rimane per aria senza dissolversi. I Nasamòni, già poveri, scorgono quel che posseggono trascinato capricciosamente dal vento, le loro abitazioni spazzate via; le capanne dei Garamànti, scoperchiate, vorticano ghermite dai soffi e lasciano gli abitanti senza riparo: il fuoco non riesce a trasportare ad una altezza maggiore quel che ha afferrato e la sabbia occupa il cielo più di quanto il fumo riesca ad innalzarsi e ad offuscare la luce del giorno. Allora l'austro si avventò con violenza insolita sui soldati romani, che non riuscivano a rimanere ritti sulla sabbia, dal momento che questa veniva strappata da sotto i loro piedi. Il vento farebbe rovinare il mondo e lo spazzerebbe via dal posto che occupa, se la Libia avesse una struttura solida e, con peso massiccio, racchiudesse l'austro in grotte di roccia corrosa: ma - dal momento che essa è sconvolta facilmente dalle mobili arene - non fa resistenza in nessun luogo e la parte profonda della terra resta salda, mentre quella superiore sfugge. L'austro, spirando con violenza, strappò ai soldati gli elmi, gli scudi ed i giavellotti e, con una grande tensione, li trasportò nel vuoto del grande cielo. Forse in una regione lontanissima e remota questo fatto venne interpretato come un prodigio e le genti temettero le armi piombate giù dal cielo, convinte che fossero state mandate dai numi, mentre in realtà erano state strappate dalle braccia di combattenti. Senza alcun dubbio, allo stesso modo - dinanzi a Numa, che stava compiendo sacrifici - caddero quegli scudi, che, da allora, giovani scelti recano sulle nobili spalle: l'austro o il borea li avevano forse tolti a qualche popolo per recarli fino a noi. In questa maniera, mentre il noto tormenta quella zona del mondo, i soldati romani si gettano al suolo, temendo di essere afferrati: si stringono addosso le vesti ed infilano le mani nella terra e vi giacciono non soltanto con il loro peso, ma anche con lo sforzo per trattenervisi: a stento essi rimangono immobili sotto i soffi dell'austro, che accumula sopra grandi mucchi di sabbia, coprendoli completamente: i soldati riescono a fatica a sollevare il corpo, sopraffatti come sono da una gran quantità di polvere. Se tentano di rimanere in piedi, vengono sommersi da un'enorme quantità di sabbia, se rimangono immobili, sono sepolti velocemente dalla rena, che si accumula con rapidità. L'austro, sconvolte le mura dalle fondamenta, ne ghermisce i massi e li scaglia lontano: singolare destino di sventure: essi non scorgono case, ma soltanto rovine! Ed ormai in quella regione non ci son più vie né sentieri [rimangono solo i corpi celesti, come avviene nella navigazione]: riescono ad orientarsi con le stelle né l'orizzonte della zona libica le mostra completamente, ché in gran parte esse son celate dal margine inclinato della terra.
Non appena l'ardore dissipò l'aria, che il vento aveva addensato, ed il giorno riarse, le membra dei soldati cominciarono a grondare sudore e le bocche a diventar secche per la sete. Essi videro da lontano una piccola scaturigine di acqua torbida: un soldato allora, raccogliendola con grande ansia, trepidazione e fatica, la versò nell'interno del suo elmo e la offrì al capo. Le gole di tutti erano aride e squamose per la polvere ed il comandante, che era in possesso di poche gocce di liquido, suscitava l'invidia dei suoi. Ma egli disse: «E tu sei un soldato così degenere, da ritenere me solo, nell'esercito, senza valore? Fino a questo punto ti sembro così rammollito ed incapace di sopportare i primi caldi? Quanto più degno sei tu di un simile castigo: bere in mezzo alla truppa assetata!». Così, in preda all'ira, rovesciò l'elmo e l'acqua fu sufficiente per tutti.
Giunsero al tempio - l'unico delle popolazioni libiche -, che era custodito dai rozzi Garamànti. È fama che lì risieda, emettendo oracoli, Giove, che però non scaglia fulmini né ha caratteristiche simili al nostro: ha le corna ritorte e il suo nome è Ammone. Le genti di Libia non innalzarono in quel luogo un tempio sontuoso e difatti le stanze, dove si accumulano le offerte e i tesori, non rifulgono di gemme orientali: nonostante per le popolazioni d'Etiopia, per quelle ricche d'Arabia e per gli Indi ci sia un solo Giove Ammone, questo è un nume ancora povero, che risiede in un tempio, che le ricchezze, per un lunghissimo periodo di tempo, non hanno ancora corrotto: divinità fedele alle antiche consuetudini, difende il suo santuario dall'oro di Roma. Un bosco - l'unico ad esser verde nell'intera Libia - attesta che in quei luoghi v'è un nume: infatti tutta la zona di sabbie aride, che divide la riarsa Berenìcide dalla tiepida Leptis, non conosce le fronde: il solo Ammone ha preso per sé una selva. La sua esistenza è determinata dalla presenza di una sorgente, che tiene insieme la terra friabile e che unisce ed amalgama con l'acqua le sabbie. Anche in questa selva nulla è di ostacolo al sole, allorché esso si trova allo zenit nel suo punto più alto: a fatica i rami riescono a far ombra al tronco, tanto essa è costretta dai raggi dell'astro a raccogliersi in un piccolissimo spazio al centro. Si è constatato che è questo il luogo, in cui il circolo del solstizio - dove il sole raggiunge la sua posizione più alta - taglia a metà lo zodiaco. Le costellazioni non si muovono obliquamente, lo Scorpione non emerge in direzione più perpendicolare di quella del Toro, l'Ariete non cede alla Bilancia una parte del suo tempo di ascesa, Astrèa non obbliga i Pesci a tramontare lentamente, Chiròne si pone sulla stessa linea dei Gemelli e lo stesso fa il torrido Cancro con l'invernale Capricorno, mentre il Leone non si solleva più in alto dell'Acquario. Per tutte voi, genti divise da noi dal calore libico, l'ombra si indirizza verso il noto, mentre per noi va verso nord. Voi vedete Cinosùra procedere pigramente, il Carro asciutto vi appare tuffarsi in mare e così anche tutte le stelle al loro zenit; vi sembra infine che i due poli del cielo abbiano la stessa distanza e che lo scorrere delle costellazioni dello zodiaco le trascini tutte al centro del firmamento.
Dinanzi alle porte del tempio si accalcavano popolazioni giunte dall'Oriente per consultare Giove cornigero sul destino che le attendeva. Esse però fecero posto al condottiero latino. I compagni supplicavano Catone di interrogare quella divinità così celebre nel mondo libico e di dare una valutazione su una fama, che durava da secoli. Labieno era quello che, più degli altri, lo esortava a conoscere il futuro dalla voce dei numi. Ecco le sue parole: «Una fortunata combinazione della nostra avanzata ci ha offerto l'occasione di poter ascoltare l'oracolo di una divinità così importante ed il responso degli dèi: siamo in grado di fare buon uso di una guida così autorevole per attraversare le Sirti e per apprendere lo svolgimento degli eventi bellici. A chi, infatti, più che al venerando Catone, potrei credere che i numi riveleranno gli arcani e diranno la verità? Senza dubbio la tua vita si è sempre rigorosamente informata alle leggi supreme e il dio è il tuo modello di comportamento. Ecco, ti viene fornita l'occasione di parlare con Giove: chiedigli del destino del sacrilego Cesare e fatti rivelare i caratteri futuri della nostra patria: alle genti sarà possibile usufruire del loro diritto e delle leggi oppure il conflitto civile sarà stato inutile? Colma il tuo animo della parola del dio: tu - che ami la virtù rigorosa e austera - chiedi almeno che cos'è la virtù e domanda che cosa deve costituire il modello dell'onesto».
Catone però, colmo della divinità, che egli portava in silenzio nel cuore, pronunciò parole degne di un oracolo: «Che cosa vorresti soprattutto che io chiedessi, o Labieno? Se preferirei morire mentre combatto, ma libero, piuttosto che assistere allo spettacolo della tirannide? † Se non c'è alcuna differenza tra una vita lunga o una breve? † Se la violenza non arreca danno ad un uomo onesto? Se la Fortuna non vede realizzate le sue minacce, quando la virtù la contrasta? Se è sufficiente desiderare cose lodevoli e se l'onesto non trae mai forza e vantaggio dal successo? Son tutte cose che conosciamo bene e non sarà certo Ammone a convincercene più profondamente. Tutti noi dipendiamo dai numi e non facciamo nulla se essi non vogliono, anche quando l'oracolo tace; la divinità non ha bisogno di parlare: quando siamo nati, il creatore ci ha detto una volta per tutte quel che si deve conoscere. Egli ha forse scelto sabbie infeconde per comunicare i suoi vaticini a pochi o ha sommerso la verità nella polvere? Il dio non risiede forse nella terra, nel mare, nell'aria, nel cielo e nella virtù? Perché dovremmo interrogare ancora gli dèi? Giove è tutto quello che vedi ed ogni movimento che compi. Coloro che sono in dubbio e che non sanno decidersi sugli avvenimenti futuri ricorrano pure agli oracoli: la certezza della morte, e non i vaticini, mi rendono sicuro. Devono morire sia i vili che i forti: è sufficiente che Giove abbia sentenziato così». Con queste parole Catone mantenne inalterato il prestigio del santuario e si allontanò dagli altari, lasciando alle genti Ammone senza averlo consultato.
Egli stesso, impugnando dei giavellotti, precede a piedi i soldati ansimanti, fa vedere - e non ordina - come sopportare le fatiche, non si fa portare adagiato sulle spalle dei suoi o su un carro, dorme pochissimo, si disseta per ultimo e quando - trovata finalmente una sorgente - i soldati, in preda alla sete, si affollano per bere e vengon quasi alle mani, egli rimane in piedi ad attendere che si sia dissetato anche l'ultimo dei cuochi. Se una grande fama è riservata a coloro che sono veramente buoni, se prendiamo in considerazione la virtù in sé e per sé, senza tener conto del successo, tutto quel che noi lodiamo negli antenati, non fu altro che fortuna. Chi mai, con una vittoria o con il sangue delle genti, meritò una fama così grande? Io preferirei essere a capo di questo trionfo attraverso le Sirti e le regioni più remote della Libia piuttosto che salire tre volte al Campidoglio sul carro di Pompeo o far strangolare Giugurta. Ecco il vero padre della patria, il più degno dei tuoi altari, o Roma; non ci si vergognerà mai di giurare sul suo nome: lui adorerai come un dio, se - adesso, o in futuro - riuscirai mai a spezzare il giogo che ti pesa sul collo.
