La figura di Petronio

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Testo

LA FIGURA DI PETRONIO
Non abbiamo notizie dagli antichi dell’autore del Satyricon, opera che nei manoscritti viene attribuita a un Petronius arbiter; con tutta probabilità l’autore va identificato col Petronio di cui ci dà uno splendido ritratto Tacito negli Annales. Esponente di spicco della corte di Nerone, egli viene descritto da Tacito come un raffinato gaudente dedito alla vita notturna e agli ozi, colto e di modi squisiti, libero da pregiudizi e da convenzioni sociali, tanto esperto dei piaceri della vita che, entrato nelle grazie di Nerone, divenne arbitro e maestro di buon gusto e di raffinatezza per il grossolano principe.
Petronio ricoprì tuttavia anche cariche di prestigio: fu proconsole in Bitinia e poi console, ma in seguito, accusato di essere coinvolto in una congiura e caduto in disgrazia presso il princeps, nel 66 d.C. scelse il suicidio e si fece tagliare le vene. Volle morire da signore e da esteta come era vissuto, polemizzando implicitamente con quelle pose eroiche e filosofiche che erano care agli esponenti dell’opposizione stoica; anziché discutere di filosofia e dell’immortalità dell’anima, assaporò fino all’ultimo le gioie più lievi della vita, e come ultima elegante beffa, nei codicilli al testamento, che inviò al principe, non incluse le consuete adulazioni, ma il racconto delle dissolutezze di Nerone e della sua corte.
IL SATYRICON
L’opera principale di Petronio è il Satyricon, di cui ci è giunta un’ampia raccolta di estratti dai libri XV e XVI; non sappiamo quale fosse il contenuto dei libri precedenti, e neppure se il XVI fosse l’ultimo. Il titolo non ci deve far pensare a un intento di satira moralistica dei costumi; esso si riallaccia piuttosto alle Saturae Menippeae di Varrone, essendo l’opera un misto di prosa e di versi, intessuta di argomenti e stili diversi, il tutto animato da uno spirito giocoso e beffardo. Ma almeno per la parte a noi pervenuta, il Satyricon, più che di una menippea, ha la forma di un romanzo, in cui sono inserite novelle e digressioni di carattere letterario.
Il romanzo (il termine, sconosciuto agli antichi, è stato applicato dai moderni alla narrativa popolare greco-romana) era un genere letterario assai diffuso nella letteratura greca dell’età ellenistico-romana che si basava generalmente su di una vicenda d’amore contrastata e univa l’elemento sentimentale con l’elemento avventuroso. Il Satyricon si presenta come una parodia del romanzo d’amore: i protagonisti della trama sono costituiti da una strana coppia omosessuale formata da Encolpio, uno studente che tira avanti servendosi di truffe e raggiri ai danni degli altri, e dal suo amante Gitone, adolescente capriccioso e astuto. Alla coppia si unisce prima un altro studente grossolano e violento, Ascilto, poi un vecchio e corrotto poetastro, Eumolpo, che ha la mania di far versi nelle più impensate circostanze. I protagonisti attraversano molte avventure a prevalente sfondo erotico; l’azione si svolge dapprima nei bassifondi di una città greca dell’Italia meridionale (forse Napoli), poi a Crotone nel Bruzzio.
L’intenzione parodistica è visibile, oltre che nella scelta di una coppia maschile, nell’enfasi melodrammatica delle scene sentimentali, con tradimenti, riconciliazioni, effusioni patetiche o disperate e tentativi di suicidio, che ovviamente si rivelano per una finzione ironica, e nel complicato e paradossale intrecciarsi delle avventure, ove non mancano naufragi, processi e colpi di scena di vario genere, che erano d’obbligo nel romanzo popolare. Fra i temi parodistici rientra l’ira del dio Priapo, che perseguita Encolpio per una sua colpa sacrilega condannandolo all’impotenza, parodia evidente dell’Odissea, dove Ulisse è perseguitato dall’ira di Poseidone.
Il valore del Satyricon, tuttavia, non consiste semplicemente nello spirito e nello scanzonato umorismo con cui viene svolta la parodia del romanzo erotico; sarebbe errato giudicare l’opera di Petronio un puro divertimento letterario. Il Satyricon – e in particolare la cosiddetta Cena di Trimalcione – risulta infatti caratterizzato da un preciso intento realistico, ossia la volontà di riprodurre in tutti i suoi aspetti la realtà quotidiana dei ceti medio-bassi del suo tempo.
Se la rappresentazione schietta della realtà appare quindi come lo scopo primario e consapevole dell’opera, il realismo petroniano non va comunque inteso in senso moderno e all’autore non si può e non si deve chiedere ciò che egli e i suoi tempi non potevano offrire al lettore, ossia un’analisi criticamente fondata della società coeva.
Una tale indagine sociale, condotta con serietà d’intenti, rimane infatti estranea non solo al romanzo di Petronio, ma a tutta l’arte antica, che prevedeva, sulla base della regola della separazione degli stili, che la vita degli umili e le situazioni “basse” potessero essere rappresentate solo in modi caricaturali e grotteschi, nelle forme appunto del “realismo comico”. Ciò spiega il carattere grottesco del romanzo petroniano, il quale, anche quando affronta temi o argomenti di per sé seri – come la riflessione sulla morte, dominante nell’opera – è indotto a mantenere ironico il tono della narrazione.
