Cornelio Nepote

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Testo

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Praefatio
Prefazione
1 Non dubito fore plerosque, Attice, qui hoc genus scripturae leve et non satis dignum summorum virorum personis iudicent, cum relatum legent, quis musicam docuerit Epaminondam, aut in eius virtutibus commemorari saltasse eum commode scienterque tibiis cantasse.
2 Sed hi erunt fere, qui expertes litterarum Graecarum nihil rectum, nisi quod ipsorum moribus conveniat, putabunt. 3 Hi si didicerint non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari, non admirabuntur nos in Graiorum virtutibus exponendis mores eorum secutos. 4 Neque enim Cimoni fuit turpe, Atheniensium summo viro, sororem germanam habere in matrimonio, quippe cum cives eius eodem uterentur instituto. At id quidem nostris moribus nefas habetur. Laudi in Creta ducitur adulescentulis quam plurimos habuisse amatores. Nulla Lacedaemoni vidua tam est nobilis, quae non ad cenam eat mercede conducta. 5 Magnis in laudibus tota fere fuit Graecia victorem Olympiae citari; in scaenam vero prodire ac populo esse spectaculo nemini in eisdem gentibus fuit turpitudini. Quae omnia apud nos partim infamia, partim humilia atque ab honestate remota ponuntur. 6 Contra ea pleraque nostris moribus sunt decora, quae apud illos turpia putantur.
Quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium?
Aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur? 7 Quod multo fit aliter in Graecia. Nam neque in convivium adhibetur nisi propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis appellatur; quo nemo accedit nisi propinqua cognatione coniunctus.
8 Sed hic plura persequi cum magnitudo voluminis prohibet tum festinatio, ut ea explicem, quae exorsus sum.
Quare ad propositum veniemus et in hoc exponemus libro de vita excellentium imperatorum.
Non dubito che ci saranno parecchi, Attico, che giudichino questo genere di scrittura leggero e non abbastanza degno per le personalità dei sommi uomini, quando leggeranno (esser stato riferito), chi abbia insegnato musica ad Epaminonda, o tra le sue qualità ricordare che ha ballato elegantemente e che ha suonato magistralmente il flauto. Ma questi saranno per lo più coloro che inesperti di letteratura greca penseranno giusto nulla, se non quello che corrisponda ai loro costumi. Costoro se non avranno imparato che le stesse cose non sono buone e cattive per tutti, ma che tutto è giudicato secondo le tradizioni degli antenati, non si meraviglieranno che noi nell’esporre le qualità dei Greci abbiamo seguito i loro costumi. Infatti non fu brutto per Cimone, sommo uomo degli Ateniesi, avere in matrimonio la sorella germana, poiché i suoi concittadini usavano la stessa istituzione. In Creta si ritiene di onore per i giovani aver avuto tantissimi amanti. A Sparta nessuna vedova è tanto nobile che non esca ad un pranzo se non pagata con denaro. In grandi onori per tutta la Grecia fu essere proclamati vincitore ad Olimpia; ma uscire in scena ed essere di spettacolo al popolo nelle stesse popolazioni per nessuno fu di disonore. Ma tutte queste cose presso di noi in parte sono ritenute infamia, in parte basse e lontane dall’onore. Al contrario per lo più quelle cose sono decorose per le nostre tradizioni, che presso di loro sono considerate disdicevoli. Chi infatti dei Romani si vergogna portare la moglie ad un banchetto? O la madre di famiglia di chi non detiene il primo posto della casa e non si intrattiene in pubblico? Ma questo accade diversamente in Grecia. Infatti né si introduce ad un banchetto se non di parenti, e non siede se non nella parte interna della casa, che si chiama gineceo; dove nessuno accede se non congiunto da stretta parentela. Ma qui proseguire di più lo impedisce sia la grandezza del volume sia la premura di spiegare le cose che ho iniziato. Perciò verremo alla cosa proposta ed in questo libro esporremo sulla vita di eccellenti comandanti.
Nam neque in convivium adhibetur nisi propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis appellatur
Grecismo.
MILTHIADES
MILZIADE
1. De Milthiadis virtutibus et Apollinis consulto.
1. Qualità di Milziade e responso di Apollo.
1 Miltiades, Cimonis filius, Atheniensis, cum et antiquitate generis et gloria maiorum et sua modestia unus omnium maxime floreret eaque esset aetate, ut non iam solum de eo bene sperare, sed etiam confidere cives possent sui talem eum futurum, qualem cognitum iudicarunt, accidit, ut Athenienses Chersonesum colonos vellent mittere. 2 Cuius generis cum magnus numerus esset et multi eius demigrationis peterent societatem, ex his delecti Delphos deliberatum missi sunt, qui consulerent Apollinem, quo potissimum duce uterentur.
Namque tum Thraeces eas regiones tenebant, cum quibus armis erat dimicandum. 3 His consulentibus nominatim Pythia praecepit, ut Miltiadem imperatorem sibi sumerent: id si fecissent, incepta prospera futura. 4 Hoc oraculi responso Miltiades cum delecta manu classe Chersonesum profectus cum accessisset Lemnum et incolas eius insulae sub potestatem redigere vellet Atheniensium, 5 idque Lemnii sua sponte facerent, postulasset, illi irridentes responderunt tum id se facturos, cum ille domo navibus proficiscens vento aquilone venisset Lemnum. Hic enim ventus ab septentrionibus oriens adversum tenet Athenis proficiscentibus. 6 Miltiades morandi tempus non habens cursum direxit, quo tendebat, pervenitque Chersonesum.
Poiché Milziade, figlio di Cimone, ateniese, sia per antichità di stirpe e per fama di antenati e per la sua moderazione unico fra tutti era fiorente e fosse di quella età che non solo i suoi concittadini speravano bene di lui, ma confidavano che sarebbe stato tale, quale lo avevano giudicato, conosciutolo, accadde che gli Ateniesi volessero inviare coloni nel Chersoneso.
Di quella categoria essendocene un gran numero e molti chiedevano l’associazione di quella emigrazione, (alcuni) scelti tra questi furoni inviati a Delfi per deliberare, perché consultassero Apollo, di quale guida anzitutto si servissero.
Infatti allora i Traci detenevano quelle regioni, e con essi bisognava combattere con le armi. Ad essi che consultavano la Pizia nominativamente ordinò si prendessero Milziade come comandante: se avessero fatto ciò, le inziative sarebbero state propizie. Con tale responso dell’oracolo Milziade con un manipolo scelto partito per il Chersoneso con una flotta, essendo arrivato a Lemno e volendo sottomettere al potere degli Ateniesi i suoi abitanti, e avendo chiesto che i Lemnii lo facessero spontaneamente , essi deridendo risposero che l’avrebbero fatto allora, quando egli partendo da casa con le navi fosse giunto a Lemno col vento aquilone. Questo vento infatti sorgendo da settentrione tiene la direzione contraria per chi parte da Atene. Milziade non avendo tempo di fermarsi diresse la rotta, dove era diretto, e giunse in Chersoneso.
2. De Lemno ceterisque insulis captis.
2. Occupazione di Lemno e delle altre isole.
Ibi brevi tempore barbarum copiis disiectis tota regione, quam petierat, potitus, loca castellis
idonea communiit, multitudinem, quam secum duxerat, in agris collocavit crebrisque excursionibus locupletavit. 2 Neque minus in ea re prudentia quam felicitate adiutus est. Nam cum virtute militum devicisset hostium exercitus, summa aequitate res constituit atque ipse ibidem manere decrevit. 3 Erat enim inter eos dignitate regia, quamvis carebat nomine, neque id magis imperio quam iustitia consecutus. Neque eo setius Atheniensibus, a quibus erat profectus, officia praestabat. Quibus rebus fiebat, ut non minus eorum voluntate perpetuo imperium obtineret, qui miserant, quam illorum, cum quibus erat profectus. 4 Chersoneso tali modo constituta Lemnum revertitur et ex pacto postulat, ut sibi urbem tradant. Illi enim dixerant, cum vento borea domo profectus eo pervenisset, sese dedituros: se autem domum Chersonesi habere. 5 Cares, qui tum Lemnum incolebant, etsi praeter opinionem res ceciderat, tamen non dicto, sed secunda fortuna adversariorum capti resistere ausi non sunt atque ex insula demigrarunt. Pari felicitate ceteras insulas, quae Cyclades nominantur, sub Atheniensium redegit potestatem.
Ivi in breve tempo, sbaragliate le truppe dei barbari, impadronitosi di tutta la regione che aveva assalito, munì i luoghi opportuni di fortezze, sistemò la moltitudine che aveva condotto con sé nei campi e la arricchì con continue incursioni. Né in quella realtà fu meno aiutato dalla saggezza che dalla fortuna. Infatti avendo vinto col valore dei soldati gli eserciti dei nemici, con somma equità organizzò le cose e lui stesso decise di rimanere lì. Era tra di loro con autorità regale, anche se mancava del titolo né la conseguì più col potere che con la giustizia. E per nulla di meno agli Ateniesi, da cui era partito, offriva i servizi. Con queste cose accadeva che non otteneva di meno il potere continuamente per volere di quelli che l’avevano inviato, che di coloro, con cui era partito. Organizzato in tal modo il Chersoneso, ritorna e Lemno e secondo il patto chiede, che gli consegnino la città. Essi infatti avevano detto che, qualora fosse giunto là col vento borea partito dalla patria, essi si sarebbero consegnati: egli infatti aveva la patria a Chersoneso. I Cari, che allora abitavano Lemno, anche se la cosa era accaduta al di fuori della loro aspettativa, tuttavia conquistati non dalla parola, ma dalla fortuna propizia degli avversari, non osarono resistere ed emigrarono dall’isola. Con uguale successo ridusse sotto il potere degli Ateniesi le altre città che si chiamano Cicladi.
3. De Darii societate cum Graecis.
3. Alleanza di Dario coi Greci.
Eisdem temporibus Persarum rex Darius ex Asia in Europam exercitu traiecto Scythis bellum inferre decrevit. Pontem fecit in Histro flumine, qua copias traduceret. Eius pontis, dum ipse abesset, custodes reliquit principes, quos secum ex Ionia et Aeolide duxerat; quibus singulis illarum urbium perpetua dederat imperia. 2 Sic enim facillime putavit se Graeca lingua loquentes, qui Asiam incolerent, sub sua retenturum potestate, si amicis suis oppida tuenda tradidisset, quibus se oppresso nulla spes salutis relinqueretur. In hoc fuit tum numero Miltiades, cui illa custodia crederetur. 3 Hic, cum crebri afferrent nuntii male rem gerere Darium premique a Scythis, Miltiades hortatus est pontis custodes, ne a fortuna datam occasionem liberandae Graeciae dimitterent. 4 Nam si cum iis copiis, quas secum transportarat, interiisset Darius, non solum Europam fore tutam, sed etiam eos, qui Asiam incolerent Graeci genere, liberos a Persarum futuros dominatione et periculo; id facile effici posse. Ponte enim rescisso regem vel hostium ferro vel inopia paucis diebus interiturum.
5 Ad hoc consilium cum plerique accederent, Histiaeus Milesius, ne res conficeretur, obstitit, dicens: non idem ipsis, qui summas imperii tenerent, expedire et multitudini, quod Darii regno ipsorum niteretur dominatio; quo exstincto ipsos potestate expulsos civibus suis poenas daturos. Itaque adeo se abhorrere a ceterorum consilio, ut nihil putet ipsis utilius quam confirmari regnum Persarum.
6 Huius cum sententiam plurimi essent secuti, Miltiades, non dubitans tam multis consciis ad regis aures consilia sua perventura, Chersonesum reliquit ac rursus Athenas demigravit.
Cuius ratio etsi non valuit, tamen magnopere est laudanda, cum amicior omnium libertati quam suae fuerit dominationi.
Negli stessi tempi il re dei Persiani Dario, trasferito l’esercito in Europa dall’Asia decise di dichiarare guerra agli Sciti. Fece un ponte sul fiume Istro, dove far passare le truppe. Di quel ponte, fin che lui fosse assente, lasciò come custodi i capi che dalla Ionia e dalla Eolide aveva portato con sé; e ad ognuno di essi aveva dato i poteri perpetui di quelle città. Così infatti ritenne che molto facilmente egli avrebbe tenuto sotto il suo potere i parlanti la lingua greca, che abitavano l’Asia, se avesse consegnato le piazzeforti da difendere a suoi amici, ai quali, ucciso lui, non sarebbe rimasta alcuna speranza di salvezza. In questo numero ci fu allora Milziade, cui era affidato quella custodia. Qui, poiché continui messaggi riferivano che Dario conduceva male la cosa ed era incalzato dagli Sciti, Milziade esortò i custodi del ponte perché non lasciassero perdere l’occasione data dalla fortuna di liberare la Grecia. Infatti se Dario fosse morto con le truppe che aveva portato con sé, non solo l’Europa sarebbe stata sicura, ma anche quelli che, greci di stirpe che abitavano l’Asia, sarebbero stati liberi dal dominio e dal pericolo dei Persiani; ciò poteva esser fatto facilmente. Infatti tagliato il ponte il re sarebbe morto entro pochi giorni o per il ferro dei nemici e per stento. Poiché molti si avvicinavano a questo piano Istieo di Mileto si oppose perché la cosa non si facesse, dicendo: che non conveniva allo stesso modo a loro stessi, che detenevano il complesso del potere, ed alla moltitudine, perché la sovranità loro si appoggiava al potere di Dario; ma che, estinto lui, essi stessi cacciati dal potere avrebbero pagato il fio ai loro concittadini. E così lui è talmente contrario al piano degli altri, che nulla crede più utile per loro che il regno dei Persiani fosse rafforzato. Poiché parecchi avevano seguito il parere di costui, Milziade, non dubitando che, essendo molti consapevoli, i suoi piani sarebbero giunti alle orecchie del re, abbandonò il Chersoneso e di nuovo emigrò ad Atene. Anche se il suo disegno non ebbe vigore, tuttavia dev’essere lodato molto, essendo stato più amico della libertà di tutti che del suo potere.
Sic enim facillime putavit se Graeca lingua loquentes, qui Asiam incolerent, sub sua retenturum potestate.
- In hoc fuit tum numero Miltiades, cui illa custodia crederetur.
Attrazione: Relative al cong.
4. De Darii consilio Graeciae occupandae.
5. Progetto di Dario di occupare la Grecia
Darius autem cum ex Europa in Asiam redisset, hortantibus amicis, ut Graeciam redigeret in suam potestatem, classem quingentarum navium comparavit eique Datim praefecit et Artaphernem hisque ducenta peditum, decem milia equitum dedit, causam interserens, se hostem esse Atheniensibus, quod eorum auxilio Iones Sardis expugnassent suaque praesidia interfecissent. 2 Illi praefecti regii classe ad Euboeam appulsa celeriter Eretriam ceperunt omnesque eius gentis cives abreptos in Asiam ad regem miserunt. Inde ad Atticam accesserunt ac suas copias in campum Marathona deduxerunt. Is est ab oppido circiter milia passuum decem. 3 Hoc tumultu Athenienses tam propinquo tamque magno permoti auxilium usquam nisi a Lacedaemoniis petiverunt Phidippumque, cursorem eius generis, qui hemerodromoe vocantur Lacedaemonem miserunt, ut nuntiaret, quam celeri opus esset auxilio. 4 Domi autem creant decem praetores, qui exercitui praeessent, in eis Miltiadem. Inter quos magna fuit contentio, utrum moenibus se defenderent an obviam irent hostibus acieque decernerent. 5 Unus Miltiades maxime nitebatur, ut primo quoque tempore castra fierent: id si factum esset, et civibus animum accessurum, cum viderent de eorum virtute non desperari, et hostes eadem re fore tardiores, si animadverterent auderi adversus se tam exiguis copiis dimicari.
Dario essendo ritornato dall’Europa in Asia, esortandolo gli amici, perché riducesse in suo potere la Grecia, allestì una flotta di cinquecento navi e vi mise a capo Dati e Artaferne e a questi diede duecento (migliaia) di fanti, dieci migliaia di cavalieri, adducendo come causa, che lui era nemico degli Ateniesi, perché gli Ioni col loro aiuto avevano espugnato Sardi ed avevano ucciso le sue guarnigioni. Quei comandanti regi, approdata la flotta in Eubea, celermente presero Eretria e tutti suoi cittadini catturati li spedirono in Asia dal re.
Di lì giunsero in Attica e portarono le loro truppe nella pianura di Maratona. Questa è lontano circa dieci mila passi dalla città. Gli Ateniesi turbati da questo assalto così vicino e così grande non chiesero aiuto in nessun luogo se non ai Lacedemoni e mandarono a Sparta Fidippo, corriere di quella categoria che sono chiamati emerodromi, per riferire di quanto celere aiuto ci fosse bisogno.
In patria eleggono dieci comandanti, che presiedessero l’esercito, tra essi Milziade. Ma tra essi ci fu una grande disputa, se difendersi con le mura o andare contro i nemici e combattere in campo aperto. Unico Milziade insisteva soprattutto anche dal primo momento si facessero accampamenti: se ciò fosse stato fatto, da una parte ai cittadini sarebbe ritornato il coraggio, vedendo che non si disperava della loro salvezza, dall’altra i nemici per la stessa cosa sarebbero stati più lenti, se si accorgevano che si osava combattere contro di loro con così esigue truppe.
Phidippumque, cursorem eius generis, qui hemerodromoe vocantur Lacedaemonem miserunt
Grecismo e concordanza a senso
5. De Atheniensium victoria.
5. La vittoria degli Ateniesi.
Hoc in tempore nulla civitas Atheniensibus auxilio fuit praeter Plataeenses. Ea mille misit militum. Itaque horum adventu decem milia armatorum completa sunt; quae manus mirabili flagrabat pugnandi cupiditate. 2 Quo factum est, ut plus quam collegae Miltiades valeret. 3 Eius ergo auctoritate impulsi Athenienses copias ex urbe eduxerunt locoque idoneo castra fecerunt.
Dein postero die sub montis radicibus acie e regione instructa non apertissuma - namque
arbores multis locis erant rarae - proelium commiserunt hoc consilio, ut et montium altitudine tegerentur et arborum tractu equitatus hostium impediretur, ne multitudine clauderentur. 4 Datis etsi non aequum locum videbat suis, tamen fretus numero copiarum suarum confligere cupiebat eoque magis, quod, priusquam Lacedaemonii subsidio venirent, dimicare utile arbitrabatur. Itaque in aciem peditum centum, equitum decem milia produxit proeliumque commisit. 5 In quo tanto plus virtute valuerunt Athenienses, ut decemplicem numerum hostium profligarint adeoque perterruerint, ut Persae non castra, sed naves petierint. Qua pugna nihil adhuc exstitit nobilius. Nulla enim umquam tam exigua manus tantas opes prostravit.
In questo tempo nessuna città fu di aiuto agli Ateniesi se non i Plateesi. Essa mandò mille soldati.
E così con l’arrivo di questi furono completate dieci migliaia di armati; ma questo manipolo bruciava per il desiderio di combattere. Perciò accadde che Milziade valesse più dei colleghi. Spinti dunque dalla sua autorevolezza gli Ateniesi fecero uscire le truppe dalla città e fecero gli accampamenti in luogo adatto.
Poi il giorno dopo ai piedi del monte, schierato l’esercito in una regione non molto aperta – infatti in molti luoghi c’erano rari alberi – attaccarono lo scontro con questo piano, e di essere protetti dall’altezza dei monti e che la cavalleria dei nemici fosse bloccata dal tratto di alberi, per non essere chiusi dalla moltitudine.
Dati anche se vedeva la posizione non adatta per i suoi, tuttavia confidando nel numero delle sue truppe desiderava attaccare e tanto più, perché, prima che gli Spartani giungessero in aiuto, credeva utile combattere.
E così fece avanzare in campo cento (migliaia) di fanti, dieci mila cavalieri ed attaccò lo scontro.
Ma in esso gli Ateniesi tanto più valsero per valore, che sbaragliarono un numero di nemici decuplo e tanto li atterrirono, che i persiano non si diressero agli accampamenti, ma alle navi. E di questa battaglia nulla ancora ci fu di più nobile. Infatti mai nessun manipolo così esiguo atterrò forze così grandi.
6. De raris tenuibusque honoribus quondam datis.
6. Onorificenze rare e modeste concesse un tempo.
Cuius victoriae non alienum videtur quale praemium Miltiadi sit tributum, docere, quo
facilius intellegi possit eandem omnium civitatum esse naturam. 2 Ut enim populi Romani honores quondam fuerunt rari et tenues ob eamque causam gloriosi, nunc autem effusi atque obsoleti, sic olim apud Athenienses fuisse reperimus. 3 Namque huic Miltiadi, qui Athenas totamque Graeciam liberarat, talis honos tributus est, in porticu, quae Poecile vocatur, cum pugna depingeretur Marathonia, ut in decem praetorum numero prima eius imago poneretur isque hortaretur milites proeliumque committeret. 4 Idem ille populus posteaquam maius imperium est nactus et largitione magistratuum corruptus est, trecentas statuas Demetrio Phalereo decrevit.
Ma di questa vittoria non sembra estraneo mostrare quale premio sia stato attribuito a Milziade, perché si possa più facilmente capire che la natura di tutte le città è la stessa. Come infatti un tempo le onorificenze del popolo romano furono rare e modeste e per tale motivo gloriose, ora invece diffuse e scadute, così scopriamo una volta presso gli Ateniesi. Infatti a questo Milziade, che aveva liberato Atene etutta la Grecia, fu attribuito un onore tale, nel Portico, che si chiama Pecile, essendo dipinta la battaglia di Maratona, che nel numero dei dieci comandanti si ponesse la sua immagine per prima ed egli esortasse i soldati ed attaccasse battaglia.
Quello stesso popolo dopo che ebbe raggiunto un maggiore dominio e fu corrotto dalla prodigalità dei magistrati, decretò trecento statue a Demetrio falerio.
7. De Milthiadis morte in publicis vinculis.
7. Morte di Milziade nelle prigioni di stato.
Post hoc proelium classem LXX navium Athenienses eidem Miltiadi dederunt, ut insulas,
quae barbaros adiuverant, bello persequeretur. Quo in imperio plerasque ad officium redire
coegit, nonnullas vi expugnavit. 2 Ex his Parum insulam opibus elatam cum oratione reconciliare
non posset, copias e navibus eduxit, urbem operibus clausit omnique commeatu privavit; dein
vineis ac testudinibus constitutis propius muros accessit. 3 Cum iam in eo esset, ut oppido
potiretur, procul in continenti lucus, qui ex insula conspiciebatur, nescio quo casu nocturno
tempore incensus est. Cuius flamma ut ab oppidanis et oppugnatoribus est visa, utrisque venit in opinionem signum a classiariis regis datum. 4 Quo factum est, ut et Parii a deditione
deterrerentur, et Miltiades, timens, ne classis regia adventaret, incensis operibus, quae statuerat,
cum totidem navibus, atque erat profectus, Athenas magna cum offensione civium suorum
rediret. 5 Accusatus ergo est proditionis, quod, cum Parum expugnare posset, a rege corruptus
infectis rebus discessisset. Eo tempore aeger erat vulneribus, quae in oppugnando oppido
acceperat. Itaque, quoniam ipse pro se dicere non posset, verba fecit frater eius Stesagoras. 6
Causa cognita capitis absolutus pecunia multatus est, eaque lis quinquaginta talentis aestimata
est, quantus in classem sumptus factus erat. Hanc pecuniam quod solvere in praesentia non poterat, in vincula publica coniectus est ibique diem obiit supremum.
Dopo questa battaglia gli Ateniesi diedero una flotta di settanta navi allo stesso Milziade, perché colpisse con una guerra le isole, che avevano aiutato i barbari. Ed in questa carica costrinse parecchie a ritornare al dovere, alcune le espugnò con la forza. Tra queste non potendo riconciliare con la parola l’isola di Paro insuperbita per le ricchezze, fece scendere truppe dalle navi, chiuse la città con fortificazioni e la privò di ogni commercio; poi costruite vinee e testuggini giunse più vicino alle mura. Essendo ormai sul punto di impadronirsi della città, lontano sul continente un bosco, che si vedeva dall’isola, non so per quale casualità fu incendiato in un momento della notte. La cui fiamma come fu vista dai cittadini e dagli assedianti, ad entrambi venne in sospetto che fosse un segnale dato dai marinai del re.
Perciò accadde che i Parii furono distolti dalla paura della resa e Milziade temendo che giungesse la flotta regia, incendiate le fortificazioni, che aveva ordinato, con altrettante navi di come era partito, ritornò ad Atene con grande malcontento dei suoi concittadini.
Fu accusato di tradimento, perché, potendo espugnare Paro, si era ritirato dall’impresa incompiuta corrotto dal re. In quel tempo era malato per le ferite, che aveva ricevuto nell’assediare la città. E così poiché egli stesso non poteva parlare in sua difesa, suo fratello Stesagora fece il discorso.
Svolto il processo, assolto per la pena capitale fu multato in denaro, e quella causa fu valutata per cinquanta talenti, quanta spesa era stata fatta per la flotta. Poiché al momento non poteva pagare questo denaro, fu gettato nelle pubbliche prigioni e qui affrontò il giorno supremo (della morte).
8. De tyrannidis timore apud Athenienses.
8. Paura della tirannide presso gli Ateniesi.
Hic etsi crimine Pario est accusatus, tamen alia causa fuit damnationis. Namque Athenienses propter Pisistrati tyrannidem, quae paucis annis ante fuerat, omnium civium suorum potentiam extimescebant. 2 Miltiades, multum in imperiis magnisque versatus, non videbatur posse esse privatus, praesertim cum consuetudine ad imperii cupiditatem trahi videretur. 3 Nam Chersonesi omnes illos, quos habitarat, annos perpetuam obtinuerat dominationem tyrannusque fuerat appellatus, sed iustus. Non erat enim vi consecutus, sed suorum voluntate, eamque potestatem bonitate retinebat. Omnes autem et dicuntur et habentur tyranni, qui potestate sunt perpetua in ea civitate, quae libertate usa est. 4 Sed in Miltiade erat cum summa humanitas tum mira communitas, ut nemo tam humilis esset, cui non ad eum aditus pateret, magna auctoritas apud omnes civitates, nobile nomen, laus rei militaris maxima. Haec populus respiciens maluit illum innoxium plecti quam se diutius esse in timore.
Allora anche se fu accusato della colpa di Paro, tuttavia altra fu la causa della condanna. Infatti gli ateniesi per la tirannide di Pisistrato, che c’era stata pochi anni pria, temevano la potenza di tutti i loro concittadini.
Milziade, vissuto molto in cariche importanti, sembrava non poter essere un privato (cittadino), soprattutto sembrando essere attirato alla brama di potere per abitudine. Infatti nel Chersoneso per tutti quegli anni, che vi aveva abitato, aveva detenuto un continuo potere ed era stato chiamato tiranno, ma giusto.
Non aveva otenuto con la forza, ma per volere dei suoi, e manteneva quel potere con onestà. Infatti sono detti e ritenuti tiranni, quelli che sono con potere continuo in quella città, che si avvale della libertà. Ma Milziade era sia di somma amabilità che di straordinaria disponibilità, tanto che nessuno era tanto umile, cui non fosse aperto l’accesso verso di lui, la grande autorevolezza presso tutte le città, il nome famoso, la gloria massima dell’arte militare. Guardando queste cose il popolo preferì che lui innocente fosse colpito che essere troppo a lungo nel timore.
THEMISTOCLES
1. De Themistoclis vitiis emendatis virtutibusque celebratis.
1. Difetti di Temistocle corretti e qualità celebrate.
Themistocles, Neocli filius, Atheniensis. Huius vitia ineuntis adulescentiae magnis sunt
emendata virtutibus, adeo ut anteferatur huic nemo, pauci pares putentur. 2 Sed ab initio est
ordiendus. Pater eius Neocles generosus fuit. Is uxorem Acarnanam civem duxit, ex qua natus
est Themistocles. Qui cum minus esset probatus parentibus, quod et liberius vivebat et rem
familiarem neglegebat, a patre exheredatus est. 3 Quae contumelia non fregit eum, sed erexit.
Nam cum iudicasset sine summa industria non posse eam exstingui, totum se dedidit rei
publicae. Diligentius amicis famaeque serviens multum in iudiciis privatis versabatur, saepe in
contionem populi prodibat; nulla res maior sine eo gerebatur; celeriter, quae opus erant,
reperiebat, facile eadem oratione explicabat. 4 Neque minus in rebus gerendis promptus quam
excogitandis erat, quod et de instantibus, ut ait Thucydides, verissime indicabat et de futuris
callidissime coniciebat. Quo factum est, ut brevi tempore illustraretur.
Temistocle, figlio di Neocle, ateniese. Di costui i difetti della iniziante giovinezza furono corretti dalle grandi qualità, tanto che nessuno sia preferito a costui, pochi siano considerati pari. Ma dev’essere cominciato dall’inizio. Suo padre Neocle fu nobile. Egli prese in moglie una cittadina acarnana, dalla quale nacque Temistocle. Ma poiché questi era per nulla approvato dai genitori, poiché da una parte viveva troppo libertinamente e trascurava il patrimonio famigliare, fu diseredato dal padre. Ma questa offesa non lo spezzò, ma lo drizzò. Infatti avendo pensato che essa non poteva essere estinta se non col massimo impegno, si dedicò tutto allo stato. Servendo più diligentemente gli amici e la fama molto trattava nei processi privati, spesso veniva avanti nell’assemblea del popolo; nessuna cosa abbastanza importante era trattata senza di lui; velocemente, quelle cose che occorrevano, le trovava, facilmente con la oratoria stessa le spiegava. E non era meno pronto nelle cose da fare che da pensare, perché sulle presenti, come dice Tucidide, molto veracemente giudicava e sulle future molto astutamente congetturava. Perciò accadde, che in breve tempo diventava illustre.
2. De muri lignei divino responso.
2. Il responso divino circa le mura di legno.
Primus autem gradus fuit capessendae rei publicae bello Corcyraeo; ad quod gerendum
praetor a populo factus non solum praesenti bello, sed etiam reliquo tempore ferociorem reddidit civitatem. 2 Nam cum pecunia publica, quae ex metallis redibat, largitione magistratuum
quotannis interiret, ille persuasit populo, ut ea pecunia classis centum navium aedificaretur. 3
Qua celeriter effecta primum Corcyraeos fregit, deinde maritimos praedones consectando mare
tutum reddidit. In quo cum divitiis ornavit, tum etiam peritissimos belli navalis fecit Athenienses. 4 Id quantae saluti fuerit universae Graeciae, bello cognitum est Persico. Nam cum Xerxes et mari et terra bellum universae inferret Europae cum tantis copiis, quantas neque ante nec postea habuit quisquam - 5 huius enim classis mille et ducentarum navium longarum fuit, quam duo milia onerariarum sequebantur; terrestres autem exercitus DCC peditum, equitum CCCC milia fuerunt -, 6 cuius de adventu cum fama in Graeciam esset perlata et maxime Athenienses peti dicerentur propter pugnam Marathoniam, miserunt Delphos consultum, quidnam facerent de rebus suis. Deliberantibus Pythia respondit, ut moenibus ligneis se munirent. 7 Id responsum quo valeret, cum intellegeret nemo, Themistocles persuasit consilium esse Apollinis, ut in naves se suaque conferrent: eum enim a deo significari murum ligneum. 8 Tali consilio probato addunt ad superiores totidem naves triremes suaque omnia, quae moveri poterant, partim Salamina, partim Troezena deportant; arcem sacerdotibus paucisque maioribus natu ac sacra procuranda tradunt, reliquum oppidum relinquunt.
Il primo passo di impegnarsi per lo stato fu nella guerra di Corcira; per guidarla eletto comandante dal popolo non solo nella guerra presente, ma anche nel tempo restante rese la città più fiera.
Infatti mentre il denaro pubblico, che rientrava dalle miniere, per la prodigalità dei magistrati annualmente periva, egli persuase il popolo che con quel denaro si allestisse una flotta di cento navi.
Costruita questa velocemente dapprima spezzò i Corciresi, poi inseguendo i pirati marittimi rese il mare sicuro. In questa cosa da una parte adornò di ricchezze, dall’altra pure rese gli Ateniesi espertissimi di guerra navale. Di quanta grande salvezza ciò sia stato per tutta la Grecia, si conobbe con la guerra persiana. Infatti poiché Serse e per mare e per terra dichiarava guerra a tutta l’Europa con così grandi truppe, quante né prima né poi nessuno ebbe – la flotta di questi fu di mille e duecento navi da guerra, che migliaia di navi da carico seguivano; gli eserciti poi di terra furono di settecento (migliaia) di fanti, quattrocento migliaia di cavalieri - e del suo arrivo essendo stata portata la fama in tutta la Grecia e si diceva che soprattutto gli Ateniesi venivano assaliti per la battaglia di Maratona, inviarono a Delfi (una delegazione) per consultare, cosa mai decidessero per le loro cose. Ai richiedenti la Pizia rispose che si munissero con mura di legno. Mentre nessuno capiva a cosa si riferisse quel responso, Temistocle convinse che era proposito di Apollo, che si recassero sulle navi: quello infatti era il muro di legno significato dal dio. Approvata tale decisione, aggiungono alle precedenti altrettante navi trireme e tutte le loro cose che potevano essere mosse, in parte le portano a Salamina, in Parte a Trezene; ai sacerdoti ed a pochi anziani consegnano la rocca e le cose sacre da salvare, abbandonano il resto della città.
3. De Persarum classe apud Salamina.
3. La flotta dei Persiani presso Salamina.
Huius consilium plerisque civitatibus displicebat et in terra dimicari magis placebat. Itaque
missi sunt delecti cum Leonida, Lacedaemoniorum rege, qui Thermopylas occuparent longiusque barbaros progredi non paterentur. Hi vim hostium non sustinuerunt eoque loco omnes interierunt. 2 At classis communis Graeciae trecentarum navium, in qua ducentae erant Atheniensium, primum apud Artemisium inter Euboeam continentemque terram cum classiariis regis conflixit. Angustias enim Themistocles quaerebat, ne multitudine circuiretur. 3 Hic etsi pari proelio discesserant, tamen eodem loco non sunt ausi manere, quod erat periculum, ne, si pars navium adversariorum Euboeam superasset, ancipiti premerentur periculo. 4 Quo factum est, ut ab Artemisio discederent et exadversum Athenas apud Salamina classem suam constituerent.
Ma il suo piano dispiaceva a parecchie città e piaceva più scontrarsi sulla terra. E così furono mandati (uomini) scelti con Leonida, re dei Lacedemini, che occupassero le Termopili e non permettessero che i barbari avanzassero più a lungo.
Questi non sostennero l’assalto dei nemici ed in quel luogo tutti perirono. Ma la flotta comune della Grecia di trecento navi, nella quale duecento erano degli Ateniesi, dapprima presso Artemisio tra l’Eubea e la terra continentale combatté coi marinai del re.
Infatti Temistocle cercava strettoie, per non essere circondato dalla moltitudine.
Qui anche se erano usciti con pari scontro, tuttavia non osarono rimanere nello stesso luogo, perché c’era pericolo, che, se una parte delle navi degli avversari avesse superato l’Eubea, fossero incalzati da doppio pericolo. Perciò accadde che si allontanassero dall’Artemisio e disponessero la loro flotta dirimpetto ad Atene presso Salamina.