Ormai il calore aumentava di intensità ed essi avanzavano attraverso una regione, al di là della quale - in direzione sud - gli dèi non ne concessero altre ai mortali. L'acqua cominciava a scarseggiare. Trovarono, in pieno deserto, una sola fonte abbondante di acque: essa era però affollata da un gran numero di serpenti, che il luogo riusciva a contenere a stento. Le àspidi si ergevano sulla sabbia asciutta, mentre nell'acqua si muovevano, piene di sete, le dipsadi. Catone, quando si accorse che sarebbero tutti morti se non si fossero dissetati a quella fonte, si rivolse ai suoi: «O soldati atterriti da un falso aspetto di morte, non abbiate esitazione a bere quest'acqua, che è sicura. Il veleno dei serpenti è dannoso solo se viene inoculato nel sangue: essi lo trasmettono con il morso e minacciano la morte con i denti: bere a questa fonte non è perciò nocivo». Dopo aver detto tali parole, tracannò quell'acqua, che essi temevano avvelenata: in tutto il deserto libico si trattò dell'unica sorgente, alla quale egli volle, d'autorità, bere per primo. Per quale motivo il clima della Libia sia infestato da un così gran numero di spaventose pesti apportatrici di morte e che cosa la natura abbia mescolato - misteriosamente - nel terreno, rendendolo nocivo, non riesce a venirne a capo il mio diligente impegno: so soltanto che una leggenda, diffusa nel mondo intero, ha fornito alle generazioni degli uomini una spiegazione ingannevole sulla vera causa di questo fenomeno. Agli ultimi confini della Libia - là dove la terra ardente accoglie l'Oceano, reso caldo dal sole che vi si tuffa - si estendevano per largo tratto i campi desolati di Medusa, figlia di Forco, non protetti dalle fronde dei boschi, non ammorbiditi da linfe, bensì scabri di rocce: su di essi si era infatti posato lo sguardo della sovrana. Nel suo corpo la natura maligna per la prima volta generò flagelli spaventosi: da quella gola i serpenti, con lingue guizzanti, produssero sibili stridenti: essi poi, cadendo sulle spalle a mo' di chioma femminile, colpivano il collo di Medusa, che ne provava piacere: proprio sulla fronte si drizzavano, ergendosi, i colubri, mentre dal pettine colava giù veleno di vipere. Questa chioma di serpenti era l'unica parte di Medusa dall'atroce destino, che chiunque potesse impunemente guardare: infatti, chi ebbe il tempo di provar paura dinanzi al suo ghigno mostruoso? Medusa consentì forse che qualcuno potesse morire, dopo averla guardata in viso? Ella affrettava repentinamente la morte, mentre questa esitava a sopraggiungere, e preveniva la paura: le membra morivano, ma trattenevano l'anima, e lo spirito, che si sarebbe dovuto separare dal corpo, si irrigidiva sotto le ossa. Le chiome delle Eumènidi produssero solo pazzia, Cèrbero placò i suoi latrati al canto di Òrfeo, l'Anfitrionìade sopportò la visione dell'idra, mentre la vinceva: di un tale mostro, invece, ebbero paura anche il padre Forco, divinità favorevole alle acque, la madre Ceto e le sue stesse sorelle, le Gòrgoni: costei era in grado di minacciare al cielo e al mare un torpore mai provato e di rendere il mondo di pietra. Gli uccelli, appesantitisi di colpo, piombarono giù dal cielo, le fiere rimasero attaccate alle rocce, popolazioni intere - ubicate vicino agli Etiopi - si irrigidirono, divenendo di marmo. Nessun essere vivente riusciva a sopportarne lo sguardo e gli stessi serpenti, che le ricadevano sulle spalle, evitavano il volto della Gòrgone. Ella trasformò in roccia Atlante, che sosteneva le colonne occidentali, cambiò in montagne i Giganti, che si ersero un giorno a Flegra sui loro piedi serpentiformi contro gli dèi che li temevano, e dal centro della corazza di Pàllade pose fine a quell'immane guerra fra divinità.
Dopoché Pèrseo - generato da Dànae e dalla nuvola d'oro - venne trasportato in quella regione sulle ali parrasie [del dio d'Arcadia, inventore della cetra e della palestra, in cui ci si ungeva il corpo,] e di colpo si fu innalzato in volo brandendo la roncola cillenia, quella roncola già macchiata del sangue di un altro mostro [di Argo, cioè, che custodiva la giovenca amata da Giove] -, la vergine Pàllade portò aiuto al fratello volante, pretendendo in cambio la testa del mostro: ai confini della terra libica impose a Pèrseo di volgersi in direzione del sorgere del sole e di volare a ritroso sui dominî della Gòrgone; gli fece imbracciare, a sinistra, uno scudo rifulgente di bronzo dorato, nel quale lo esortò ad osservare Medusa, che trasformava tutto in pietra. Il sonno riuscirebbe a trascinarla, con la morte, al riposo eterno, ma esso non la pervade mai del tutto: gran parte della chioma vigila e serpenti, protendendosi dai capelli, sono a guardia della testa, mentre gli altri le pendono sul viso e sullo sguardo ottenebrato. La stessa Pàllade guidò Pèrseo terrorizzato e indirizzò la roncola cillenia, che tremava nella destra dell'eroe, che si era girato, e mozzò alla radice l'enorme collo pieno di serpenti. Che espressione nel volto della Gòrgone, che aveva avuto il capo troncato dal colpo inferto dal ferro ricurvo! Quanto veleno sarei propenso a ritenere che uscisse dalla sua bocca e quanta morte dovevano provocare i suoi occhi! Neanche Pàllade era in grado di sostenerne la vista ed essi avrebbero reso di pietra il volto di Pèrseo, per quanto girato all'indietro, se la Tritònia non avesse sparso quella fitta chioma e non avesse ricoperto il viso del mostro con i serpenti. In tal modo l'alato Pèrseo, afferrato il capo della Gòrgone, fuggì nel cielo. Egli avrebbe certamente abbreviato il suo volo e avrebbe solcato l'aria per la via più breve, se avesse tagliato obliquamente sulle città dell'Europa: Pàllade però gli impose di non arrecar danno alle terre ricche di messi e di risparmiare le genti: chi, infatti, non avrebbe alzato lo sguardo verso il cielo su un siffatto mostro volante? Così Pèrseo, seguendo zefiro, mutò direzione e volò sulla Libia, che non è coltivata affatto ed è invece assoggettata agli astri e a Febo: l'orbita del sole, a perpendicolo su di essa, incombe e brucia il terreno; da nessun'altra terra si proietta più in alto nel cielo, durante la notte, l'ombra della terra, che oscura la luna nel suo cammino, allorché essa, dimentica del suo errante procedere, avanza in linea retta attraverso le costellazioni dello zodiaco e non evita, verso nord o verso sud, l'ombra della terra. Nonostante quella zona fosse infeconda e quei campi del tutto improduttivi, essi accolsero la velenosa putredine, che grondava da Medusa, e la spaventosa rugiada, che cadeva da quell'orrendo sangue: esse furono rivitalizzate dal calore e si mescolarono alla sabbia, rovente e purulenta.
L'essere immondo, che lì per primo - ad opera del sangue di Medusa - alzò il capo dalla sabbia, fu l'àspide - che inocula il sonno - dal collo gonfio. Nel luogo della sua nascita cadde dal cielo una maggior quantità di sangue e stillò denso veleno: in nessun rettile, infatti, se ne è concentrato di più. Questo serpente ha bisogno di calore e non si muove mai, di propria iniziativa, verso zone fredde e non oltrepassa mai le sabbie del Nilo; ma (ci vergogneremo mai del nostro desiderio di guadagno?) da quei luoghi si importano a Roma i mezzi libici con cui dare la morte ed abbiamo fatto dell'àspide un oggetto di scambio commerciale. Successivamente svolse le sue spire piene di squame la gigantesca emorrois, che non permette che agli sventurati, in cui si imbatte, rimanga una sola goccia di sangue; nacquero così anche il chersidro, che avrebbe abitato i campi delle Sirti - che non sono né terra né mare -, i chelidri, che si lascian dietro una scia di fumo ed il cencro, che striscia sempre in linea retta e che ha sul ventre una serie di macchioline più fitta di quelle, già piccole, che caratterizzano l'ofìte tebano. Ecco l'ammòdite, che ha lo stesso colore della sabbia riarsa e che non si riesce perciò a distinguere; il ceraste, che non striscia mai in una direzione determinata, dal momento che la sua colonna vertebrale è lussata; la scìtale, che è la sola a cambiar pelle mentre c'è ancora la brina; l'ardente dìpsade; la massiccia anfisbèna, che ha una testa ad ambedue le estremità del corpo; il natrìce, che avvelena l'acqua; i giàculi volanti; il parìa, che prova piacere a lasciare con la coda una traccia nella sabbia; il prestère, che apre bramoso la bocca fumante; il sepse, che corrompe, provocandone la dissoluzione, carne ed ossa, ed infine il basilisco, che con i suoi sibili atterrisce gli altri flagelli ed arreca danno, ancor prima di iniettare il veleno: esso allontana da sé per largo tratto ogni essere vivente e domina nel deserto solitario. Ed anche voi - draghi, ritenuti inoffensivi e considerati, in ogni luogo della terra, come esseri sacri, che
strisciate fulgidi nelle vostre spire dorate - la torrida Africa rende apportatori di morte: volate alti nel cielo e, tenendo dietro a mandrie intere, fiaccate tori enormi, stritolandoli; neanche l'elefante è sicuro, nonostante la sua mole: date la morte ad ogni cosa e non avete bisogno di veleno per i vostri esiti letali.
Fra questi mostri Catone compie, con i suoi tenaci soldati, l'avanzata in una zona arida, assistendo a tante misere, e spaventose, morti dei suoi, che spesso avvengono anche a causa di piccole ferite. Una dìpsade calpestata gira indietro il capo e morde il giovane alfiere Aulo, di discendenza etrusca. Egli quasi non percepisce la sensazione dolorifica, e l'aspetto della ferita - che avrebbe poi provocato la morte - appare innocuo e per nulla minaccioso. Ecco però che il veleno si fa strada in maniera impercettibile, una fiamma distruttrice afferra le midolla ed arde le viscere con un bruciante morbo: l'infezione succhia via l'umore dagli organi vitali e comincia ad ardere la lingua e il palato riarsi; non c'è traccia di sudore, che scorra sulle membra esauste, e gli occhi non hanno più lacrime. Né il senso dell'onore militare né i comandi del rattristato Catone riescono a frenare il giovane, in preda alla febbre, dallo scagliar via (tanto osa!) le insegne e dall'andare in cerca, fuori di sé per tutti i campi, dell'acqua, che l'ardente veleno brama nell'interno del corpo: anche se Aulo si tuffasse nel Tànai o nel Rodano o nel Po, o tracannasse le acque del Nilo, che straripa nelle campagne, sarebbe bruciato dall'arsura. La Libia collabora alla sua morte e la dìpsade, aiutata dalla terra riarsa, ne ha un minor motivo di vanto. Egli cerca, scavando profondamente nella sabbia desolata, una vena d'umore, poi torna verso le Sirti e trangugia avidamente l'acqua, godendo del flutto salmastro, anche se non gli è sufficiente; non percepisce né il tipo di morte né la potenza del veleno: ritiene, invece, che sia soltanto sete ed arriva al punto di squarciarsi le gonfie vene con la spada e di riempirsi la bocca di sangue.