Al tempo stesso l’atteggiamento di Petronio si configura anche come un “realismo del distacco”, nel senso che, pur di fronte a un mondo in cui ogni valore morale appare perduto, l’autore rifiuta la via dell’invettiva sdegnata e sceglie invece di assumere un atteggiamento di apparente “sospensione del giudizio” e anzi di apparente ironia, in un testo che pare limitarsi al raffinato e un po’ snobistico divertissement per lettori colti e smaliziati.
L’originalità del realismo petroniano si manifesta soprattutto nel lungo racconto della Cena di Trimalcione, che occupa quasi metà della parte a noi pervenuta. Il racconto è dominato dalla figura dell’anfitrione, un liberto di origine asiatica che si è fatto una fortuna colossale, possiede uno stuolo innumerevole di servi, che egli tiranneggia con fare autoritario e paternalistico, ed investe il suo denaro in ogni sorta di aziende ed imprese capitalistiche. Egli non rinnega le sue origini, è tutto orgoglioso di essersi fatto dal nulla, e lo va continuamente ripetendo. Secondo lui l’uomo vale per il denaro che possiede, e il suo maggior piacere è quello di ostentare la sua ricchezza di fronte ai commensali allibiti: ogni atto dell’interminabile cena si svolge a suon di musica, con una successione pirotecnica di trovate e di artifici gastronomici, e con una serie di spettacoli che allietano la mensa. Come tutti gli arricchiti, secondo una lunga tradizione letteraria, egli è un esempio insigne di cattivo gusto. Fra le sue manifestazioni di grossolanità rientra la pretesa di ostentare una certa cultura letteraria: egli disprezza la filosofia, e si vanta di non essere mai andato a lezione da un filosofo, ma in compenso ha tre biblioteche, e inserisce nel suo discorso continue citazioni letterarie e mitologiche, che ovviamente sono sempre sbagliate e rivelano una grande confusione di idee; inoltre ha una grande passione per i giochi di parole e per gli indovinelli, e si compiace di battute di spirito pesanti e di sottolineature volgari. Il crescere dell’ebbrezza favorisce lo scatenarsi del fondo grossolano dell’animo di Trimalcione, che rispetta sempre meno le regole dell’etichetta. La Cena termina con la grottesca e macabra scena del finto funerale del padrone di casa, al suono di una rumorosa marcia funebre: Trimalcione è ossessionato dal pensiero di lasciare dopo di sé una degna fama della sua strepitosa ricchezza, rispecchiando in questo la mentalità dei nuovi ricchi, attestata da iscrizioni e rilievi sepolcrali dell’epoca, i quali consideravano il monumento funebre come importante segno del prestigio sociale acquistato.
Accanto a Trimalcione nella Cena vi è una folla sorprendente di tipi tratti dall’ambiente della plebe e dell’umile borghesia, per lo più liberti, i quali parlano un linguaggio che non ha l’eguale in tutta la letteratura antica, un gergo misto di parole greche, di metafore popolaresche, di modi di dire delle taverne e dei mercati. Strettamente collegata con la sbalorditiva forza espressiva di questo linguaggio è la capacità di cogliere i modi di pensare e di comunicare della gente banale e meschina, con discorsi convenzionali e assurdi che riescono a caratterizzare tipi e atteggiamenti eternamente ricorrenti fra gli uomini di fronte al fluire della vita quotidiana.
In questo variegato e amorale microcosmo i principi etici appaiono sovvertiti: a dominare su tutto è infatti la celebrazione della “roba”, del denaro e della ricchezza assunta come nuova misura di valore, con cinico pragmatismo. E, accanto ai temi del denaro, del cibo e del sesso, si affaccia a più riprese quello della morte, ossessivamente presente nei discorsi dei liberti e di Trimalcione stesso, consapevole di non avere eredi e del fatto che, alla sua morte, tutte le ricchezze accumulate si esauriranno con lui.
Il romanzo quindi, pur nella sua veste comica, rivela a tratti un senso amaro della realtà, una latente nostalgia per un passato ormai irrimediabilmente perduto e, se non un’aperta critica morale, certo una presentazione della materia che si fa in certi casi denuncia implicita.
Anche le tecniche narrative tendono a trasmettere l’impressione di un mondo chiuso e senza scampo, per esempio attraverso la continua alternanza di spazi aperti e spazi chiusi. Il tema stesso del viaggio degenera, trasformandosi in un vano vagare in un mondo privo di valori.
La volontà realistica dell’autore investe anche il livello linguistico e stilistico dell’opera, in cui Petronio dà prova di una varietà di registri tonali assai notevole, variandoli in relazione al livello socio-culturale dei diversi personaggi.

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