4. De rege barbaro victo apud Salamina.
4. Il re barbaro vinto presso Salamina.
At Xerxes Thermopylis expugnatis protinus accessit astu idque nullis defendentibus,
interfectis sacerdotibus, quos in arce invenerat, incendio delevit. 2 Cuius flamma perterriti
classiarii, cum manere non auderent et plurimi hortarentur, ut domos suas discederent
moenibusque se defenderent, Themistocles unus restitit et universos pares esse posse aiebat,
dispersos testabatur perituros idque Eurybiadi, regi Lacedaemoniorum, qui tum summae imperii
praeerat, fore affirmabat. 3 Quem cum minus, quam vellet, moveret, noctu de servis suis, quem
habuit fidelissimum, ad regem misit, ut ei nuntiaret suis verbis adversarios eius in fuga esse: 4 qui si discessissent, maiore cum labore et longinquiore tempore bellum confecturum, cum
singulos consectari cogeretur; quos si statim aggrederetur, brevi universos oppressurum. Hoc eo valebat, ut ingratis ad depugnandum omnes cogerentur. 5 Hac re audita barbarus, nihil doli
subesse credens, postridie alienissimo sibi loco, contra opportunissimo hostibus, adeo angusto
mari conflixit, ut eius multitudo navium explicari non potuerit. Victus ergo est magis etiam
consilio Themistocli quam armis Graeciae.
Ma Serse, espugnate le Termopili subito si avvicinò alla città e, poiché nessuno la difendeva, dopo aver ucciso i sacerdoti, che aveva trovati nella rocca, la distrusse con un incendio.
I marinai terrorizzati da quella fiamma, non osando rimanere e moltissimi esortando a tornare nelle loro case e difendersi con le mura, Temistocle unico resistette e diceva che tutti potevano essere pari, assicurava che dispersi sarebbero periti e ad Euribiade, re dei Lacedemoni, che allora era a capo del complesso del potere, affermava che sarebbe avvenuto ciò. Ma non potendolo smuovere più di quanto volesse, di notte mandò al re (dei Persiani) uno dei suoi servi, che ritenne fedelissimo, per annunciargli con parole sue ( a suo nome) che i suoi avversari erano in fuga: e se essi si fossero allontanati, avrebbe concluso la guerra con fatica e maggior tempo, essendo costretto ad inseguirli singolarmente; ma se li assalisse subito, in breve li avrebbe soppressi tutti. Questo mirava a che, anche per i maldisposti, che fossero costretti a combattere. Udita tale cosa, il re barbaro, credendo non ci fosse sotto nulla di inganno, il giorno dopo in una postazione per lui disagiatissima, al contrario opportunissima per i nemici, si scontrò in un mare così stretto, che la sua moltitudine di navi non poté spiegarsi. Perciò fu vinto anche più dal piano di Temistocle che dalle armi della Grecia.

5. De maxima classe parvo numero navium deviata.
5. La più grande flotta sconfitta da un piccolo numero di navi.
Hic etsi male rem gesserat, tamen tantas habebat reliquias copiarum, ut etiam tum his opprimere posset hostes. Iterum ab eodem gradu depulsus est. Nam Themistocles verens, ne bellare perseveraret, certiorem eum fecit id agi, ut pons, quem ille in Hellesponto fecerat, dissolveretur ac reditu in Asiam excluderetur, idque ei persuasit. 2 Itaque qua sex mensibus iter fecerat, eadem minus diebus XXX in Asiam reversus est seque a Themistocle non superatum, sed conservatum iudicavit. 3 Sic unius viri prudentia Graecia liberata est Europaeque succubuit Asia. Haec altera victoria, quae cum Marathonio possit comparari tropaeo. Nam pari modo apud Salamina parvo numero navium maxima post hominum memoriam classis est devicta.
Qui anche se il re aveva condotto male la cosa, tuttavia aveva così grandi scorte di truppe, che anche allora con queste poteva sopprimere i nemici. Di nuovo fu cacciato dalla stessa posizione. Infatti Temistocle temendo che continuasse a combattere, lo informò di fare ciò, perché il ponte, che egli aveva costruito sull’Ellesponto, fosse distrutto e fosse bloccato sul ritorno in Asia, e di ciò lo persuase. E così per dove aveva fatto una marcia in sei mesi, per lo stesso (passaggio) in meno di trenta giorni ritornò in Asia e pensò di non esser stato vinto da Temistocle, ma salvato. Così per la saggezza di un solo uomo la Grecia fu liberata e l’Asia cedette all’Europa. Questa (fu) una seconda vittoria, che potrebbe essere paragonata col trofeo di Maratona. Infatti in pari modo presso Salamina con un piccolo numero di navi la più grande flotta a memoria d’uomo fu vinta.

6. De muris Atheniensium restituendis.
6. Le mura degli Ateniesi da ricostruire.
Magnus hoc bello Themistocles fuit neque minor in pace. Cum enim Phalerico portu neque magno neque bono Athenienses uterentur, huius consilio triplex Piraei portus constitutus est isque moenibus circumdatus, ut ipsam urbem dignitate aequiperaret, utilitate superaret. 2 Idem muros Atheniensium restituit praecipuo suo periculo. Namque Lacedaemonii causam idoneam nacti propter barbarorum excursiones, qua negarent oportere extra Peloponnesum ullam urbem muros habere, ne essent loca munita, quae hostes possiderent, Athenienses aedificantes prohibere sunt conati. 3 Hoc longe alio spectabat, atque videri volebant. Athenienses enim duabus victoriis, Marathonia et Salaminia, tantam gloriam apud omnes gentes erant consecuti, ut intellegerent Lacedaemonii de principatu sibi cum his certamen fore. Quare eos quam infirmissimos esse volebant. 4 Postquam autem audierunt muros instrui, legatos Athenas miserunt, qui id fieri vetarent. Eis praesentibus desierunt ac se de ea re legatos ad eos missuros dixerunt.
5 Hanc legationem suscepit Themistocles et solus primo profectus est; reliqui legati ut tum exirent, cum satis alti tuendo muri exstructi viderentur, praecepit: interim omnes, servi atque liberi, opus facerent neque ulli loco parcerent, sive sacer, sive privatus esset sive publicus, et undique, quod idoneum ad muniendum putarent, congererent. Quo factum est, ut Atheniensium muri ex sacellis sepulcrisque constarent.
In questa guerra Temistocle fu grande e non minore in pace. Poiché gli Ateniesi si servivano del porto del Falero né grande né buono, per decisione di costui fu costruito il triplice porto del Pireo ed esso circondato da mura perché eguagliasse in bellezza la stessa città, la superasse per utilità. Lo stesso ricostruì le mura degli Ateniesi col suo stesso rischio. Infatti i Lacedemoni adducendo una causa idonea per le incursioni dei barbari, con cui dicevano che non occorreva che fuori del Peloponneso nessuna città avesse le mura, perché non fossero fortificati i luoghi, che i nemici possedessero, tentarono di bloccare gli Ateniesi che le costruivano. Questo mirava molto diversamente da quanto volevano sembrasse. Gli Ateniesi infatti con due vittorie, di Maratona e di Salamina, avevano raggiunto così grande gloria presso tutti i popoli, che i Lacedemoni capivano che per loro ci sarebbe stata una gara con essi per la supremazia. Perciò volevano che essi fossero quanto mai debolissimi. Però dopo che udirono che le mura si costruivano, mandarono delegati ad Atene, che vietassero che ciò accadesse. Essendo essi presenti desistettero e dissero che avrebbero mandato presso di loro delegati su quella cosa. Temistocle assunse questa delegazione e dapprima partì da solo; ordinò che gli altri delegati partissero allora, quando i muri innalzati sembrassero abbastanza alti a difendere: intanto tutti, schiavi e liberi, radunassero materiale e non risparmiassero nessun luogo, sia fosse sacro, sia privato sia pubblico, e dovunque raccogliessero quello, che ritenessero adatto a fortificare. Perciò accadde che le mura degli Ateniesi risultassero da tempietti e sepolcreti.
7. De Themistoclis dolo in Lacedaemonois.
7. L’inganno di Temistocle verso i Lacedemoni.
Themistocles autem ut Lacedaemonem venit, adire ad magistratus noluit et dedit operam, ut
quam longissime tempus duceret, causam interponens se collegas exspectare. 2 Cum
Lacedaemonii quererentur opus nihilo minus fieri eumque in ea re conari fallere, interim reliqui
legati sunt consecuti. A quibus cum audisset non multum superesse munitionis, ad ephoros
Lacedaemoniorum accessit, penes quos summum erat imperium, atque apud eos contendit falsa
iis esse delata: quare aequum esse illos viros bonos nobilesque mittere, quibus fides haberetur,
qui rem explorarent; interea se obsidem retinerent. 3 Gestus est ei mos, tresque legati functi summis honoribus Athenas missi sunt. Cum his collegas suos Themistocles iussit proficisci hisque praedixit, ut ne prius Lacedaemoniorum legatos dimitterent quam ipse esset remissus. 4 Hos postquam Athenas pervenisse ratus est, ad magistratum senatumque Lacedaemoniorum
adiit et apud eos liberrime professus est: Atheniensis, suo consilio, quod communi iure gentium facere possent, deos publicos suosque patrios ac penates, quo facilius ab hoste possent
defendere, muris saepsisse neque in eo, quod inutile esset Graeciae, fecisse. 5 Nam illorum
urbem ut propugnaculum oppositum esse barbaris; apud quam iam bis classes regias fecisse
naufragium. 6 Lacedaemonios autem male et iniuste facere, qui id potius intuerentur, quod
ipsorum dominationi, quam quod universae Graeciae utile esset. Quare, si suos legatos recipere vellent, quos Athenas miserant, se remitterent; aliter illos numquam in patriam essent recepturi.
Temistocle dunque, come giunse a Sparta, non volle presentarsi ai magistrati e fece in modo di protrarre il tempo più a lungo possibile, adducendo come causa che egli aspettava i colleghi. Poiché i Lacedemoni si lamentavano che non di meno l’opera si faceva e che lui tentava in quella cosa di ingannare, intanto gli altri delegati lo raggiunsero. E avendo sentito da loro che non rimaneva molto (alla conclusione) della fortificazione, si presentò agli efori dei Lacedemoni, presso i quali sta il potere supremo, e davanti a loro contestò che ad essi erano state riferite cose false: perciò era giusto che essi inviassero uomini onesti e nobili, in cui si avesse fiducia, che esplorassero la cosa; intanto lo tenessero come ostaggio. Si fece a modo suo e furono inviati ad Atene tre delegati, che avevano adempiuto altissime cariche. Con questi Temistocle ordinò che patissero i suoi colleghi ed a questi dichiarò che non congedassero i delegati dei lacedemoni prima che lui fosse stato rilasciato. Dopo che ritenne che questi fossero giunti ad Atene, si presentò alla magistratura ed al senato dei Lacedemoni e davanti a loro molto liberamente dichiarò: che gli Ateniesi per suo consiglio, cosa che potevano secondo il comune diritto dei popoli, per poter difendere più facilmente le divinità statali, i propri patrii ed i penati, avevano fortificato con mura ed in quello non avevano fatto nulla, che fosse inutile alla Grecia. Infatti la loro città si era opposta come un baluardo ai barbari; e davanti a quella le flotte regie già due volte avevano fatto naufragio. I Lacedemoni dunque facevano male ed ingiustamente, perché guardavano più ciò che fosse utile al loro dominio che a tutta la Grecia.
Perciò se volevano riavere i loro delegati, che avevano mandati ad Atene, lo rilasciassero; altrimenti mai avrebbero riavuti quelli.
8. De Themistoclis exsilio.
8. L’esilio di Temistocle.
Tamen non effugit civium suorum invidiam. Namque ob eundem timorem, quo damnatus
erat Miltiades, testularum suffragiis e civitate eiectus Argos habitatum concessit. 2 Hic cum
propter multas eius virtutes magna cum dignitate viveret, Lacedaemonii legatos Athenas miserunt, qui eum absentem accusarent, quod societatem cum rege Perse ad Graeciam opprimendam fecisset. 3 Hoc crimine absens proditionis damnatus est. Id ut audivit, quod non satis tutum se Argis videbat, Corcyram demigravit. Ibi cum cives principes animadvertisset timere ne propter se bellum iis Lacedaemonii et Athenienses indicerent, ad Admetum, Molossum regem, cum quo ei hospitium erat, confugit. 4 Huc cum venisset et in praesentia rex abesset quo maiore religione se receptum tueretur, filiam eius parvulam arripuit et cum ea se in sacrarium, quod summa colebatur caerimonia, coniecit. Inde non prius egressus est, quam rex eum data dextra in fidem reciperet; quam praestitit. 5 Nam cum ab Atheniensibus et Lacedaemoniis exposceretur publice, supplicem non prodidit monuitque, ut consuleret sibi: difficile enim esse in tam propinquo loco tuto eum versari. Itaque Pydnam eum deduci iussit et, quod satis esset praesidii, dedit. 6 Hic in navem omnibus ignotus nautis escendit. Quae cum tempestate maxima Naxum ferretur, ubi tum Atheniensium erat exercitus, sensit Themistocles, si eo pervenisset, sibi esse pereundum. Hac necessitate coactus domino navis, quis sit, aperit, multa pollicens, si se conservasset. 7 At ille clarissimi viri captus misericordia diem noctemque procul ab insula in salo navem tenuit in ancoris neque quemquam ex ea exire passus est. Inde Ephesum pervenit ibique Themistoclen exponit; cui ille pro meritis postea gratiam rettulit.
Tuttavia non sfuggì all’invidia dei suoi concittadini. Infatti per lo stesso timore, per cui era stato condannato Milziade, con l’ostracismo (i voti dei cocci) cacciato dalla città si ritirò ad abitare ad Argo. Qui vivendo con grande onore a causa delle sue molte qualità, i Lacedemoni mandarono delegati ad Atene, per accusarlo assente, perché avrebbe fatto un’alleanza col re persiano per sopprimere la Grecia. Con questa accusa, assente, fu condannato per tradimento. Come udì ciò, poiché non si vedeva abbastanza sicuro ad Argo, emigrò a Corcira. Ivi poiché i cittadini capi avevano capito di temere che per causa sua Lacedemoni ed Ateniesi muovessero loro guerra, si rifugiò presso Admeto, re dei Molossi, con cui aveva rapporto di ospitalità. Essendo giunto qui ed essendo al momento il re assente, per garantire con maggiore vincolo religioso che lui era accolto, prese la sua figlioletta e con essa si gettò in un tempio, che era venerato con massima venerazione. Di lì non uscì prima che il re, datagli la destra, lo accogliesse in protezione; e gliela porse.
Infatti essendo richiesto pubblicamente da Ateniesi e Lacedemoni, non consegnò il supplice e consigliò che si proteggesse: era infatti difficile che lui si trovasse al sicuro in un luogo tanto vicino. E così ordinò fosse condotto a Pidna e diede, quello che fosse sufficiente di protezione. Qui si imbarcò su di una nave sconosciuto a tutti i marinai. Essendo questa portata durante una grandissima tempesta a Nasso, dove allora c’era l’esercito degli Ateniesi, Temistocle capì che se fosse giunto là, egli doveva morire. Spinto da questa necessità svela al padrone della nave chi sia, promettendo molte cose, se lo avesse salvato.
Ma quello colpito da compassione del famosissimo uomo tenne in mare lontano dall’isola la nave giorno e notte nelle ancore e non permise che nessuno uscisse da essa.
Di lì giunse ad Efeso e lì sbarca Temistocle; egli poi gli ricambiò il favore per i meriti.
9. De Themistoclis epistula ad Artaxersen.
9. Lettera di Temistocle ad Artaserse.
Scio plerosque ita scripsisse, Themistoclen Xerxe regnante in Asiam transisse. Sed ego potissimum Thucydidi credo, quod aetate proximus de iis, qui illorum temporum historiam reliquerunt, et eiusdem civitatis fuit. Is autem ait ad Artaxerxen eum venisse atque his verbis epistulam misisse: 2 “Themistocles veni ad te, qui plurima mala omnium Graiorum in domum tuam intuli, quamdiu mihi necesse fuit adversum patrem tuum bellare patriamque meam defendere. 3 Idem multo plura bona feci, postquam in tuto ipse et ille in periculo esse coepit. Nam cum in Asiam reverti vellet proelio apud Salamina facto, litteris eum certiorem feci id agi, ut pons, quem in Hellesponto fecerat, dissolveretur atque ab hostibus circumiretur; quo nunzio ille periculo est liberatus. 4 Nunc autem confugi ad te exagitatus a cuncta Graecia, tuam petens amicitiam. Quam si ero adeptus, non minus me bonum amicum habebis, quam fortem inimicum ille expertus est. Te autem rogo, ut de iis rebus, quas tecum colloqui volo, annuum mihi tempus des eoque transacto ad te venire patiaris. ”
So che parecchi così hanno scritto, che Temistocle, regnando Serse, passò in Asia. Ma io credo particolarmente a Tucidide, perché più vicino di epoca tra quelli, che lasciarono la storia di quei tempi, e fu della stessa città. Egli dunque dice che lui giunse da Artaserse e gli mandò una lettera con queste parole: “(Io) Temistocle son venuto da te, (io) che recai i moltissimi danni di tutti i Grai alla tua casa, fin che fu necessario per me combattere contro tuo padre e difendere la mia patria. Io stesso feci molto maggiori benefici, dopo che io cominciai ed essere al sicuro e lui in pericolo. Infatti volendo ritornare in Asia, fatto lo scontro presso Salamina, lo informai con lettere che si faceva ciò, che il ponte, che aveva fatto sull’Ellesponto, fosse distrutto e circondato dai nemici; e per questa notizia egli fu liberato dal pericolo. Ora però mi sono rifugiato da te ricercato da tutta la Grecia, chiedendo la tua amicizia.
Ma se la otterrò, mi avrai non meno buon amico, di quanto egli mi abbia sperimentato forte avversario. Ti prego dunque che tu mi dia il tempo di un anno perché tu permetta, passato quel tempo, di venire da te per quelle cose, che voglio trattare con te.”

10. De Themistoclis vita apud Persas.
10. Vita di Temistocle in Persia.
Huius rex animi magnitudinem admirans cupiensque talem virum sibi conciliari veniam
dedit. Ille omne illud tempus litteris sermonique Persarum se dedidit; quibus adeo eruditus est,
ut multo commodius dicatur apud regem verba fecisse, quam ii poterant qui in Perside erant
nati. 2 Hic cum multa regi esset pollicitus gratissimumque illud, si suis uti consiliis vellet, illum Graeciam bello oppressurum, magnis muneribus ab Artaxerxe donatus in Asiam rediit
domiciliumque Magnesiae sibi constituit. 3 Namque hanc urbem ei rex donarat, his quidem
verbis: quae ei panem praeberet - ex qua regione quinquaginta talenta quotannis redibant -;
Lampsacum autem, unde vinum sumeret; Myunta, ex qua opsonium haberet. Huius ad nostram
memoriam monumenta manserunt duo: sepulcrum prope oppidum, in quo est sepultus; statua
in foro Magnesiae. 4 De cuius morte multimodis apud plerosque scriptum est; sed nos eundem
potissimum Thucydidem auctorem probamus, qui illum ait Magnesiae morbo mortuum neque
negat fuisse famam venenum sua sponte sumpsisse, cum se, quae regi de Graecia opprimendo pollicitus esset, praestare posse desperaret. 5 Idem ossa eius clam in Attica ab amicis sepulta, quoniam legibus non concederetur, quod proditionis esset damnatus, memoriae prodidit.
I l re ammirando la grandezza d’animo di costui desiderando conciliarsi un tale uomo diede il perdono.
Quello tutto quel tempo si dedicò alla scrittura ed alla lingua dei Persiani; ed in queste fu così istruito che si dice che davanti al re disse parole molto più appropriatamente di quanto potevano quelli che erano nati in Persia. Qui avendo promesso molte cose al re e quella cosa molto gradita, che, se volesse servirsi dei suoi consigli, avrebbe assoggettata la Grecia con la guerra, premiato con grandi doni da Artaserse ritornò in Asia e si stabilì il domicilio a Magnesia. Infatti il re gli aveva donato questa città, proprio con queste parole: che gli procurasse il pane – e da quella regione ogni anno provenivano cinquecento talenti -; ricevesse poi Lampsaco, da cui ricavasse il vino; Miunta, da cui avesse il companatico. Di costui rimasero due monumenti fino alla nostra epoca: il sepolcro vicino alla città, in cui fu sepolto; la statua nel foro di Magnesia. Ma della sua morte presso parecchi in molti modi si scrisse; ma noi soprattutto preferiamo lo scrittore Tucidide, che dice che a Magnesia morì per malattia e dice che non ci fu la fama che spontaneamente abbia preso il veleno, poiché disperava di poter offrire al re quello che aveva promesso sull’assoggettare la Grecia.
Lo stesso ha tramandato alla memoria che le sue ossa di nascosto furono sepolte dagli amici in Attica, poiché non era concesso dalle leggi, perché era stato condannato per tradimento.
ARISTIDES
ARISTIDE
1. De Aristidis iustitia et exsilio.
1. Giustizia ed esilio di Aristide.
Aristides, Lysimachi filius, Atheniensis, aequalis fere fuit Themistocli. Itaque cum eo de principatu contendit; namque obtrectarunt inter se. 2 In his autem cognitum est, quanto antestaret eloquentia innocentiae. Quamquam enim adeo excellebat Aristides abstinentia, ut unus post hominum memoriam, quem quidem nos audierimus, cognomine Iustus sit appellatus, tamen a Themistocle collabefactus, testula illa exsilio decem annorum multatus est. 3 Qui quidem cum intellegeret reprimi concitatam multitudinem non posse cedensque animadvertisset quendam scribentem, ut patria pelleretur, quaesisse ab eo dicitur, quare id faceret aut quid Aristides commisisset, cur tanta poena dignus duceretur. 4 Cui ille respondit se ignorare Aristiden, sed sibi non placere, quod tam cupide elaborasset, ut praeter ceteros Iustus appellaretur. 5 Hic X annorum legitimam poenam non pertulit. Nam postquam Xerxes in Graeciam descendit, sexto fere anno, quam erat expulsus, populi scito in patriam restitutus est.
Aristide, figlio di Lisimaco, Ateniese, fu quasi coetaneo per Temistocle. E così contese con lui per la supremazia; infatti tra loro si attaccarono. In questi poi si conobbe quanto l’eloquenza superasse la rettitudine. Benché infatti Aristide eccellesse per disinteresse, così che unico dopo la memoria degli uomini, che noi veramente abbiamo sentito, è stato chiamato col soprannome di Giusto, tuttavia scalzato da Temistocle, col famoso ostracismo fu multato con l’esilio di dieci anni. Ma lui capendo senz’altro che la folla eccitata non poteva essere frenata e partendo essendosi accorto che un tale scriveva, che fosse cacciato dalla patria, si dice che gli abbia chiesto perché facesse ciò e cosa avesse commesso Aristide, perché fosse ritenuto degno di così grave pena. Ed a lui quello rispose che ignorava Aristide, ma che non gli piaceva, perché aveva trafficato bramosamente, per esser chiamato Giusto differentemente dagli altri.
Costui non pagò la pena legale dei dieci anni. Infatti dopo che Serse discese in Grecia, quasi al sesto anno, da quando era stato espulso, per decisione del popolo fu richiamato in patria.
2. De Aristidis et Atheniensium auctoritate.
2. Prestigio di Aristide e degli Ateniesi.
Interfuit autem pugnae navali apud Salamina, quae facta est prius, quam poena liberaretur.
Idem praetor fuit Atheniensium apud Plataeas in proelio, quo Mardonius fusus barbarorumque
exercitus interfectus est. 2 Neque aliud est ullum huius in re militari illustre factum quam huius
imperii memoria, iustitiae vero et aequitatis et innocentiae multa, in primis quod eius aequitate
factum est, cum in communi classe esset Graeciae simul cum Pausania, quo duce Mardonius
erat fugatus, ut summa imperii maritimi ab Lacedaemoniis transferretur ad Athenienses. 3
Namque ante id tempus et mari et terra duces erant Lacedaemonii. Tum autem et intemperantia Pausaniae et iustitia factum est Aristidis, ut omnes fere civitates Graeciae ad Atheniensium societatem se applicarent et adversus barbaros hos duces deligerent sibi.
Partecipò quindi alla battaglia navale presso Salamina, che fu fatta prima che la pena fosse condonata.
Lo stesso fu comandante degli Ateniesi presso Platea nella battaglia, in cui Mardonio fu sbaragliato e l’esercito dei barbari fatto fuori. E non c’è alcun altro fatto illustre di costui in campo militare, eccetto il ricordo di questo comando, ma molto (il ricordo) della giustizia e dell’equanimità e della rettitudine, anzitutto per l’equanimità accadde, essendo nella flotta comune della Grecia insieme con Pausania, sotto la cui guida Mardonio era stato messo in fuga, che il complesso del comando marittimo fosse trasferito dai Lacedemoni agli Ateniesi. Infatti prima di quel tempo e per terra e per mare i comandanti erano Lacedemoni. Allora però sia per l’intemperanza di Pausania sia per la giustizia di Aristide accadde che quasi tutte le città della Grecia si unissero all’alleanza degli Ateniesi e si scegliessero questi comandanti contro i barbari.

3. De Aristidis innocertia et maxima paupertate.
3. Rettitudine ed estrema povertà di Aristide.
Quos quo facilius repellerent, si forte bellum renovare conarentur, ad classis aedificandas
exercitusque comparandos quantum pecuniae quaeque civitas daret, Aristides delectus est, qui
constitueret, eiusque arbitrio quadringena et sexagena talenta quotannis Delum sunt collata. Id
enim commune aerarium esse voluerunt. Quae omnis pecunia postero tempore Athenas
translata est. 2 Hic qua fuerit abstinentia, nullum est certius indicium, quam quod, cum tantis
rebus praefuisset, in tanta paupertate decessit, ut, qui efferretur, vix reliquerit. 3 Quo factum
est, ut filiae eius publice alerentur et de communi aerario dotibus datis collocarentur. Decessit
autem fere post annum quartum, quam Themistocles Athenis erat expulsus.
Ma per respingerli più facilmente, se per caso tentassero rinnovare la guerra, quanto di denaro ogni città desse per allestire le flotte e preparare gli eserciti, fu scelto Aristide, che decidesse e secondo il suo ordine ogni anno furono portate a Delo quattrocento sessanta talenti. Vollero che quello fosse l’erario comune. Ma tutto quel denaro in tempo successivo fu trasferito ad Atene. Costui di quale disinteresse sia stato, nessun indizio è più certo del fatto che, essendo stato a capo di tante cose, morì in così grande povertà, che a stento lasciò, come essere sepolto.
Perciò accadde che le sue figlie furono allevate dallo stato e furono sistemate, essendo state concesse le doti dall’erario comune.
Morì dunque circa tre anni dopo che Temistocle era stato espulso da Atene.