Catone ordinò allora di muovere in gran fretta le insegne: nessun altro doveva apprendere quanto potesse la sete. Ecco però, dinanzi agli occhi di tutti, un tipo di morte più orrenda: un piccolo sepse si attaccò alla gamba dello sventurato Sabello e vi si infisse con il dente ricurvo: egli lo strappò via con la mano e lo trapassò sulla sabbia con un giavellotto. Si tratta di un serpente piccolo, ma nessuno come lui riesce a provocare una morte così sanguinosa. Infatti la pelle tutt'intorno alla ferita si allontana rompendosi e mette allo scoperto le ossa bianche: l'infezione si estende ed il corpo è ormai un'unica, enorme ferita. Le membra sguazzano nella putredine: i polpacci si dissolvono, le ginocchia sono prive di rivestimento, tutti i muscoli dei femori si sciolgono e dall'inguine cola nero marciume. La pelle che circonda il ventre si rompe e ne fuoriescono le viscere; ma non cade in terra tutto ciò che è dentro il corpo, ché il tremendo veleno distrugge le membra: la persona si riduce rapidamente in una piccolissima quantità di putredine velenosa. I legami nervosi, la struttura dei fianchi, la cassa toracica, gli organi vitali più nascosti: l'infezione mette allo scoperto tutto quel che compone l'essere umano. La morte squaderna, profanandoli, tutti i meccanismi della natura: gli omeri e le forti braccia si sciolgono, colano il collo e la testa. Non con la stessa rapidità si liquefa la neve ai soffi del caldo austro o la cera si disfa al sole. È insufficiente affermare che il corpo, riarso, grondi marciume: questo può esser provocato anche dal fuoco; ma quale fiamma mai strugge così velocemente anche le ossa? Anche queste si sciolgono subito dopo la disgregazione delle midolla e non lasciano alcuna traccia della loro rapida fine. Fra tutti i flagelli di Cìnifo, a te spetta il primato nel dare la morte: tutti gli altri strappano la vita, tu anche il cadavere.
Ma ecco un tipo di morte diverso da quello che provoca il disfacimento del corpo. Un prestère rovente morde Nasìdio, agricoltore dei campi della Màrsica. Un rossore di fuoco accende il suo viso e un gonfiore, che tutto pervade, tende la sua pelle, mentre altera il suo aspetto; un'orrenda putredine - più estesa dell'intero corpo e che supera ogni limite umano - si diffonde in tutte le membra sotto l'azione potente del veleno: Nasìdio scompare ingoiato dal corpo gonfio e la corazza non riesce più a contenere il petto aumentato a dismisura. Non così l'acqua spumeggiante trabocca dalla pentola bollente né le vele si gonfiano in tal modo quando soffia il coro. Massa informe, tronco dall'incerta mole, non ha più spazio per gli arti gonfi. I compagni - non avendo il coraggio di porre sul rogo quel cadavere, che non smette di crescere - si danno alla fuga, abbandonandolo - senza osare toccarlo - agli avvoltoi ed alle fiere, che non si avvicineranno a lui, dal momento che non se ne potrebbero cibare impunemente.
Ecco però che i mostri di Libia apprestano spettacoli ancora più atroci. Una feroce emorrois piantò i denti nelle carni di Tullo, giovane di grande coraggio ed ammiratore di Catone. Come, spinto da una pressione, un concentrato di zafferano coricio suole diffondersi ugualmente da ogni punto delle statue, così da tutte le parti del corpo venne fuori, al posto del sangue, veleno rosseggiante. Le lacrime erano costituite dal sangue, che fuoriusciva abbondantemente da tutti i canali noti agli umori: ne grondano la bocca e le narici spalancate; si suda sangue; tutte le membra ne vengono inondate dalle vene ricolme: l'intero corpo è un'unica, enorme ferita.
A te, poi, o infelice Levo, il sangue si condensò a causa del serpente del Nilo e premette sui precordi: senza percepire alcun dolore per il morso, fosti colto dalle repentine tenebre della morte e scendesti, in preda ad una invincibile sonnolenza, alle ombre dei compagni. Non così velocemente appestano le bevande quei veleni, che gli indovini di Sais raccolgono, quando sono maturi, e che sono simili, a causa del loro maligno stelo (e perciò traggono in inganno), alle canne sabèe.
Ed ecco, dal tronco di un albero secco, un crudele serpente (in Africa lo chiamano giavellotto) lanciarsi ed avventarsi su Paolo, trafiggendolo attraverso le tempie e dandosi poi alla fuga. Qui il veleno non ha alcuna efficacia: la morte piomba su di lui insieme con la ferita. Si capì in quella circostanza quanto volassero lentamente i proiettili scagliati dalla fionda e con quanta scarsa forza fischiassero i dardi scitici. Che giova allo sventurato Murro aver trapassato con una lancia un basilisco? Il veleno corre rapidamente attraverso il dardo e si diffonde nella mano, che immediatamente egli, sguainata la spada, tronca di netto staccandola dal braccio: salvo, mentre la mano perisce, osserva, stando in piedi, come sarebbe morto miserevolmente. Chi potrebbe ritenere che lo scorpione possa dominare il destino e possa avere la capacità di infliggere una rapida morte? Eppure esso, minaccioso con i suoi nodi e tremendo con il pungolo eretto, attesta, con la testimonianza del cielo, la sua vittoria su Orione. Chi potrebbe temere di calpestare, o salpùga, le tue tane? Eppure anche a te le sorelle dello Stige conferiscono autorità sui loro stami.
Così né la luce del giorno né il buio della notte concedevano tranquillità a quegli infelici, sempre diffidenti della terra, sulla quale avrebbero dovuto pur riposare. Essi, infatti, non preparano giacigli con fronde messe insieme né letti con mucchi di paglia, ma, preda della morte, si rigirano sulla terra: con il calore del corpo attraggono nel freddo della notte quei gelidi flagelli e riscaldano con le membra la loro bocca, ormai inoffensiva da un pezzo, dal momento che il veleno è irrigidito dal freddo. Né essi sono in grado di conoscere la lunghezza e la fine del loro cammino, per quanto cerchino di farsi guidare dal cielo. Spesso si lamentano gridando: «Restituite, o numi, a noi sventurati la guerra che abbiamo fuggito, ridateci la Tessaglia. Per quale motivo noi, soldati che abbiamo giurato sulle spade, dobbiamo attendere, soffrendo, una morte che tarda a venire? Le dìpsadi combattono in favore di Cesare e i cerasti decidono il conflitto civile. Vorremmo recarci nella zona torrida, dove il cielo è reso rovente dai cavalli del sole, ci piacerebbe addossare a cause astronomiche la nostra morte, preferiremmo perire a causa del clima. Non ci lamentiamo di te, o Africa, né di te, o natura: avevi tolto ai popoli, dandola ai rettili, una zona piena di creature mostruose ed hai condannato un suolo, che non produce messi: non gli hai concesso agricoltori ed hai così voluto che gli uomini fossero salvi dai veleni. Noi siamo giunti nella regione abitata dai serpenti: accogli la nostra punizione, o nume, chiunque tu sia, che - mal sopportando la presenza umana in questo luogo - hai separato dal resto del mondo questa regione da una parte con la zona torrida, dall'altra con le Sirti, che non sono né terra né mare, ed hai posto nel mezzo la morte. La guerra civile procede attraverso le zone nascoste della tua regione isolata ed i soldati, venuti a conoscenza dei segreti del tuo mondo, toccano i confini della terra. Forse cose più spaventose ci attendono al varco: il fuoco del sole si unisce stridendo alle onde ed il cielo si è abbassato. Ma al di là di questa terra non ve ne sono altre, se non i tristi dominî di Giuba, che noi conosciamo soltanto per fama. Forse sentiremo la mancanza di questa terra abitata dai serpenti: essa, infatti, ha un qualche motivo di conforto, dal momento che vi è qualcosa che vive. Non richiediamo i campi della patria né l'Europa o l'Asia, che vedono soli diversi; sotto qual cielo favorevole e in quale terra propizia ti ho lasciato, o Africa! A Cirene era ancora inverno: con un breve cammino abbiamo sconvolto l'ordine naturale delle stagioni? Ci dirigiamo verso le zone del cielo opposte alle nostre, stiamo uscendo dal mondo conosciuto, lasciamo che il noto soffi alle nostre spalle: forse in questo momento Roma è agli antipodi. Chiediamo questo conforto per noi infelici: ci raggiungano i nemici e Cesare ci tenga dietro per dove fuggiamo». Così quegli uomini, avvezzi a sopportare duramente, danno la stura ai loro lamenti. Il sommo valore del condottiero li costringe a sopportare fatiche così immani: egli dorme disteso sulla nuda sabbia e provoca in ogni momento la fortuna. Egli soltanto è presente a tutti i colpi del destino: si precipita ovunque è richiesta la sua presenza e reca un grandissimo aiuto - più forte della vita stessa -, la forza di affrontare la morte: si ha ritegno di morire, lamentandosi, al suo cospetto. Qual potere avrebbe avuto su di lui una qualsiasi piaga? Egli trionfa sulle sventure nei cuori degli altri e, pur con la sua sola presenza, insegna che dolori, anche grandi, non possono nulla.