PAUSANIAS
PAUSANIA
1. De Pausaniae superbia.
1. Superbia di Pausania.
Pausanias Lacedaemonius magnus homo, sed varius in omni genere vitae fuit: nam ut
virtutibus eluxit, sic vitiis est obrutus. Huius illustrissimum est proelium apud Plataeas. 2
Namque illo duce Mardonius, satrapes regius, natione Medus, regis gener, in primis omnium
Persarum et manu fortis et consilii plenus, cum CC milibus peditum, quos viritim legerat, et XX
equitum haud ita magna manu Graeciae fugatus est, eoque ipse dux cecidit proelio. Qua victoria
elatus plurima miscere coepit et maiora concupiscere. 3 Sed primum in eo est reprehensus,
quod [cum] ex praeda tripodem aureum Delphis posuisset epigrammate scripto, in quo haec
erat sententia: suo ductu barbaros apud Plataeas esse deletos, eiusque victoriae ergo Apollini id
donum dedisse. 4 Hos versus Lacedaemonii exsculpserunt neque aliud scripserunt quam nomina earum civitatum, quarum auxilio Persae erant victi.
Pausania grande personaggio spartano, ma fu incoerente in ogni genere di vita: infatti come brillò per qualità, così sommerso di difetti. Di costui è famosissimo il combattimento presso Platea. Infatti sotto il suo comando Mardonio, satrapo regio, medo di nazionalità, genero del re, tra i primi di tutti i Persiani sia forte di mano che pieno di saggezza, con duecento migliaia di fanti, che aveva scelto singolarmente, e venti (migliaia) di cavalieri fu messo in fuga da una non così grande squadra della Grecia, ed in quel combattimenti lo stesso comandante cadde. Insuperbito da tale vittoria cominciò a combinare moltissime cose e desiderarne maggiori. Ma soprattutto fu rimproverato in questo, che dal bottino di guerra avendo posto a Delfi un tripode d’oro con un epigramma scritto, in cui c’era questo concetto: che con la sua guida i barbari presso Platea erano stati cancellati, ed a motivo di quella vittoria aveva dato ad Apollo quel dono. Questi versi i Lacedemoni fecero scalpellare via e non scrissero altro che i nomi di quelle città col cui aiuto i Persiani erano stati vinti.
2. De Pausaniae nimia superbia et proditinis consilio.
2. Eccessiva superbia di Pausania e piano di tradimento.
Post id proelium eundem Pausaniam cum classe communi Cyprum atque Hellespontum miserunt, ut ex his regionibus barbarorum praesidia depelleret. 2 Pari felicitate in ea re usus elatius se gerere coepit maioresque appetere res. Nam cum Byzantio expugnato cepisset complures Persarum nobiles atque in his nonnullos regis propinquos, hos clam Xerxi remisit, simulans ex vinclis publicis effugisse, et cum his Gongylum Eretriensem, qui litteras regi redderet, in quibus haec fuisse scripta Thucydides memoriae prodidit: 3 “Pausanias, dux Spartae, quos Byzantii ceperat, postquam propinquos tuos cognovit, tibi muneri misit seque tecum affinitate coniungi cupit. Quare, si tibi videtur, des ei filiam tuam nuptum. 4 Id si feceris, et Spartam et ceteram Graeciam sub tuam potestatem se adiuvante te redacturum pollicetur.
His de rebus si quid geri volueris, certum hominem ad eum mittas face, cum quo colloquatur. ”
5 Rex tot hominum salute tam sibi necessariorum magnopere gavisus confestim cum epistula
Artabazum ad Pausaniam mittit, in qua eum collaudat; petit, ne cui rei parcat ad ea efficienda,
quae pollicetur: si perfecerit, nullius rei a se repulsam laturum. 6 Huius Pausanias voluntate
cognita alacrior ad rem gerendam factus, in suspicionem cecidit Lacedaemoniorum. Quo facto
domum revocatus, accusatus capitis absolvitur, multatur tamen pecunia; quam ob causam ad
classem remissus non est.
Dopo quello scontro mandarono lo stesso Pausania con la flotta comune a Cipro e nell’Ellesponto, per cacciare da queste regioni le guarnigioni dei barbari. Ottenuto pari successo in quella cosa cominciò a comportarsi troppo superbamente e aspirare a cose maggiori. Infatti espugnata Bisanzio avendo catturato parecchi dei nobili persiani e tra questi alcuni parenti del re, costoro di nascosto li rimandò a Serse, simulando che fossero fuggiti dalle catene pubbliche, e con questi Gongolo di Eretria, che consegnasse lettere al re, in cui Tucidide tramandò alla memoria che c’erano questi scritti: “Pausania, comandante di Sparta, quelli che aveva catturato a Bisanzio, dopo che ha riconosciuto i tuoi parenti, te li ha mandati in dono e desidera essere unito con te da parentela. Perciò, se ti sembra opportuno, concedigli tua figlia per sposarla. Se avrai fatto ciò, promette, aiutandolo lui, che tu sottometterai sotto il tuo potere sia Sparta sia la restante Grecia. Su queste cose se avrai voluto si facesse qualcosa, fa’ di mandare una persona sicura, con cui parlare.”
Il re oltremodo contento per la salvezza di tanti personaggi a sé tanto congiunti subito manda a Pausania Artabazo con una lettera, nella quale lo loda; chiede, che non risparmi alcuna cosa per realizzare quelle cose che promette: se le avesse portate a compimento, non avrebbe ricevuto da lui rifiuto di nessuna cosa. Pausania conosciuta la volontà di questi fattosi più sollecito a concludere la cosa, cadde nel sospetto dei Lacedemoni. Per tale fatto richiamato in patria, accusato di pena capitale, è assolto, tuttavia è multato con denaro; e per tale motivo non fu rimandato alla flotta.
3. De Pausaniae novis moribus Persis.
3. Nuove abitudini persiane di Pausania.
At ille post non multo sua sponte ad exercitum rediit et ibi non callida, sed dementi ratione
cogitata patefecit. Non enim mores patrios solum, sed etiam cultum vestitumque mutavit.
2 Apparatu regio utebatur, veste Medica; satellites Medi et Aegyptii sequebantur, epulabatur more
Persarum luxuriosius, quam, qui aderant, perpeti possent. 3 Aditum petentibus conveniundi non
dabat, superbe respondebat, crudeliter imperabat. Spartam redire nolebat: Colonas, qui locus in
agro Troade est se contulerat: ibi consilia cum patriae tum sibi inimica capiebat. 4 Id postquam
Lacedaemonii rescierunt, legatos cum clava ad eum miserunt, in qua more illorum erat scriptum: nisi domum reverteretur, se capitis eum damnaturos. 5 Hoc nuntio commotus, sperans se etiam tum pecunia et potentia instans periculum posse depellere, domum rediit. Huc ut venit, ab ephoris in vincla publica est coniectus; licet enim legibus eorum cuivis ephoro hoc facere regi. Hinc tamen se expedivit; neque eo magis carebat suspicione. Nam opinio manebat eum cum rege habere societatem. 6 Est genus quoddam hominum, quod Hilotae vocatur, quorum magna multitudo agros Lacedaemoniorum colit servorumque munere fungitur. Hos quoque sollicitare spe libertatis existimabatur. 7 Sed quod harum rerum nullum erat apertum crimen, quo argui posset, non putabant de tali tamque claro viro suspicionibus oportere iudicari et exspectandum, dum se ipsa res aperiret.
Ma egli non molto dopo spontaneamente ritornò all’esercito e li con una tattica non astuta, ma demente manifestò i progetti. Infatti non solo cambiò i costumi della patria, ma anche la condotta ed il vestiario. Usava sfarzo regale, vestiario della Media; accompagnavano guardie mede ed egiziane, banchettava alla moda dei persiani troppo lussuosamente di quanto, quelli che erano presenti, potessero sopportare. Non dava udienza a chi chiedeva di incontrarlo, rispondeva superbamente, comandava crudelmente. Non voleva ritornare a Sparta: si era recato a Colone, che è località nel territorio della Troade. Quando i Lacedemoni seppero ciò, mandarono delegati con lo scitale, nella quale secondo la loro maniera c’era scritto: che se non ritornasse in patria, lo avrebbero condannato a morte. Turbato da tale notizia, sperando di poter allontanare anche allora col denaro e la potenza l’incalzante pericolo, ritornò in patria.
Come giunse qui, fu gettato dagli efori nelle pubbliche prigioni; infatti per le loro leggi è lecito a qualsiasi eforo fare questo ad un re. Di qui tuttavia si liberò; ne tuttavia tanto più mancava di sospetto. Infatti permaneva l’opinione che lui avesse un’intesa col re. C’è una classe di uomini, che si chiama Iloti, di cui una grande moltitudine coltiva i campi dei Lacedemoni e svolge la mansione di schiavi. Questi pure si pensava che sobillasse con la speranza della libertà. Ma poiché di queste cose no c’era nessuna accusa, con cui si potesse incriminare, non ritenevano che fosse opportuno si giudicasse su di un tale e così famoso uomo per sospetti e che bisognava aspettare, fin che la cosa stessa si chiarisse.

4. De Argilii indicio contra Pausaniam
4. La denuncia di Argilio contro Pusania.
Interim Argilius quidam adulescentulus, quem puerum Pausanias amore venerio dilexerat,
cum epistulam ab eo ad Artabazum accepisset, eique in suspicionem venisset aliquid in ea de se
esse scriptum, quod nemo eorum redisset, qui super tali causa eodem missi erant, vincla
epistulae laxavit signoque detracto cognovit, si pertulisset, sibi esse pereundum. 2 Erant in
eadem epistula, quae ad ea pertinebant, quae inter regem Pausaniamque convenerant. Has ille
litteras ephoris tradidit. 3 Non est praetereunda gravitas Lacedaemoniorum hoc loco. Nam ne
huius quidem indicio impulsi sunt, ut Pausaniam comprehenderent, neque prius vim adhibendam putaverunt, quam se ipse indicasset. 4 Itaque huic indici, quid fieri vellent, praeceperunt. Fanum Neptuni est Taenari, quod violari nefas putant Graeci. Eo ille index confugit in araque consedit. Hanc iuxta locum fecerunt sub terra, ex quo posset audiri, si quis quid loqueretur cum Argilio. Huc ex ephoris quidam descenderunt. 5 Pausanias ut audivit Argilium confugisse in aram, perturbatus venit eo. Quem cum supplicem dei videret in ara
sedentem, quaerit, causae quid sit tam repentini consilii. 6 Huc ille, quid ex litteris comperisset,
aperit. Modo magis Pausanias perturbatus orare coepit, ne enuntiaret nec se meritum de illo
optime proderet: quod si eam veniam sibi dedisset tantisque implicatum rebus sublevasset, magno ei praemio futurum.
Intanto un certo Argilio giovanetto, che Pausania aveva amato ragazzo di amore sensuale, avendo ricevuto da lui una lettera per Artabazo, ed essendogli venuto in sospetto che in essa ci fosse scritto qualcosa su di sé, perché non era ritornato nessuno di coloro che su tale argomento erano stati inviati là, sciolse le legature della lettera e tolto il sigillo seppe che, se l’avesse portata, doveva morire. C’erano nella stessa lettera, quelle cose che riguardavano le cose che erano convenute tra il re e Pausania. Quelle lettere lui le consegnò agli efori. Non è da trascurare la serietà dei Lacedemoni in questo frangente. Infatti neppure con la denuncia di costui furono spinti, a catturare Pausania, né cedettero si dovesse usare la forza prima che lui stesso si fosse denunciato. E così a questa spia ordinarono cosa volevano si facesse. A Tenaro c’è il tempio di Nettuno, che i Greci credono sacrilegio che sia violato. La quella spia si rifugiò e si sedette sull’altare. Accanto a questa fecero un buco sotto terra, dal quale si potesse sentire, se qualcuno dicesse qualcosa ad Argilo. Qui alcuni degli efori scesero. Pausania come sentì che Argilo s’era rifugiato sull’altare, turbato venne là. Ma vedendolo supplice del dio che sedeva sull’altare, chiede cosa ci sia di motivo di una così improvvisa decisione. Qui egli rivela cosa avesse saputo dalle lettere. Ancor più turbato Pausania cominciò a pregare, di non denunciarlo e non tradisse lui che aveva ottimi meriti su di lui: che se gli avesse concesso quel perdono e avesse liberato lui implicato in cose così gravi, ci sarebbe stato per lui un grande premio.
5. De Pausania in aede Minervae obstructo.
5. Pausania murato vivo nel tempio di Minerva.
His rebus ephori cognitis satius putarunt in urbe eum comprehendi. Quo cum essent profecti
et Pausanias placato Argilio, ut putabat, Lacedaemonem reverteretur, in itinere, cum iam in eo esset, ut comprehenderetur, ex vultu cuiusdam ephori, qui eum admoneri cupiebat, insidias sibi
fieri intellexit. 2 Itaque paucis ante gradibus, quam qui eum sequebantur, in aedem Minervae,
quae Chalcioicos vocatur, confugit. Hinc ne exire posset, statim ephori valvas eius aedis obstruxerunt tectumque sunt demoliti, quo celerius sub divo interiret. 3 Dicitur eo tempore matrem Pausaniae vixisse eamque iam magno natu, postquam de scelere filii comperit, in primis
ad filium claudendum lapidem ad introitum aedis attulisse. 4 Hic cum semianimis de templo
elatus esset confestim animam efflavit. Sic Pausanias magnam belli gloriam turpi morte
maculavit. 5 Cuius mortui corpus cum eodem nonnulli dicerent inferri oportere, quo ii, qui ad
supplicium essent dati, displicuit pluribus, et procul ab eo loco infoderunt, quo erat mortuus.
Inde posterius dei Delphici responso erutus atque eodem loco sepultus est, ubi vitam posuerat.
Sapute queste cose gli efori pensarono preferibile che lui fosse preso in città. Perciò essendo partiti e Pausania, tranquillizzato Argilio, come pensava, ritornava a Sparta, per strada, essendo già sul punto di essere catturato, dal volto di un eforo, che desiderava che lui fosse avvisato, capì che gli si tendeva un agguato. E così con pochi passi prima che quelli che lo seguivano, si rifugiò nel tempio di Minerva, che è chiamato Calcieco. Di qui perché no potesse uscire, subito gli efori murarono le porte di quel tempio e demolirono il tetto, perché più celermente morisse a cielo aperto.
Si dice che in quel tempo vivesse la madre di Pausania e che lei ormai molto anziana, dopo che seppe del misfatto del figlio, tra le prime avesse portato una pietra all’ingresso del tempio per chiudere il figlio.
Qui essendo stato tolto dal tempio semivivo, subito esalò l’anima. Così Pausania macchiò con una brutta morte una grande fama di guerra. Ma il corpo di lui morto poiché alcuni dicevano che occorreva fosse portato là, dove (c’erano) che erano stati condananti a morte, a parecchi dispiacque e lo sotterrarono lontano da quel luogo, dove era morto. Di lì più tardi fu dissotterrato per responso del dio delfico e sepolto nello stesso luogo, dove aveva abbandonato la vita.
CIMON
CIMONE
1. De Milthiadis dura adulescentia eiusque matrimonio cum Elpinice sorore.
1. Dura giovinezza di Milziade e suo matrimonio con la sorella Elpinice.
Cimon, Miltiadis filius, Atheniensis, duro admodum initio usus est adulescentiae. Nam cum
pater eius litem aestimatam populo solvere non potuisset ob eamque causam in vinclis publicis
decessisset, Cimon eadem custodia tenebatur neque legibus Atheniensium emitti poterat, nisi
pecuniam, qua pater multatus erat, solvisset. 2 Habebat autem matrimonio sororem germanam
suam nomine Elpinicen, non magis amore quam more ductus. Namque Atheniensibus licet eodem patre natas uxores ducere. 3 Huius coniugii cupidus Callias quidam, non tam generosus
quam pecuniosus, qui magnas pecunias ex metallis fecerat, egit cum Cimone, ut eam sibi
uxorem daret: id si impetrasset, se pro illo pecuniam soluturum. 4 Is cum talem condicionem
aspernaretur, Elpinice negavit se passuram Miltiadis progeniem in vinclis publicis interire,
quoniam prohibere posset, seque Calliae nupturam, si ea, quae polliceretur, praestitisset.
Cimone, figlio di Milziade, visse un inizio della giovinezza molto duro. Infatti non avendo suo padre potuto pagare al popolo una multa inflitta ed essendo morto nelle pubbliche prigioni per quel motivo, Cimone era detenuto nella stessa detenzione e non poteva essere rilasciato dalle leggi degli Ateniesi, se non avesse pagato il denaro, di cui il padre era stato multato. Aveva dunque in matrimonio sua sorella germana di nome Elpinice, spinto non più dall’amore che dalla tradizione. Infatti agli Ateniesi è lecito avere mogli nate dallo stesso padre. Voglioso di questa unione, un certo Callia, non tanto nobile quanto danaroso, che aveva fatto grandi ricchezza dalle miniere, trattò con Cimone, perché gliela desse in moglie: se avesse ottenuto ciò, lui avrebbe pagato per lui la somma. Mentre egli disprezzava tale condizione, Elpinice disse che non avrebbe permesso che la progenie di Milziade morisse nelle prigioni pubbliche, poiché poteva impedirlo, e che avrebbe sposato Callia, se avesse mantenuto le cose che prometteva.
2. De Cimonis claris rebus gestis.
2. Le illustri imprese di Cimone.
Tali modo custodia liberatus Cimon celeriter ad principatum pervenit. Habebat enim satis
eloquentiae, summam liberalitatem, magnam prudentiam cum iuris civilis tum rei militaris, quod cum patre a puero in exercitibus fuerat versatus. Itaque hic et populum urbanum in sua tenuit potestate et apud exercitum plurimum valuit auctoritate. 2 Primum imperator apud flumen
Strymona magnas copias Thracum fugavit, oppidum Amphipolim constituit eoque X milia
Atheniensium in coloniam misit. Idem iterum apud Mycalen Cypriorum et Phoenicum
ducentarum navium classem devictam cepit eodemque die pari fortuna in terra usus est: 3
namque hostium navibus captis statim ex classe copias suas eduxit barbarorumque maximam
vim uno concursu prostravit. 4 Qua victoria magna praeda potitus cum domum reverteretur,
quod iam nonnullae insulae propter acerbitatem imperii defecerant, bene animatas confirmavit,
alienatas ad officium redire coegit. 5 Scyrum, quam eo tempore Dolopes incolebant, quod
contumacius se gesserant, vacuefecit, sessores veteres urbe insulaque eiecit, agros civibus
divisit. Thasios opulentia fretos suo adventu fregit. His ex manubiis arx Athenarum, qua ad meridiem vergit, est ornata.
In tale modo liberato dalla prigione Cimone celermente giunse al potere. Aveva infatti abbastanza di eloquenza, somma liberalità, grande conoscenza sia del diritto civile che della pratica militare, perché da fanciullo si era trovato negli eserciti col padre. E così costui da una parte mantenne la popolazione urbana sotto il suo potere dall’altra valse moltissimo presso l’esercito per autorevolezza. Dapprima comandante mise in fuga grandi truppe di Traci presso il fiume Striamone, fondò la città di Anfiboli e lì vi mandò in colonia dieci migliaia di Ateniesi.
Lui stesso di nuovo presso Micale catturò la flotta sconfitta di duecento navi di Ciprioti e Fenici e nello stesso giorno ebbe pari fortuna in terra: infatti catturate le navi dei nemici, subito fece uscire le sue truppe dalla flotta ed atterrò con un solo assalto la grandissima forza dei barbari. In quella vittoria impadronitosi d grande bottino ritornando in patria, poiché già alcune isole per l’asprezza del comando si erano ribellate, rafforzò le bene intenzionate, costrinse le ribelli a ritornare al dovere. Evacuò Sciro, che i Dolopi abitavano in quel tempo, perché si erano comportati troppo superbamente, cacciò dalla città e dall’isola gli antichi abitanti e divise i campi ai concittadini. Sbaragliò col suo arrivo i Tasi fiduciosi nella ricchezza. Da questi bottini la rocca di Atene, che volge a mezzogiorno, fu decorata.
3. De Cimonis exsilio, reditu, morte.
3. Esilio di Cimone, ritorno, morte.
Quibus rebus cum unus in civitate maxime floreret, incidit in eandem invidiam, quam pater
suus ceterique Atheniensium principes. Nam testarum suffragiis, quod illi ‘ostrakismon' vocant,
X annorum exsilio multatus est. 2 Cuius facti celerius Athenienses quam ipsum paenituit. Nam
cum ille animo forti invidiae ingratorum civium cessisset bellumque Lacedaemonii Atheniensibus indixissent, confestim notae eius virtutis desiderium consecutum est. 3 Itaque post annum quintum, quam expulsus erat, in patriam revocatus est. Ille, quod hospitio Lacedaemoniorum utebatur, satius existimans contendere Lacedaemonem, sua sponte est profectus pacemque inter duas potentissimas civitates conciliavit. 4 Post, neque ita multo, Cyprum cum ducentis navibus imperator missus, cum eius maiorem partem insulae devicisset, in morbum implicitus in oppido Citio est mortuus.
Per queste cose poiché unico eccelleva massimamente in città, cadde nella stessa invidia in cui suo padre e gli altri capi degli Ateniesi. Infatti coi voti sui cocci, che essi chiamano ostracismo, fu punito con l’esilio di dieci anni. Ma di questo fatto si pentirono gli Ateniesi più celermente di lui. Infatti avendo ceduto con animo forte alla invidia degli ingrati concittadini ed avendo i Lacedemoni dichiarato guerra agli Ateniesi, subito seguì il rimpianto del suo noto valore.
E così dopo quattro anni che era stato espulso, fu richiamato in patria. Egli, poiché utilizzava l’ospitalità dei Lacedemoni, ritenendo preferibile recarsi a Sparta, parti spontaneamente e stabilì la pace tra le due potentissime città.
Poi, e non proprio molto, inviato come comandante a Cipro con duecento navi, avendo sconfitto al maggior parte dell’isola, caduto in una malattia morì nella città di Cizio.
4. De Cimone ab omnibus desiderato.
4. Cimone rimpianto da tutti.
Hunc Athenienses non solum in bello, sed etiam in pace diu desideraverunt. Fuit enim tanta
liberalitate, cum compluribus locis praedia hortosque haberet, ut numquam in eis custodem
imposuerit fructus servandi gratia, ne quis impediretur, quo minus eius rebus, quibus quisque
vellet, frueretur. 2 Semper eum pedissequi cum nummis sunt secuti ut, si quis opis eius indigeret, haberet, quod statim daret, ne differendo videretur negare. Saepe, cum aliquem offensum fortuna videret minus bene vestitum, suum amiculum dedit. 3 Cotidie sic cena ei coquebatur, ut, quos invocatos vidisset in foro, omnis devocaret; quod facere nullo die praetermittebat. Nulli fides eius, nulli opera, nulli res familiaris defuit; multos locupletavit; complures pauperes mortuos, qui unde efferrentur, non reliquissent, suo sumptu extulit. 4 Sic se gerendo, minime est mirandum, si et vita eius fuit secura et mors acerba.
Costui gli Ateniesi lo rimpiansero a lungo non solo in guerra, ma anche in pace. Fu infatti di così grande generosità, avendo in parecchie località poderi ed orti, che mai pose in essi un custode per salvare i frutti, perché nessuno fosse impedito di godere di quelle cose di cui ciascuno volesse (godere). Sempre lo seguirono accompagnatori con monete per avere di che dare subito, se uno bisognasse del suo aiuto, perché non sembrasse, rimandando, di dire di no. Spesso vedendo qualcuno colpito dalla sorte vestito meno bene, diede il suo mantello. Quotidianamente così gli si cuoceva il pranzo, che, quelli che vedeva nella piazza non invitati, li chiamava tutti; in nessun giorno tralasciava fare ciò. A nessuno mancò la sua lealtà, a nessuno l’opera, a nessuno il patrimonio famigliare; arricchì molti; parecchi morti poveri, che non avessero lasciato di che essere sepolti, a sue spese seppellì. Comportandosi così, minimamente c’è da meravigliarsi, se la sua vita fu sicura e la morte amara.
LYSANDER
LISANDRO
1. De Lysandri superbia.
1. Superbia di lisandro.
Lysander Lacedaemonius magnam reliquit sui famam, magis felicitate quam virtute partam. Atheniensis enim in Peloponnesios sexto et vicesimo anno bellum gerentes confecisse
apparet. Id qua ratione consecutus sit, haud latet. 2 Non enim virtute sui exercitus, sed immodestia factum est adversariorum, qui, quod dicto audientes imperatoribus suis non erant, dispalati in agris relictis navibus in hostium venerunt potestatem. Quo facto Athenienses se Lacedaemoniis dediderunt. 3 Hac victoria Lysander elatus, cum antea semper factiosus
audaxque fuisset, sic sibi indulsit, ut eius opera in maximum odium Graeciae Lacedaemonii
pervenerint. 4 Nam cum hanc causam Lacedaemonii dictitassent sibi esse belli, ut Atheniensium impotentem dominationem refringerent, postquam apud Aegos flumen Lysander classis hostium est potitus, nihil aliud molitus est, quam ut omnes civitates in sua teneret potestate, cum id se Lacedaemoniorum causa facere simularet. 5 Namque undique, qui Atheniensium rebus studuissent, eiectis, decem delegerat in unaquaque civitate, quibus summum imperium potestatemque omnium rerum committeret. Horum in numerum nemo admittebatur, nisi qui aut eius hospitio contineretur aut se illius fore proprium fide confirmarat.
Lisandro, spartano, lasciò una grande fama di sé, generata più dalla fortuna che dal valore. E’ evidente infatti che gli Ateniesi combattendo contro i Peloponnesiaci da ventisei anni avevano finito la guerra. Non è nascosto, con quale strategia abbia ottenuto ciò. Non avvenne per il valore infatti del suo esercito, per l’impazienza degli avversari, i quali, poiché non erano obbedienti al dettato dei loro comandanti, dispersi nei campi, abbandonate le navi, vennero in balia dei nemici. Per tale fatto gli Ateniesi si arresero ai Lacedemoni. Insuperbito per questa vittoria Lisandro, essendo sempre stato prima fazioso e sfrontato, tanto si compiacque che per opera sua i Lacedemoni giunsero al massimo odio della Grecia. Infatti mentre i Lacedemoni avevano continuato a dire che era questa la causa della guerra, di stroncare la prepotente supremazia degli Ateniesi, dopo che Lisandro presso il fiume Egos si fu impadronito della flotta dei nemici, niente altro macchinò, che tenere in suo potere tutte le città, simulando di fare ciò per interesse dei Lacedemoni.
Infatti ovunque cacciati, quelli che parteggiavano per gli interessi degli Ateniesi, in ogni città aveva scelto dieci, cui affidare il massimo governo e potere di tutte le cose.
Nel numero di costoro nessuno era ammesso, se non chi o era vincolato dalla sua ospitalità o aveva assicurato che gli sarebbe stato soggetto con fedeltà.