Alla fine la Fortuna, stancatasi di infliggere pericoli così grandi, fornì agli sventurati un aiuto tardivo. Un'unica gente abita quelle terre, immune dal tremendo morso dei serpenti: gli Psilli della Marmàrica. Essi posseggono formule corrispondenti all'efficacia delle erbe ed il loro sangue è in grado di non farsi corrompere da alcun tipo di veleno, anche senza dover ricorrere all'aiuto di incantesimi. La natura del luogo ha fatto sì che essi - pur vivendo a contatto con i serpenti - siano immuni dai loro morsi: ad essi giova risiedere tra i veleni: vivono in perfetto accordo con la morte. Hanno un'estrema confidenza con il sangue: non appena un loro bambino viene alla luce ed essi hanno il dubbio che la sua nascita sia dovuta ad un rapporto con persone appartenenti ad altre razze, mettono alla prova il neonato sospetto, servendosi dei serpenti apportatori di morte: come l'uccello di Giove, allorquando fa uscire dall'uovo caldo i piccoli senza piume, li volge verso Oriente - sì che quelli di loro, che sono in grado di sopportare i raggi del sole e la luce del giorno senza chiudere gli occhi, sono allevati perché imparino a volare, mentre si lasciano morire quelli che hanno ceduto al sole -, così gli Psilli son sicuri che appartiene alla loro stirpe quel neonato, che tocca i serpenti senza provarne orrore e che gioca con i rettili come con un dono gradito. Né quella gente si appaga soltanto della propria salvezza, ché anzi si prende cura degli ospiti ed è vicina ad essi, allorché si trovano ad affrontare quei flagelli mortiferi. Gli Psilli dunque, che allora tenevan dietro all'esercito romano - non appena il condottiero comandò di rizzare le tende -, per prima cosa bonificarono le sabbie, che si trovavano nell'area del vallo, con formule di incantesimo, che mettevano in fuga i serpenti. Accesero poi, tutto intorno i confini dell'accampamento, un fuoco, in cui erano mescolati vari ingredienti: in esso ardeva sibilando il sambuco, strideva il gàlbano esotico, scoppiettavano la funebre fronda della tamerice, il costo che viene dall'Oriente, la panacèa dagli effetti portentosi, la centaurèa di Tessaglia, il peucèdano, il tapso di Erice; vi si consumavano anche rami di larici, l'abròtono, che provoca un fumo insopportabile per i serpenti, e corna di cervo, che nasce in regioni lontane dall'Africa. Così i soldati poterono trascorrere una notte tranquilla. Ed ancora: se qualcuno, nel corso della giornata, veniva morso e versava in pericolo di vita, ecco allora gli interventi miracolosi di quella gente dotata di poteri, che avresti detto magici, ed una grande lotta, da parte degli Psilli, per estrarre il veleno: per prima cosa tracciavano un segno sulla parte colpita, toccandola con la saliva, che raccoglie il veleno ed impedisce il diffondersi del contagio; successivamente snocciolavano un'infinità di scongiuri con la bocca piena di bava in un borbottio senza fine, dal momento che il progredire dell'infezione nella ferita non concede un attimo di respiro ed il pericolo immediato di morte non consente di tacere neanche per un momento. Sovente la malattia, introdottasi nelle midolla divenute ormai nere, era messa in fuga dagli incantesimi; se invece il veleno era lento a udirli e, pur invitato e quasi costretto ad uscire, tardava ad eseguire l'ordine, allora lo Psillo si gettava sulle ferite pallide e succhiava con la bocca il veleno, estraeva con i denti gli umori dalle membra, tirando fuori con la sua potenza dal corpo ormai freddo il tossico mortale, che poi sputava, e dal sapore del veleno era in grado di riconoscere agevolmente di quale serpente aveva neutralizzato il morso.
I soldati romani, aiutati infine non poco da questo soccorso, avanzarono nei campi desolati, che si squadernavano dinanzi ad essi. La luna aveva oscurato per due volte la sua luce e per due volte l'aveva riaccesa ed in questo periodo aveva scorto Catone vagare tra le sabbie. Ormai la rena cominciava sempre di più a divenir dura e la Libia, ispessendosi gradualmente, iniziava a trasformarsi in terra; e già da lontano si scorgevano alberi radi ergersi ed innalzarsi misere capanne fatte di paglia. Quanta gioia per una terra migliore diede agli sventurati il fatto di trovarsi di fronte a feroci leoni! Nel tranquillo riposo della vicina Leptis trascorsero un inverno lontani dalle tempeste e dal calore del deserto.
Cesare - non appena, sazio di strage, si allontanò dall'Emazia - scrollò da sé il peso degli altri pensieri e si dedicò soltanto al genero. Tenne dietro invano alle sue orme nelle terre in cui quello era passato e, sulla traccia della fama, si diresse verso il mare, seguì lo stretto di Tracia, le onde celebri per l'amore e le torri di Ero sulla triste spiaggia, dove Elle, figlia di Nèfele, cambiò il nome ai flutti (non vi è un passaggio più angusto, che separi l'Asia dall'Europa, sebbene sia molto stretto il canale, che divide Bisanzio da Calcedònia, che produce ostriche, e la Propòntide si precipiti da una piccola foce, dando luogo al Ponto Eusino). Cesare, ammiratore della fama, visita i lidi del Sigèo, i flutti del Simoènta, il promontorio Retèo, reso celebre dal sepolcro greco, e le ombre, debitrici in larga misura ai poeti. Esamina attentamente le reliquie memorande di Troia bruciata e ricerca le grandi vestigia delle mura di Febo. Ormai una selva infeconda e querce dal tronco putrido incombono sulla reggia di Assàraco, penetrando con stanche radici nei templi degli dèi, mentre Pèrgamo è ricoperta interamente da macchie di spini: anche i ruderi sono andati in rovina. Cesare osserva le rocce di Esìone, il bosco in cui si nascosero gli amori di Anchise, l'antro nel quale si assise il giudice, il luogo da cui il fanciullo fu trascinato in cielo, la cima sulla quale la nàiade Enòne si sciolse in lacrime: non c'è neanche un sasso, che non sia collegato ad un evento memorabile. Egli oltrepassò, senza saperlo, un fiumiciattolo, che serpeggiava sulla sabbia asciutta: era lo Xanto. Senza darsene pensiero, stava ponendo il piede su un terrapieno erboso: un abitante frigio gli impedì di calpestare i Mani di Ettore. Scosse via giacevano al suolo pietre, che non conservavano per nulla un aspetto sacro: gli dice la guida: «Non vedi l'altare di Giove Ercèo?».
O travaglio grande e sacro dei poeti: tu strappi ogni cosa al fato e doni alle genti mortali l'eternità! O Cesare, non ti lasciar toccare dall'invidia per questa sacra fama, dal momento che - se è lecito alle Muse latine prometter qualcosa - i posteri leggeranno me e te, per tutto il tempo che dureranno il ricordo e la gloria del vate di Smirne: la nostra Farsaglia vivrà e nessuna generazione a venire ci condannerà alle tenebre dell'oblio.
Allorquando il condottiero ebbe saziato il suo sguardo di quella venerabile vetustà, innalzò un'ara improvvisata con zolle accumulate e versò sulla fiamma, insieme con l'incenso, voti destinati a non disperdersi: «O numi di queste ceneri, che abitate le rovine frigie, o Lari del mio Enea, che ora avete sede a Lavinio e ad Alba (sui vostri altari rifulge ancora adesso il fuoco frigio), o Pàllade, che nessun uomo può vedere, pegno memorando nei recessi più nascosti del tempio, un famoso nipote della gente Giulia reca devotamente incenso alle vostre are e vi invoca solennemente nella sede antica. Concedetemi risultati fausti per quel che mi rimane da compiere ed io vi ridarò le vostre genti: con un gradito contraccambio gli Italici restituiranno le mura ai Frigi: sorgerà così una Pèrgamo romana».
Dopo aver così parlato, fece ritorno alla flotta ed aprì tutte quante le vele ai venti favorevoli: bramoso di compensare la sosta ad Ilio, costrettovi dalla tempesta, costeggiò la potente Asia e si lasciò alle spalle Rodi, che emergeva tra le onde spumeggianti. La settima notte - mentre lo zefiro non consentiva mai che le gomene si allentassero - gli rivelò, con la luce di Faro, il lido egizio. Il sorgere del giorno, però, fece impallidire i fuochi notturni ancor prima che egli entrasse nelle acque sicure del porto. Là egli sentì la spiaggia in tumulto e voci sconvolte in un mormorio indistinto e, temendo di darsi in mano a un dominio infido, non fece attraccare le navi. Ma un servitore del sovrano gli viene incontro su un'imbarcazione e gli reca, dono nefando, il capo del Grande ricoperto da un velo fario e giustifica il delitto con mostruose parole: «O tu che hai sottomesso la terra, il più grande del popolo romano, e - cosa che ancora ignori - reso sicuro dall'uccisione del genero, il re pellèo ti ricompensa delle fatiche della guerra e del mare e ti offre l'unica cosa, che è mancata alla vittoria di Emazia. Il conflitto civile è stato concluso per te, nonostante la tua assenza: il Grande, mentre tentava di porre un rimedio al disastro tessalico, è stato stroncato dalla nostra spada. Ad un prezzo così grande, o Cesare, ti abbiamo comprato: il patto con te è stato ratificato da questo sangue. Ricevi il regno di Faro senza spargimento di sangue, ricevi il dominio sulle onde del Nilo, ricevi tutto quel che tu avresti pagato per la testa di Pompeo e reputa cliente degno del tuo accampamento colui, al quale il fato ha voluto che fosse consentito tanto contro tuo genero. E non ritenere questa impresa un merito da poco, per il fatto che siamo riusciti a compierla con facilità tramite un assassinio: si trattava di un ospite avito, che aveva restituito il potere al padre, scacciato, dell'attuale sovrano. Ma perché parlare ancora? Tu troverai una definizione adatta per un'impresa così grande, altrimenti rivolgiti all'opinione diffusa nel mondo. Se si deve parlare di un delitto, devi ammettere di avere nei nostri confronti un debito ancora più grande, dal momento che questo crimine non hai dovuto perpetrarlo tu». Dopo aver pronunciato tali parole, scoprì la testa, che era ricoperta da un velo, e la esibì tenendola tra le mani. Ormai i lineamenti del volto, così ben noti, erano alterati dal languore della morte. Alla prima occhiata Cesare non criticò il dono e non distolse gli occhi: il suo sguardo rimase fisso, fino a quando non ebbe la certezza; non appena fu sicuro del crimine e ritenne sicuro apparire un buon suocero, versò lacrime false, e, rallegrandosi in cuor suo, emise gemiti, non riuscendo a nascondere, se non con il pianto, una gioia evidente: vanificò lo spaventoso merito del sovrano, preferendo piangere sulla testa troncata del genero piuttosto che esserne debitore a Tolomeo. Egli che, con espressione impassibile, aveva calpestato i corpi dei senatori ed aveva osservato senza piangere i campi di Emazia, soltanto a te, o Grande, non ebbe l'ardire di negare i suoi gemiti. O insopportabile comportamento del destino! Tu, o Cesare, ti sei scagliato, con una guerra piena di delitti, contro costui, che avresti dovuto poi piangere? Non ti toccano i legami della parentela e non ti spingono alle lacrime il ricordo della figlia e quello del nipote: sei convinto che questo tuo comportamento possa giovare a te e ai tuoi presso le genti che adorano il nome di Pompeo! Forse sei preso dall'invidia per il tiranno e ti rammarichi che un altro abbia avuto la possibilità di ordire un complotto contro la vita del Grande, già prigioniero, e ti lamenti che sia andata perduta la vendetta del conflitto e che il genero sia stato sottratto al potere del superbo vincitore. Qualsiasi sollecitazione abbia provocato le tue lacrime, essa era ben lontana da una pietà genuina: certo hai vagato per le terre e per i mari ben intenzionato a che il genero non venisse eliminato in qualche luogo.bis O morte fortunatamente sottratta al tuo arbitrio: quale enorme misfatto la triste Fortuna ha risparmiato alla vergogna di Roma, dal momento che non ha sopportato che tu, o perfido, potessi aver compassione del Grande vivo! Ed egli ha l'ardire di trarre tutti in inganno con queste parole, mentre li convince della sua buona fede, fingendo dolore nel volto: «Sottrai al nostro sguardo, o cortigiano, il dono funesto del tuo re. Avete reso con il vostro delitto un servizio peggiore a Cesare che a Pompeo: ho perduto la sola ricompensa del conflitto civile, donare la salvezza ai vinti. Che se la sorella non fosse invisa al tiranno fario, sarei stato in grado di ricambiare al sovrano quel che ha meritato ed avrei inviato al fratello la tua testa, o Cleopatra, in contraccambio per un tale dono. Per quale motivo egli ha mosso armi, che dovevano rimanere al di fuori del nostro conflitto, e ve le ha introdotte? Dunque nei campi di Tessaglia abbiamo concesso una patente di nobiltà alla spada pellèa? Ed abbiamo consentito l'arbitrio al vostro sovrano? Non avrei sopportato che il Grande dominasse su Roma insieme con me: sopporterò che lo faccia tu, o Tolomeo? Sono stati vani i nostri sforzi di sconvolgere i popoli con il conflitto civile, se nel mondo esiste una potenza, che non sia quella di Cesare, e se una qualche terra appartiene a due padroni. Avrei allontanato le navi latine dal vostro lido: me lo impedisce la preoccupazione della fama, perché non dia l'impressione di non aver condannato Faro insanguinata, ma di averla addirittura temuta. Non credete di ingannare il vincitore: anche per me avreste apprestato una tale ospitalità sulla spiaggia; l'esito fortunato dello scontro tessalico ha fatto sì che il mio capo non fosse recato in giro come quello di Pompeo. Durante la guerra ho corso pericoli più grandi di quanto si potesse temere: avevo paura dell'esilio, delle minacce del genero, di Roma stessa: la punizione della fuga sarebbe stato in realtà Tolomeo! Dimostriamoci però indulgenti con la giovane età e condoniamo questa scelleratezza: il tiranno sappia che per un tale delitto non gli si può concedere nulla oltre il perdono. Seppellite il capo di un condottiero così grande, ma non soltanto perché la terra nasconda il vostro crimine: offrite incensi ad un sepolcro maestoso, placate il suo capo, raccogliete le ceneri disseminate sul lido e date una sola urna ai Mani dispersi. La sua ombra percepisca l'arrivo del suocero ed ascolti i suoi pietosi lamenti. Dal momento che egli ha anteposto ogni cosa a noi ed ha preferito esser debitore della vita al cliente fario, un giorno felice è stato strappato alle genti: al mondo è stata tolta la nostra concordia. I numi non hanno realizzato i miei voti, che eran quelli di abbracciarti dopo aver deposto le armi vittoriose, di pregarti di concedermi l'affetto di una volta, che tu rimanessi in vita, o Grande, e che io - soddisfatto per la ricompensa di tante fatiche - fossi uguale a te: allora, in una sincera riconciliazione, avremmo fatto in modo, io, che tu, vinto, potessi perdonare agli dèi e tu, che Roma perdonasse a me». Ma non trovò, pur con queste parole, nessuno che piangesse con lui e la folla non prestò fede ai suoi lamenti: soffocarono i singulti, mascherarono i loro sentimenti mostrando un volto lieto ed ebbero l'ardire - mentre Cesare piangeva - di contemplare gaiamente (che bene prezioso è la libertà!) il sanguinoso misfatto.

LIBRO DECIMO


Non appena Cesare - tenendo dietro al capo di Pompeo - ebbe raggiunto la terra ferma ed ebbe calpestato l'atroce spiaggia, si scontrarono la fortuna del condottiero e il destino dell'Egitto colpevole, per decidere se il dominio di Lago dovesse essere sottomesso dalle armi romane o se la spada di Menfi dovesse strappare al mondo il capo del vincitore insieme con quello del vinto. Venne in aiuto la tua ombra, o Grande, i tuoi Mani sottrassero il suocero all'uccisione, affinché il popolo romano non potesse, dopo il tuo assassinio, amare l'Egitto. Da quel lido Cesare si reca, in tutta tranquillità, nella città paretònia, che aveva seguito le sue insegne con un così atroce crimine come pegno. Egli però - dal fremito della folla, lamentante il fatto che i fasci e il diritto di Roma venissero mescolati alle proprie leggi - percepì che i cuori erano ostili e gli animi dubbiosi e che il Grande non era stato ucciso perché Cesare ne traesse vantaggio. Allora, con un'espressione che nasconde costantemente il timore, si aggira senza paura tra le sedi degli dèi e i templi di veneranda santità, testimonianti il potere di un tempo dei Macèdoni e - senza essere minimamente attratto dallo spettacolo affascinante, che si presenta al suo sguardo, costituito dall'oro, dagli arredi del culto divino, dalle mura della città - discende con bramosia nell'antro, nel quale, con uno scavo, era stata ricavata una tomba. Lì giace la folle discendenza di Filippo di Pella, fortunato ladrone, rapito dal fato, che ha vendicato il mondo: il suo corpo, che si sarebbe dovuto disperdere in tutte le parti della terra, venne deposto in un luogo sacro; la fortuna ha risparmiato i suoi Mani e la maledizione che gravava sul suo dominio è sopravvissuta fin nel futuro più lontano: se mai, infatti, il mondo dovesse riacquistare la libertà, egli sarebbe serbato ad infamia, inutile esempio per tutti, di come tante terre possano essere assoggettate ad un solo sovrano. Egli abbandonò il territorio dei Macèdoni e l'isolamento dei suoi, disprezzando Atene sottomessa dal padre; incalzato potentemente dal destino, si precipitò attraverso le genti dell'Asia, facendo strage di uomini, trapassando con la sua spada tutti i popoli, versò il sangue dei Persiani nell'Eufrate, quello degli Indi nel Gange, che erano fiumi sino a quel momento sconosciuti: flagello fatale per il mondo, fulmine, che piombava ugualmente su ogni popolazione, astro infausto per le genti. Aveva compiuto tutti i preparativi per guidare la flotta nell'Oceano, percorrendo il mare che circondava l'Asia. Non gli furono di ostacolo il clima torrido né i flutti né il deserto libico né il sirtico Ammone. Seguendo la curvatura del mondo, sarebbe giunto fin nella parte occidentale, avrebbe oltrepassato i due poli e avrebbe bevuto alla sorgente del Nilo: lo fermò l'ultimo giorno di sua vita: soltanto la natura fu in grado di porre un termine al folle sovrano: con quel medesimo egoismo, con cui aveva conquistato il mondo intero, portò via con sé il potere e - senza lasciare alcun erede per l'intero suo dominio - consegnò le città alle lotte, che le avrebbero smembrate. Morì nella sua Babilonia, temuto dai Parti. Oh, vergogna! Le genti dell'Oriente provarono allora una paura maggiore per le sarisse di quanta ne abbiano ora per i giavellotti! Per quanto noi estendiamo il nostro dominio sulle regioni nordiche ed esercitiamo il nostro potere sulle zone dello zefiro e sulle terre, che si trovano al di là dell'infuocato noto, saremo inferiori, in Oriente, al signore degli Arsàcidi. Il dominio dei Parti, letale per i Crassi, costituiva una tranquilla provincia della piccola Pella.
Ormai, proveniente dalle acque niliache di Pelùsio, il sovrano fanciullo aveva calmato le ire del suo popolo inetto e costituiva un ostaggio di pace per Cesare, che si trovava così al sicuro nella reggia pellèa, allorché - corrotti i custodi ed allentate le catene di Faro, trasportata da una piccola bireme e senza che Cesare ne sapesse nulla - giunse nel palazzo tessalico Cleopatra, vergogna dell'Egitto, ferale Erinni del Lazio, corrotta per la rovina di Roma. Quante sciagure arrecò ad Argo e nelle sedi iliache la Spartana con la sua fatale bellezza, altrettante follie provocò Cleopatra in Occidente. Ella - se è lecito affermarlo - terrorizzò il Campidoglio con il suo sistro ed assalì le insegne di Roma con l'inetta Canòpo, per essere alla testa dei trionfi di Faro, trascinandosi dietro Cesare prigioniero: sui flutti di Lèucade fu in forse se una donna - per giunta neanche romana - si stesse impadronendo del dominio del mondo. Tanto ella osò a causa di quella notte, nella quale, incestuosa Tolemàide, si unì per la prima volta con i nostri capi. Chi non scuserebbe il tuo amore folle, o Antonio, allorquando la fiamma della passione arse financo l'insensibile cuore di Cesare? Anche nel pieno del rabbioso scatenarsi del conflitto civile, persino nella reggia in cui era ancora presente l'ombra di Pompeo, l'adultero, pieno del sangue della strage di Tessaglia, pensò, pur tra le preoccupazioni, a Venere e mescolò alle armi gli illegali accoppiamenti, da cui nacque un figlio illegittimo. Oh, vergogna! Egli dimenticò Pompeo e ti diede, o Giulia, fratelli da una madre spudorata e, consentendo che il partito messo in fuga si ricostituisse agli estremi confini della Libia, spese tutto il suo tempo negli osceni amori con l'Egiziana e preferì donarle Faro, senza conseguire la vittoria per sé. Cleopatra, facendo affidamento sulla sua bellezza, si accostò a lui con espressione triste, senza piangere, adorna di un finto dolore (ma senza esagerare), con i capelli disciolti, come se li volesse strappare, e così iniziò a parlare: «Se la nobiltà ha un valore, o grandissimo Cesare, ecco che io, illustre discendente del fario Lago - cacciata in un esilio perpetuo dal soglio paterno, se la tua destra non mi reintegrerà nel posto che occupavo un tempo -, abbraccio, regina, i tuoi piedi. Tu sei per le nostre genti un astro giusto e propizio. Non sarò la prima donna a reggere le città del Nilo: Faro subisce il dominio di una regina senza discriminazione di sesso. Leggi le estreme disposizioni del padre scomparso, il quale mi ha imposto di condividere con il fratello il potere e il talamo. Lo stesso adolescente amerebbe me, che sono sua sorella, purché fosse libero: ma i suoi affetti e le sue armi sono in mano di Potino. Io non domando nulla per me del potere lasciatomi dal padre: ti chiedo solo di allontanare dalla reggia, insieme con le ferali armi di quel cortigiano, la colpa e una vergogna così grande: fa' che sia il sovrano a regnare. Di quanta gonfia superbia è pieno l'animo di quel servo, per aver mozzato il capo a Pompeo: ed egli potrebbe anche rappresentare una minaccia per te (ma i numi sventino questo pericolo!). È stato indegno del mondo e di te, o Cesare, il fatto che l'assassinio di Pompeo sia stato merito di Potino».