2. De Lysandri crudelitate et perfidia.
2. Crudeltà e perfidia di Lisandro.
Ita decemvirali potestate in omnibus urbibus constituta ipsius nutu omnia gerebantur. Cuius
de crudelitate ac perfidia satis est unam rem exempli gratia proferre, ne de eodem plura
enumerando defatigemus lectores. 2 Victor ex Asia cum reverteretur Thasumque divertisset,
quod ea civitas praecipua fide fuerat erga Athenienses - proinde ac si non iidem firmissimi
solerent esse amici, qui constantes fuissent inimici - pervertere eam concupivit.
3 Vidit autem, nisi in eo occultasset voluntatem, futurum, ut Thasii dilaberentur consulerentque rebus suis ***
Ita decemvirali potestate in omnibus urbibus constituta ipsius nutu omnia gerebantur Ma della sua crudeltà e perfidia è sufficiente raccontare una cosa sola a mo’ di esempio, perché non stanchiamo i lettori enumerando parecchie cose sullo stesso. Ritornando vincitore dall’Asia ed avendo deviato per Taso, perché quella città era stata di speciale lealtà verso gli Ateniesi – come se non fossero soliti essere amici solidissimi, quelli che erano stati costanti avversari – desiderò distruggerla. Vide però che, se non avesse nascosto la sua volontà in ciò, sarebbe accaduto che i Tasii si sarebbero dileguati e avrebbero badato ai propri interessi ***
3. De Lysandri consilio oraculorum corrumpendorum.
3. Piano di Lisandro di corrompere gli oracoli.
Itaque hi decemviralem illam potestatem ab illo constitutam sustulerunt. Quo dolore incensus iniit consilia reges Lacedaemoniorum tollere. Sed sentiebat id se sine ope deorum facere non posse, quod Lacedaemonii omnia ad oracula referre consuerant. Primum Delphicum corrumpere est conatus. Cum id non potuisset, Dodonam adortus est. Hinc quoque repulsus dixit se vota suscepisse, quae Iovi Hammoni solveret, existimans se Afros facilius corrupturum.
3 Hac spe cum profectus esset in Africam, multum eum antistites Iovis fefellerunt. Nam non solum corrumpi non potuerunt, sed etiam legatos Lacedaemonem miserunt, qui Lysandrum
accusarent, quod sacerdotes fani corrumpere conatus esset. 4 Accusatus hoc crimine iudicumque absolutus sententiis, Orchomeniis missus subsidio occisus est a Thebanis apud
Haliartum. 5 Quam vere de eo foret iudicatum, oratio indicio fuit, quae post mortem in domo
eius reperta est, in qua suadet Lacedaemoniis, ut regia potestate dissoluta ex omnibus dux
deligatur ad bellum gerendum, sed sic scripta, ut deum videretur congruere sententiae, quam ille
se habiturum pecunia fidens non dubitabat. Hanc ei scripsisse Cleon Halicarnassius dicitur.
E così questi (Spartani) tolsero quel potere decemvirale la lui costituita. Acceso da tale dolore iniziò strategie (per) togliere i re dei lacedemoni. Ma sentiva che non poteva fare ciò senza l’aiuto degli dei, perché i Lacedemoni erano soliti rimettere tutto agli oracoli. Anzitutto tentò di corrompere quello delfico. Non avendo potuto ciò, tentò Dodona. Respinto anche di qui disse che aveva fatto voti da sciogliere a Giove Ammone, pensando che avrebbe più facilmente corrotto gli Africani.
Essendo partito con questa speranza per l’Africa, i sacerdoti di Giove lo delusero molto. Infatti non solo non poterono essere corrotti, ma anzi mandarono delegati a Sparta per accusare Lisandro, perché aveva tentato di corrompere i sacerdoti del tempio.
Accusato di questa colpa ed assolto dalle sentenze dei giudici, mandato in aiuto agli Orcomenii, fu ucciso dai Tebani presso Aliarto. Quanto veracemente fosse stato giudicato su ciò, fu di testimonianza il discorso, che dopo morte fu trovato in casa sua, in cui convince i Lacedemoni che, sciolto il potere regio, sia scelto da tutti come comandante per fare la guerra, ma scritta così che sembrasse corrispondere colla sentenza degli dei, che egli non dubitava avrebbe avuto, confidando nel denaro. Si dice che questo (discorso) l’avesse scritto per lui Cleone di Alicarnasso.
4. De Lysandri maxima imprudentia.
4. Grandissima stoltezza di Lisandro
Atque hoc loco non est praetereundum factum Pharnabazi, satrapis regii. Nam cum Lysander praefectus classis in bello multa crudeliter avareque fecisset deque his rebus suspicaretur ad cives suos esse perlatum, petiit a Pharnabazo, ut ad ephoros sibi testimonium daret, quanta sanctitate bellum gessisset sociosque tractasset, deque ea re accurate scriberet: magnam enim eius auctoritatem in ea re futuram. 2 Huic ille liberaliter pollicetur; librum grandem verbis multis conscripsit, in quibus summis eum effert laudibus.
Quem cum legisset probassetque, dum signatur, alterum pari magnitudine, tanta similitudine, ut discerni non posset, signatum subiecit, in quo accuratissime eius avaritiam perfidiamque accusarat.
3 Hunc Lysander, domum cum redisset, postquam de suis rebus gestis apud maximum magistratum, quae voluerat, dixerat, testimonii loco librum a Pharnabazo datum tradidit.
Hunc summoto Lysandro cum ephori cognossent, ipsi legendum dederunt.
Ita ille imprudens ipse suus fuit accusator.
Ma a questo punto non bisogna tralasciare il fatto di Farnabazo, satrapo del re. Infatti quando Lisandro comandante della flotta durante la guerra aveva compiuto molte cose crudelmente ed avidamente e sospettava che su queste cose si fosse riferito ai suoi concittadini, chiese a Farnabazo, che davanti agli efori desse testimonianza per lui, con quanta giustizia avesse condotto la guerra ed avesse trattato gli alleati, e scrivesse accuratamente su quella cosa: che grande infatti sarebbe stata la sua autorevolezza in quella cosa. A costui quello promette generosamente; scrisse un libro enorme con molte parole, in cui lo esalta con somme lodi. Dopo averlo letto e approvato, mentre lo sigillava, ne sostituì un secondo, sigillato, di pari grandezza, di così grande somiglianza, che non poteva essere distinto, ed in questo molto accuratamente accusava la sua avidità e slealtà. Questo (libro) Lisandro, ritornato in patria, dopo che davanti alla massima magistratura aveva detto, quello che aveva voluto, sulle sue gesta, consegnò il libro dato da Farnabazo come testimonianza. Questo (libro) avendolo gli efori conosciuto, dopo che Lisandro se n’era andato, glielo restituirono da leggere. Così egli stesso imprevidente fu il proprio accusatore.
ALCIBIADES
ALCIBIADES
ALCIBIADE
1. De Alcibiadis diversa natura.
1. Indole contrastante di Alcibiade.
Alcibiades, Cliniae filius, Atheniensis. In hoc, quid natura efficere possit, videtur experta. Constat enim inter omnes, qui de eo memoriae prodiderunt, nihil illo fuisse excellentius
vel in vitiis vel in virtutibus. 2 Natus in amplissima civitate summo genere, omnium aetatis suae multo formosissimus, ad omnes res aptus consiliique plenus - namque imperator fuit summus et mari et terra, disertus, ut in primis dicendo valeret, quod tanta erat commendatio oris atque orationis, ut nemo ei dicendo posset resistere -, dives; 3 cum tempus posceret, laboriosus, patiens; liberalis, splendidus non minus in vita quam victu; affabilis, blandus, temporibus callidissime serviens: 4 idem, simul ac se remiserat neque causa suberat, quare animi laborem perferret, luxuriosus, dissolutus, libidinosus, intemperans reperiebatur, ut omnes admirarentur in uno homine tantam esse dissimilitudinem tamque diversam naturam.
Alcibiade, figlio di Clinia, ateniese. In costui, sembra che la natura abbia sperimentato, cosa potesse realizzare. E’ infatti evidente a tutti, che tramandarono alla memoria su di lui, che nulla fu più eccellente di lui nei difetti o nelle qualità. Nato in una famosissima città da nobilissima famiglia, il più bello di molto di tutti della sua epoca, adatto per tutte le cose e pieno di intelligenza – infatti fu comandante supremo e per mare e per terra, eloquente, da risultare tra i primi col parlare, perché la presentazione dell’aspetto e del discorso era così grande, che nessuno gli poteva resistere col parlare -, ricco; quando il momento lo richiedesse, infaticabile, paziente; prodigo, splendido non meno nella vita che nel comportamento; affabile, seducente, adattandosi molto astutamente alle situazioni: lo stesso, si era lasciato andare e non c’era motivo, per cui sopportasse la fatica dello spirito, veniva trovato sfrenato, dissoluto, capriccioso, intemperante, tanto che tutti si meravigliavano che in un solo uomo ci fosse così grande differenza ed una natura tanto diversa.
2. De Alcibiadis amoribus.
2. Gli amori di Alcibiade.
Educatus est in domo Pericli - privignus enim eius fuisse dicitur -, eruditus a Socrate; socerum habuit Hipponicum, omnium Graeca lingua loquentium ditissimum: ut, si ipse fingere vellet, neque plura bona eminisci neque maiora posset consequi, quam vel natura vel fortuna tribueret. 2 Ineunte adulescentia amatus est a multis amore Graecorum, in eis Socrate; de quo mentionem facit Plato in symposio. Namque eum induxit commemorantem se pernoctasse cum Socrate neque aliter ab eo surrexisse, ac filius a parente debuerit.
3 Posteaquam robustior est factus, non minus multos amavit; in quorum amore, quoad licitum est odiosa, multa delicate iocoseque fecit, quae referremus, nisi maiora potiora haberemus.
Fu educato nella casa di Pericle – si dice infatti fosse suo figliastro -, istruito da Socrate; ebbe come suocero Ipponico, il più ricco di quelli che parlano in lingua greca: così che, se lui stesso avesse voluto crearseli, non avrebbe potuto né immaginare più beni né ottenerne maggiori, di quanto o la natura o la fortuna concedesse. Iniziando la giovinezza fu amato da molti dell’amore dei Greci, tra essi Socrate; e di lui fa menzione Platone nel simposio. Infatti lo introdusse mentre ricordava di aver pernottato con Socrate e che s’era alzato da lui non diversamente da come avrebbe dovuto un figlio dal padre. Dopo che diventò più vigoroso, non di meno amò molti; ma nell’amore di costoro, fino a quanto sia lecito fece cose odiose, molte elegantemente e scherzosamente, che riferiremmo, se non avessimo cose maggiori più importanti.
3. De Hermarum nocturna deiectione.
3. Abbattimento notturno delle Erme.
Bello Peloponnesio huius consilio atque auctoritate Athenienses bellum Syracusanis
indixerunt; ad quod gerendum ipse dux delectus est, duo praeterea collegae dati, Nicia et Lamachus. 2 Id cum appararetur, priusquam classis exiret, accidit, ut una nocte omnes Hermae,
qui in oppido erant Athenis, deicerentur praeter unum, qui ante ianuam erat Andocidi. Itaque
ille postea Mercurius Andocidi vocitatus est. 3 Hoc cum appareret non sine magna multorum
consensione esse factum, quae non ad privatam, sed publicam rem pertineret, magnus multitudini timor est iniectus, ne qua repentina vis in civitate exsisteret, quae libertatem opprimeret populi. 4 Hoc maxime convenire in Alcibiadem videbatur, quod et potentior et maior quam privatus existimabatur. Multos enim liberalitate devinxerat, plures etiam opera forensi suos reddiderat. 5 Qua re fiebat, ut omnium oculos, quotienscumque in publicum prodisset, ad se converteret neque ei par quisquam in civitate poneretur. Itaque non solum spem in eo habebant maximam, sed etiam timorem, quod et obesse plurimum et prodesse poterat. 6 Aspergebatur etiam infamia, quod in domo sua facere mysteria dicebatur; quod nefas erat more Atheniensium, idque non ad religionem, sed ad coniurationem pertinere existimabatur.
Durante la guerra del Peloponneso per suggerimento e prestigio di costui gli Ateniesi dichiararono guerra ai Siracusani; e per guidarla lui stesso venne eletto comandante, (furono) dati due colleghi, Nicia e Lamaco. Mentre la si allestiva, prima che la flotta uscisse, accadde che in una sola notte tutte le Erme, che c’erano in città ad Atene, furono abbattute eccetto una, che era davanti alla casa di Andocide. E così in seguito quello fu chiacchierato il Mercurio di Andocide. Risultando che questo era stato fatto non senza un grande assenso di molti, che riguardava non una cosa privata ma pubblica, nella moltitudine fu insinuato un grande timore, che una qualche forza improvvisa sussistesse in città, che sopprimesse la libertà del popolo. Questo sembrava accordarsi particolarmente verso Alcibiade, perché era considerato sia più potente sia maggiore di un privato. Infatti aveva legato molti con la prodigalità, parecchi pure li aveva resi suoi con l’attività forense. Perciò accadeva, che gli occhi di tutti, ogniqualvolta fosse uscito in pubblico, li attirasse su di sé e che nessuno nella città si ponesse pari a lui. Così non solo avevano massima speranza in lui, ma anche timore, poiché poteva sia giovare che nuocere moltissimo. Si spargeva pure la cattiva fama, perché si diceva che in casa sua si celebravano misteri; e questo era sacrilego secondo la tradizione degli Ateniesi, e la stessa cosa si pensava non rivolgersi alla religione, ma alla congiura.
4. De inAlcibiadem accusatione eiusque exsilio.
4. Accusa contro Alcibiade e suo esilio.
Hoc crimine in contione ab inimicis compellabatur. Sed instabat tempus ad bellum
proficiscendi. Id ille intuens neque ignorans civium suorum consuetudinem postulabat, si quid
de se agi vellent, potius de praesente quaestio haberetur, quam absens invidiae crimine
accusaretur. 2 Inimici vero eius quiescendum in praesenti, quia noceri non posse intellegebant,
et illud tempus exspectandum decreverunt, quo exisset, ut absentem aggrederentur; itaque fecerunt. 3 Nam postquam in Siciliam eum pervenisse crediderunt, absentem, quod sacra
violasset, reum fecerunt. Qua de re cum ei nuntius a magistratu in Siciliam missus esset, ut domum ad causam dicendam rediret, essetque in magna spe provinciae bene administrandae, non parere noluit et in trierem, quae ad eum erat deportandum missa, ascendit. 4 Hac Thurios in Italiam pervectus, multa secum reputans de immoderata civium suorum licentia crudelitateque erga nobiles, utilissimum ratus impendentem evitare tempestatem clam se ab custodibus subduxit et inde primum Elidem, dein Thebas venit. 5 Postquam autem se capitis damnatum bonis publicatis audivit et, id quod usu venerat, Eumolpidas sacerdotes a populo coactos, ut se devoverent, eiusque devotionis, quo testatior esset memoria, exemplum in pila lapidea incisum esse positum in publico, Lacedaemonem demigravit. 6 Ibi, ut ipse predicare consuerat, non adversus patriam, sed inimicos suos bellum gessit, qui eidem hostes essent civitati: nam cum intellegerent se plurimum prodesse posse rei publicae, ex ea eiecisse plusque irae suae quam utilitati communi paruisse. 7 Itaque huius consilio Lacedaemonii cum Perse rege amicitiam fecerunt, dein Deceleam in Attica munierunt praesidioque ibi perpetuo posito in obsidione Athenas tenuerunt; eiusdem opera Ioniam a societate averterunt Atheniensium; quo facto multo superiores bello esse coeperunt.
Di questa colpa era accusato in assemble dagli avversari. Ma incalzava il tempo di partire per la guerra. Egli vedendo ciò e non ignorando la consuetudine dei suoi concittadini richiedeva, se qualcosa volessero si trattasse di lui, la questione fosse fatta al presente piuttosto che assente fosse accusato di una colpa di odio. Gli avversari dunque decisero di star calmi al momento, poiché capivano che non si poteva nuocere e di aspettare quel tempo, in cui fosse partito, per aggredirlo assente; e così fecero. Infatti dopo che cedettero che lui fosse giunto in Sicilia, lo fecero accusato, perché aveva violato cose sacre.
Perciò essendogli stato mandato un messaggero dal magistrato in Sicilia, perché ritornasse in patria a sostenere il processo ed essendo nella grande speranza di concludere bene l’incarico, non volle non obbedire e s’imbarcò nella trireme, che era stata mandata per riportarlo. Da questa trasportato a Turi in Italia, ripensando molto tra sé sullo smodato capriccio dei suoi concittadini e della crudeltà verso i nobili, ritenendo molto utile evitare la tempesta incombente di nascosto si sottrasse alle guardie e di lì prima giunse in Elide, poi a Tebe. Ma dopo che udì che era stato condannato a morte, confiscati i beni, e ciò che era derivato per usanza, che i sacerdoti Eumolpidi erano stati costretti dal popolo, a maledirlo, e di quella maledizione, perché ci fosse un ricordo più evidente di quella maledizione, una copia incisa su colonna di pietra era stata posta in pubblico, emigrò a Sparta. Ivi, come era abituato a dire chiaramente, fece una guerra non contro la patria, ma i suoi avversari, che erano nemici della stessa città: infatti benché comprendessero che poteva giovare moltissimo allo stato lo avevano cacciato da esso ed avevano obbedito più alla loro ira che alla comune utilità. E così per suggerimento di costui i Lacedemoni fecero amicizia col re persiano, poi in Attica fortificarono Decelea e lì posta una guarnigione stabile tennero Atene in assedio; per sua iniziativa tolsero la Ionia dall’alleanza degli Ateniesi; per questo fatto cominciarono ad essere molto superiori in guerra.
5. De victoris Alcibiadis domum reditu.
5. Ritorno in patria di Alcibiade vincitore.
Neque vero his rebus tam amici Alcibiadi sunt facti quam timore ab eo alienati. Nam cum
acerrimi viri praestantem prudentiam in omnibus rebus cognoscerent, pertimuerunt, ne caritate
patriae ductus aliquando ab ipsis descisceret et cum suis in gratiam rediret. Itaque tempus eius
interficiundi quaerere instituerunt. 2 Id Alcibiades diutius celari non potuit. Erat enim ea sagacitate, ut decipi non posset, praesertim cum animum attendisset ad cavendum. Itaque ad Tissaphernem, praefectum regis Darii, se contulit. 3 Cuius cum in intimam amicitiam pervenisset et Atheniensium male gestis in Sicilia rebus opes senescere, contra
Lacedaemoniorum crescere videret, initio cum Pisandro praetore, qui apud Samum exercitum
habebat, per internuntios colloquitur et de reditu suo facit mentionem. Erat enim eodem, quo
Alcibiades, sensu, populi potentiae non amicus et optimatium fautor. 4 Ab hoc destitutus primum per Thrasybulum, Lyci filium, ab exercitu recipitur praetorque fit apud Samum; post
suffragante Theramene populi scito restituitur parique absens imperio praeficitur simul cum
Thrasybulo et Theramene. 5 Horum in imperio tanta commutatio rerum facta est, ut Lacedaemonii, qui paulo ante victores viguerant, perterriti pacem peterent. Victi enim erant
quinque proeliis terrestribus, tribus navalibus, in quibus ducentas naves triremes amiserant, quae captae in hostium venerant potestatem. 6 Alcibiades simul cum collegis receperat Ioniam,
Hellespontum, multas praeterea urbes Graecas, quae in ora sitae sunt Asiae, quarum expugnarant complures, in his Byzantium, neque minus multas consilio ad amicitiam adiunxerant, quod in captos clementia fuerant usi. 7 Ita praeda onusti, locupletato exercitu, maximis rebus gestis Athenas venerunt.
Ma per queste cose nè divennero tanto amici di Alcibiade quanto distanti da lui per timore. Infatti conoscendo la intelligenza superiore dell’acutissimo uomo, temettero che un giorno spinto dall’amore di patria si staccasse da loro e ritornasse in favore con i suoi. E così decisero l’occasione di farlo fuori. Alcibiade non potè a lungo essere all’oscuro di ciò. Era infatti di tale acutezza, che non poteva essere ingannato, soprattutto avendo allertato l’animo a star attento. E così si recò da Tissaferne, prefetto del re Dario. Essendo giunto alla sua intima amicizia e vedendo che gli interessi degli Ateniesi si indebolivano per le cose andate male in Sicilia, al contrario (quelli) dei Lacedemoni crescevano, all’inizio parla con intermediari col pretore Pisandro, che aveva l’esercito presso Samo, e fa menzione sul suo ritorno. Era infatti della stessa sensibilità, quale Alcibiade, non amico della potenza del popolo e fautore degli aristocratici. Abbandonato da questo dapprima per mezzo di Trasibulo, figlio di Licio, è accolto dall’esercito e diventa comandante presso Samo; poi su richiesta di Teramene per decisione del popolo è riabilitato e pur assente è messo a capo con apri potere insieme con Trasibulo e Teramene. Sotto il comando di costoro accadde un tale mutamento di cose che i Lacedemoni, che poco prima erano vigorosi come vincitori, atterriti chiesero la pace. Erano stati vinti infatti con tre scontri terrestri, tre navali, in cui avevano perso duecento navi trireme, che catturate erano giunte in possesso dei nemici. Alcibiade insieme con i colleghi aveva recuperato la Ionia, l’Ellesponto, inoltre molte città greche, che sono situate sulle sponde dell’Asia, di cui parecchie avevano espugnate, tra queste Bisanzio, ed avevano non di meno aggiunte molte in alleanza, perché avevano usato clemenza sui catturati.
Così carichi di bottino, arricchito l’esercito, compiute grandissime imprese giunsero ad Atene.
6. De Alcibiade coronis aureis donato.
6. Corone d’oro per Alcibiade.
His cum obviam universa civitas in Piraeum descendisset, tanta fuit omnium exspectatio
visendi Alcibiadis, ut ad eius triremem vulgus conflueret, proinde ac si solus advenisset. 2 Sic
enim populo erat persuasum, et adversas superiores et praesentes secundas res accidisse eius opera. Itaque et Siciliae amissum et Lacedaemoniorum victorias culpae suae tribuebant, quod talem virum e civitate expulissent. Neque id sine causa arbitrari videbantur. Nam postquam exercitui praeesse coeperat, neque terra neque mari hostes pares esse potuerant. 3 Hic ut e navi egressus est, quamquam Theramenes et Thrasybulus eisdem rebus praefuerant simulque venerant in Piraeum, tamen unum omnes illum prosequebantur, et, id quod numquam antea usu venerat nisi Olympiae victoribus, coronis aureis aeneisque vulgo donabatur. Ille lacrumans talem benevolentiam civium suorum accipiebat reminiscens pristini temporis acerbitatem. 4 Postquam astu venit, contione advocata sic verba fecit, ut nemo tam ferus fuerit, quin eius casui illacrumarit inimicumque iis se ostenderit, quorum opera patria pulsus fuerat, proinde ac si alius populus, non ille ipse, qui tum flebat, eum sacrilegii damnasset. 5 Restituta ergo huic sunt publice bona, eidemque illi Eumolpidae sacerdotes rursus resacrare sunt coacti, qui eum devoverant, pilaeque illae, in quibus devotio fuerat scripta, in mare praecipitatae.
Incontro a questi essendo discesa tutta la città al Pireo, così grande fu l’attesa di tutti di vedere Alcibiade, che il popolo cogfluiva alla sua trireme, come se fosse giunto da solo. Così il popolo era convinto che sia le cose precedenti erano accadute avverse sia quelle presenti favorevoli per opera sua.
E così attribuivano a colpa propria la perdita della Sicilia e le vittorie dei Lacedemoni, perché avevano cacciato dalla città un tale uomo. Né sembrava che ciò si pensasse senza motivo. Infatti dopo che aveva cominciato a presiedere l’esercito, né per terra né per mare i nemici avevano potuti essere pari. Questi come uscì dalla nave, anche se Teramene e Trasibulo erano stati a capo delle stesse cose ed insieme erano giunti al Pireo, tuttavia tutti seguivano solo lui e, ciò che mai prima era venuto in usanza se non ai vincitori di Olimpia, dal volgo era premiato con corone d’oro e di bronzo.
Egli piangendo riceveva tale benevolenza dei suoi concittadini ricordando l’amarezza del tempo passato.
Dopo che giunse alla rocca, convocata l’assemblea disse parole così che nessuno fu così duro da non piangere il suo caso e che si mostrasse avversario a coloro, per opera dei quali era stato cacciato dalla patria, come se un altro popolo e non quello stesso, che allora piangeva, lo avesse condannato per sacrilegio.
Dunque gli furono restituiti i beni pubblicamente, e quegli stessi sacerdoti Eumolpidi di nuovo furono costretti a riconsacrarlo, loro che l’avevano maledetto, e quelle colonne, in cui era stata scritta la maledizione, furono precipitate in mare.
7. De Alcibiade iterum ab inimicis accusato.
7. Alcibiade di nuovo accusato dagli avversari.
Haec Alcibiadi laetitia non nimis fuit diuturna. Nam cum ei omnes essent honores decreti
totaque res publica domi bellique tradita, ut unius arbitrio gereretur, et ipse postulasset, ut duo sibi collegae darentur, Thrasybulus et Adimantus, neque id negatum esset, classe in Asiam profectus, quod apud Cymen minus ex sententia rem gesserat, in invidiam recidit. 2 Nihil enim eum non efficere posse ducebant. Ex quo fiebat, ut omnia minus prospere gesta culpae tribuerent, cum aut eum neglegenter aut malitiose fecisse loquerentur; sicut tum accidit. Nam corruptum a rege capere Cymen noluisse arguebant. 3 Itaque huic maxime putamus malo fuisse nimiam opinionem ingenii atque virtutis. Timebatur enim non minus quam diligebatur, ne secunda fortuna magnisque opibus elatus tyrannidem concupisceret. Quibus rebus factum est, ut absenti magistratum abrogarent et alium in eius locum substituerent. 4 Id ille ut audivit, domum reverti noluit et se Pactyen contulit ibique tria castella communiit, Ornos, Bisanthen, Neontichos, manuque collecta primus Graecae civitatis in Thraeciam introiit, gloriosius existimans barbarum praeda locupletari quam Graiorum. 5 Qua ex re creverat cum fama tum opibus magnamque amicitiam sibi cum quibusdam regibus Thraeciae pepererat. Neque tamen a caritate patriae potuit recedere.
Questa gioia per Alcibiade non fu troppo durevole. Infatti essendogli stati decretati tutti gli onori e consegnato tutto lo stato in pace ed in guerra, sicché era controllato dalla volontà di uno solo, e lui avesse chiesto che gli fossero concessi due colleghi, Trasibulo ed Adimanto, e non essendogli stato negato ciò, partito con una flotta per l’Asia, perché presso Cime aveva condotta la cosa meno secondo l’aspettativa, ripiombò nel sospetto. Infatti pensavano che lui non potesse non realizzare nulla. Da ciò accadeva, che tutto quello compiuto meno positivamente l’attribuivano a colpa, dicendo che lui o aveva agito negligentemente o maliziosamente, come allora accadde. Infatti rimproveravano che corrotto dal re non aveva voluto prendere Cime. E così pensiamo che per lui sia stato di male la troppa opinione di genialità e valore. Infatti era temuto non meno che amato, che insuperbito dalla propizia fortuna e dalle grandi ricchezze desiderasse la tirannide. Per tali cose accadde che a lui assente togliessero la magistratura e sostituissero al suo posto un altro. Come egli udì ciò, non volle ritornare in patria e si recò a Pactia e lì fortificò tre fortezze, Orno, Bisante, Neonico e raccolto un piccolo manipolo, per primo di civiltà greca entrò in Tracia, stimando cosa più gloriosa arricchirsi col bottino dei barbari che dei Grai. Per la qual cosa era cresciuta sia per la fama che per risorse e si era procurato una grande amicizia con alcuni re della Tracia. Né tuttavia poté allontanarsi dall’amore per la patria.
8. De Alcibiadis patriae caritate.
8. Amor di patria di Alcibiade.
Nam cum apud Aegos flumen Philocles, praetor Atheniensium, classem constituisset suam
neque longe abesset Lysander, praetor Lacedaemoniorum, qui in eo erat occupatus, ut bellum quam diutissime duceret, quod ipsis pecunia a rege suppeditabatur, contra Atheniensibus exhaustis praeter arma et navis nihil erat super, 2 Alcibiades ad exercitum venit Atheniensium ibique praesente vulgo agere coepit: si vellent, se coacturum Lysandrum dimicare aut pacem petere; Lacedaemonios eo nolle classe confligere, quod pedestribus copiis plus quam navibus valerent: 3 sibi autem esse facile Seuthem, regem Thraecum, deducere, ut eum terra
depelleret; quo facto necessario aut classe conflicturum aut bellum compositurum. 4 Id etsi vere dictum Philocles animadvertebat, tamen postulata facere noluit, quod sentiebat se Alcibiade recepto nullius momenti apud exercitum futurum et, si quid secundi evenisset, nullam in ea re suam partem fore, contra ea, si quid adversi accidisset, se unum eius delicti futurum reum. 5 Ab hoc discedens Alcibiades “Quoniam, inquit, victoriae patriae repugnas, illud moneo, iuxta
hostem castra habeas nautica: periculum est enim, ne immodestia militum vestrorum occasio detur Lysandro vestri opprimendi exercitus”. 6 Neque ea res illum fefellit. Nam Lysander cum per speculatores comperisset vulgum Atheniensium in terram praedatum exisse navesque paene inanes relictas, tempus rei gerendae non dimisit eoque impetu bellum totum delevit.
Infatti quando presso il fiume Egos Filocle, comandante degli Ateniesi, aveva allestito la sua flotta e non era lontano Lisandro, comandante dei Lacedemoni, che era occupato in questo, di condurre il più a lungo possibile la guerra, poichè ad essi era fornito denaro dal re, al contrario agli Ateniesi esausti non rimaneva nulla al di fuori delle armi e delle navi, Alcibiade giunse presso l’esercito degli Ateniesi e lì, presente il popolo, cominciò a trattare: se volevano, egli avrebbe costretto Lisandro a combattere o chiedere la pace; i Lacedemoni non volevano scontrarsi per questo, perché erano forti più con le truppe di fanti che con le navi; per lui era facile indurre Seute, re dei Traci, a cacciarlo dalla terra; fatto questo necessariamente o avrebbe combattuto o conclusa la guerra. Filocle anche se capiva che ciò era detto veramente, tuttavia non volle eseguire le richieste, perché capiva che lui, accolto Alcibiade, presso l’esercito non sarebbe stato di nessuna importanza e, se fosse capitato qualcosa di favorevole, la sua parte in quella cosa sarebbe stata nulla, invece, se fosse capitato qualcosa di avverso, solo lui sarebbe stato accusato di quel reato. Partendo da costui Alcibiade “Poiché, disse, ti opponi alla vittoria della patria, di questo ti avverto, di avere le basi navali vicino al nemico: c’è pericolo infatti che per il non controllo dei vostri soldati sia data occasione a Lisandro di sopprimere il vostro esercito”.
Né quella cosa lo ingannò.
Infatti Lisandro avendo saputo dagli informatori che il popolo degli Ateniesi era sceso sulla terra per fare bottino e che le navi erano rimaste quasi vuote, non tralasciò l’opportunità di fare la cosa e con quell’attacco cancellò tutta la guerra.
9. De Alcibiadis fuga apud Persarum regem.
9. Fuga di Alcibiade presso il re dei Persiani.
At Alcibiades, victis Atheniensibus non satis tuta eadem loca sibi arbitrans, penitus in Thraeciam se supra Propontidem abdidit, sperans ibi facillime suam fortunam occuli posse. Falso. 2 Nam Thraeces, postquam eum cum magna pecunia venisse senserunt, insidias fecerunt; qui ea, quae apportarat, abstulerunt, ipsum capere non potuerunt. 3 Ille cernens nullum locum sibi tutum in Graecia propter potentiam Lacedaemoniorum, ad Pharnabazum in Asiam transiit; quem quidem adeo sua cepit humanitate, ut eum nemo in amicitia antecederet. Namque ei Grynium dederat, in Phrygia castrum, ex quo quinquagena talenta vectigalis capiebat. 4 Qua fortuna Alcibiades non erat contentus neque Athenas victas Lacedaemoniis servire poterat pati. Itaque ad patriam liberandam omni ferebatur cogitatione. 5 Sed videbat id sine rege Perse non posse fieri ideoque eum amicum sibi cupiebat adiungi neque dubitabat facile se consecuturum, si modo eius conveniundi habuisset potestatem. Nam Cyrum fratrem ei bellum clam parare Lacedaemoniis adiuvantibus sciebat: id si aperuisset, magnam se initurum gratiam videbat.
Ma Alcibiade, Essendo stati vinti gli Ateniesi, non ritenendo gli stessi luoghi abbastanza sicuri, si nascose nell’interno della Tracia sopra la Propontide, sperando che lì molto facilmente il suo patrimonio potesse essere occultato. Erroneamente. Infatti i Traci, dopo che capirono che lui era giunto con molto denaro, tesero insidie; ed esse portarono via, le cose che aveva portato, lui non poterono prenderlo. Egli vedendo che nessun luogo in Grecia gli era sicuro per la potenza dei Lacedemoni, passò in Asia presso Farnabazo; e senz’altro così lo accolse con la sua cortesia, che nessuno lo superava in amicizia. Infatti gli aveva dato Grinio, fortezza in Frigia, da cui ricavava cinquecento talenti di rendita. Ma di tale fortuna Alcibiade non era contento e non poteva sopportare che Atene vinta servisse i Lacedemoni. E così era portato da ogni pensiero a liberare la patria. Ma vedeva che ciò non poteva accadere senza il re persiano e perciò desiderava allearselo come amico e non dubitava che facilmente l’avrebbe ottenuto, se solo avesse avuto la possibilità di incontrarlo. Infatti sapeva che il fratello Ciro segretamente gli preparava una guerra, aiutando i Lacedemoni: se avesse rivelato ciò, vedeva che ne avrebbe incontrato il favore.
10. De Alcibiadis morte.
10. Morte di Alcibiade.
Hoc cum moliretur peteretque a Pharnabazo, ut ad regem mitteretur, eodem tempore Critias ceterique tyranni Atheniensium certos homines ad Lysandrum in Asiam miserant, qui eum certiorem facerent, nisi Alcibiadem sustulisset, nihil earum rerum fore ratum, quas ipse Athenis constituisset: quare, si suas res gestas manere vellet, illum persequeretur. 2 His Laco rebus commotus statuit accuratius sibi agendum cum Pharnabazo. Huic ergo renuntiat, quae regi cum Lacedaemoniis essent, nisi Alcibiadem vivum aut mortuum sibi tradidisset. 3 Non tulit hunc satrapes et violare clementiam quam regis opes minui maluit. Itaque misit Susamithren et Bagaeum ad Alcibiadem interficiendum, cum ille esset in Phrygia iterque ad regem compararet. 4 Missi clam vicinitati, in qua tum Alcibiades erat, dant negotium, ut eum interficiant. Illi cum ferro aggredi non auderent, noctu ligna contulerunt circa casam eam, in qua quiescebat, eaque succenderunt, ut incendio conficerent, quem manu superari posse diffidebant. 5 Ille autem ut sonitu flammae est excitatus, etsi gladius ei erat subductus, familiaris sui subalare telum eripuit.
Namque erat cum eo quidam ex Arcadia hospes, qui numquam discedere voluerat. Hunc sequi
se iubet et id, quod in praesentia vestimentorum fuit, arripit. His in ignem eiectis flammae vim
transiit. 6 Quem ut barbari incendium effugisse viderunt, telis eminus missis interfecerunt
caputque eius ad Pharnabazum rettulerunt. At mulier, quae cum eo vivere consuerat, muliebri
sua veste contectum aedificii incendio mortuum cremavit, quod ad vivum interimendum erat
comparatum. Sic Alcibiades annos circiter XL natus diem obiit supremum.
Mentre macchinava questo e chiedeva a Farnabazo, che fosse inviato dal re, nello stesso tempo Crizia ed altri tiranni degli ateniesi avevano mandato uomini fdati presso Lisandro, che lo informassero, che se non avesse tolto via Alcibiade, nulla di quelle cose che egli aveva stabilito ad Atene sarebbe stato ratificato: perciò, se voleva mantenere le sue azioni, lo inseguisse.
Lo Spartano mosso da queste cose decise che lui doveva trattare più accuratamente con Farnabazo. A costui dunque disdice, le cose (concordate) che c’erano per il re con i Lacedemoni, se non avesse consegnato Alcibiade vivo o morto. Il satrapo non lo protesse e preferì violare la clemenza piuttosto che gli interessi del re fossero diminuiti. E così inviò Susamitre e Bageo per uccidere Alcibiade, mentre egli era in Frigia e preparava il viaggio verso il re. I messi danno l’incarico alla popolazione, in cui allora era Allibiate, perché lo uccidano. Quelli non osando aggredirlo col ferro, di notte raccolsero attorno a quella capanna, in cui riposava, della legna e la accesero, per finire con un incendio, colui che diffidavano poter essere vinto con la mano. Ma lui come fu svegliato dal frastuono della fiamma, anche se gli era stata sottratta la spada, strappò l’arma a tracolla di un suo compagno.
Infatti c’era con lui un tale ospite dall’Arcadia, che mai aveva voluto andarsene. Ordina a costui di seguirlo e arraffa, quello che al momento c’era vi vestiario. Gettati questi nel fuoco, oltrepassò la violenza della fiamma. Quando i barbari videro che aveva sfuggito quell’incendio, scagliati giavellotti da lontano lo uccisero e portarono la sua testa a Farnabazo. Ma la donna, che era solita vivere con lui, copertolo con la sua veste femminile lo cremò morto con l’incendio dell’edificio, che era stato preparato per ucciderlo vivo.
Così Alcibiade a circa quarant’anni affrontò il giorno supremo.
11. De Alcibiadis vitiis virtutibusque maximis.
11. Grandissimi difetti e virtù di Alcibiade.
Hunc infamatum a plerisque tres gravissimi historici summis laudibus extulerunt: Thucydides, qui eiusdem aetatis fuit, Theopompus, post aliquanto natus, et Timaeus: qui quidem duo maledicentissimi nescio quo modo in illo uno laudando consentiunt. 2 Namque ea, quae supra scripsimus, de eo praedicarunt atque hoc amplius: cum Athenis, splendidissima civitate, natus esset, omnes splendore ac dignitate superasse vitae; 3 postquam inde expulsus Thebas venerit, adeo studiis eorum inservisse, ut nemo eum labore corporisque viribus posset aequiperare - omnes enim Boeotii magis firmitati corporis quam ingenii acumini inserviunt -; 4 eundem apud Lacedaemonios, quorum moribus summa virtus in patientia ponebatur, sic duritiae se dedisse, ut parsimonia victus atque cultus omnes Lacedaemonios vinceret; fuisse apud Thracas, homines vinolentos rebusque veneriis deditos; hos quoque in his rebus antecessisse; 5 venisse ad Persas, apud quos summa laus esset fortiter venari, luxuriose vivere: horum sic imitatum consuetudinem, ut illi ipsi eum in his maxime admirarentur. 6 Quibus rebus effecisse, ut, apud quoscumque esset, princeps poneretur habereturque carissimus. Sed satis de hoc; reliquos ordiamur.
Costui, diffamato da parecchi, tre importantissimi storici lo esaltarono con grandissimi elogi: Tucidide, che fu della stessa epoca, Teopompo, nato un po’ dopo, e Timeo: e proprio questi due molto maldicenti, non so in che modo, concordano nel lodare unicamente lui. Infatti quelle cose che abbiamo scritto sopra, le hanno dette di lui e questo in più: essendo nato ad Atene, splendidissima città, aveva superato tutti nello splendore e nella bellezza della vita; dopo che espulso di lì giunse a Tebe, a tal punto ha corrisposto alle loro attese, che nessuno poteva eguagliarlo per fatica e forze del corpo – infatti tutti i Beoti mirano più alla saldezzadel corpo che all’acutezza dell’ingegno -; lui stesso presso i Lacedemoni, secondo i cui costuni il massimo valore si poneva nella sopportazione, si era dedicato tanto al rigore, che vinceva tutti per risparmio di vitto e sfoggio; fu presso i traci, uomini ubriaconi e dediti alla cose di sesso; anche questi li ha superati in queste cose;
era giunto tra i Persiani, presso i quali era massimo elogio cacciare con forza, vivere lussuosamente: di costoro aveva tanto imitato la tradizione, che loro stessi lo ammiravano soprattutto in queste cose.
Ma con queste cose aveva fatto in modo che, presso chiunque fosse, fosse ritenuto e considerato il primo, il più caro.
Ma (è) sufficiente su costui; cominciamo gli altri.
THRASYBULUS
TRASIBULO
1. De Thrasybuli virtute et fortuna.
1. Valore e sorte di trasibulo.
Thrasybulus, Lyci filius, Atheniensis. Si per se virtus sine fortuna ponderanda sit, dubito, an
hunc primum omnium ponam; illud sine dubio: neminem huic praefero fide, constantia,
magnitudine animi, in patriam amore. 2 Nam quod multi voluerunt paucique potuerunt ab uno
tyranno patriam liberare, huic contigit, ut a XXX oppressam tyrannis e servitute in libertatem
vindicaret. 3 Sed nescio quo modo, cum eum nemo anteiret his virtutibus, multi nobilitate
praecucurrerunt. Primum Peloponnesio bello multa hic sine Alcibiade gessit, ille nullam rem
sine hoc; quae ille universa naturali quodam bono fecit lucri. 4 Sed illa tamen omnia communia
imperatoribus cum militibus et fortuna, quod in proelii concursu abit res a consilio ad vires
utrimque pugnantium. Itaque iure suo nonnulla ab imperatore miles, plurima vero fortuna
vindicat seque hic plus valuisse quam ducis prudentiam vere potest praedicare. 5 Quare illud
magnificentissimum factum proprium est Thrasybuli. Nam cum XXX tyranni, praepositi a
Lacedaemoniis, servitute oppressas tenerent Athenas, plurimos civis, quibus in bello parserat
fortuna, partim patria expulissent, partim interfecissent, plurimorum bona publicata inter se
divisissent, non solum princeps, sed etiam solus initio bellum his indixit.
Trasibulo, figlio di Licio, Ateniese. Se il valore fosse da ponderare per sé senza la fortuna, dubito se porrei costui come primo di tutti; ciò senza dubbio; nessuno preferisco a costui per lealtà, costanza, grandezza d’animo, amore verso la patria. Infatti ciò che molti vollero e pochi poterono, (cioè) liberare la patria da un solo tiranno, a costui toccò di trarla dalla schiavitù alla libertà oppressa da trenta tiranni.
Ma non so in che modo, poiché mentre nessuno lo sopravanzava per queste qualità, molti lo superarono per nobiltà. Dapprima nella guerra peloponnesiaca costui fece molto senza Alcibiade, quello nessuna cosa senza costui; cose tutte che quello fece per una dote naturale di lucro. Ma quelle cose tuttavia (sono) tutte comuni ai comandanti con i soldati e la fortuna, perché in uno scontro di battaglia la cosa parte dalla strategia verso le forze dei combattenti dalle due parti. E così per suo diritto il soldato rivendica alcune cose dal comandante, ma la fortuna (ne rivendica) moltissime e può veramente affermare che qui lei ha prevalso più che la saggezza del comandante. Perciò quel più che magnifico fatto è proprio di Trasibulo. Infatti mentre i trenta tiranni, preposti dai Lacedemoni tenevano oppressa Atene, avevano cacciato moltissimi cittadini, che la fortuna in guerra aveva risparmiato, in parte dalla patria, in parte li avevano fatti fuori, avevano diviso tra loro i beni confiscati, non solo per primo, ma addirittura solo inizialmente dichiarò guerra a costoro.
2. De Thrasybuli pugna contra tyrannos.
2. Battaglia di Trasibulo contro i tiranni.
Hic enim cum Phylen confugisset, quod est castellum in Attica munitissimum, non plus
habuit secum XXX de suis. Hoc initium fuit salutis Actaeorum, hoc robur libertatis clarissimae
civitatis. 2 Neque vero hic non contemptus est primo a tyrannis atque eius solitudo. Quae
quidem res et illis contemnentibus pernicii et huic despecto saluti fuit. Haec enim illos segnes ad
persequendum, hos autem tempore ad comparandum dato fecit robustiores. 3 Quo magis
praeceptum illud omnium in animis esse debet, nihil in bello oportere contemni, neque sine
causa dici matrem timidi flere non solere. 4 Neque tamen pro opinione Thrasybuli auctae sunt
opes. Nam iam tum illis temporibus fortius boni pro libertate loquebantur quam pugnabant. 5
Hinc in Piraeum transiit Munychiamque munivit. Hanc bis tyranni oppugnare sunt adorti ab
eaque turpiter repulsi protinus in urbem armis impedimentisque amissis refugerunt. 6 Usus est
Thrasybulus non minus prudentia quam fortitudine. Nam cedentes violari vetuit - cives enim civibus parcere aequum censebat -; neque quisquam est vulneratus, nisi qui prior impugnare
voluit. Neminem iacentem veste spoliavit, nil attigit nisi arma, quorum indigebat, quaeque ad
victum pertinebant. 7 In secundo proelio cecidit Critias, dux tyrannorum, cum quidem
exadversus Thrasybulum fortissime pugnaret.
Costui infatti essendo fuggito a File, che è una fortezza in Attica molto fortificata, non ebbe con sé più trenta dei suoi. Questo fu l’inizio della salvezza degli Attici, questa la robustezza della famosissima libertà della città. Ma costui ed il suo isolamento dapprima neppure non fu disprezzato dai tiranni. Proprio quella cosa da una parte per loro sprezzanti fu di rovina dall’altra per costui disprezzato di salvezza. Questa (cosa) rese loro lenti a perseguitarlo, ma (rese) questi, dato il tempo, più robusti per preparare. Per cui maggiormente deve essere negli animi di tutti quel famoso precetto, che nulla in guerra bisogna che sia trascurato e che non senza causa si dice che la madre del cauto non suole piangere. Tuttavia le forze non furono aumentate secondo l’aspettativa di Trasibulo. Infatti già allora in quei tempi i buoni parlavano per la libertà più che combattere. Di qui passò nel Pireo e fortificò Munichia. Questa per due volte i tiranni tentarono di assalirla e vergognosamente respinti da essa subito, lasciate le armi ed i bagagli, si rifugiarono in città. Trasibulo usò non meno la saggezza che la forza. Infatti vietò che fossero colpiti chi si arrendeva – pensava giusto infatti che i cittadini risparmiassero i concittadini -; e nessuno fu ferito, se non chi per primo volle attaccare. Non spogliò nessuno che giaceva (morto) del vestiario, nulla toccò se non le armi, di cui aveva bisogno, e quelle cose che servivano per il vitto. Nel secondo scontro cadde Crizia, mentre combatteva fortissimamente proprio davanti a Trasibulo.
3. De riconciliata pace in civitate Thrasybuli opera.
3. La pace riportata in città per opera di Trasibulo.
Hoc deiecto Pausanias venit Atticis auxilio, rex Lacedaemoniorum. Is inter Thrasybulum et
eos, qui urbem tenebant, fecit pacem his condicionibus: ne qui praeter XXX tyrannos et X, qui postea praetores creati superioris more crudelitatis erant usi, afficerentur exsilio, neve bona publicarentur; rei publicae procuratio populo redderetur. 2 Praeclarum hoc quoque Thrasybuli,
quod reconciliata pace, cum plurimum in civitate posset, legem tulit, ne quis ante actarum rerum accusaretur neve multaretur; eamque illi oblivionis appellarunt. 3 Neque vero hanc tantum ferendam curavit, sed etiam, ut valeret, effecit. Nam cum quidam ex iis, qui simul cum eo in exsilio fuerant, caedem facere eorum vellent, cum quibus in gratiam reditum erat publice, prohibuit et id, quod pollicitus erat, praestitit.
Abbattuto costui, Pausania, re dei Lacedemoni, venne in aiuto agli Attici. Egli fece la pace tra Trasibulo e quelli che occupavano la città a queste condizioni: che nessuno, eccetto i trenta tiranni e i dieci che in seguito creati comandanti avevano usato l’usanza della precedente crudeltà, fossero colpiti con l’esilio, che i beni non fossero confiscati; il controllo dello stato fosse restituito al popolo. Questo pure fu straordinario di Trasibulo, il fatto che riconciliata la pace, pur potendo moltissimo in città, fece una legge, che nessuno fosse accusato né multato delle azioni commesse prima; essi la chiamarono della dimenticanza. Ma non curò solo di fare questa, ma anche fece in modo, che valesse. Infatti mentre alcuni di quelli che insieme con lui erano stati in esilio volevano fare la strage di quelli coi quali pubblicamente si era tornati in rapporto, lo impedì e realizzò, ciò che aveva promesso.
4. De Thrasybuli maxima aequitate.
4. Massima equanimità di trasibulo.
Huic pro tantis meritis honoris corona a populo data est, facta duabus virgulis oleaginis:
quam quod amor civium et non vis expresserat, nullam habuit invidiam magnaque fuit gloria. 2
Bene ergo Pittacus ille, qui in VII sapientum numero est habitus, cum Mytilenaei multa milia
iugerum agri ei muneri darent, “Nolite, oro vos, inquit id mihi dare, quod multi invideant, plures
etiam concupiscant. Quare ex istis nolo amplius quam centum iugera, quae et meam animi
aequitatem et vestram voluntatem indicent. Nam parva munera diutina, locupletia non propria
esse consuerunt”. 3 Illa igitur corona contentus Thrasybulus neque amplius requisivit neque
quemquam honore se antecessisse existimavit. 4 Hic sequenti tempore cum praetor classem ad
Ciliciam appulisset neque satis diligenter in castris eius agerentur vigiliae, a barbaris ex oppido
noctu eruptione facta in tabernaculo interfectus est.
A costui per i così grandi meriti fa data dal popolo una corona d’onore, fatta di due ramoscelli d’ulivo: e poiché l’aveva espresso l’amore dei concittadini e non la forza, non suscitò alcuna invidia e grande fu al gloria. Bene dunque disse quel famoso Pittaco, che fu ritenuto nel numero dei sette sapienti, quando i Mitilenei gli davano in dono molte migliaia di iugeri di terreno, “Non vogliate, vi prego, dare a me, ciò che molti invidierebbero, parecchi pure desidererebbero. Perciò tra codesti non voglio più di cento iugeri, che dichiarino sia la mia equanimità sia la vostra volontà. Infatti i piccoli doni furono soliti essere duraturi, i ricchi non stabili.” Perciò Trasibulo contento di quella corona né chiese di più né credette che alcuno l’avesse superato in onore. Costui in un tempo successivo quale comandante avendo sbarcato la flotta in Cilicia e non essendosi svolti abbastanza diligentemente le veglie nei suoi accampamenti, fatta una sortita di notte dalla città fu ucciso dai barbari nella tenda.
CONON
CONONE
1. De Cononis prudentia diligentiaque in re militari.
1. Esperienza ed avvedutezza di Conone nella realtà militare.
Conon Atheniensis Peloponnesio bello accessit ad rem publicam, in eoque eius opera magni fuit. Nam et praetor pedestribus exercitibus praefuit et praefectus classis magnas mari victorias gessit. Quas ob causas praecipuus ei honos habitus est. Namque omnibus unus insulis praefuit; in qua potestate Pheras cepit, coloniam Lacedaemoniorum. 2 Fuit etiam extremo Peloponnesio bello praetor, cum apud Aegos flumen copiae Atheniensium a Lysandro
sunt devictae. Sed tum afuit, eoque peius res administrata est. Nam et prudens rei militaris et
diligens erat imperator. 3 Itaque nemini erat his temporibus dubium, si adfuisset, illam Atheniensis calamitatem accepturos non fuisse.
Conone, ateniese, si avviò alla realtà pubblica durante la guerra peloponnesiaca, ed in essa la sua opera fu di grande (importanza). Infatti da una parte presiedette come comandante agli eserciti di fanteria dall’altra come capo della flotta ottenne grandi vittorie in mare. E per tali cause gli fu riconosciuto un particolare carica. Infatti fu a capo da solo di tutte le isole; ed in tale potere prese Fere, colonia degli Spartani.
Fu pure comandante alla fine della guerra peloponnesiaca, quando presso il fiume Egos le truppe degli Ateniesi furono vinte da Lisandro. Ma allora fu assente e perciò la cosa fu organizzata peggio. Infatti era sia esperte di realtà militare sia attento generale. E così per nessuno in queste occasioni c’era il dubbio che se fosse stato presente, gli Ateniesi non avrebbero ricevuto quella catastrofe.
2. De Cononis opera apud Pharnabazum.
2. Attività di Conone presso Franabazo.
Rebus autem afflictis, cum patriam obsideri audisset, non quaesivit, ubi ipse tuto viveret,
sed unde praesidio posset esse civibus suis. Itaque contulit se ad Pharnabazum, satrapem Ioniae
et Lydiae eundemque generum regis et propinquum; apud quem ut multum gratia valeret, multo labore multisque effecit periculis. 2 Nam cum Lacedaemonii Atheniensibus devictis in societate non manerent, quam cum Artaxerxe fecerant, Agesilaumque bellatum misissent in Asiam, maxime impulsi a Tissapherne, qui ex intimis regis ab amicitia eius defecerat et cum
Lacedaemoniis coierat societatem, hunc adversus Pharnabazus habitus est imperator, re quidem
vera exercitui praefuit Conon, eiusque omnia arbitrio gesta sunt. 3 Hic multum ducem summum
Agesilaum impedivit saepeque eius consiliis obstitit; neque vero non fuit apertum, si ille non
fuisset, Agesilaum Asiam Tauro tenus regi fuisse erepturum. 4 Qui posteaquam domum a suis
civibus revocatus est, quod Boeotii et Athenienses Lacedaemoniis bellum indixerant, Conon nihilo setius apud praefectos regis versabatur hisque omnibus magno erat usui.
Ma essendo le cose rovinate, avendo sentito che la patria era assediata, non chiese, dove lui stesso vivesse al sicuro, ma donde potesse essere di difesa per i suoi concittadini. E così si recò da Farnabazo, satrapo di Ionia e Lidia e lo stesso genero e parente del re; e presso di lui con molta fatica e molti pericoli fece in modo di valere molto per credito. Infatti poiché i Lacedemoni, sconfitti gli Ateniesi, non rimanevano nell’alleanza, che avevano fatto con Artaserse, ed avevano inviato Agesilao per combattere in Asia, soprattutto spinti da Tissaferne, che tra gli intimi del re si era staccato dalla sua amicizia e si era unito in alleanza coi Lacedemoni, contro costui fu eletto Farnabazo come comandante, ma nella vera realtà Conone fu a capo dell’esercito, e tutto fu fatto a suo arbitrio.
Costui bloccò molto il comandante supremo Agesilao e spesso ostacolò i suoi piani; ma non fu non evidente, che se non ci fosse stato lui, Agesilao avrebbe tolto al re l’Asia fino al Tauro.
Ma dopo che egli fu richiamato in patria dai suoi concittadini, perché i Beoti e gli Ateniesi avevano dichiarato guerra ai Lacedemoni, Conone non di meno rimaneva presso i prefetti del re ed a tutti costoro era di grande utilità.

3. De Conone apud Persarum regem.
3. Conone presso il re dei Persiani.
Defecerat a rege Tissaphernes, neque id tam Artaxerxi quam ceteris erat apertum. Multis
enim magnisque meritis apud regem, etiam cum in officio non maneret, valebat. Neque id erat
mirandum, si non facile ad credendum adducebatur, reminiscens eius se opera Cyrum fratrem superasse. 2 Huius accusandi gratia Conon a Pharnabazo ad regem missus, posteaquam venit,
primum ex more Persarum ad chiliarchum, qui secundum gradum imperii tenebat, Tithrausten,
accessit seque ostendit cum rege colloqui velle. Nemo enim sine hoc admittitur. 3 Huic ille
“Nulla, inquit, mora est; sed tu delibera, utrum colloqui malis an per litteras agere, quae cogitas.
Necesse est enim, si in conspectum veneris, venerari te regem - quod proskynesin illi vocant -Hoc si tibi grave est, per me nihilo setius editis mandatis conficies, quod studes”. 4 Tum Conon
“Mihi vero, inquit, non est grave quemvis honorem habere regi; sed vereor, ne civitati meae sit opprobrio, si, cum ex ea sim profectus, quae ceteris gentibus imperare consuerit, potius
barbarorum quam illius more fungar.” Itaque, quae huic volebat, scripta tradidit.
Tissaferne si era ribellato al re, né ciò era tanto evidente ad Artaserse quanto agli altri. Infatti presso il re era influente per molti e grandi meriti, anche non tenendosi al dovere. Né (in) ciò c’era da meravigliarsi, se non facilmente era condotto a crederlo, ricordando che per opera sua aveva vinto il fratello Ciro. Per accusare costui Conone, mandato da Farnabazo presso il re, dopo che giunse, anzitutto, secondo la tradizione dei Persiani, si presentò al chiliarca Titrauste, che deteneva il secondo posto del potere, e dichiarò di volere parlare col re. Nessuno infatti senza ciò è ammesso. A questi egli disse: “Non c’è nessuna difficoltà; ma tu dichiara se preferisci parlare o trattare per lettera quello che pensi. Infatti è necessario, se sarai giunto al (suo) cospetto, che tu adori il re – cosa che essi chiamano proschinesi -.
Se questo per te è gravoso, attraverso di me nondimeno, esposti i mandati, realizzerai ciò che desideri”.
Allora Conone rispose: “Ma per me non è gravoso rendere al re qualsiasi onore; ma temo che per la mia città sia di disonore, se, partito da quella, che è abituata a comandare alle altre popolazioni, io usassi la tradizione dei barbari piuttosto che la sua.”
E così consegnò scritte a costui le cose che voleva.

4. De Cimonis meritis et liberalitate in cives suos.
4. Meriti e generosità di Cimone verso i suoi concittadini.
Quibus cognitis rex tantum auctoritate eius motus est, ut et Tissaphernem hostem iudicarit et Lacedaemonios bello persequi iusserit et ei permiserit, quem vellet, eligere ad dispensandam
pecuniam. Id arbitrium Conon negavit sui esse consilii, sed ipsius, qui optime suos nosse deberet; sed se suadere, Pharnabazo id negotii daret. 2 Hinc, magnis muneribus donatus, ad mare est missus, ut Cypriis et Phoenicibus ceterisque maritimis civitatibus navis longas imperaret classemque, qua proxima aestate mare tueri posset, compararet, dato adiutore Pharnabazo, sicut ipse voluerat. 3 Id ut Lacedaemoniis est nuntiatum, non sine cura rem administrant, quod maius bellum imminere arbitrabantur, quam si cum barbaro solum contenderent. Nam ducem fortem, prudentem regis opibus praefuturum ac secum dimicaturum videbant, quem neque consilio neque copiis superare possent. 4 Hac mente magnam contrahunt classem; proficiscuntur Pisandro duce. Hos Conon apud Cnidum adortus magno proelio fugat, multas naves capit, complures deprimit. Qua victoria non solum Athenae, sed etiam cuncta Graecia, quae sub Lacedaemoniorum fuerat imperio, liberata est. 5 Conon cum parte navium in patriam venit, muros dirutos a Lysandro utrosque, et Piraei et Athenarum, reficiendos curat pecuniaeque quinquaginta talenta, quae a Pharnabazo acceperat, civibus suis donat.
Conosciute queste cose il re fu tanto scosso dalla sua autorevolezza, che giudicò Tissaferne un nemico, comandò che i Lacedemoni fossero perseguiti con una guerra e gli affidò di eleggere chi volesse per amministrare il denaro. Conone disse che un tale progetto non era di sua decisione, ma di lui stesso, che doveva conoscere molto bene i suoi; ma lui consigliava di dare quell’incarico a Farnabazo. Di qui premiato con molti doni, fu inviato sul mare, per comandare ai Ciprioti ed ai fenici e alle città marittime e preparare la flotta, con cui nell’estate successiva poter difendere il mare, dato Farnabazo come collaboratore, come lui stesso aveva voluto. Come ciò fu annunciato ai Lacedemoni, non senza preoccupazione organizzano la cosa, poiché pensavano che incombesse una guerra più importante che se combattessero solo contro il barbaro. Infatti vedevano che sarebbe stato a capo delle potenze del re e che avrebbe combattuto contro di loro un comandante forte e saggio, che non potevano vincere né con la strategia né con le truppe. Con questa idea raccolgono una grande flotta; partono sotto il comando di Pisandro. Conone assaliti costoro presso Cnido li nette in fuga con una grande battaglia, cattura molte navi, parecchie le affonda. E con tale vittoria non solo Atene, ma anche tutta la Grecia, che era stata sotto il comando dei Lacedemoni, fu liberata. Conone con una parte delle navi giunse in patria, fa ricostruire entrambe le mura, e del Pireo e di Atene, distrutte da Lisandro e dona ai suoi concittadini cinquanta talenti della somma che aveva ricevuto da Farnabazo.

5. De Cononis dubio interitu.
5. Incerta morte di Conone.
Accidit huic, quod ceteris mortalibus, ut inconsideratior in secunda quam in adversa esset
fortuna. Nam classe Peloponnesiorum devicta cum ultum se iniurias patriae putaret, plura concupivit, quam efficere potuit. 2 Neque tamen ea non pia et probanda fuerunt, quod potius patriae opes augeri quam regis maluit. Nam cum magnam auctoritatem sibi pugna illa navali, quam apud Cnidum fecerat, constituisset, non solum inter barbaros, sed etiam omnes Graeciae civitates, clam dare operam coepit, ut Ioniam et Aeoliam restitueret Atheniensibus. 3 Id cum minus diligenter esset celatum, Tiribazus, qui Sardibus praeerat, Cononem evocavit, simulans ad regem eum se mittere velle magna de re. Huius nuntio parens cum venisset, in vincla coniectus est; in quibus aliquamdiu fuit. 4 Inde nonnulli eum ad regem abductum ibique eum perisse scriptum reliquerunt: contra ea Dinon historicus, cui nos plurimum de Persicis rebus credimus, effugisse scripsit; illud addubitat, utrum Tiribazo sciente an imprudente sit factum.
Accadde a costui, quello che (accade) agli altri mortali, che fosse più sconsiderato nella prospera che nella avversa fortuna. Infatti vinta la flotta dei peloponnesiaci, pensando di aver vendicato le offese della patria, desiderò più cose di quanto potè realizzare. Né tuttavia quelle furono non pie e (non ) lodevoli, perché preferì che le ricchezze della patria fossero aumentate più che (quelle) del re. Infatti avendo stabilito per sé una grande autorevolezza con quella battaglia navale, che aveva fatto presso Cnido, non solo tra i barbari, ma anche presso tutte le città della Grecia, nascostamente cominciò a fare attività per restituire la Ionia e l’Eolia agli Ateniesi. Poiché ciò era stato nascosto meno diligentemente, Tiribazo, che era a capo di sardi, chiamò Conone simulando di volerlo inviare presso il re per un grande affare. Essendo giunto obbedendo alla chiamata di costui, fu gettato in catene; ed in esse ci fu alquanto tempo. Di lì alcuni lasciarono scritto che lui (fu) condotto davanti al re ed ivi perì: contro tali cose lo storico Dinone, cui noi crediamo moltissimo per le cose persiane, scrisse essere fuggito; dubita su ciò, se sia accaduto mentre Tiribazo lo sapeva o lo ignorava.
DION
DIONE
1. De Dionis multis bonis a natura datis.
1. Le molte qualità di Dione, concesse dalla natura.
Dion, Hipparini filius, Syracusanus, nobili genere natus, utraque implicatus tyrannide Dionysiorum. Namque ille superior Aristomachen, sororem Dionis, habuit in matrimonio; ex qua duos filios, Hipparinum et Nisaeum, procreavit totidemque filias, nomine Sophrosynen et Areten; quarum priorem Dionysio filio, eidem, cui regnum reliquit, nuptum dedit, alteram, Areten, Dioni. 2 Dion autem praeter nobilem propinquitatem generosamque maiorum famam multa alia ab natura habuit bona, in his ingenium docile, come, aptum ad artes optimas, magnam corporis dignitatem quae non minimum commendat, magnas praeterea divitias a patre relictas, quas ipse tyranni muneribus auxerat. 3 Erat intimus Dionysio priori, neque minus propter mores quam affinitatem. Namque etsi Dionysii crudelitas ei displicebat, tamen salvum propter necessitudinem, magis etiam suorum causa studebat. Aderat in magnis rebus, eiusque consilio multum movebatur tyrannus, nisi qua in re maior ipsius cupiditas intercesserat. 4 Legationes vero omnes, quae essent illustriores, per Dionem administrabantur; quas quidem ille diligenter obeundo, fideliter administrando crudelissimum nomen tyranni sua humanitate leniebat. 5 Hunc a Dionysio missum Carthaginienses suspexerunt, ut neminem umquam Greca lingua loquentem magis sint admirati.
Dione, figlio di Ipparino, nato da nobile famiglia, e implicato in entrambe le tirannidi dei Dionisi. Infatti quello più anziano ebbe in matrimonio Aristomache, sorella di Dione; e da questa procreò due figli, Ipparino e Niseo ed altrettante figlie, di nome Sofrosine ed Arete; e di queste diede la prima da sposare al figlio Dionisio, allo stesso, cui lasciò il regno, l’altra Arete a Dione. Ma Dione oltre la nobile parentela e l’illustre fama degli antenati ebbe dalla natura molti altri beni, tra questi un carattere disponibile, affabile, adatto alle ottime arti, un grande portamento del corpo, che non conta pochissimo, inoltre grandi ricchezze lasciate dal padre, che egli aveva aumentato coi doni del tiranno.
Era intimo di Dionisio primo, e non meno per costumi che per parentela.
Infatti anche se gli dispiaceva la crudeltà di Dionisio, tuttavia lo desiderava salvo per la parentela ed ancor più a causa dei suoi.
Era presente nelle grandi cose, e dal suo consiglio il tiranno era molto guidato, se in qualche cosa non era intervenuta una sua cupidigia.
Ma tutte le delegazioni, che fossero un po’ importanti, erano organizzate per mezzo di Dione; egli davvero affrontandole diligentemente, organizzando fedelmente con la sua cortesia leniva il crudelissimo nome del tiranno. I Cartaginesi guardarono costui mandato da Dionisio, (così) che mai hanno ammirato nessuno mai che parlasse in lingua greca.
2. De Dionis comitate.
2. Amabilità di Dione.
Neque vero haec Dionysium fugiebant; nam quanto esset sibi ornamento, sentiebat. Quo fiebat, ut uni huic maxime indulgeret neque eum secus diligeret ac filium; 2 qui quidem, cum Platonem Tarentum venisse fama in Siciliam esset perlata, adulescenti negare non potuerit, quin eum accerseret, cum Dion eius audiendi cupiditate flagraret. Dedit ergo huic veniam magnaque
eum ambitione Syracusas perduxit. 3 Quem Dion adeo admiratus est atque adamavit, ut se ei totum traderet. Neque vero minus ipse Plato delectatus est Dione. Itaque cum a tyranno crudeliter violatus esset, quippe quem venum dari iussisset, tamen eodem rediit eiusdem Dionis precibus adductus. 4 Interim in morbum incidit Dionysius. Quo cum gravi conflictaretur, quaesivit a medicis Dion, quemadmodum se haberet, simulque ab his petiit, si forte maiori inesset periculo, ut sibi faterentur: nam velle se cum eo colloqui de partiendo regno, quod sororis suae filios ex illo natos partem regni putabat debere habere. 5 Id medici non tacuerunt at ad Dionysium filium sermonem rettulerunt. Quo ille commotus, ne agendi esset Dioni potestas, patri soporem medicos dare coegit. Hoc aeger sumpto ut somno sopitus diem obiit supremum.
Né queste cose sfuggivano a Dionisio; infatti capiva quanto gli fosse di onore. Perciò accadeva che a costui solo accondiscendeva moltissimo e lo amava non diversamente che un figlio; e tanto che questi addirittura, quando era stata portata in Sicilia la notizia che Platone era giunto a Taranto, non poté negare al giovane che lo invitasse, poiché Dione bruciava dal desiderio di ascoltarlo. Diede quindi a costui il permesso e con grande sfarzo lo condusse a Siracusa. Ma Dione tanto lo ammirò e lo amò, da darsi tutto a lui. Ma non meno lo stesso Platone fu allietato per Dione.
E così essendo stato oltraggiato crudelmente dal tiranno, che aveva addirittura ordinato di darlo in vendita, tuttavia ritornò nello stesso luogo spinto dalle preghiere dello stesso Dione. Essendosi questi (Dionisio) ammalato gravemente, Dione chiese si medici come stesse e nello stesso tempo domandò, se per caso ci fosse un maggiore pericolo, che glielo dichiarassero: infatti (diceva che) voleva parlare con lui sul dividere il regno, perché pensava che i figli di sua sorella nati da lui dovevano avere una parte del regno. I medici non tacquero ciò, ma riferirono il discorso al figlio Dionisio. Egli turbato da ciò, perché non ci fosse possibilità di agire per Dione, costrinse i medici a dare una bevanda al padre. Il malato, presa questa, come assopito nel sonno incontrò l’ultimo giorno.
3. De Dionis et Dionysii simultate.
3. Lo scontro di Dione e Dionisio.
Tale initium fuit Dionis et Dionysii simultatis, eaque multis rebus aucta est. Sed tamen primis temporibus aliquamdiu simulata inter eos amicitia mansit. Cum Dion non desisteret obsecrare Dionysium, ut Platonem Athenis arcesseret et eius consiliis uteretur, ille, qui in aliqua re vellet patrem imitari, morem ei gessit. 2 Eodemque tempore Philistum historicum Syracusas reduxit, hominem amicum non magis tyranno quam tyrannidi. Sed de hoc in eo libro plura sunt
exposita, qui de historicis Graecis conscriptus est. 3 Plato autem tantum apud Dionysium auctoritate potuit valuitque eloquentia, ut ei persuaserit tyrannidis facere finem libertatemque reddere Syracusanis; a qua voluntate Philisti consilio deterritus aliquanto crudelior esse coepit.
Tale fu l’inizio dello scontro di Dione e Dionisio, e quello aumentò per molte cose. Ma tuttavia nei primi tempi l’amicizia simulata rimase tra loro.
poiché Dione non desisteva dal pregare Dionisio di far chiamare Platone da Atene e servirsi dei suoi consigli, egli, che in qualche cosa voleva imitare il padre, glifece a suo modo. Nello stesso tempo condusse a Siracusa lo storico Filisteo, uomo non meno amico del tiranno che della tirannide. Ma su questo parecchie cose sono state scritte in quel libro, che è stato scritto sugli storici greci.
Platone tuttavia tanto poté per autorevolezza presso Dionisio e fu efficace per eloquenza, che lo persuase a porre fine alla tirannide e restituire la libertà ai Siracusani; ma distolto da questa volontà per consiglio di Filisteo cominciò ad essere alquanto più crudele.

4. De Dionysii invidia in Dionem.
4. Invidia di Dionisio per Dione.
Qui quidem cum a Dione se superari videret ingenio, auctoritate, amore populi, verens, ne,
si eum secum haberet, aliquam occasionem sui daret opprimendi, navem ei triremem dedit, qua
Corinthum deveheretur, ostendens se id utriusque facere causa, ne, cum inter se timerent, alteruter alterum praeoccuparet. 2 Id cum factum multi indignarentur magnaeque esset invidiae tyranno, Dionysius omnia, quae moveri poterant Dionis, in navis imposuit ad eumque misit. Sic enim existimari volebat, id se non odio hominis, sed suae salutis fecisse causa. 3 Postea vero quam audivit eum in Peloponneso manum comparare sibique bellum facere conari, Areten, Dionis uxorem, alii nuptum dedit filiumque eius sic educari iussit, ut indulgendo turpissimis imbueretur cupiditatibus. 4 Nam puero, priusquam pubes esset, scorta adducebantur, vino epulisque obruebatur, neque ullum tempus sobrio relinquebatur. 5 Is usque eo vitae statum
commutatum ferre non potuit, postquam in patriam rediit pater - namque appositi erant
custodes, qui eum a pristino victu deducerent -, ut se de superiore parte aedium deiecerit atque ita interierit. Sed illuc revertor.
Ma poiché questi si vedeva essere superato da Dione per ingegno, autorevolezza, amore del popolo, temendo che, se lo teneva con sé, dava qualche occasione di ucciderlo, gli diede una nave trireme, con cui esser trasportato a Corinto, mostrando che faceva ciò per entrambi, perché, temendo reciprocamente l’uno non anticipasse l’altro.
Ma poiché molti si indignavano per tale fatto e che era di grande avversione per il tiranno, Dionisio pose sulle navi tutte le cose di Dione che potevano essere trasportate e gliele inviò. Così infatti voleva che si pensasse, che non aveva fatto ciò per odio del personaggio, ma a causa della sua salvezza. Dopo che sentì che lui nel Peloponneso preparava un manipolo e tentava di fargli guerra diede Arete, la moglie di Dione, da sposare ad un altro ed ordinò che il figlio di lei fosse educato così che, indulgendo, fosse imbevuto delle passioni più turpi. Infatti al ragazzo, prima che fosse giovinetto, venivano portate delle prostitute, era riempito di vino e pranzi, e nessun tempo era lasciato per (essere) uno sobrio. Egli, a tal punto non poté sopportare lo stato di vita cambiato, dopo che il padre tornò in patria – infatti erano state messe delle guardie, che lo distogliessero dal primitivo stile di vita -, che si buttò dalla parte superiore del palazzo e così morì.
Ma ritorno al punto.
5. De Dionis reditu et victoria contra Dionysium.
5. Ritorno e vittoria di Dione contro Dionisio.
Postquam Corinthum pervenit Dion et eodem perfugit Heraclides ab eodem expulsus Dionysio, qui praefectus fuerat equitum, omni ratione bellum comparare coeperunt. 2 Sed non multum proficiebant, quod multorum annorum tyrannis magnarum opum putabatur. Quam ob causam pauci ad societatem periculi perducebantur. 3 Sed Dion, fretus non tam suis copiis quam odio tyranni, maximo animo duabus onerariis navibus quinquaginta annorum imperium, munitum quingentis longis navibus, decem equitum centumque peditum milibus, profectus oppugnatum quod omnibus gentibus admirabile est visum, adeo facile perculit, ut post diem tertium, quam Siciliam attigerat, Syracusas introierit. Ex quo intellegi potest nullum esse
imperium tutum nisi benevolentia munitum. 4 Eo tempore aberat Dionysius et in Italia classem
opperiebatur adversariorum, ratus neminem sine magnis copiis ad se venturum. 5 Quae res eum
fefellit. Nam Dion iis ipsis, qui sub adversarii fuerant potestate, regios spiritus repressit
totiusque eius partis Siciliae potitus est, quae sub Dionysii fuerat potestate, parique modo urbis
Syracusarum praeter arcem et insulam adiunctam oppido, 6 eoque rem perduxit, ut talibus
pactionibus pacem tyrannus facere vellet: Siciliam Dion obtineret, Italiam Dionysius, Syracusas
Apollocrates, cui maximam fidem uni habebat Dionysius.
Dopo che Dione giunse a Corinto e lì si rifugiò Eraclide espulso dallo stesso Dionisio, che era stato capo dei cavalieri, con ogni sistema cominciarono a preparare una guerra. Ma non progredivano molto, perché la tirannide di molti anni era giudicata di grandi potenze. Per tale motivo in pochi erano indotti ad una alleanza di pericolo. Ma Dione, confidando non tanto nelle sue forze, ma nell’odio del popolo, partito per conquistare ciò che a tutti i popoli sembrò straordinario, con grandissimo coraggio con due navi da carico, abbattè facilmente un potere di cinquanta anni, rafforzato da cinquecento navi da guerra, da dieci migliaiaa di cavalieri e cento migliaia di fanti, tanto che dopo due giorni, da quando aveva toccato la Sicilia, entrò a Siracusa. Da ciò si può capire che nessun potere è sicuro se non fortificato dalla benevolenza.
In quel tempo Dionisio era lontano ed in Italia aspettava la flotta degli avversari, pensando che nessuno sarebbe venuto contro di lui senza grandi forze.
Ma quella realtà lo ingannò. Infatti Dione con quelli stessi, che erano stati sotto il potere dell’avversario, represse le arroganze del re e s’impadronì di tutta quella aprte della Sicilia, che era stata sotto il potere di Dionisio, ed in pari modo della città di Siracusa, eccetto la rocca e l’isola congiunta alla città e portò la cosa al punto che il tiranno voleva fare la pace con tali patti: Dione tenesse la Sicilia, Dionisio l’Italia, Apollocrate Siracusa, per il quale, unico, Dionisio aveva massima fiducia.
6. De subita commutatione fortunae.
6. Improvviso cambiamento della sorte.
Has tam prosperas tamque inopinatas res consecuta est subita commutatio, quod fortuna
sua mobilitate, quem paulo ante extulerat, demergere est adorta. 2 Primum in filio, de quo
commemoravi supra, suam vim exercuit. Nam cum uxorem reduxisset, quae alii fuerat tradita
filiumque vellet revocare ad virtutem a perdita luxuria, accepit gravissimum parens vulnus morte filii. 3 Deinde orta dissensio est inter eum et Heraclidem; qui, quod ei principatum non
concedebat, factionem comparavit. Neque is minus valebat apud optimates, quorum consensu
praeerat classi, cum Dion exercitum pedestrem teneret. 4 Non tulit hoc animo aequo Dion et
versum illum Homeri rettulit ex secunda rhapsodia, in quo haec sententia est: non posse bene geri rem publicam multorum imperiis. Quod dictum magna invidia consecuta est. Namque
aperuisse videbatur omnia in sua potestate esse velle. 5 Hanc ille non lenire obsequio, sed
acerbitate opprimere studuit Heraclidemque, cum Syracusas venisset, interficiundum curavit.
Un improvviso cambiamento seguì queste così prospere e impensate cose, perché la fortuna con la sua mobilità, quello che poco prima aveva innalzato, cominciò a sommergere. Prima esercitò la sua violenza nel figlio, di cui ho parlato sopra. Infatti avendo ripresa la moglie che era stata data ad un altro e volendo richiamare il figlio alla virtù da una dissolutezza sfrenata, ricevette come padre una gravissima ferita con la morte del figlio.
Poi nacque un dissenso tra lui ed Eraclide; e questi, poiché non gli concedeva il primato, preparò una fazione. Né egli valeva meno presso gli ottimati, col cui consenso era a capo della flotta, mentre Dione teneva l’esercito di fanteria. Dione non sopportò questo con animo sereno e riferì quel famoso verso di Omero dal secondo canto, nel quale c’è questa frase: che uno stato non può essere bene governato dal potere di molti.
Ma un grande odio seguì quel detto.
Infatti sembrava avesse dichiarato che voleva che tutto fosse in suo potere.
Egli non cercò di lenire questo (odio) con condiscendenza e fece uccidere Eraclide, quando giunse a Siracusa.