Ella avrebbe tentato invano di convincere Cesare, che non si sarebbe piegato alle sole sue parole: il suo viso viene in aiuto alle sue preghiere e la sua bellezza peccaminosa reca ad esse un contributo decisivo. Lei trascorse una notte abominevole con il giudice, che era riuscita a corrompere. Allorquando la pace venne ristabilita dal condottiero e fu comprata con una gran quantità di doni, un banchetto tenne dietro alla soddisfazione per un tale successo e Cleopatra disvelò, in una grande confusione, i suoi lussi, che non erano ancora giunti nel mondo romano. Quel luogo somigliava ad un tempio, che un'età più corrotta a stento saprebbe innalzare: i soffitti a cassettoni erano carichi di ricchezze e le travi erano ricoperte d'oro massiccio.
Il palazzo rifulgeva, rivestito non di lastre di marmo tagliate ed applicate sulle pareti: queste ultime erano invece costituite da blocchi di agata e di porfido, mentre tutti i pavimenti dell'intera reggia erano formati da onice. L'ebano mareòtico non copriva le grandi porte, ma costituiva, come suole la rozza quercia, il sostegno, e non l'ornamento, del palazzo. Gli atrî erano rivestiti di avorio, sui battenti erano stati posti gusci di testuggine indiana, dipinti a mano e punteggiati da una gran quantità di smeraldi. I letti risplendevano di gemme e le suppellettili di fulvo diaspro; brillavano i tappeti, la maggior parte dei quali, cotti per lungo tempo nella porpora di Tiro, avevano assorbito la tinta in diverse immersioni, alcuni ricamati in oro, altri in un colore rosso acceso, come suggerisce la tecnica egiziana di ricamare e ordire le stoffe. Ed ancora: ecco una folla di ancelle e un intero popolo di servi. Alcuni si riusciva a distinguerli dal colore della pelle, altri dall'età: un gruppo portava i capelli acconciati come i libici, un altro li aveva tanto biondi, che Cesare era costretto ad ammettere di non aver mai visto, nelle zone del Reno, capigliature così accese; un altro ancora, appartenente ad una razza bruciata dal sole, aveva i capelli ricci, che non cadevano, perciò, mai sulla fronte. E c'erano anche sventurati fanciulli, castrati e privati dei loro attributi virili: di fronte ad essi v'erano giovani più maturi, a cui, purtuttavia, solo una leggera peluria ricopriva le guance.
In questa sala i reali e Cesare - ben più potente di essi - si posero a giacere per il banchetto. Cleopatra, cui un trucco esagerato appesantiva la fatale bellezza - non contenta del proprio potere né del fatto di aver dovuto sposare il fratello -, coperta di perle del mar Rosso, ostentava le sue gioie sul collo e sulle chiome, nonostante tutto quell'apparato le riuscisse gravoso. Il bianco seno brillava attraverso un velo di Sidone, la cui trama, tessuta fittamente sul telaio dei Seri, era stata poi allargata ed estesa dall'ago egiziano. Ed allora tavole ricavate dalle selve di Atlante vennero sistemate su sostegni d'avorio: Cesare non ne aveva viste di simili neanche dopo la sconfitta di Giuba. O furore, reso cieco e stolto dall'ambizione: squadernare le proprie ricchezze a chi aveva guidato il conflitto civile ed eccitare il cuore di un ospite armato! Ammettiamo pure che in quel momento non fosse stato presente Cesare - pronto, in una guerra sacrilega, ad impadronirsi, con la strage e la rovina, delle ricchezze del mondo - e supponiamo che al posto suo, assisi a mensa, ci fossero stati i condottieri più autorevoli del buon tempo antico e povero, i Fabrizî e gli austeri Curii o il console strappato al suo campo in Etruria, mentre stava arando e senza che avesse avuto il tempo di cambiarsi d'abito: anche loro avrebbero bramato recare in patria un bottino siffatto.
Posero in suppellettili d'oro tutti i nutrimenti che offrono la terra, l'aria, il mare, il Nilo e tutto ciò che un folle lusso - spinto da una vuota brama, e non dallo stimolo della fame - aveva ricercato in tutto il mondo. Imbandirono una gran quantità di uccelli e di animali, che gli Egiziani adorano come divinità; vasi di cristallo versarono sulle mani acqua del Nilo; grandi coppe, ricavate da gemme, vennero riempite di vino, che non proveniva però da uva mareòtica: Mèroe lo aveva fatto invecchiare in pochi anni, costringendo quel nettare nobile e generoso a spumeggiare come il Falerno. Posero sul capo corone intrecciate con fiori di nardo e con rose che non appassivano in breve tempo; versarono abbondantemente sulle chiome, già unte, cinnamòmo - che conservava, pur in un clima straniero, il suo profumo non ancora svanito - e l'amòmo, che proveniva, appena tagliato, da un campo vicino. Cesare impara a dilapidare le ricchezze di un mondo saccheggiato, si vergogna di aver combattuto contro il genero povero e brama un motivo di guerra, per poter attaccare le genti farie.
Dopo che l'appetito saziato pose fine al banchetto e al vino, Cesare inizia a conversare (terminerà a notte fonda) e si rivolge con espressioni gentili ad Acòreo, il quale, indossando un abito di lino, è sdraiato nel posto più alto: «O vecchio, consacrato alla tua religione e che stai a cuore ai numi (come attesta la tua età), parlami dei primordi del popolo fario, della posizione di questa terra, dei costumi della sua gente, dei riti e dei diversi aspetti, in cui si manifestano le divinità: chiariscimi tutto quel che è scolpito negli antichi penetrali e svelami gli dèi che desiderano manifestarsi agli uomini. Se i tuoi antenati consentirono che il cecròpio Platone apprendesse i loro segreti, quale ospite mai ci fu più degno di me di venirne a conoscenza e quale mente fu più ampia della mia per contenere i misteri del mondo? Non c'è dubbio che io fui spinto verso le città egiziane dalla fama del genero, ma è anche vero che lo fui dalla vostra: anche in mezzo ai combattimenti ho sempre trovato tempo per dedicarmi agli spazi celesti e stellati e a tutto il mondo superno: il mio anno non sarà sorpassato dai fasti di Eudosso. Ma - con un entusiasmo così grande e con un così irrefrenabile amore per la verità, che ardono nel mio cuore - non c'è nulla che io vorrei conoscere maggiormente dei motivi - rimasti sconosciuti per un così gran numero di secoli - che provocano le piene del Nilo, e della questione della sua fonte ignota: se mi fornirai la sicura speranza di vedere le sorgenti del fiume, io abbandonerò il conflitto civile».
Aveva terminato di parlare. A lui così iniziò a dire il venerabile Acòreo: «È consentito che io, o Cesare, ti sveli i misteri dei grandi avi, fino a questo momento ignoti ai popoli profani. Altri ritengano pure un atto di devozione non parlare di prodigi così stupefacenti: io penso che i celesti gradiscano che questa loro opera sia chiara a tutti e che alle genti divengano palesi le sacre leggi. Agli astri - che soli frenano il movimento del cielo, muovendosi in senso contrario - sono stati assegnati dalla prima legge del mondo poteri diversi. Il sole divide il tempo in periodi, fa succedere la notte al giorno, costringe con la potenza dei suoi raggi gli astri a fermarsi e blocca il loro procedere errante; la luna mescola con le sue fasi il mare con la terra; a Saturno obbediscono i freddi ghiacci e le zone della neve; Marte domina sui venti e sui fulmini imprevedibili; Giove regola la zona temperata e l'aria sgombra da nubi; Venere feconda possiede i semi di tutte le cose; il Cillènio è il signore del mare sconfinato. Allorché egli raggiunge quella zona del cielo, in cui si uniscono le costellazioni del Leone e del Cancro, in cui Sirio avventa rapidi fuochi ed il circolo, che scandisce l'avvicendamento delle stagioni, raggiunge il Capricorno e il Cancro, al quale sono sottoposte le sconosciute sorgenti del Nilo - nel momento in cui il dominatore dei flutti le colpisce dall'alto con il suo calore ardente -, allora il fiume - come l'Oceano aumenta il suo livello al crescere della luna -, a causa dell'aprirsi della sua sorgente, irrompe obbedendo alla sollecitazione e non argina la sua crescita prima che la notte abbia ripreso le ore al sole, che gliele ha sottratte nel periodo estivo.
È irragionevole la credenza degli antichi che allo straripamento del Nilo contribuiscano le nevi degli Etiopi. Da quei monti non si scorge l'Orsa né vi soffia il borea: lo testimoniano il colore della pelle di quella gente bruciata dal sole e gli austri, carichi di vapori ardenti. Aggiungi il fatto che tutte le fonti dei fiumi - che lo sciogliersi dei ghiacci rende impetuose - si ingrossano all'inizio della primavera, non appena le nevi iniziano a liquefarsi: il Nilo, invece, non diviene più irruente prima che il Cane lo colpisca con i suoi raggi né rientra nel suo alveo prima che, sotto la signoria della Bilancia, il giorno abbia la stessa durata della notte. E non osserva le leggi degli altri corsi d'acqua né si gonfia nel periodo invernale, allorché le sue onde, a causa della lontananza del sole, non hanno alcun dovere da adempiere: comandato dalla natura di temperare il clima insopportabile, straripa nel pieno dell'estate nella zona torrida e - affinché il calore estremo non riduca in polvere la terra - esso viene in aiuto del mondo e, opponendosi alle ardenti fauci del Leone, si ingrossa e non è sordo alle preghiere della sua Siène, che si trova sotto gli ardenti raggi del Cancro, né ritira le sue acque dai campi, fino a quando il sole non modifichi, andando verso l'autunno, l'inclinazione dei suoi raggi e Mèroe non allunghi le sue ombre. Chi sarebbe in grado di spiegare le cause di tutto ciò? La natura madre ha voluto che il fiume scorresse in tal maniera e che questo fosse necessario al mondo. Una spiegazione inattendibile sostiene, fin dall'antichità, che la causa di queste inondazioni siano gli zefiri, che spirano in periodi fissi, mantenendo per molti giorni il potere nell'aria, o perché spingerebbero le nubi dalla zona occidentale del cielo al di là del noto e costringerebbero i nembi a gravare sul fiume, o perché colpirebbero con frequenza le acque del Nilo - là dove il fiume con le sue bocche si apre molti varchi nel lido - e le obbligherebbero, con onde contrarie, ad arrestarsi: esso allora, per il rallentamento del flusso e per l'ostacolo del mare che gli si oppone, strariperebbe nelle campagne. C'è chi ritiene che vi siano condotti sotterranei e vaste aperture nella cava struttura della terra: attraverso questi passaggi l'acqua scorrerebbe silenziosamente nelle profondità, richiamata dai freddi del nord in direzione dell'equatore, allorché il sole grava su Mèroe e la terra, bruciata, raccoglie le acque in quel luogo; il Gange e il Po vi sono trascinati attraverso le nascoste vie del mondo: il Nilo allora, vomitando tutti i corsi d'acqua come da un'unica sorgente, non riesce a portarli fino al mare con il suo solo corso. È fama che il Nilo irrompa con violenza a causa del lontano traboccare dell'Oceano, che circonda tutte le terre, e che i flutti salati diventino più dolci a causa del lungo tratto da percorrere. Si crede inoltre che il sole e il cielo si nutrano delle acque dell'Oceano: il sole, allorquando ha toccato le braccia del caldo Cancro, strappa al mare, sollevandola verso l'alto, una quantità d'acqua più grande di quella che potrebbe contenere l'aria: quest'acqua confluisce poi nel Nilo durante il periodo notturno. Io però - ammesso che abbia il diritto di sciogliere un problema così importante - ritengo, o Cesare, che alcuni fiumi, molto tempo dopo che il mondo si era formato, sgorgarono dalle sorgenti della terra, per un suo sommovimento, senza che il dio vi ponesse mano, mentre altri fiumi hanno iniziato ad esistere, allorché il mondo fu messo insieme, nella sua totalità, dalla volontà divina, e sono questi i corsi d'acqua che il creatore ed artefice delle cose governa con precise norme.