7. De Dione tyranno facto.
7. Dione diventato tiranno.
Quod factum omnibus maximum timorem iniecit: nemo enim illo interfecto se tutum putabat. Ille autem adversario remoto licentius eorum bona, quos sciebat adversus se sensisse, militibus dispertivit. 2 Quibus divisis, cum cotidiani maximi fierent sumptus, celeriter pecunia deesse coepit; neque, quo manus porrigeret, suppetebat nisi in amicorum possessiones. Id eiusmodi erat, ut, cum milites reconciliasset, amitteret optimates. 3 Quarum rerum cura frangebatur et insuetus male audiendi non animo aequo ferebat de se ab iis male existimari, quorum paulo ante in caelum fuerat elatus laudibus. Vulgus autem offensa in eum militum voluntate liberius loquebatur et tyrannum non ferendum dictitabat.
Ma quel fatto incusse grandissimo timore in tutti: nessuno infatti, essendo stato ucciso quello, si credeva sicuro. Egli poi, allontanato l’avversario, spartì troppo arbitrariamente i beni di coloro, che sapeva aver provato risentimenti contro di lui. E divisili, essendo grandissime le spese quotidiane, celermente il denaro cominciò a mancare; né c’era a disposizione, dove porre mano, se non nei possedimenti degli amici. Questo era di tal fatta che, mentre si era conciliato i soldati, perdeva gli ottimati. Era affranto dalla preoccupazione di queste cose e non abituato a sentir parlar male non di buon grado sopportava che si pensasse male di lui da quelli, per le cui lodi era stato portato al cielo. Il volgo poi, irritatosi contro di lui l’appoggio dei soldati, parlava piuttosto liberamente e ripeteva che non si doveva sopportare il tiranno.
8. De Callicratis indidiis contra Dionem.
8. Agguato di Callicrate contro Dione.
Haec ille intuens cum, quemadmodum sedaret, nesciret et, quorsum evaderent, timeret, Callicrates quidam, civis Atheniensis, qui simul cum eo ex Peloponneso in Siciliam venerat, homo et callidus et ad fraudem acutus, sine ulla religione ac fide, adit ad Dionem et ait: 2 eum magno in periculo esse propter offensionem populi et odium militum, quod nullo modo evitare posset, nisi alicui suorum negotium daret, qui se simularet illi inimicum. Quem si invenisset idoneum, facile omnium animos cogniturum adversariosque sublaturum, quod inimici eius dissidenti suos sensus aperturi forent. 3 Tali consilio probato excepit has partes ipse Callicrates et se armat imprudentia Dionis; ad eum interficiundum socios conquirit, adversarios eius convenit, coniuratione confirmat. 4 Res, multis consciis quae gereretur, elata defertur ad
Aristomachen, sororem Dionis, uxoremque Areten. Illae timore perterritae conveniunt, cuius de periculo timebant. At ille negat a Callicrate fieri sibi insidias, sed illa, quae agerentur, fieri
praecepto suo. 5 Mulieres nihilo setius Callicratem in aedem Proserpinae deducunt ac iurare cogunt nihil ab illo periculi fore Dioni. Ille hac religione non modo non est deterritus, sed ad
maturandum concitatus est, verens, ne prius consilium aperiretur suum quam conata perfecisset.
Mentre esaminava queste cose non sapendo come sedarli e temendo a che punto sfociassero, un certo Callicrate, cittadino ateniese, che insieme con lui dal Peloponneso era giunto in Sicilia, persona sia furba sia acuta per l’inganno, senza alcun scrupolo e credito, si recò da Dione e disse: che lui era in grave pericolo per l’avversione del popolo e l’odio dei soldati, che non poteva evitare in nessun modo, se non desse l’incarico a qualcuno dei suoi, che si simulasse a lui nemico. Che se avesse trovato uno idoneo, facilmente avrebbe conosciuto gli animi di tutti e avrebbe tolto gli avversari, perché i suoi nemici avrebbero dichiarato i loro sentimenti ad un dissidente. Approvato tale piano, si accolla queste parti lo stesso Callicrate e si arma dell’imprudenza di Dione; cerca alleati per ucciderlo, incontra i suoi avversari e li rassicura con giuramento. La cosa, essendo molti consapevoli di ciò che si combinava, diffusa è riferita ad Aristomache, sorella di Dione ed alla moglie Arete. Esse atterrite di paura sono d’accordo sul pericolo di cui temevano. Ma egli dice che da Callicrate non gli sono tese insidie, quelle cose che si facevano, accadevano su suo ordine. Le donne nondimeno accompagnano Callicrate nel tempio di Proserpina e lo costringono a giurare che nulla di pericolo ci sarà da parte sua per Dione. Egli non solo non fu atterrito da questo giuramento, ma fu spinto ad affrettarsi, temendo che il suo piano fosse scoperto prima che avesse completato i tentativi.
9. De Dionis caede.
9. Assassinio di Dione.
Hac mente proximo die festo, cum a conventu se remotum Dion domi teneret atque in conclavi edito recubuisset, consciis facinoris loca munitiora oppidi tradit, domum custodiis saepit, a foribus qui non discedant, certos praeficit: 2 navem triremem armatis ornat Philostratoque, fratri suo, tradit eamque in portu agitari iubet, ut si exercere remiges vellet, cogitans, si forte consiliis obstitisset fortuna, ut haberet, qua fugeret ad salutem. 3 Suorum autem e numero Zacynthios adulescentes quosdam eligit, cum audacissimos tum viribus maximis, hisque dat negotium, ad Dionem eant inermes, sic ut conveniendi eius gratia viderentur venire. 4 Hi propter notitiam sunt intromissi. At illi, ut limen eius intrarant, foribus
obseratis in lecto cubantem invadunt, colligant: fit strepitus, adeo ut exaudiri possit foris. 5 Hic
autem, sicut ante saepe dictum est, quam invisa sit singularis potentia et miseranda vita, qui se metui quam amari malunt, cuivis facile intellectu fuit. 6 Namque illi ipsi custodes, si prompta fuissent voluntate, foribus effractis servare eum potuissent, quod illi inermes telum foris flagitantes vivum tenebant. Cui cum succurreret nemo, Lyco quidam Syracusanus per fenestras gladium dedit, quo Dion interfectus est.
Con questa idea in un giorno festivo, mentre Dione si teneva lontano dalla riunione in casa e si era riposato in una camera in alto, consegna ai complici dell’impresa i luoghi più fortificati della città, circonda la casa di guardie, incarica dei fidati che non si allontanino dalle porte: allestisce di armati una nave trireme e la consegna a Filostrato, suo fratello e ordina che sia mossa nel porto, come se volesse esercitare i rematori, pensando, se la sorte per caso avesse ostacolato i piani, di avere con che fuggire verso la salvezza. Dal numero dei suoi sceglie alcuni giovani di Zacinto, sia molto audaci che di grandissime forze, ed a questi dà l’incarico di andare inermi da Dione, così che sembrassero venire per incontrarlo. Questi sono introdotti per la conoscenza. Ma quelli, come erano entrati nella sua soglia, chiese le porte, lo assalgono mentre giace a letto, lo legano: c’è un frastuono, tanto che si possa sentire fuori. Qui però, come spesso si disse prima, fu facile da capire per chiunque quanto sia odiosa la potenza di uno solo e miserabile la vita (di coloro), che preferiscono essere temuti che amati. Infatti quelle stesse guardie, se fossero state di volontà pronta, abbattute le porte, l’avrebbero potuto salvare, perché quelli inermi lo tenevano vivo chiedendo un’arma fuori. Ma poiché nessuno accorreva, un certo Licone siracusano diede una spada attraverso le finestre, con cui Dione fu fatto fuori.
10. De Dionis monumento sepulcri.
10. Il monumento sepolcrale di Dione.
Confecta caede, cum multitudo visendi gratia introisset, nonnulli ab insciis pro noxiis conciduntur. Nam celeri rumore dilato, Dioni vim allatam, multi concurrerant, quibus tale facinus displicebat. Hi falsa suspicione ducti immerentes ut sceleratos occidunt. 2 Huius de morte ut palam factum est, mirabiliter vulgi mutata est voluntas. Nam qui vivum eum tyrannum vocitarant, eidem liberatorem patriae tyrannique expulsorem praedicabant.
Sic subito misericordia odio successerat, ut eum suo sanguine ab Acherunte, si possent, cuperent redimere.
3 Itaque in urbe celeberrimo loco, elatus publice, sepulcri monumento donatus est.
Diem obiit circiter annos LV natus, quartum post annum, quam ex Peloponneso in Siciliam redierat.
Perpetrato l’assassinio, essendo entrata la folla per vedere, alcuni vengono uccisi al posto dei colpevoli da chi non li conosceva. Infatti sparsasi la notizia velocemente, che era stata fatta violenza a Dione, erano accorsi molti, a cui tale delitto dispiaceva. Questi spinti da falso sospetto uccidono come colpevoli chi non meritava. Sulla morte di costui come accadde chiaramente, la volontà del volgo fu straordinariamente cambiata. Infatti quelli l’avevano chiamato tiranno da vivo, gli stessi lo proclamavano liberatore della patria e che aveva cacciato il tiranno. Così improvvisamente la compassione era succeduta all’odio, come se desiderassero, se potevano, riscattarlo col proprio sangue dall’Acheronte. E così in città in un luogo frequentatissimo, esaltato pubblicamente fu premiato col monumento del sepolcro. Morì a circa 55 anni, tre anni dopo che dal Peloponneso era ritornato in Sicilia.
IPHICRATES
IFICRATE
1. De Iphicratis nova disciplina militari.
1. La nuova competenza militare di Ificrate.
Iphicrates Atheniensis non tam magnitudine rerum gestarum quam disciplina militari nobilitatus est. Fuit enim talis dux, ut non solum aetatis suae cum primis compararetur, sed ne de maioribus natu quidem quisquam anteponeretur. 2 Multum vero in bello est versatus, saepe exercitibus praefuit; nusquam culpa male rem gessit, semper consilio vicit tantumque eo valuit, ut multa in re militari partim nova attulerit, partim meliora fecerit. Namque ille pedestria arma mutavit. 3 Cum ante illum imperatorem maximis clipeis, brevibus hastis, minutis gladiis uterentur, 4 ille e contrario peltam pro parma fecit - a quo postea peltastae pedites appellantur -, ut ad motus concursusque essent leviores; hastae modum duplicavit, gladios longiores fecit. Idem genus loricarum mutavit et pro sertis atque aenis linteas dedit. Quo facto expeditiores milites reddidit: nam pondere detracto, quod aeque corpus tegeret et leve esset, curavit.
Ificrate ateniese fu famoso non tanto per la grandezza delle cose compiute quanto per la competenza militare.
Fu infatti un comandante tale, che non solo era paragonato con i primi della sua epoca, ma neppure nessuno degli anziani era preferito. In verità egli si trovò molto in guerra, spesso fu a capo di eserciti; mai per colpa condusse male una cosa, sempre vinse con la strategia e tanto fu valido che in molta realtà militare in parte porto cose nuove, in parte le rese migliori.
Infatti egli cambiò le armi di fanteria. Mentre prima di lui comandante si usavano grandissimi scudi, lance corte, spade piccole, egli al contrario usò invece della parma la pelta – da cui poi i fanti sono chiamati peltasti -, perché fossero più leggeri per i movimenti e gli attacchi; raddoppiò la misura dell’asta, fece più lunghe le spade. Cambiò lo stesso genere delle corazze ed al posto degli intrecciate e di bronzo le fornì di lino. Con tale fatto rese i soldati più spediti: infatti tolto il peso, curò ciò che proteggesse il corpo e fosse leggero.
2. De Iphicratis magna laude apud Graecos.
2. Grande onore di Ificrate presso i Greci.
Bellum cum Thracibus gessit; Seuthem, socium Atheniensium, in regnum restituit. Apud Corinthum tanta severitate exercitui praefuit, ut nullae umquam in Graecia neque exercitatiores
copiae neque magis dicto audientes fuerint duci; 2 in eamque consuetudinem adduxit, ut, cum proelii signum ab imperatore esset datum, sine ducis opera sic ordinatae consisterent, ut singuli a peritissimo imperatore dispositi viderentur. 3 Hoc exercitu moram Lacedaemoniorum interfecit; quod maxime tota celebratum est Graecia. Iterum eodem bello omnes copias eorum fugavit; quo facto magnam adeptus est gloriam. 4 Cum Artaxerxes Aegyptio regi bellum inferre voluit, Iphicraten ab Atheniensibus ducem petivit, quem praeficeret exercitui conducticio, cuius numerus XII milium fuit, quem quidem sic omni disciplina militari erudivit, ut, quemadmodum quondam Fabiani milites Romani appellati sunt, sic Iphicratenses apud Graecos in summa laude
fuerint. 5 Idem subsidio Lacedaemoniis profectus Epaminondae retardavit impetus. Nam nisi
eius adventus appropinquasset, non prius Thebani Sparta abscessissent, quam captam incendio
delessent.
Fece una guerra contro i Traci; riporto nel regno Seute, alleato degli Ateniesi. Presso Corinto comandò l’esercito con tanta severità, che mai nessuna truppa in Grecia fu né più esercitata né più obbediente all’ordine per il comandante; e la portò a tale abitudine, che, quando era stato dato il segnale dal comandante, senza intervento del condottiero si organizzavano così ordinate, che sembravano disposti uno per uno da un comandante espertissimo. Con questo esercito annientò un reparto dei Lacedemoni; e ciò fu celebrato moltissimo per tutta la Grecia. Di nuovo nella stessa guerra mise in fuga tutte le loro truppe; con tale fatto conseguì grande fama. Quando Artaserse volle dichiarare guerra al re egiziano, chiese agli Ateniesi Ificrate come comandante, che fosse a capo di un esercito mercenario, il cui numero fu di dodici migliaia, che davvero istruì con tutta la competenza militare così che, come un tempo i soldati romani furono chiamati fagiani, così presso i Greci gli ificratesi furono in grande onore.
Lui stesso partito in aiuto dei Lacedemoni ritardò gli attacchi di Epaminonda. Infatti se non fosse giunto il suo arrivo, i Tebani non si sarebbero allontanati da Sparta, prima di averla distrutta con l’incendio.
3. De Iphicratis virtutibus vitiisque.
3. Virtù e difetti di Ificrate.
Fuit autem et animo magno et corpore imperatoriaque forma, ut ipso aspectu cuivis iniceret admirationem sui, 2 sed in labore nimis remissus parumque patiens, ut Theopompus memoriae prodidit; bonus vero civis fideque magna. Quod cum in aliis rebus declaravit tum maxime in Amyntae Macedonis liberis tuendis. Namque Eurydice, mater Perdiccae et Philippi, cum his duobus pueris Amynta mortuo ad Iphicraten confugit eiusque opibus defensa est. 3 Vixit ad senectutem placatis in se suorum civium animis. Causam capitis semel dixit, bello sociali, simul cum Timotheo, eoque iudicio est absolutus. 4 Menesthea filium reliquit ex Thraessa natum, Coti regis filia. Is cum interrogaretur, utrum pluris, patrem matremne, faceret, “Matrem” inquit. Id cum omnibus mirum videretur, At ille ”merito inquit facio. Nam pater, quantum in se fuit, Thraecem me genuit, contra ea mater Atheniensem. ”
Fu poi sia di grande coraggio che statura e di aspetto da generale, tanto che con la stessa vista ad ognuno incuteva ammirazione di sé, ma nella fatica troppo fiacco e poco paziente, come Teopompo tramandò alla memoria; però buon cittadino e di grande lealtà.
E questo lo dimostrò sia in altre cose che soprattutto nel curare i figli del macedone Aminta.
Infatti Euridice, madre di Perdicca e di Filippo, con questi due bambini, morto Aminta, si rifugiò da Ificrate e fu difesa dai suoi aiuti.
Visse fino alla vecchiaia, pacificati gli anini dei suoi concittadini verso di lui. Una sola volta (si) difese (in) un processo di delitto capitale, durante la guerra sociale, insieme con Timoteo, e da quel processo fu assolto. Lasciò il figlio Mnesteo, nato da una Tracia, figlia del re Coto. Costui essendo interrogato se considerasse di più il padre o la madre, “La madre”, disse. Ciò sembrando strano a tutti, lui però “Meritatamente, disse, la considero. Infatti il padre, per quanto fu in lui, mi generò Trace, al contrario la madre (mi generò) ateniese.”
CHABRIAS
CABRIA
1. De Chabriae novo consilio in proelio.
1. Nuova strategia di Cabria in battaglia.
Chabrias Atheniensis. Hic quoque in summis habitus est ducibus resque multas memoria dignas gessit. Sed ex his elucet maxime inventum eius in proelio, quod apud Thebas fecit, cum Boeotiis subsidio venisset. 2 Namque in eo victoria fidentem summum cernens ducem Agesilaum, fugatis iam ab eo conducticiis catervis, reliquam phalangem loco vetuit cedere obnixoque genu scuto, proiecta hasta impetum excipere hostium docuit. Id novum Agesilaus contuens progredi non est ausus suosque iam incurrentes tuba revocavit. 3 Hoc usque eo tota Grecia fama celebratum est, ut illo statu Chabrias sibi statuam fieri voluerit, quae publice ei ab Atheniensibus in foro constituta est. Ex quo factum est, ut postea athletae ceterique artifices iis statibus in statuis ponendis uterentur, cum victoriam essent adepti.
Cabria, l’ateniese. Anche costui fu ritenuto tra i massimi comandanti e compì molte cose degne di memoria.
Ma tra questi brilla soprattutto la sua invenzione in battaglia, che fece presso Tebe, essendo giunto in aiuto ai Beoti. Infatti in essa vedendo il sommo comandante Agesilao fiducioso nella vittoria, essendo state da lui messe in fuga le truppe mercenarie, impedì che la restante falange cedesse dalla postazione e appoggiato allo scudo il ginocchio, tesa in avanti la lancia insegnò a sostenere l’attacco dei nemici. Vedendo tale novità Agesilao non osò avanzare e richiamò con la tromba i suoi che ormai attaccavano. Questo fu celebrato dalla fama per tutta la Grecia a tal punto, che Cabria volle che gli si facesse in quella postura una statua, che pubblicamente dagli Ateniesi gli fu costruita. Da ciò accadde che, poi gli atleti e gli altri artisti usavano di quelle posture nel fare le statue, dopo aver ottenuta la vittoria.
2. De Chabriae magnis in Europa bellis.
2. Le grandi guerre di Cabria in Europea.
Chabrias autem multa in Europa bella administravit, cum dux Atheniensium esset; in
Aegypto sua sponte gessit. Nam Nectenebin adiutum profectus regnum ei constituit. 2 Fecit
idem Cypri, sed publice ab Atheniensibus Euagorae adiutor datus, neque prius inde discessit,
quam totam insulam bello devinceret; qua ex re Athenienses magnam gloriam sunt adepti. 3
Interim bellum inter Aegyptios et Persas conflatum est. Athenienses cum Artaxerxe societatem habebant, Lacedaemonii cum Aegyptiis; a quibus magnas praedas Agesilaus, rex eorum, faciebat. Id intuens Chabrias, cum in re nulla Agesilao cederet, sua sponte eos adiutum
profectus Aegyptiae classi praefuit, pedestribus copiis Agesilaus.
Cabria poi organizzò molte guerre in Europa, essendo comandante degli Ateniesi; in Egitto agì spontaneamente. Infatti partito per aiutare Nectenebi gli assicurò il regno. Fece la stessa cosa a Cipro, ma concesso pubblicamente dagli Ateniesi ad Evapora come aiuto, non partì di là prima che sconfiggesse tutta l’isola con la guerra; per la qual cosa gli Ateniesi ottennero molta gloria. Intanto fu dichiarata una guerra tra Egiziani e Persiani.
Gli Ateniesi avevano un’alleanza con Artaserse, i Lacedemoni con gli egiziani; ma da quelli Agesilao, loro re, faceva molte prede. Temendo ciò Cabria, non essendo inferiore in nulla rispetto ad Agesilao, spontaneamente partito per aiutare fu a capo della flotta egizia, Agesilao delle truppe di fanteria.
3. De Atheniensium invidia in Chabriam.
3. Invidia degli Ateniesi verso Cabria.
Tum praefecti regis Persae legatos miserunt Athenas questum, quod Chabrias adversum
regem bellum gereret cum Aegyptiis. Athenienses diem certam Chabriae praestituerunt, quam ante domum nisi redisset, capitis se illum damnaturos denuntiarunt. Hoc ille nuntio Athenas rediit neque ibi diutius est moratus, quam fuit necesse. 2 Non enim libenter erat ante oculos suorum civium, quod et vivebat laute et indulgebat sibi liberalius, quam ut invidiam vulgi posset effugere. 3 Est enim hoc commune vitium in magnis liberisque civitatibus, ut invidia gloriae comes sit et libenter de his detrahant, quos eminere videant altius; neque animo aequo pauperes alienam opulentium intuuntur fortunam. Itaque Chabrias, cum ei licebat, plurimum aberat. 4 Neque vero solus ille aberat Athenis libenter, sed omnes fere principes fecerunt idem, quod tantum se ab invidia putabant futuros, quantum a conspectu suorum recesserint. Itaque Conon plurimum Cypri vixit, Iphicrates in Thraecia, Timotheus Lesbo, Chares Sigeo; dissimilis quidem Chares horum et factis et moribus, sed tamen Athenis et honoratus et potens.
Allora i governatori del re persiano mandarono delegati ad Atene per chiedere, perché Cabria facesse una guerra con gli Egiziani. Gli Ateniesi stabilirono per Cabria una data fissata, prima della quale se non fosse tornato in patria, dichiararono che l’avrebbero condannato a morte. Egli a tale notizia ritornò ad Atene e lì non si fermò più a lungo di quanto fosse necessario. Infatti non si trovava volentieri davanti agli occhi dei suoi concittadini, perché viveva sontuosamente ed indulgeva per sé troppo prodigalmente, da poter sfuggire all’invidia del volgo. Infatti questo è un vizio comune nelle grandi e libere città, che l’invidia sia compagna della gloria e volentieri denigrano su quelli che vedono emergere troppo in alto; né i poveri guardano con animo sereno la fortuna altrui dei ricchi. E così Cabria, quando gli era possibile, stava lontano moltissimo. Ma non lui solo stava volentieri lontano da Atene, ma quasi tutti i capi fecero la stessa cosa, perché pensavano che sarebbero stati tanto lontani dall’invidia, quanto si fossero allontanati dal cospetto dei loro. E così Conone visse moltissimo a Cipro, Ificrate in Tracia, Timoteo a Lesbo, Carete a Sigeo; certamente dissimile da costoro Carete per azioni e costumi, ma tuttavia ad Atene sia onorato che potente.
4. De Chabriae honesta morte.
4. Gloriosa morte di Cabria.
Chabrias autem periit bello sociali tali modo. Oppugnabant Athenienses Chium. Erat in classe Chabrias privatus, sed omnes, qui in magistratu erant, auctoritate anteibat, eumque magis milites quam, qui praeerant, aspiciebant. 2 Quae res ei maturavit mortem. Nam dum primus studet portum intrare gubernatoremque iubet eo dirigere navem, ipse sibi perniciei fuit. Cum enim eo penetrasset, ceterae non sunt secutae. Quo facto circumfusus hostium concursu cum fortissime pugnaret, navis rostro percussa coepit sidere. 3 Hinc refugere cum posset, si se in mare deiecisset, quod suberat classis Atheniensium, quae exciperet natantis, perire maluit quam armis abiectis navem relinquere, in qua fuerat vectus. Id ceteri facere noluerunt; qui nando in tutum pervenerunt. At ille praestare honestam mortem existimans turpi vitae, comminus pugnans telis hostium interfectus est.
Cabria però morì nella guerra sociale in tale modo. Gli Ateniesi assediavano Chio. Nella flotta c’era Cabria come privato (cittadino), ma tutti quelli che erano nella magistratura, li superava ed i soldati guardavano più lui che quelli, che erano a capo. Ma quella cosa gli affrettò la morte. Infatti mentre per primo cerca di entrare in porto ed ordina al pilota di dirigervi la nave, lui stesso fu di rovina per sé. Infatti essendovi penetrato, le altre (navi) non seguirono. Per tale fatto attorniato dall’assalto dei nemici pur combattendo fortissimamente la nave percossa da un rostro cominciò ad affondare.
Pur potendo fuggire di lì, se si fosse gettato in mare, perché si avvicinava la flotta degli Ateniesi, per raccogliere i naufraghi, preferì perire che, gettate le armi, abbandonare la nave, nella quale era stato trasportato. Gli altri non vollero fare ciò; ed essi nuotando giunsero al sicuro. Ma lui ritenendo fosse meglio una morte gloriosa che una vergognosa vita combattendo fu ucciso dalle armi dei nemici.
TIMOTHEUS
TIMOTEO
1. De Timothei virtutibus.
1. Le doti di Timoteo.
Timotheus, Cononis filius, Atheniensis. Hic a patre acceptam gloriam multis auxit virtutibus. Fuit enim disertus, impiger, laboriosus, rei militaris peritus neque minus civitatis regendae. 2 Multa huius sunt praeclare facta, sed haec maxime illustria. Olynthios et Byzantios bello subegit. Samum cepit; in quo oppugnando superiori bello Athenienses mille et CC talenta consumpserant, id ille sine ulla publica impensa populo restituit; adversus Cotum bella gessit ab eoque mille et CC talenta praedae in publicum rettulit. Cyzicum obsidione liberavit. 3 Ariobarzani simul cum Agesilao auxilio profectus est; a quo cum Laco pecuniam numeratam accepisset, ille civis suos agro atque urbibus augeri maluit quam id sumere, cuius partem domum suam ferre posset.
Timoteo, figlio di Conone, ateniese. Costui accrebbe la gloria ricevuta dal padre con molte virtù. Fu infatti eloquente, attivo, operoso, esperto di cosa militare e non meno di governare la città.
Molte sono le illustri imprese di costui, ma soprattutto queste famose. Sottomise Olintiaci e Bizantini. Prese Samo; e nell’assediarla in una guerra precedente gli Ateniesi avevano consumato mille e duecento talenti, egli restituì ciò al popolo senza alcuna spesa pubblica;
condusse guerre contro Coto e da lui riportò mille e duecento talenti di bottino per l’erario. Liberò Cizico dall’assedio. Partì in aiuto ad Ariobazane insieme con Agesilao; e da questi mentre lo spartano aveva ricevuto denaro contante, egli preferì che i suoi concittadini fossero arricchiti di territorio e città che ricevere ciò, di cui poter portare una parte nella propria casa.
2. De Timothei maximis laudibus.
2. Massimi onori di Timoteo.
Itaque accepit Crithoten et Sestum. Idem classi praefectus, circumvehens Peloponnesum
Laconicen populatus, classem eorum fugavit, Corcyram sub imperium Atheniensium redegit,
sociosque idem adiunxit Epirotas, Athamanas, Chaonas omnesque eas gentes, quae mare illud
adiacent. 2 Quo facto Lacedaemonii de diutina contentione destiterunt et sua sponte Atheniensibus imperii maritimi principatum concesserunt pacemque his legibus constituerunt, ut Athenienses mari duces essent. Quae victoria tantae fuit Atticis laetitiae, ut tum primum arae
Paci publice sint factae eique deae pulvinar sit institutum. 3 Cuius laudis ut memoria maneret,
Timotheo publice statuam in foro posuerunt. Qui honos huic uni ante id tempus contigit, ut, cum patri populus statuam posuisset, filio quoque daret. Sic iuxta posita recens filii veterem patris renovavit memoriam.
E così prese Critote e Sesto. Lui stesso capo della flotta, circumnavigando il Peloponneso, dopo aver saccheggiato la Laconia, mise in fuga la loro flotta, ridusse Corcira sotto il potere degli Ateniesi, lui stesso unì come alleati gli Epiroti, gli Stamani, i Caoni e tutte quelle popolazioni, che si affacciano su quel mare.
Per tale fatto i Lacedemoni desistettero dalla continua lotta e spontaneamente concessero agli ateniesi il primato del potere marittimo e stabilirono la pace con queste leggi, che gli Ateniesi fossero padroni per mare. E tale vittoria fu di così grande gioia per gli Attici, che allora per la prima volta furono fatte a spese pubbliche gli altari per la Pace ed a quella dea fu dedicato un lettisternio. Perché poi rimanesse il ricordo di quella fama, per Timoteo posero a spese pubbliche una statua nel foro. E questo onore capitò a lui solo prima di quel tempo, che, avendo il popolo posto una statua per il padre, lo concedesse pure al figlio. Così posta accanto, la (statua) nuova del figlio rinnovò l’antica memoria del padre.
3. De ingratae civitatis odio in Timotheum.
3. Odio di una ingrata città contro Timoteo.
Hic cum esset magno natu et magistratus gerere desisset, bello Athenienses undique premi
sunt coepti. Defecerat Samus, descierat Hellespontus, Philippus iam tum valens, Macedo,
multa moliebatur; cui oppositus Chares cum esset, non satis in eo praesidii putabatur. 2 Fit
Menestheus praetor, filius Iphicratis, gener Timothei, et ut ad bellum proficiscatur, decernitur.
Huic in consilium dantur viri duo usu sapientiaque praestantes, pater et socer, quod in his tanta erat auctoritas, ut magna spes esset per eos amissa posse recuperari. 3 Hi cum Samum profecti essent et eodem Chares illorum adventu cognito cum suis copiis proficisceretur, ne quid absente se gestum videretur, accidit, cum ad insulam appropinquarent, ut magna tempestas oriretur; quam evitare duo veteres imperatores utile arbitrati suam classem suppresserunt. 4 At ille temeraria usus ratione non cessit maiorum natu auctoritati, velut in sua manu esset fortuna. Quo contenderat, pervenit, eodemque ut sequerentur, ad Timotheum et Iphicratem nuntium misit. Hinc male re gesta, compluribus amissis navibus eo, unde erat profectus, se recipit litterasque Athenas publice misit, sibi proclive fuisse Samum capere, nisi a Timotheo et Iphicrate desertus esset. 5 Populus ater, suspicax ob eamque rem mobilis,
adversarius, invidus - etiam potentiae in crimen vocabantur - domum revocat: accusantur
proditionis. Hoc iudicio damnatur Timotheus, lisque eius aestimatur centum talentis.
Ille odio ingratae civitatis coactus Chalcidem se contulit.
Essendo costui di età avanzata ed avendo smesso di esercitare le magistrature, gli Ateniesi cominciarono ad essere premuti da ogni parte dalla guerra. Samo si era ribellata, Ellesponto si era staccata, Filippo già allora forte, il macedone, macchinava molte cose; pur essendoli stato opposto Carete, si pensava non esserci in lui abbastanza di sicurezza. Diventa comandante Menesteo, figlio di Ificrate, genero di Timoteo, e si decide che parta per la guerra. A costui vengono dati per consiglio due uomini eccellenti per esperienza e saggezza, padre e suocero, poiché in questi c’era così grande autorevolezza che c’era grande speranza per mezzo di loro che le cose perdute potessero essere recuperate. Essendo questi partiti per Samo e Carete, conosciuto il loro arrivo, essendo partito per lo stesso luogo, perché non sembrasse che si facesse qualcosa, lui assente, mentre si avvicinavano all’isola, accadde che scoppiasse una grande tempesta; pensando i due vecchi comandanti utile evitarla, bloccarono la loro flotta. Ma quello usando una temeraria strategia non cedette alla autorevolezza degli anziani, come se la fortuna fosse nelle sue mani. Giunse dove era diretto e mandò un araldo a Timoteo ed Ificrate perché lo seguissero là. Quindi, condotta male la cosa, perdute parecchie navi, si ritira là donde era partito e mandò pubblicamente ad Atene lettere, che per lui era stato facile prendere Samo, se non fosse stato abbandonato da Timoteo ed Ificrate.
Il popolo terribile, sospettoso e per tale cosa mobile, ostile, invidioso – anche i prestigi erano chiamati in accusa – li chiama in patria: sono accusati di tradimento.
Con questo processo Timoteo è condannato, e la sua multa è valutata in cento talenti. Egli spinto dall’odio di una ingrata città si recò a Calcide.
4. De extrema aetate imperatorum Atheniensium.
4. L’ultima epoca dei generali ateniesi.
Huius post mortem cum populum iudicii sui paeniteret, multae novem partis detraxit et decem talenta Cononem, filium eius, ad muri quandam partem reficiendam iussit dare. In quo fortunae varietas est animadversa. Nam quos avus Conon muros ex hostium praeda patriae restituerat, eosdem nepos cum summa ignominia familiae ex sua re familiari reficere caactus est. 2 Timothei autem moderatae sapientisque vitae cum pleraque possimus proferre testimonia, uno erimus contenti, quod ex eo facile conici poterit, quam carus suis fuerit. Cum Athenis adulescentulus causam diceret, non solum amici privatique hospites ad eum defendendum convenerunt, sed etiam in eis Iason, tyrannus Thessaliae, qui illo tempore fuit omnium potentissimus. 3 Hic cum in patria sine satellitibus se tutum non arbitraretur, Athenas sine ullo praesidio venit tantique hospitem fecit, ut mallet se capitis periculum adire quam Timotheo de fama dimicanti deesse. Hunc adversus tamen Timotheus postea populi iussu bellum gessit,
patriae sanctiora iura quam hospitii esse duxit. 4 Haec extrema fuit aetas imperatorum Atheniensium, Iphicratis, Chabriae, Timothei: neque post illorum obitum quisquam dux in illa
urbe fuit dignus memoria. 5 Venio nunc ad fortissimum virum maximique consilii omnium
barbarorum exceptis duobus Carthaginiensibus, Hamilcare et Hannibale. 6 De quo hoc plura
referemus, quod et obscuriora sunt eius gesta pleraque et ea, quae prospere ei cesserunt, non
magnitudine copiarum, sed consilii, quo tum omnes superabat, acciderunt; quorum nisi ratio
explicata fuerit, res apparere non poterunt.
Dopo la sua morte essendosi il popolo pentito del suo giudizio, tolse nove parti della multa e comandò che Conone, suo figlio, desse dieci talenti per rifare una parte del muro. Ed in questo si è vista la mutevolezza della fortuna. Infatti quelle mura che l’avo Conone aveva ricostruito per la patria col bottino dei nemici, le stesse il nipote con sommo disonore della famiglia fu costretto a rifare col proprio patrimonio. Ma poiché possiamo portare avanti parecchie testimonianze della vita modesta e saggia di Timoteo, saremo contenti di una, perché da essa facilmente si potrà dedurre quanto sia stato caro ai suoi. Quando ad Atene si difese da giovane in un processo, non solo giunsero amici e ospiti privati per difenderlo, ma tra essi anche Giasone, il tiranno della Tessaglia, che in quell’epoca fu il più potente di tutti. Costui mentre in patria non si considerava sicuro senza guardie, venne ad Atene senza alcuna scorta e stimò così tanto l’ospite che preferiva affrontare il pericolo della vita piuttosto che mancare a Timoteo che lottava per la fama. Contro costui tuttavia Timoteo poi fece una guerra per ordine del popolo, ritenne essere più sacri i diritti della patria che dell’ospitalità. Questa fu l’ultima epoca dei comandanti ateniesi, Ificrate, Cabria, Timoteo: né dopo la loro morte nessun comandante in quella città fu degno di memoria.
Vengo adesso ad un valorosissimo uomo e della saggezza maggiore di tutti i barbari, eccetto due cartaginesi, Amilcare ed Annibale.
Ma di questo riferiremo parecchie cose per questo, perché e le sue gesta sono piuttosto oscure e quelle, che gli riuscirono bene, accaddero non per la quantità delle truppe, ma di saggezza, con cui allora superava tutti; ma se non sarà stata spiegata la ragione di queste cose, gli avvenimenti non potranno apparire.
DATAMES
DATAME
1. De Datamis opera in bello.
1. Impegno di Datame in guerra.
Datames, patre Camisare, natione Care, matre Scythissa natus, primum militum in numero fuit apud Artaxerxen eorum, qui regiam tuebantur. Pater eius Camisares, quod et manu fortis et bello strenuus et regi multis locis fidelis erat repertus, habuit provinciam partem Ciliciae iuxta Cappadociam, quam incolunt Leucosyri. 2 Datames, militare munus fungens, primum,
qualis esset, aperuit in bello, quod rex adversus Cadusios gessit. Namque hic multis milibus
regiorum interfectis magni fuit eius opera. Quo factum est, cum in eo bello cecidisset Camisares, ut paterna ei traderetur provincia.
Datame, nato dal padre Camisare, di stirpe caria, dalla madre scita, dapprima fu presso Artaserse nel numero di quei soldati, che custodivano la reggia. Suo padre Camisare, poiché era stato trovato sia forte di mano e valoroso in guerra e fedele al re in molti momenti, ebbe come provincia la parte della Cilicia vicino alla Cappadocia, che abitano i Leucosiri.
Datame, adempiendo il servizio militare, dapprima manifestò quale fosse nella guerra, che il re fece contro i Cadusi. Infatti qui, essendo state uccise molte migliaia di (soldati) regi, la sua opera fu di grande importanza. Perciò accadde, essendo caduto Camisare in quella guerra, che gli fosse concessa la provincia paterna.
2. De Datamis virtute contra Thuyn.
2. Valore di Datame contro Tuis.
Pari se virtute postea praebuit, cum Autophrodates iussu regis bello persequeretur eos, qui
defecerant. Namque huius opera hostes, cum castra iam intrassent, profligati sunt exercitusque
reliquus conservatus regis est. Qua ex re maioribus rebus praeesse coepit. 2 Erat eo tempore Thuys, dynastes Paphlagoniae antiquo genere, ortus a Pylaemene illo, quem Homerus Troico bello a Patroclo interfectum ait. 3 Is regi dicto audiens non erat. Quam ob causam bello eum persequi constituit eique rei praefecit Datamen, propinquum Paphlagonis: namque ex fratre et sorore erant nati. Quam ob causam Datames primum experiri voluit, ut sine armis propinquum ad officium reduceret. Ad quem cum venisset sine praesidio, quod ab amico nullas vereretur insidias, paene interiit: nam Thuys eum clam interficere voluit. 4 Erat mater cum Datame, amita Paphlagonis: ea, quid ageretur, resciit filiumque monuit. 5 Ille fuga periculum evitavit bellumque indixit Thuyni. In quo cum ab Ariobarzane, praefecto Lydiae et Ioniae totiusque Phrygiae, desertus esset, nihilo segnius perseveravit vivumque Thuym cepit cum uxore et liberis.
Si dimostrò poi di pari valore, quando Autofrodate per ordine del re perseguiva coloro, che si erano ribellati.
Infatti per sua opera i nemici, essendo ormai entrati negli accampamenti, furono sconfitti ed il rimanente esercito del re fu salvato. Per tale cosa comincio ad essere a capo di maggiori realtà. C’era in quel tempo, Tuis, principe della Paflagonia di antica famiglia, nato da quel famoso Palamede, che Omero dice ucciso da Patroclo nella guerra troiana. Egli non era obbediente all’ordine del re. Per tale motivo decise di perseguirlo con una guerra ed a quella mise a capo Datame, parente di Paflagone: infatti erano nati da fratello e sorella. Per tale motivo Datame dapprima volle tentare, di indurre al dovere il parente senza armi. E giunto da lui senza scorta, perché da un amico non temeva nessuna insidia, quasi perì: infatti Tuis volle ucciderlo di nascosto. C’era con Datame la madre, zia di Paflagone: ella venne a sapere, cosa si tramasse, ed avvertì il figlio.
Egli con la fuga evitò il pericolo e dichiarò guerra a Tuis. Ma in questa essendo stato abbandonato da Ariobazane, comandante della Lidia, della Ionia e di tutta la Frigia, per nulla perseverò più pigramente e catturò vivo Tuis con moglie e figli.
3. De Datame magnifice donato.
3. Datame riccamente premiato.
Cuius facti ne prius fama ad regem quam ipse perveniret, dedit operam. Itaque omnibus
insciis eo, ubi erat rex, venit posteroque die Thuyn, hominem maximi corporis terribilique facie, quod et niger et capillo longo barbaque erat promissa, optima veste texit, quam satrapae regii
gerere consuerant, ornavit etiam torque atque armillis aureis ceteroque regio cultu; 2 ipse agresti
duplici amiculo circumdatus hirtaque tunica, gerens in capite galeam venatoriam, dextra manu
clavam, sinistra copulam, qua vinctum ante se Thuynem agebat, ut si feram bestiam captam
duceret. 3 Quem cum omnes conspicerent propter novitatem ornatus ignotamque formam ob
eamque rem magnus esset concursus, fuit nonnemo, qui agnosceret Thuym regique nuntiaret. 4 Primo non accredidit: itaque Pharnabazum misit exploratum. A quo ut rem gestam comperit, statim admitti iussit, magnopere delectatus cum facto tum ornatu, in primis quod nobilis rex in potestatem inopinanti venerat. 5 Itaque magnifice Datamen donatum ad exercitum misit, qui tum contrahebatur duce Pharnabazo et Tithrauste ad bellum Aegyptium, parique eum atque illos imperio esse iussit. Postea vero quam Pharnabazum rex revocavit, illi summa imperii
tradita est.
Ma di questo fatto fece in modo che la fama non giungesse al re prima di lui. E così, mentre tutti erano ignari, giunse là dove c’era il re ed il giorno dopo ricoprì Tuis, personaggio di grandissima corporatura e di terribile aspetto, poiché era nero, con capigliatura lunga e barba fluente, con una bellissima veste, che i satrapi regi erano soliti portare, lo adornò pure di una collana e braccialetti d’oro ed altro abbigliamento regale; egli rivestito di doppio mantello e di ispida tunica, portando sul capo un casco da cacciatore, nella mano destra la clava, nella sinistra un guinzaglio, con cui guidava davanti a sé Tuis, come se conducesse una bestia feroce catturata. Poiché tutti lo guardavano per la stranezza dell’abbigliamento e per l’aspetto insolito e per tale cosa essendoci un grande accorrere, ci fu qualcuno che conosceva Tuis e lo raccontava al re. Dapprima non credette: e così mandò Farnabazo ad esplorare. Ma come seppe da questi la cosa compiuta, subito ordino che fosse ammesso, compiaciuto molto sia del fatto sia dell’abbigliamento, soprattutto perché un famoso re era giunto sotto il potere ad uno che non se l’aspettava. E così mandò Datame sontuosamente premiato presso l’esercito che allora veniva arruolato sotto il comando di Farnabazo e Titrauste per la guerra egiziana e ordinò che lui e quelli fossero di pari potere. Ma dopo che il re richiamò Farnabazo, a lui fu affidato i complesso del comando.
4. De Aspi a Datame capto.
4. Aspi catturato da Datame.
Hic cum maximo studio compararet exercitum Aegyptumque proficisci pararet, subito a
rege litterae sunt ei missae, ut Aspim aggrederetur, qui Cataoniam tenebat; quae gens iacet supra Ciliciam, confinis Cappadociae. 2 Namque Aspis, saltuosam regionem castellisque
munitam incolens, non solum imperio regis non parebat, sed etiam finitimas regiones vexabat
et, quae regi portarentur, abripiebat. 3 Datames etsi longe aberat ab his regionibus et a maiore re
abstrahebatur, tamen regis voluntati morem gerendum putavit. Itaque cum paucis, sed viris
fortibus navem conscendit, existimans, quod accidit, facilius se imprudentem parva manu
oppressurum quam paratum quamvis magno exercitu. 4 Hac delatus in Ciliciam, egressus inde,
dies noctesque iter faciens Taurum transiit eoque, quo studuerat, venit. Quaerit, quibus locis sit
Aspis; cognoscit haud longe abesse profectumque eum venatum. Quae dum speculatur, adventus eius causa cognoscitur. Pisidas cum eis, quos secum habebat, ad resistendum Aspis comparat. 5 Id Datames ubi audivit, arma sumit, suos sequi iubet; ipse equo concitato ad hostem vehitur. Quem procul Aspis conspiciens ad se ferentem pertimescit atque a conatu resistendi deterritus sese dedidit. Hunc Datames vinctum ad regem ducendum tradit Mithridati.
Costui mentre col massimo impegno preparava l’esercito e si organizzava per partire per l’Egitto, improvvisamente gli furono inviate da parte del re delle lettere, perché assalisse Aspi, che deteneva la Catatonia; questa popolazione si trova sopra la Cilicia, confinante della Cappadocia. Infatti Aspi, abitando una regione boscosa e munita di fortezze, non solo non obbediva al comando del re, ma anche vessava le regioni vicine e sottraeva, le cose che erano portate al re. Datame anche se era lontano a queste regioni ed era distratto da una cosa maggiore, tuttavia ritenne di tenere un comportamento secondo (per) la volontà del re. E così con pochi, ma forti uomini salì sulla nave, pensando, cosa che accadde, che più facilmente con un piccolo manipolo avrebbe vinto uno che non se l’aspettava che, con un grande esercito, uno preparato. Da questa portato in Cilicia, uscito di lì, marciando giorni e notti, attraversò il Tauro e giunse là, dove aveva voluto. Chiede in quali luoghi sia Aspi; viene a sapere che non è lontano e che era partito per cacciare. Mentre scruta queste cose, viene conosciuta la causa del suo arrivo. Aspi prepara i Pissidi con quelli che aveva con sé a resistere. Quando Datame udì ciò, prende le armi, ordina che i suoi lo seguano; egli stesso spronato il cavallo si porta contro il nemico. Ma Aspi vedendolo da lontano che si recava contro di lui s’impaurisce e distolto dal tentativo di resistere si consegnò. Datame consegna A Mitridate costui legato da consegnare al re.

5. De Datamis periculis.
5. I rischi di Datame.
Haec dum geruntur, Artaxerxes reminiscens, a quanto bello ad quam parvam rem principem ducum misisset, se ipse reprehendit et nuntium ad exercitum Acen misit, quod nondum Datamen profectum putabat, qui diceret, ne ab exercitu discederet. Hic priusquam perveniret, quo erat profectus, in itinere convenit, qui Aspim ducebant. 2 Qua celeritate cum magnam benevolentiam regis Datames consecutus esset, non minorem invidiam aulicorum excepit, quod illum unum pluris quam se omnes fieri videbant. 3 Quo facto cuncti ad eum opprimendum consenserunt. Haec Pandantes, gazae custos regiae, amicus Datami, perscripta ei
mittit, in quibus docet eum in magno fore periculo, si quid illo imperante adversi in Aegypto
accidisset. 4 Namque eam esse consuetudinem regiam, ut casus adversos hominibus tribuant,
secundos fortunae suae; quo fieri, ut facile impellantur ad eorum perniciem, quorum ductu res male gestae nuntientur. Illum hoc maiore fore in discrimine, quod, quibus rex maxime oboediat,
eos habeat inimicissimos. 5 Talibus ille litteris cognitis, cum iam ad exercitum Acen venisset,
quod non ignorabat ea vere scripta, desciscere a rege constituit. Neque tamen quicquam fecit,
quod fide sua esset indignum. 6 Nam Mandroclen Magnetem exercitui praefecit; ipse cum suis
in Cappadociam discedit coniunctamque huic Paphlagoniam occupat, celans, qua voluntate
esset in regem. Clam cum Ariobarzane facit amicitiam, manum comparat, urbes munitas suis
tuendas tradit.
Mentre si fanno queste cose, Artaserse ricordandosi da quale grande guerra avesse mandato ad una piccola cosa il principe dei condottieri, si dispiace lui stesso e manda un messaggero presso l’esercito ad Ace, perché pensava che Datamen non fosse ancora partito, e riferisse di non allontanarsi dall’esercito. Costui prima di giungere, per dove era partito, nel viaggio incontra coloro che conducevano Aspi. Con una tale velocità avendo Datame ottenuto il grande favore del re, ricevette non minore invidia dei cortigiani, poiché vedevano che lui da solo era stimato più di tutti loro. Per tale fatto tutti si accordarono a sopprimerlo. Pandante, custode del tesoro regio, amico di Datame, gli manda questi scritti, in cui rivela che lui era in grande pericolo, se gli fosse capitato qualcosa di contrario in Egitto, lui comandante.
Infatti quella era la consuetudine regia, di attribuire i casi avversi agli uomini, i prosperi alla propria fortuna; perciò accadeva che facilmente erano indotti alla rovina di coloro, per il cui comando le imprese sono annunciate negativamente. Lui per questo era in un pericolo maggiore, perché, aveva inimicissimi quelli a cui il re prestava orecchio. Egli conosciute tali lettere, essendo ormai giunto ad Ace presso l’esercito, poiché non ignorava che gli scritti (dicevano) veramente quelle cose, decise di separarsi dal re. Infatti mai aveva fatto qualcosa che fosse indegno della sua fedeltà. Infatti mise a capo dell’esercito Mandrocle di Magnesia; lui con i suoi se ne andò in Capapdocia ed occupa la Paflagonia congiunta a questa, celando, di quale intenzione fosse verso il re. Nascostamente fece amicizia con Ariobazane, prepara un manipolo, consegna ai suoi le città fortificate da difendere.

6. De Datamis acutiore facto.
6. Azione piùttosto astuta di Datame.
Sed haec propter hiemale tempus minus prospere procedebant. Audit Pisidas quasdam copias adversus se parare. Filium eo Arsidaeum cum exercitu mittit: cadit in proelio adulescens.
Proficiscitur eo pater non ita cum magna manu, celans, quantum vulnus accepisset, quod prius
ad hostem pervenire cupiebat quam de male re gesta fama ad suos perveniret, ne cognita filii
morte animi debilitarentur militum. 2 Quo contenderat, pervenit iisque locis castra ponit, ut
neque circumiri multitudine adversariorum posset neque impediri, quo minus ipse ad dimicandum manum haberet expeditam. 3 Erat cum eo Mithrobarzanes, socer eius, praefectus equitum. Is desperatis generi rebus ad hostes transfugit. Id Datames ut audivit, sensit, si in turbam exisset ab homine tam necessario se relictum, futurum, ut ceteri consilium sequerentur. 4 In vulgus edit: suo iussu Mithrobarzanem profectum pro perfuga, quo facilius receptus interficeret hostes. Quare relinqui eum par non esse et omnes confestim sequi. Quod si animo strenuo fecissent, futurum, ut adversarii non possent resistere, cum et intra vallum et foris
caederentur.
5 Hac re probata exercitum educit Mithrobarzanem persequitur tantum; qui cum
ad hostes pervenerat, Datames signa inferri iubet. 6 Pisidae nova re commoti in opinionem
adducuntur perfugas mala fide compositoque fecisse, ut recepti maiori essent calamitati.
Primum eos adoriuntur.
Illi cum, quid ageretur aut quare fieret, ignorarent, coacti sunt cum eis pugnare, ad quos transierant, ab iisque stare, quos reliquerant; quibus cum neutri parcerent, celeriter sunt concisi.
7 Reliquos Pisidas resistentis Datames invadit; primo impetu pellit, fugientis persequitur, multos interficit, castra hostium capit.
8 Tali consilio uno tempore et proditores perculit et hostis profligavit et, quod ad perniciem suam fuerat cogitatum, id ad salutem convertit. Quo neque acutius ullius imperatoris cogitatum neque celerius factum usquam legimus.
Ma queste cose procedevano meno felicemente per il tempo invernale. Sente che i Pissidi preparavano alcune truppe contro di lui. Manda là il figlio Arsideo con l’esercito: il giovane cade in combattimento. Si dirige là il padre così non con una grande truppa, celando, quale grande ferita avesse ricevuto, perché desiderava giungere dal nemico prima che ai suoi giungesse la notizia della realtà andata male, perché saputa la morte del figlio gli animi dei soldati non fossero abbattuti. Dove era diretto, giunge e pone in quei luoghi gli accampamenti perché non potesse essere circondato dalla moltitudine degli avversari ed impedito ad avere un truppa spedita per combattere. C’era con lui Mitrobarzane, suo suocero, comandante dei cavalieri. Egli, essendo disperate le cose del genero, fuggì presso i nemici. Come Datame udì ciò, capì, che se fosse trapelato nella massa che era stato abbandonato da un uomo così imparentato, sarebbe accaduto che gli altri avrebbero seguito la sua decisione. Fa dire al volgo: che per suo ordine Mitrobazane era partito come disertore, perché, più facilmente accolto uccidesse i nemici. Perciò non era bene che li fosse abbandonato ma che tutti subito lo seguissero. Che se l’avessero fatto con animo valoroso, sarebbe accaduto che gli avversari non potevano resistere, essendo massacrati sia dentro la trincea che fuori. Approvata questa cosa guida l’esercito segue soltanto Mitrobarzane; ma come questi era giunto presso i nemici, Datame ordina che si portino avanti le insegne. I Pissidi spaventati dalla cosa strana sono indotti nell’idea che avessero fatto i disertori in mala fede e di proposito, perché accolti fossero di maggiore rovina. Prima li assalgono. Essi ignorando cosa capitasse o perché accadesse, furono costretti a combattere contro coloro, presso cui erano passati e a stare dalla parte di coloro che avevano abbandonato; ma poiché né gli uni né gli altri li risparmiavano, velocemente furono massacrati. Datame assale gli altri Pissidi che resistono; col primo assalto li respinge, insegue i fuggitivi, molti li uccide, occupa gli accampamenti dei nemici. Con tale piano in un solo tempo sia abbattè i traditori sia sconfisse i nemici sia, quello che era stato escogitato per la sua rovina, lo trasformò in propria salvezza. E non abbiamo letto di nessun comandante una strategia più sottile né un fatto più veloce di questo.
7. De Defectione filii Datamis.
7. Defezione del figlio di Datame.
Ab hoc tamen viro Sysinas, maximo natu filius, desciit ad regemque transiit et de defectione
patris detulit. Quo nuntio Artaxerxes commotus, quod intellegebat sibi cum viro forti ac strenuo
negotium esse, qui, cum cogitasset, facere auderet et prius cogitare quam conari consuesset,
Autophrodatem in Cappadociam mittit. 2 Hic ne intrare posset, saltum, in quo Ciliciae portae sunt sitae, Datames praeoccupare studuit. 3 Sed tam subito copias contrahere non potuit. A qua re depulsus cum ea manu, quam contraxerat, locum deligit talem, ut neque circumiretur ab hostibus neque praeteriret adversarius, quin ancipitibus locis premeretur, et, si dimicare eo vellet, non multum obesse multitudo hostium suae paucitati posset.
Tuttavia da questo uomo si staccò Sisina, il figlio maggiore e passò presso il re e riferì della defezione del padre: Artaserse colpito da tale notizia, poiché capiva che aveva un impegno con un uomo forte e valoroso, che avendo pensato, osava fare ed era solito pensare prima che tentare, manda Autofrodate in Capapdocia. Perché costui non potesse entrare, studiò di occupare prima il passo, in cui sono situate le porte della Cilicia.
Ma non potè tanto presto raccogliere le truppe. Distolto da tale cosa con quel manipolo che aveva raccolto, sceglie un luogo tale, che né fosse circondato dai nemici né il nemico passasse, senza essere incalzato da due postazioni e se volesse combattere, la moltitudine dei nemici non avesse potuto nuocere molto al piccolo numero.