Da questa brama, che tu hai, di conoscere il Nilo, o Romano, furon presi anche i sovrani di Faro, di Persia e di Macedonia; nessun periodo della storia fu esente dalla volontà di tramandarne la conoscenza ai posteri: ma fino ad oggi ha vinto la natura con il suo segreto. Il più grande dei re, Alessandro, che si adora a Menfi, volle togliere al Nilo il suo mistero ed inviò ai limiti estremi dell'Etiopia uomini selezionati, che vennero bloccati dalla regione infuocata del clima torrido: essi scorsero il Nilo, là dove le sue acque erano già calde. Sesostri giunse fino all'estremità occidentale e costrinse i re sottomessi a spingere i carri egiziani: ciononostante egli poté bere ai vostri fiumi, al Rodano e al Po, ma non alle sorgenti del Nilo. Il folle Cambise si spinse verso Oriente fino alle genti dalla lunga vita, ma rimase senza cibo e, dopo essersi nutrito dei corpi dei suoi, fece ritorno senza essere riuscito a conoscere le tue sorgenti, o Nilo. Neanche il mito bugiardo ha osato parlare delle tue fonti. In qualsiasi luogo ti si vede, si indaga su di te, ma nessun popolo ha potuto vantarsi con gioia di essersi impadronito completamente di questo fiume.
Svelerò, o Nilo, il tuo corso, limitatamente a quel che la divinità, che conserva il mistero delle tue acque, mi ha consentito di conoscere. Tu vieni fuori nella zona dell'equatore ed hai l'ardire di indirizzare il tuo flusso verso il torrido tropico del Cancro; procedi in linea retta verso il nord ed il centro di Boòte; dopo compi una deviazione verso Occidente e poi verso Oriente, dividendoti equamente tra i popoli d'Arabia e le arene di Libia; i primi a scorgerti sono i Seri, che ricercano anch'essi la tua origine, e, dopo che si sono gettati in te altri corsi d'acqua, fluisci nei campi dell'Etiopia ed il mondo non sa da quale terra tu sgorghi. La natura non ha rivelato a nessuno il segreto della tua fonte e non ha consentito alle genti di vederti piccolo, o Nilo: essa ha tenuto lontano i luoghi riposti in cui nasci ed ha preferito che gli uomini si stupissero per le tue sorgenti e che non le potessero conoscere. A te è riservato il diritto di aumentare il tuo livello nei solstizi, di crescere a causa di inverni di altre regioni e di avere straripamenti tutti particolari; inoltre, soltanto a te è consentito di scorrere in ambedue gli emisferi: in uno di essi si ricerca la sorgente, nell'altro si studia il tuo sbocco al mare. Per un ampio tratto i tuoi flutti, divisi, circondano Mèroe, piena di neri coloni e che abbonda di selve di ebano: essa però - per quanto una gran quantità di alberi allunghino le loro fronde - non riesce ad attenuare con l'ombra il calore estivo: tanto perpendicolarmente una linea immaginaria la unisce al Leone. Successivamente costeggi le regioni desertiche battute dal sole senza subire perdite d'acqua e scorri a lungo tra le aride sabbie, ora raccogliendo tutte le tue onde in un unico alveo, ora traboccando e superando l'argine, che ti cede con facilità. Nuovamente il lento corso richiama le acque suddivise in vari rami, là dove File, baluardo del dominio del Faraone, separa i campi egiziani dai popoli d'Arabia; successivamente attraversi, con un molle fluire, le zone desertiche, là dove si sviluppano i nostri rapporti commerciali con il Mar Rosso. Chi mai potrebbe ritenere che tu, o Nilo, che scorri così lentamente, ti stia apprestando a sprigionare la violenza dei tuoi flutti furibondi? Ma - allorché la tua corrente incontra una frana e produce cateratte precipitose e tu ti sdegni di imbatterti in rocce, capaci di opporsi alle tue onde, che in nessun luogo hanno mai incontrato ostacoli -, allora con la tua schiuma tocchi le stelle: ogni cosa è sconvolta dai flutti e, mentre la zona rocciosa rimbomba cupamente, il fiume spumeggiante biancheggia con le sue onde costrette a divenire violente. Più avanti percepisce per prima il colpo e il fragore quell'isola sacra, che la nostra veneranda tradizione chiama Àbaton, e così anche gli scogli, che furono definiti vene del fiume, dal momento che danno inequivocabilmente l'allarme, non appena tu cominci a gonfiarti. Successivamente la natura circonda con montagne il tuo corso vagante ed esse ti negano la Libia, o Nilo, che riprendi a scorrere, con la riacquistata tranquillità, in una profonda valle tra i monti. Menfi è la prima città, che ti dona pianure e aperte campagne: essa fa in modo che le sponde del fiume non pongano un limite alla crescita delle acque».
Conversando in tutta tranquillità avevano trascorso la metà della notte. Ma il folle animo di Potino, già una volta insozzato da un crimine sacrilego, pensava ad un altro delitto: egli è convinto che, dopo l'assassinio di Pompeo, nulla possa costituire più un'infamia: i Mani del Grande hanno preso sede nel suo cuore e le dèe della vendetta lo spingono a nuove, spaventose atrocità. Ritiene, anche adesso, vili mani degne di questo sangue, con il quale la Fortuna si appresta a macchiare i senatori vinti: mancò poco che il fio del conflitto civile e la vendetta del Senato venissero affidati ad un servo. Allontana, o fato, l'inaudito crimine consistente nel fatto che il capo di Cesare venga mozzato senza che Bruto sia presente: il castigo del tiranno romano è un delitto egiziano e l'esempio è vanificato. L'audace trama contro il fato un piano destinato a fallire: organizza l'uccisione di Cesare non con un inganno occulto, ma provoca il condottiero, che non ha mai subito sconfitte, in campo aperto. Un così grande ardire gli infondono i delitti, che egli impartisce l'ordine di colpire il collo di Cesare e che il suocero venga ricongiunto a te, o Grande; ordina altresì a servi fedeli di riferire queste parole ad Achilla, suo compagno nell'assassinio di Pompeo e che l'inetto fanciullo aveva posto al comando supremo dell'esercito, conferendogli - senza conservare per sé alcuna possibilità di intervento - il potere di vita e di morte su tutti, se stesso compreso: «Tu», gli fa dire, «sdraiato su morbidi letti, dormi pure sonni lunghi e profondi: Cleopatra si è impossessata del palazzo e Faro è stata non soltanto tradita, ma addirittura donata. Solo tu ti trattieni dall'infilarti di corsa nel letto della sovrana? L'empia sorella si unisce con vincolo coniugale al fratello ed ha già sposato il condottiero latino: passando da un marito all'altro, è divenuta padrona dell'Egitto e si sta impossessando di Roma. Cleopatra è stata in grado di vincere le resistenze di un vecchio con le sue arti magiche: e tu ti affidi, o sventurato, ad un fanciullo, al quale sarà sufficiente - in un'unica notte d'amore - aver sopportato un solo amplesso con animo incestuoso ed aver goduto un amore osceno - giustificandolo come affetto fraterno - per farle, con ogni probabilità, dono della mia e della tua testa, ciascuna per un bacio: se la sorella gli sarà piaciuta, lo sconteremo con la croce e con il rogo. Nessuno può darci aiuto: da una parte il re marito, dall'altro l'adultero Cesare; e, senza dubbio, noi siamo colpevoli (dobbiamo ammetterlo!) agli occhi di un giudice così crudele: chi di noi due Cleopatra non ritiene per certo un mascalzone, per il fatto che l'abbiam fatta rimanere casta? Ti scongiuro: per il delitto, che abbiamo compiuto insieme ed i cui vantaggi stiamo perdendo, per il patto consacrato dal sangue del Grande, assistimi: attizza la guerra con una rivolta improvvisa, precìpitati; spezziamo con la morte le faci notturne e sgozziamo nel suo stesso letto la crudele regina con qualsiasi uomo vi si trovi. Né ci trattenga dall'audace impresa la fortuna del condottiero italico, che da essa è stato portato alle stelle ed imposto al mondo: egli divide la sua gloria con noi, la morte di Pompeo rende eccelsi anche noi. Osserva la spiaggia, che ci infonde fiducia per il nostro delitto, domanda alle onde, sporche di sangue, che cosa siamo in grado di compiere, guarda la tomba di Pompeo, un pugno di polvere, che non riesce a coprirne il corpo per intero: il Grande era simile a colui, di cui oggi hai paura. Non apparteniamo (ma che importa?) a una nobile schiatta, non provochiamo sommovimenti in popoli potenti o in regni: siamo pronti per un delitto, cui ci chiama un grande destino: la Fortuna spinge quei grandi nelle nostre mani. Ecco una seconda vittima, ancor più nobile della prima: plachiamo con questa ulteriore uccisione le genti italiche: la gola trafitta di Cesare può arrecare il vantaggio consistente nel fatto che il popolo romano ami gli assassini di Pompeo. Perché mai abbiamo timore di nomi così importanti e dell'esercito del condottiero? Dal momento che egli, in questo istante, ne è privo, non sarà da considerarsi un semplice soldato? Questa notte porrà fine al conflitto civile, fornirà alle genti vittime sacrificali e farà scendere tra le ombre quell'uomo, il cui capo è ancora dovuto al mondo. Scagliatevi con ferocia alla gola di Cesare: la gioventù di Lago sia di aiuto al sovrano, quella romana a se stessa. Non indugiare più; lo troverai pieno di cibo, gonfio di vino, pronto all'amore: osa: i numi daranno a te la possibilità di realizzare tanti voti dei Catoni e dei Bruti».
Achilla si affrettò ad ottemperare alle esortazioni nefande e, secondo la consuetudine, non impartì un segnale rumoroso per far marciare i soldati, il cui movimento non venne perciò rivelato da suoni di tromba: fece trasportare in fretta e furia tutti gli strumenti della guerra crudele. La maggior parte della truppa era costituita da plebe latina; ma una così profonda dimenticanza aveva invaso gli animi, corrompendoli con i costumi stranieri, che essi - che era indegno che obbedissero al tiranno fario - marciavano sotto il comando di un servo e agli ordini di un cortigiano. Non c'è nessuna lealtà e nessuna devozione negli uomini che militano in quell'accampamento: si tratta di mercenari: dove c'è la paga, lì è il diritto: guadagnano pochi soldi e sono disposti a sgozzare Cesare non per sé. Oh, sacrilegio! Dove mai il misero destino del nostro impero non ha trovato occasioni per la guerra civile? La schiera, che è riuscita a scampare al disastro tessalico, infuria, secondo il costume romano, sulle sponde del Nilo. Che cosa la casa di Lago avrebbe ardito ulteriormente, se ti avesse accolto, o Grande? Senza dubbio ogni destra dà ai numi quel che deve e a nessun Romano è consentito tirarsi indietro: gli dèi hanno deciso che il corpo del Lazio debba essere lacerato così atrocemente. Le genti non prendono le parti del suocero o del genero: un cortigiano conduce il conflitto civile, Achilla difende gli interessi di Roma e, se il destino non allontanasse le mani dal sangue di Cesare, prevarrebbe questo partito.
Ecco che Potino ed Achilla sopraggiungono rapidamente. La reggia, nel colmo del banchetto, si apriva ad ogni tipo di insidia ed il sangue di Cesare poteva esser versato fra le tazze regali e la sua testa piombare sulla mensa: essi però paventano la confusione e il tumulto di uno scontro notturno e temono che, nella strage in cui tutti si troverebbero coinvolti, un colpo vibrato a caso si abbatta su di te, o Tolomeo. È così grande la fiducia nel ferro: non precipitano il delitto, disprezzano la possibilità di realizzare l'opera: a quei servi sembra un danno rimediabile procrastinare il momento di sgozzare Cesare. Egli è risparmiato perché paghi il fio alla luce del giorno: al condottiero viene donata una sola notte e Cesare, la cui morte è rimandata al sorgere del sole, rimane in vita per concessione di Potino.
E già Lucìfero occhieggia dal monte Casio, facendo sorgere il giorno sull'Egitto, che si riscalda ai primi raggi del sole, allorché dalle mura si vede in lontananza una schiera, che non è divisa in manipoli e che non procede in ordine sparso, ma avanza in schieramento compatto, come quando si affronta il nemico: si precipitano in avanti per colpire e per sostenere l'urto da vicino. Cesare allora, diffidando delle mura della città, si ripara dietro le porte della reggia - che viene sbarrata -, sopportando l'onta di doversi nascondere. Accerchiato com'è, non può utililizzare l'intero palazzo: concentra i suoi in un ristretto spazio della reggia. È preso dall'ira e dal timore: teme gli attacchi e si sdegna, al contempo, di provar paura. Nello stesso modo si agita - in una stretta gabbia - una nobile fiera, che spezza i suoi denti mordendo rabbiosamente le sbarre; non altrimenti il tuo fuoco, o Mulcìbero, si scatenerebbe in tutta la sua violenza nelle grotte di Sicilia, se un ostacolo bloccasse la sommità dell'Etna. L'audace, che - or non è molto -, sotto le rocce del tessalico Emo, non ebbe timore - pur trovandosi in una posizione, che non lasciava adito a speranza - dei personaggi più autorevoli d'Italia né dell'esercito del Senato e di Pompeo che lo comandava, votandosi ad un fato ingiusto, ora è pieno di paura a causa di un intrigo ordito da servi, che lo sommerge di dardi all'interno di un palazzo. Egli - cui non avrebbe fatto del male un Alano, uno Scita, un Mauro, che si diverte a trafiggere gli ospiti, ed al quale non è sufficiente l'intera estensione del mondo romano, e riterrebbe piccolo un dominio, i cui punti estremi fossero costituiti dalla tiria Càdice e dall'India - ora, come un fanciullo indifeso o come una donna, la cui città è stata conquistata, ricerca i luoghi più sicuri della casa: egli affida la speranza della salvezza alle porte sbarrate ed erra, indeciso e vagante, per gli atrî. Si porta - è vero - dietro il re, senza lasciarlo mai, per fargli scontare il fio, pronto a vendicare, con una gradita offerta sacrificale, l'eventuale tentativo di uccidere Cesare ed a gettare - qualora non fossero sufficienti i dardi e il fuoco - la tua testa, o Tolomeo, contro i tuoi servi. Così è fama che la barbara della Còlchide, paventando che il padre si vendicasse della fuga e del regno, lo attendesse tenendo pronta la spada e la testa del fratello. Purtuttavia la situazione disperata costringe il condottiero a cercare una possibilità di pace: viene perciò inviato un cortigiano del re, che - in rappresentanza del sovrano assente - riesca a far dire ai servi bramosi di strage, chi li ha spinti alla guerra. Ma non riuscirono a prevalere né i diritti umani né le sacre leggi dei popoli: l'inviato del sovrano e negoziatore della pace dimostra con quale criterio quelle leggi vadano ad aggiungersi alla lista dei tuoi misfatti, o Egitto, reo di tanti orrori. La terra di Tessaglia e gli estesi dominî di Giuba, il Ponto e le empie insegne di Fàrnace, la zona bagnata dal gelido Ibèro e la barbara Sirti non ebbero l'ardire di perpetrare delitti tanto atroci, così come è riuscita a fare questa terra enerve e corrotta.
La guerra incalza da ogni parte: una pioggia di dardi si abbatte sulla reggia scuotendola. Non c'è un ariete per sfondare le porte con un sol colpo e per abbattere il palazzo, non c'è nessuna macchina bellica né si ricorre al fuoco: giovani corrono alla cieca, senza organizzazione e in gruppi separati, tutt'intorno alla grande reggia. In nessun luogo l'esercito va all'assalto in schieramento compatto: lo impedisce il fato, e la Fortuna si erge - a mo' di baluardo - a difesa del palazzo.
Si tenta di far impeto contro la reggia anche con le navi, là dove il lussuoso palazzo si avanza audacemente con le sue sponde in mezzo alle acque. Ma dappertutto v'è Cesare a rintuzzare gli assalti: egli tiene lontani, ora con le armi ora con il fuoco, quelli che tentano di sbarcare e, pur assediato, si comporta come un assediante (così grandi sono la sua decisione e la sua tenacia). Comanda di scagliare fiaccole grondanti pece sulle vele delle imbarcazioni accostate: così il fuoco si appicca rapidamente alle corde e alle tavole, su cui era stata spalmata cera in abbondanza: nello stesso momento bruciano i banchi dei rematori e le sartie sulla sommità degli alberi. Ed ormai la flotta semiarsa cola a picco, mentre armi e combattenti annaspano in acqua. E le fiamme non divampano soltanto sulle navi, ma anche le case vicine al mare vengono avvolte da lunghe lingue di fuoco, mentre i venti aggravano l'incendio: le fiamme, spinte dal turbinio del noto, si diffondono con rapidità sui tetti con la medesima velocità di una meteora, che precipita giù dal cielo, lasciandosi dietro una scia luminosa: arde soltanto aria, dal momento che niente la alimenta. Questo disastro richiamò la folla degli assedianti dalla reggia sbarrata al soccorso della città. E Cesare non spreca dormendo il momento opportuno, che gli si presenta con l'incendio, ché anzi, nel buio della notte, si precipita sulle navi e - come ha sempre approfittato felicemente di veloci movimenti tattici - così, anche adesso, colta la circostanza favorevole, si impadronisce di Faro, sbarramento delle acque egiziane. Essa una volta, al tempo in cui Pròteo vaticinava, era un'isola nel mezzo del mare: ora, invece, è vicinissima alle mura pellèe. Cesare utilizzò Faro, ricavandone un doppio vantaggio per la guerra: tolse ai nemici il passaggio verso il mare aperto e consentì ai rinforzi la possibilità di intervenire senza intoppi. Subito dopo non rimandò ulteriormente il castigo da infliggere a Potino; ma non lo fece uccidere - trascinato dall'ira, che pur avrebbe dovuto provare per lui - crocifisso o arso sul rogo o sbranato dalle belve: oh vergogna! La testa, troncata male dalla spada, penzolò: quello morì della medesima morte del Grande!
Arsìnoe, riuscita a sganciarsi grazie ad un abile sotterfugio escogitato dallo schiavo Ganimede, si porta presso i nemici di Cesare: ella, come discendente di Lago, prende - in assenza del sovrano - il comando dell'accampamento e fa uccidere, infliggendogli una giusta punizione, il tremendo servo del tiranno, Achilla: ecco una seconda vittima consacrata ai tuoi Mani, o Grande! La Fortuna, però, non ritiene che ciò sia sufficiente: la vendetta è lungi dall'essersi completamente realizzata. Non basterebbero lo stesso tiranno e tutta la reggia di Lago a pagare il fio: fino a quando le spade romane non avranno trapassato le viscere di Cesare, il Grande rimarrà invendicato. Ma l'uccisione del capo della rivolta non smorzò il furore: infatti, spinti da Ganimede, essi dettero nuovamente piglio alle armi e sostennero, con esito favorevole, numerosi combattimenti. Quell'unico giorno, che rappresentò per Cesare il pericolo più grande, fu consacrato ad una fama perenne.
Nel ristretto spazio del passaggio del palazzo, in cui si accalcano i combattenti in armi, mentre si appresta a spostare lo scontro sulle sue navi abbandonate, sul condottiero latino piomba di colpo tutto il terrore della guerra: da un lato le navi, fitte, indugiano presso la riva, dall'altro i fanti attaccano alle spalle. Nessuna via di salvezza né possibilità di fuga o di dar prova del proprio valore: a stento si può sperare una morte dignitosa. Allora Cesare si sarebbe dovuto vincere senza sbaragliarne l'esercito, senza accumulare stragi su stragi, addirittura senza spargimento di sangue. Egli - prigioniero della natura del luogo ed incerto se paventare, in dubbio, la morte o se desiderarla - scorge nel fitto delle schiere Sceva, che aveva già guadagnato una fama perenne nei tuoi campi, o Epidamno, là dove da solo, dopo la sfondamento della recinzione, aveva sbarrato la via al Grande, che già si apprestava a porre il suo piede sulle mura.

Esempio



  


  1. leo

    scansione metrica dei primi versi di bellum civile di lucano