8. De Datamis victoria contra regem.
8. Vittoria di Datame contro il re.
Haec etsi Autophrodates videbat, tamen statuit congredi quam cum tantis copiis refugere aut
tam diu uno loco sedere. 2 Habebat barbarorum equitum XX, peditum centum milia, quos illi
Cardacas appellant, eiusdemque generis III milia funditorum; praeterea Cappadocum VIII milia,
Armeniorum X milia, Paphlagonum V milia, Phrygum X milia, Lydorum V milia, Aspendiorum et Pisidarum circiter III milia, Cilicum II, Captianorum totidem, ex Graecia conductorum III, levis armaturae maximum numerum. 3 Has adversus copias spes omnis consistebat Datami in se locique natura: namque huius partem non habebat vicesimam militum. Quibus fretus conflixit adversariorumque multa milia concidit, cum de ipsius exercitu non amplius hominum mille cecidisset; quam ob causam postero die tropaeum posuit, quo loco pridie pugnatum erat. 4 Hinc cum castra movisset semperque inferior copiis superior omnibus proeliis discederet, quod numquam manum consereret, nisi cum adversarios locorum angustiis clausisset, quod perito regionum callideque cogitanti saepe accidebat, 5 Autophrodates, cum bellum duci maiore regis calamitate quam adversariorum videret, pacem amicitiamque hortatus est, ut cum rege in gratiam rediret. 6 Quam ille etsi fidam non fore putabat, tamen condicionem accepit seque ad Artaxerxen legatos missurum dixit. Sic bellum, quod rex adversus Datamen susceperat, sedatum est. Autophrodates in Phrygiam se recepit.
Anche se Autofrodate vedeva queste cose, tuttavia stabilì scontrarsi (piuttosto) che fuggire con così grandi truppe o fermarsi troppo a lungo in uno stesso luogo. Aveva venti migliaia di cavalieri barbari, cento migliaia di fanti, che essi chiamano Cardaci, tre migliaia di frombolieri della stessa stirpe; inoltre otto migliaia di Capapdoci, dieci migliaia di Armeni, cinque migliaia di Paflagoni, dieci migliaia di Frigi, cinque migliaia di Lidi, circa tre migliaia di Aspendi, due di Cilici, altrettanti di Capziani, tre di mercenari dalla Grecia, un grandissimo numero di armatura leggera.
Contro queste truppe tutta la speranza per Datame consisteva in sé e nella natura del luogo: infatti non aveva la ventesima parte del soldati di costui.
Confidando su queste cose attaccò e massacrò molte migliaia di avversari, essendo caduti non più di mille uomini del proprio esercito; per tale motivo il giorno dopo pose il trofeo, nel luogo dove il giorno prima si era combattuto. Di qui avendo mosso gli accampamenti e sempre inferiore di truppe riuscendo superiore in tutti gli scontri, perché mai veniva alle mani, se non dopo aver chiuso gli avversari nelle strettoie dei luoghi, cosa che spesso accadeva ad uno esperto delle regioni e che rifletteva astutamente, Autofrodate, vedendo che la guerra era condotta con maggiore perdita del re che degli avversari, esortò alla pace ed alla amicizia, perché ritornasse nel favore del re. Ma egli anche se pensava che non sarebbe stata leale, tuttavia accolse la condizione e disse che avrebbe mandato delegati presso Artaserse. Così la guerra, che il re aveva intrapreso contro Datame, si placò.
Autofrodate si ritirò in Frigia.
9. De insidiis contra Datamen.
9. Agguato contro Datame.
At rex quod implacabile odium in Datamen susceperat, postquam bello eum opprimi non
posse animadvertit, insidiis interficere studuit; quas ille plerasque vitavit. 2 Sicut, cum ei
nuntiatum esset quosdam sibi insidiari, qui in amicorum erant numero, de quibus quod inimici
detulerant, neque credendum neque neglegendam putavit: experiri voluit, verum falsumne sibi
esset relatum. 3 Itaque eo profectus est, in quo itinere futuras insidias dixerant. Sed elegit
corpore ac statura simillimum sui eique vestitum suum dedit atque eo loco ire, quo ipse consuerat, iussit. Ipse autem ornatu vestituque militari inter corporis custodes iter facere coepit. 4 At insidiatores, postquam in eum locum agmen pervenit, decepti ordine atque vestitu impetum
in eum faciunt, qui suppositus erat. Praedixerat autem iis Datames, cum quibus iter faciebat, ut
parati essent facere, quod ipsum vidissent. 5 Ipse, ut concurrentis insidiatores animum advertit,
tela in eos coniecit. Hoc idem cum universi fecissent, priusquam pervenirent ad eum, quem
aggredi volebant, confixi conciderunt.
Ma il re poiché aveva concepito un odio implacabile contro Datame, dopo che capì che quello non poteva essere oppresso con una guerra, studiò di ucciderlo con insidie. Così come, essendogli stato annunciato che gli tendevano insidie alcuni, che erano nel numero degli amici, ma su di essi, quello che i nemici avevano riportato, non ritenne né dover credere né trascurare: volle sperimentare, se fosse stato riferito il vero o il falso. E così si recò là, dove avevano detto ci sarebbero state le insidie. Ma scelse uno molto simile a sé di corporatura e statura e gli diede il suo vestito ed ordinò di andare, dove lui stesso era solito. Lui però con abbigliamento e vestiario militare cominciò a marciare tra le guardie del corpo.
Ma gli attentatori, dopo che la schiera giunse in quel luogo, ingannati dall’ordine e dal vestiario fanno un assalto contro quello che era stato messo al suo posto. Datame però aveva prima ordinato a quelli con cui faceva la marcia che fossero pronti a fare quello che avessero visto che lui ( faceva). Egli, come si accorse degli attentatori che accorrevano, scagliò giavellotti contro di essi. Avendo tutti fatta la stessa cosa, prima che giungessero da colui che volevano aggredire, caddero trafitti.
10. De Mitridatis dolo erga Datamen parato.
10. Inganno di Mitridate preparato contro Datame.
Hic tamen tam callidus vir extremo tempore captus est Mithridatis, Ariobarzanis filii, dolo.
Namque is pollicitus est regi se eum interfecturum, si ei rex permitteret, ut, quodcumque vellet, liceret impune facere, fidemque de ea re more Persarum dextra dedisset. 2 Hanc ut accepit a rege missam, copias parat et absens amicitiam cum Datame facit; regis provincias vexat, castella expugnat, magnas praedas capit, quarum partim suis dispertit, partim ad Datamen mittit; pari modo complura castella ei tradit. 3 Haec diu faciendo persuasit homini se infinitum adversus regem suscepisse bellum, cum nihilo magis, ne quam suspicionem illi praeberet
insidiarum, neque colloquium eius petivit neque in conspectum venire studuit. Sic absens amicitiam gerebat, ut non beneficiis mutuis, sed communi odio, quod erga regem susceperant, contineri viderentur.
Costui tuttavia uomo così astuto in un ultimo momento fu sorpreso dall’inganno di Mitridate, figlio di Ariobazane. Infatti egli promise al re che l’avrebbe ucciso, se il re gli permettesse gli fosse lecito fare qualunque cosa volesse, e di quella cosa avesse data assicurazione con la destra, secondo il costume dei Persiani. Come ricevette dal re questa garanzia, prepara truppe e da lontano fa alleanza con Datame; assale province, espugna fortezze, prende molte prede, di cui, in parte, spartisce coi suoi, in parte manda a Datame; allo stesso modo gli consegna parecchie fortezze. Facendo a lungo queste cose persuade l’uomo che lui aveva intrapreso una indefinita guerra contro il re, non offrendo nondimeno a lui alcun sospetto né chiese il suo incontro né studiò di venire al suo cospetto. Da lontano gestiva l’alleanza così, che sembrassero essere legati non da mutui benefici, ma dal comune odio, che avevano concepito contro il re.
11. De Datamis morte.
11. Morte di Datame.
Id cum satis se confirmasse arbitratus est, certiorem facit Datamen tempus esse maiores
exercitus parari et bellum cum ipso rege suscipi, deque ea re, si ei videretur, quo loco vellet, in
colloquium veniret. Probata re colloquendi tempus sumitur locusque, quo conveniretur. 2 Huc
Mithridates cum uno, cui maxime habebat fidem, ante aliquot dies venit compluribusque locis
separatim gladios obruit eaque loca diligenter notat. Ipso autem colloquii die utrique, locum qui
explorarent atque ipsos scrutarentur, mittunt; deinde ipsi sunt congressi. 3 Hic cum aliquamdiu
in colloquio fuissent et diverse discessissent iamque procul Datames abesset, Mithridates,
priusquam ad suos perveniret, ne quam suspicionem pareret, in eundem locum revertitur atque ibi, ubi telum erat infossum, resedit, ut si lassitudine cuperet acquiescere, Datamenque
revocavit, simulans se quiddam in colloquio esse oblitum. 4 Interim telum, quod latebat, protulit
nudatumque vagina veste texit ac Datami venienti ait: digredientem se animadvertisse locum
quendam, qui erat in conspectu, ad castra ponenda esse idoneum. 5 Quem cum digito demonstraret et ille respiceret, aversum ferro transfixit priusque, quam quisquam posset succurrere, interfecit. Ita ille vir, qui multos consilio, neminem perfidia ceperat, simulata captus est amicitia.
Avendo ritenuto di avere abbastanza sicurezza, informa Datame che era tempo che si preparassero eserciti maggiori e si intraprendesse la guerra contro lo steso re,
e su quella cosa, se gli sembrava bene, in quel luogo che volesse, venisse a colloquio. Approvata la cosa si decide il tempo di incontrarsi ed il luogo, dove riunirsi. Qui Mitridate con uno, di cui aveva la massima fiducia, giunge alcuni giorni prima ed in parecchi luoghi separatamente sotterra spade e segnala attentamente quei luoghi. Poi nello stesso giorno del colloquio entrambi mandano alcuni ad esplorare il luogo e li perquisissero; poi loro stessi si incontrarono. Qui essendo stati alquanto a colloquio e si fossero allontanati in diverse direzioni ed essendo già Datame lontano, Mitridate, prima di arrivare dai suoi, per non generare alcun sospetto, ritorna nello stesso luogo e lì, dove era stato sepolto l’arma, si sedette, come se desiderasse riposarsi per la stanchezza, e richiamò Datame, fingendo di essersi dimenticato qualcosa nel colloquio. Intanto disseppellì l’arma, che era nascosta, toltola dal fodero, la coprì con la veste e a Datame che arrivava disse: di aver visto partendo un luogo, che era di fronte, adatto per porre l’accampamento. E mentre lo mostrava col dito e lui guardava, lo trafisse di fronte colla spada e prima che qualcuno potesse accorrere, lo uccise. Così quell’uomo, che aveva catturato molti con l’intelligenza, nessuno con la slealtà, fu catturato da una finta amicizia.
EPAMINONDAS
EPAMINONDA
1. De lectoribus praeceptis.
1. Avvisi ai lettori.
Epaminondas, Polymnidis filius. Thebanus. De hoc priusquam scribimus, haec praecipienda videntur lectoribus, ne alienos mores ad suos referant neve ea, quae ipsis leviora sunt, pari modo apud ceteros fuisse arbitrentur. 2 Scimus enim musicen nostris moribus abesse a principis persona, saltare vero etiam in vitiis poni; quae omnia apud Graecos et grata et laude digna ducuntur. 3 Cum autem exprimere imaginem consuetudinis atque vitae velimus
Epaminondae, nihil videmur debere praetermittere, quod pertineat ad eam declarandam. 4 Quare dicemus primum de genere eius, deinde, quibus disciplinis et a quibus sit eruditus; tum de moribus ingeniique facultatibus, et si qua alia memoria digna erunt; postremo de rebus gestis, quae a plurimis animi anteponuntur virtutibus.
Epaminonda, figlio di Polimnide, tebano. Di costui, prima che scriviamo, sembrano doversi dire queste cose ai lettori, perché non riferiscano i costumi altrui ai propri, né, le cose che per loro sono piuttosto leggere, credano che siano state presso gli altri di pari misura. Sappiamo infatti che la musica secondo i nostri costumi è lontana dalla persona di un capo, inoltre il ballare è posto tra i vizi; ma tutte queste cose presso i Greci sono considerate sia gradite sia degne di lode. Volendo dunque esprimere l’immagine della abitudine e della vita di Epaminonda, sembra che non dobbiamo tralasciare nulla, che miri a chiarirla.
Perciò diremo prima della sua stirpe, poi, in quali discipline e da chi sia stato istruito; poi dei costumi e delle qualità dell’ingegno e qualsiasi altra cosa degna di memoria; infine delle cose fatte, che da moltissimi sono messe davanti alle qualità.
2. De Epaminondae disciplinis.
2. Le scuole di Epaminonda.
Natus est igitur patre, quo diximus, genere honesto, pauper iam a maioribus relictus, eruditus autem sic ut nemo Thebanus magis. Nam et citharizare et cantare ad chordarum sonum doctus est a Dionysio, qui non minore fuit in musicis gloria quam Damon aut Lamprus, quorum pervulgata sunt nomina; cantare tibiis ab Olympiodoro, saltare a Calliphrone. 2 At philosophiae praeceptorem habuit Lysim Tarentinum, Pythagoreum; cui quidem sic fuit
deditus, ut adulescens tristem ac severum senem omnibus aequalibus suis in familiaritate
anteposuerit, neque prius eum a se dimisit, quam in doctrinis tanto antecessit condiscipulos, ut
facile intellegi posset pari modo superaturum omnes in ceteris artibus. 3 Atque haec ad nostram
consuetudinem sunt levia et potius contemnenda; at in Graecia utique olim magnae laudi erant.
4 Postquam ephebus est factus et palaestrae dare operam coepit, non tam magnitudini virium
servivit quam velocitati. Illam enim ad athletarum usum, hanc ad belli existimabat utilitatem
pertinere. 5 Itaque exercebatur plurimum currendo et luctando ad eum finem, quoad stans complecti posset atque contendere. In armis vero plurimum studii consumebat.
Nacque dunque da padre e da famiglia nobile, di cui parlammo, già dagli antenati fu lasciato povero, ma istruito così come nessun tebano (lo era) di più. Infatti fu istruito sia a suonare la cetra sia a cantare al suono degli strumenti a corda da Dionisio, che nelle musiche non fu di minore gloria di Damone o Lampo, dei quali sono stati esaltati i nomi; a cantare coi flauti da Olimpiodoro, a ballare da Callifrone. Ma ebbe come insegnante di filosofia Lisi di Taranto, pitagorico; ma a questi fu così legato che da giovane preferì un vecchio burbero e severo ai suoi coetanei per amicizia, né si staccò da lui prima che superasse nelle dottrine i condiscepoli tanto che facilmente si poteva capire che avrebbe superato allo stesso modo tutti nelle altre arti.
Ma queste cose secondo la nostra abitudine sono cose leggere e da disprezzare; ma in Grecia un tempo erano veramente in grande onore.
Dopo che divento efebo e cominciò a fare attività di palestra, non fu schiavo tanto della grandezza delle forze quanto della velocità. Quella infatti giudicava riguardare l’esercizio degli atleti, questa all’utilità della guerra.
E così si esercitava moltissimo correndo e lottando per quel fine, fino a che potesse stando in piedi avvinghiare e lottare. Ma nelle armi consumava moltissimo dell’impegno.
3. De Epaminondae virtutibus.
3. Qualità morali di Epaminonda.
Ad hanc corporis firmitatem plura etiam animi bona accesserant. Erat enim modestus, prudens, gravis, temporibus sapienter utens; peritus belli, fortis manu, animo maximo; adeo veritatis diligens, ut ne ioco quidem mentiretur. 2 Idem continens, clemens patiensque admirandum in modum, non solum populi, sed etiam amicorum ferens iniurias; in primis commissa celans, quod interdum non minus prodest quam diserte dicere, studiosus audiendi: ex hoc enim facillime disci arbitrabatur. 3 Itaque cum in circulum venisset, in quo aut de re publica disputaretur aut de philosophia sermo haberetur, numquam inde prius discessit, quam ad finem sermo esset adductus. 4 Paupertatem adeo facile perpessus est, ut de re publica nihil praeter gloriam ceperit. Amicorum in se tuendo caruit facultatibus, fide ad alios sublevandos saepe sic usus est, ut iudicari possit omnia ei cum amicis fuisse communia. 5 Nam cum aut civium suorum aliquis ab hostibus esset captus aut virgo amici nubilis, quae propter paupertatem collocari non posset, amicorum consilium habebat et, quantum quisque daret, pro facultatibus imperabat. 6 Eamque summam cum fecerat, priusquam acciperet pecuniam, adducebat eum, qui quaerebat, ad eos, qui conferebant, eique ut ipsi numerarent, faciebat, ut ille, ad quem ea
res perveniebat, sciret, quantum cuique deberet.
A questa robustezza del corpo si accompagnavano anche molti beni dell’animo. Era infatti moderato, prudente, serio, usando sapientemente i momenti; esperto di guerra, forte di mano, di grandissimo coraggio; a tal punto amante della verità, che neppure nel gioco mentiva. Ugualmente misurato, mite e paziente in modo ammirevole, sopportando le ingiurie non solo del popolo, ma anche degli amici; soprattutto celando le cose confidate, cosa che talvolta giova non meno che parlare eloquentemente, desideroso di ascoltare: infatti riteneva che da ciò si imparava molto facilmente. E così essendo giunto in un gruppo nel quale o il discorso si tenesse su cosa pubblica o su filosofia, mai partiva di lì prima che il discorso fosse condotto alla fine. La povertà la sopportò facilmente al punto che, dallo stato non prese mai nulla eccetto la gloria. Nel difendere se stesso si astenne dai beni degli amici, del credito per aiutare gli altri spesso usò tanto che si può pensare che per lui tutto fosse comune con gli amici. Infatti quando o qualcuno dei suoi concittadini era stato preso dai nemici o la figlia nubile di un amico non si poteva maritare per la povertà, teneva una riunione di amici e a seconda delle facoltà disponeva quanto ognuno desse. Quando aveva accumulato la somma, prima di accettare il denaro, portava colui. che chiedeva, a quelli che offrivano e faceva (sì che) loro stessi glielo contassero, perché colui, al quale la cosa arrivava, sapesse, quanto doveva a ciascuno.
4. De Epaminondae abstinentia.
4. Disinteresse di Epaminonda.
Temptata autem eius est abstinentia a Diomedonte Cyziceno. Namque is rogatu Artaxerxis regis Epaminondam pecunia corrumpendum susceperat. Hic magno cum pondere auri Thebas venit et Micythum adulescentulum quinque talentis ad suam perduxit voluntatem, quem tum Epaminondas plurimum diligebat. Micythus Epaminondam convenit et causam adventus
Diomedontis ostendit. 2 At ille Diomedonti coram ”Nihil, inquit, opus pecunia est. Nam si rex ea
vult, quae Thebanis sunt utilia, gratis facere sum paratus; sin autem contraria, non habet auri
atque argenti satis. Namque orbis terrarum divitias accipere nolo pro patriae caritate. 3 Tu quod
me incognitum temptasti tuique similem, existimasti, non miror tibique ignosco; sed egredere propere, ne alios corrumpas, cum me non potueris. Et tu, Micythe, argentum huic redde, aut,
nisi id confestim facis, ego te tradam magistratui”. 4 Hunc Diomedon cum rogaret, ut tuto exiret
suaque, quae attulerat, liceret efferre, ”Istud quidem, inquit, faciam, neque tua causa, sed mea,
ne, si tibi sit pecunia adempta, aliquis dicat id ad me ereptum pervenisse, quod delatum accipere noluissem”. A quo cum quaesisset, quo se deduci vellet, et ille Athenas dixisset, praesidium dedit, ut tuto perveniret. Neque vero id satis habuit, sed etiam, ut inviolatus in navem escenderet, per Chabriam Atheniensem, de quo supra mentionem fecimus, effecit. 6 Abstinentiae erit hoc satis testimonium. Plurima quidem proferre possimus, sed modus adhibendus est quoniam uno hoc volumine vitam excellentium virorum complurium concludere constituimus, quorum separatim multis milibus versuum complures scriptores ante nos
explicarunt.
Il suo disinteresse fu messo alla prova da Diomedonte di Cizico. Infatti egli su richiesta del re Artaserse aveva intrapreso di corrompere Epaminonda con denaro. Costui giunse a Tebe con una gran quantità di denaro e indusse al suo volere con cinque talenti il giovane Micito, che allora Epaminonda amava moltissimo. Micito incontrò Epaminonda e dichiarò la causa dell’arrivo di Diomedonte. Ma egli in presenza di Diomedonte “Per nulla, disse, c’è bisogno di denaro. Infatti se il re vuole quelle cose che sono utili per i Tebani, sono pronto a farlo gratis, se invece (vuole) cose contrarie, non ha abbastanza di oro e d’argento. Infatti non voglio le ricchezze del mondo in cambio dell’amore della patria. Tu poiché tentasti me, senza conoscermi, e mi valutasti simile a te, non mi meraviglio e ti perdono; ma vattene presto perché tu non corrompa altri, non avendo potuto (corrompere) me. E tu, Micito, restituisci a costui l’argento, o, se non fai subito ciò, io ti consegnerò al magistrato.” Pregandolo Diomedonte, di uscire con sicurezza e che fosse possibile portare le sue cose, che aveva portato, “Codesta cosa certamente, disse, la farò, ma non in tuo favore ma mio, se ti fosse stato sottratto il denaro, qualcuno direbbe che ciò, che non avrei voluto prendere regalato, tolto a te è arrivato a me”. Ma avendogli chiesto, dove volesse essere condotto, ed avendo egli detto ad Atene, diede una scorta, perché arrivasse con sicurezza. Ma non considerò sufficiente ciò, ma addirittura fece sì che salisse sulla nave non danneggiato, per mezzo dell’ateniese Cabria, di cui facemmo menzione. Del disinteresse questo sarà sufficiente come testimonianza. Veramente potremmo portarne (di esempi) moltissimi, ma bisogna usare una misura poiché in questo solo volume abbiamo stabilito di concludere la vita di parecchi uomini eccellenti, di cui separatamente parecchi scrittori prima di noi scrissero con molte migliaia di versi.

5. De Epaminondae eloquentia.
5. Eloquentia di Epaminonda.
Fuit etiam disertus, ut nemo ei Thebanus par esset eloquentia, neque minus concinnus in brevitate respondendi quam in perpetua oratione ornatus. 2 Habuit obtrectatorem Menecliden quendam, indidem Thebis, et adversarium in administranda re publica, satis exercitatum in dicendo, ut Thebanum scilicet: namque illi genti plus inest virium quam ingenii. 3 Is quod in re militari florere Epaminondam videbat, hortari solebat Thebanos, ut pacem bello anteferrent, ne illius imperatoris opera desideraretur. Huic ille 'Fallis' inquit 'verbo civis tuos, quod hos a bello avocas: otii enim nomine servitutem concilias. 4 Nam paritur pax bello. Itaque, qui ea diutina volunt frui, bello exercitati esse debent. Quare, si principes Graeciae vultis esse, castris est vobis utendum, non palaestra. 5 Idem ille Meneclides cum huic obiceret, quod liberos non haberet neque uxorem duxisset, maximeque insolentiam quod sibi Agamemnonis belli gloriam videretur consecutus, ”At, ille, desine, inquit, Meneclida, de uxore mihi exprobrare: nam nullius in ista re minus uti consilio volo” . - Habebat enim Meneclides suspicionem adulterii -. 6 “Quod autem me Agamemnonem aemulari putas, falleris. Namque ille cum universa Graecia vix decem annis unam cepit urbem; ego contra ea una urbe nostra dieque uno totam Graeciam Lacedaemoniis fugatis liberavi.”
Fu pure eloquente, tanto che nessun tebano era pari per eloquenza, e non meno elegante nella brevità del rispondere che raffinato in un lungo discorso. Ebbe un tale Meneclide come denigratore, dallo stesso luogo a Tebe, ed avversario nel governare lo stato, abbastanza esercitato nel parlare, come tebano si capisce: infatti in quella stirpe c’è più di forze che di ingegno. Egli vedendo che Epaminonda eccelleva nella realtà militare, soleva esortare i Tebani, perché preferissero la pace alla guerra, perché non fosse richiesta l’opera di quel comandante. A costui egli Infatti, disse, ”Tu inganni i tuoi concittadini, perché li distogli dalla guerra: infatti col nome della tranquillità raccomandi la schiavitù. Infatti la pace è generata dalla guerra. E così quelli che vogliono goderla continua, devono essere esercitati dalla guerra. Perciò se volete essere i primi della Grecia, voi dovete usare gli accampamenti, non la palestra. Quello stesso Meneclide rimproverando a costui, perché non aveva figli né aveva preso moglie, e soprattutto l’arroganza perché sembrava aver raggiunto la gloria della guerra di Agamennone, “Ma, egli disse, Meneclide, smetti di rimproverarmi per la moglie: infatti di nessuno voglio servirmi meno del consiglio (che di te)”. – Infatti Meneclide aveva sospetto di adulterio -. “Per il fatto che tu pensi che io emuli Agamennone, sei ingannato. Infatti quello con tutta la Grecia a stento in dieci anni prese una sola città; io invece con una sola città, la nostra, e in un giorno solo, messi in fuga i Lacedemoni, ho liberato tutta la Grecia.”
6. Iterum de Epaminondae eloquentia.
6. Di nuovo a proposito dell’eloquenza di Epaminonda.
Idem cum in conventum venisset Arcadum, petens, ut societatem cum Thebanis et Argivis
facerent, contraque Callistratus, Atheniensium legatus, qui eloquentia omnes eo praestabat
tempore, postularet, ut potius amicitiam sequerentur Atticorum, et in oratione sua multa
invectus esset in Thebanos et Argivos in eisque hoc posuisset, 2 animum advertere debere
Arcades, qualis utraque civitas civis procreasset, ex quibus de ceteris possent iudicare: Argivos
enim fuisse Orestem et Alcmaeonem matricidas: Thebis Oedipum natum, qui cum patrem suum
interfecisset, ex matre liberos procreasse: 3 huic in respondendo Epaminondas, cum de ceteris
perorasset, postquam ad illa duo opprobria pervenit, admirari se dixit stultitiam rhetoris Attici, qui non animadverterit innocentes illos natos domi, scelere admisso, cum patria essent expulsi, receptos esse ab Atheniensibus. 4 Sed maxime eius eloquentia eluxit Spartae, legati ante pugnam Leuctricam. Quo cum omnium sociorum convenissent legati, coram frequentissimo legationum conventu sic Lacedaemoniorum tyrannidem coarguit, ut non minus illa oratione opes eorum concusserit quam Leuctrica pugna. Tum enim perfecit, quod post apparuit, ut auxilio
Lacedaemonii sociorum privarentur.
Essendo giunto lo stesso in una assemblea di Arcadi, chiedendo che facessero alleanza con Tebani ed Argivi, e al contrario Callistrato, delegato degli Ateniesi, che in quel tempo superava tutti per eloquenza, domandando che seguissero piuttosto l’amicizia degli Attici, e nel suo discorso avendo inveito molto contro i Tebani e gli Argivi e tra quelle (cose dette) avendo presentato questo, che gli Arcadi dovevano porre attenzione, quali cittadini l’una e l’altra città aveva procreato, da cui potevano giudicare sugi altri: che Argivi erano stati Oreste ed Alcmeone, matricidi: a Tebe era nato Edipo, che dopo aver ucciso suo padre, aveva procreato figli dalla madre: a costui nel rispondere Epaminonda, avendo ben pregato sulle altre cose, dopo che giunse a quelle due mostruosità, disse che ammirava la stupidità dell’oratore attico, che non aveva capito che quelli, nati innocenti in patria, compiuto il misfatto, essendo stati espulsi dalla patria, erano stati accolti dagli Ateniesi. Ma soprattutto a Sparta brillò l’eloquenza di lui delegato prima della battaglia di Leuttra. Essendo là giunti i delegati di tutti gli alleati, davanti alla foltissima assemblea delle delegazioni, così denunciò la tirannide dei Lacedemoni, che con quel discorso non scosse meno le loro potenze che con la battaglia di Leuttra.
Allora infatti rivelò, cosa che poi apparve, che i Lacedemoni venivano privati dell’aiuto degli alleati.
7. De Epaminondae patientia.
7. Patienza di Epaminonda.
Fuisse patientem suorumque iniurias ferentem civium, quod se patriae irasci nefas esse duceret, haec sunt testimonia. Cum eum propter invidiam cives sui praeficere exercitui noluissent duxque esset delectus belli imperitus, cuius errore eo esset deducta illa multitudo militum, ut omnes de salute pertimescerent, quod locorum angustiis clausi ab hostibus obsidebantur, desiderari coepta est Epaminondae diligentia. Erat enim ibi privatus numero militis. 2 A quo cum peterent opem, nullam adhibuit memoriam contumeliae et exercitum obsidione liberatum domum reduxit incolumem. Nec vero hoc semel fecit, sed saepius. 3 Maxime autem fuit illustre, cum in Peloponnesum exercitum duxisset adversus Lacedaemonios haberetque collegas duos, quorum alter erat Pelopidas, vir fortis ac strenuus. Ei cum criminibus adversariorum omnes in invidiam venissent ob eamque rem imperium iis esset abrogatum atque in eorum locum alii praetores successissent, Epaminondas populi scito non paruit, 4 idemque ut facerent, persuasit collegis et bellum, quod susceperat, gessit. Namque animadvertebat, nisi id fecisset, totum exercitum propter praetorum imprudentiam inscitiamque belli periturum. 5 Lex erat Thebis, quae morte multabat, si quis imperium diutius retinuisset, quam lege praefinitum foret. Hanc Epaminondas cum rei publicae conservandae causa latam videret, ad perniciem civitatis conferre noluit et quattuor mensibus diutius, quam populus iusserat, gessit imperium.
Che fu paziente e che sopportò gli oltraggi dei suoi, perché pensava essere sacrilegio che si adirasse con la patria, queste sono le testimonianza. Non avendo voluto i suoi concittadini per invidia che lui comandasse l’esercito ed essendo stato eletto un comandante inesperto di guerra, e per il suo errore quella moltitudine di soldati era stata condotta al punto che tutti temessero per la salvezza, perché chiusi dai nemici in strettezze di luoghi, si cominciò a desiderare l’abilità di Epaminonda. Infatti era lì nel numero dei soldati come privato (cittadino). Chiedendo aiuto a lui, non ebbe nessun ricordo dell’offesa e l’esercito, liberato dall’assedio, lo ricondusse incolume in patria. Ma non fece questo una volta sola, ma piuttosto spesso. Ma specialmente fu cosa famosa (quando), avendo guidato l’esercito nel Peloponneso contro i Lacedemoni e avendo due colleghi, di cui uno era Pelopida, uomo forte e valoroso. Poiché essi per le accuse di avversari erano venuti tutti in odiosità e per tale cosa era stato tolto loro il comando ed al loro posto erano succeduti altri comandanti, Epaminonda non obbedì al decreto del popolo, ed persuase i colleghi che facessero lo stesso e fece la guerra che aveva intrapresa. Infatti capiva che se non avesse fatto ciò, tutto l’esercito per l’incapacità dei comandanti e l’ignoranza della guerra sarebbe perito.
C’era la legge a Tebe, che condannava con la morte, se uno avesse tenuto il comando più a lungo di quanto era stato predefinito per legge. Vedendo Epaminonda che questa era stata promulgata per salvare lo stato, non volle che portasse alla rovina della città e gestì il comando per quattro mesi più a lungo di quanto aveva ordinato il popolo.
8. De Epaminondae capitis iudicio et maxima gloria.
8. Processo di Epaminonda per condanna a morte e (suo) massimo onore.
Postquam domum reditum est, collegae eius hoc crimine accusabantur. Quibus ille permisit, ut omnem causam in se transferrent suaque opera factum contenderent, ut legi non oboedirent.
Qua defensione illis periculo liberatis nemo Epaminondam responsurum putabat, quod, quid
diceret, non haberet. 2 At ille in iudicium venit, nihil eorum negavit, quae adversarii crimini
dabant, omniaque, quae collegae dixerant, confessus est neque recusavit, quo minus legis
poenam subiret, sed unum ab iis petivit, ut in periculo suo inscriberent: 3 Epaminondas a
Thebanis morte multatus est, quod eos coegit apud Leuctra superare Lacedaemonios, quos ante se imperatore, nemo Boeotorum ausus fuit aspicere in acie, 4 quodque uno proelio non solum Thebas ab interitu retraxit, sed etiam universam Graeciam in libertatem vindicavit eoque res utrorumque perduxit, ut Thebani Spartam oppugnarent, Lacedaemonii satis haberent, si salvi esse possent, 5 neque prius bellare destitit, quam Messene restituta urbem eorum obsidione clausit. Haec cum dixisset, risus omnium cum hilaritate coortus est, neque quisquam iudex ausus est de eo ferre suffragium. Sic a iudicio capitis maxima discessit gloria.
Dopo che si ritornò in patria, i suoi colleghi erano accusati di questa accusa. Ad essi egli permise che trasferissero su di lui tutta la causa e sostenessero che era accaduto per suo intervento, di non obbedire alla legge. Liberati essi dal pericolo con tale difesa, nessuno pensava che Epaminonda avrebbe risposto, perché non aveva (avrebbe avuto) cosa dire. Ma egli venne al processo, non negò nulla di quelle cose, che gli avversari davano all’accusa, e tutte le cose che i colleghi avevano detto, confessò e non ricusò, per non subire la pena della legge, ma chiese ad essi una cosa sola, che nella sua sentenza si scrivesse: Epaminonda è stato condannato dai Tebani, perché li ha costretti a Leuttra a vincere i Lacedemoni, che prima di lui come comandante, nessuno dei Beoti aveva osato guardare in campo aperto, e perché con un solo scontro non solo ha tolto Tebe dalla morte, ma anche ha portato alla libertà tutta la Grecia e guidò le cose di entrambi al punto che i Tebani attaccarono Sparta, i Lacedemoni ebbero abbastanza, se poterono essere salvi, e non smise di combattere prima che, ricostruita Messene, chiuse con un assedio la loro città. Avendo detto queste cose, una risata di tutti sorse con ilarità e nessun giudice osò chiedere il voto su di lui.
Così da un processo di condanna a morte derivò la massima gloria.
9. De Epaminondae illusri morte.
9. Gloriosa morte di Epaminonda.
Hic extremo tempore imperator apud Mantineam cum acie instructa audacius instaret hostes, cognitus a Lacedaemoniis, quod in unius pernicie eius patriae sitam putabant salutem, universi in unum impetum fecerunt neque prius abscesserunt, quam magna caede multisque occisis fortissime ipsum Epaminondam pugnantem sparo eminus percussum concidere viderunt. 2 Huius casu aliquantum retardati sunt Boeotii, neque tamen prius pugna excesserunt, quam repugnantis profligarunt. 3 At Epaminondas cum animadverteret mortiferum se vulnus accepisse
simulque, si ferrum, quod ex hastili in corpore remanserat, extraxisset, animam statim emissurum, usque eo retinuit, quoad renuntiatum est vicisse Boeotios. 4 Id postquam audivit,
”Satis, inquit, vixi; invictus enim morior. ” Tum ferro extracto confestim exanimatus est.
Costui comandante all’ultimo momento presso Mantinea, schierato l’esercito, mentre incalzava i nemici piuttosto arditamente, riconosciuto dai Lacedemoni, poiché pensavano che nella rovina di uno solo fosse posta la salvezza della sua patria, tutti quanti fecero l’assalto contro lui solo e non si ritirarono prima che con grande strage e molti uccisi, videro lo stesso Epaminonda che combatteva fortissimamente colpito da lontano da un giavellotto, cadere. Dalla sua caduta i Beoti furono un poco arrestati, ma non si ritirarono dal combattimento prima di respingere gli attaccanti. Ma Epaminonda accorgendosi di aver ricevuto una ferita mortale e nello stesso tempo che avrebbe esalato l’anima, se avesse estratto il ferro, che era rimasto nel corpo (staccata) dall’asta, lo trattenne fino a che fu annunciato che i Beoti avevano vinto. Dopo che sentì ciò, “Abbastanza, disse, ho vissuto; infatti muoio invincibile”. Poi estratto il ferro subito spirò.
10. De Epaminondae maxima gloria.
10. Massima gloria di Epaminonda.
Hic uxorem numquam duxit. In quo cum reprehenderetur, quod liberos non relinqueret, a
Pelopida, qui filium habebat infamem, maleque eum in eo patriae consulere diceret, ”Vide,
Inquit, ne tu peius consulas, qui talem ex te natum relicturus sis. Neque vero stirps potest mihi
deesse. 2 Namque ex me natam relinquo pugnam Leuctricam, quae non modo mihi superstes,
sed etiam immortalis sit necesse est. ” 3 Quo tempore duce Pelopida exules Thebas occuparunt
et praesidium Lacedaemoniorum ex arce expulerunt, Epaminondas, quamdiu facta est caedes civium, domo se tenuit, quod neque malos defendere volebat neque impugnare, ne manus
suorum sanguine cruentaret. Namque omnem civilem victoriam funestam putabat. Idem,
postquam apud Cadmeam cum Lacedaemoniis pugnari coeptum est, in primis stetit. 4 Cuius de
virtutibus vitaque satis erit dictum, si hoc unum adiunxero, quod nemo ibit infitias, Thebas et
ante Epaminondam natum et post eiusdem interitum perpetuo alieno paruisse imperio; contra
ea, quamdiu ille praefuerit rei publicae, caput fuisse totius Graeciae. Ex quo intellegi potest
unum hominem pluris quam civitatem fuisse.
Costui non prese mai moglie. Ed essendo rimproverato in questo, perché non lasciava figli, da Pelopida che aveva un figlio malfamato, e diceva che in questo provvedeva male alla patria, “Vedi, disse, che tu non provveda peggio, che hai intenzione di lasciare uno tale, nato da te. Ma a me non può mancare una stirpe. Infatti lascio una nata da me, la battaglia di Leuttra, che non solo è necessario che mi sopravviva, ma anzi che sia immortale”.
Nel tempo in cui, sotto il comando di Pelopida, gli esuli occuparono Tebe e cacciarono dalla rocca la guarnigione dei Lacedemoni, Epaminonda, fin che ci fu la strage dei cittadini, si tenne in casa, perché né voleva difendere i malvagi né opporsi, per non macchiare le mani col sangue dei suoi.
Infatti riteneva funesta ogni vittoria civile. Ugualmente, dopo che presso Cadmea si cominciò a combattere contro i Lacedemoni, stette tra i primi.
Ma sulle sue qualità e vita sarà stato detto abbastanza, se questo solo avrò aggiunto, che nessuno non riconoscerà, che Tebe sia prima della nascita di Epaminonda sia dopo la sua morte ha obbedito ad un continuo potere di altri; e che invece, fin che lui fu a capo dello stato, fu capitale di tutta la Grecia. Ma da ciò si può capire che un solo individuo valeva più di tutta la cittadinanza.
PELOPIDAS
PELOPIDA
1. De Pelopida patria espulso.
1. Pelopida cacciato dalla patria.
Pelopidas Thebanus, magis historicis quam vulgo notus. Cuius de virtutibus dubito, quemadmodum exponam, quod vereor, si res explicare incipiam, ne non vitam eius enarrare, sed historiam videar scribere; si tantummodo summas attigero, ne rudibus Graecarum litterarum minus dilucide appareat, quantus fuerit ille vir. Itaque utrique rei occurram, quantum potuero, et medebor cum satietati tum ignorantiae lectorum. 2 Phoebidas Lacedaemonius cum exercitum Olynthum duceret iterque per Thebas faceret, arcem oppidi, quae Cadmea nominatur, occupavit impulsu paucorum Thebanorum, qui, adversariae factioni quo facilius resisterent, Laconum rebus studebant, idque suo privato, non publico fecit consilio. Quo facto eum
Lacedaemonii ab exercitu removerunt pecuniaque multarunt, neque eo magis arcem Thebanis
reddiderunt, quod susceptis inimicitiis satius ducebant eos obsideri quam liberari. Nam post
Peloponnesium bellum Athenasque devictas cum Thebanis sibi rem esse existimabant et eos esse solos, qui adversus resistere auderent. Hac mente amicis suis summas potestates dederant alteriusque factionis principes partim interfecerant, alios in exsilium eiecerant; in quibus
Pelopidas hic, de quo scribere exorsi sumus, pulsus patria carebat.
Pelopida tebano, noto più agli storici che al volgo.
Sulle sue doti dubito come le esponga, perché temo che, se comincerò a spiegare le cose, sembra che io non narri la sua vita, ma scriva la storia; se avrò toccato le essenze, (temo che) appaia meno distintamente ai poco esperti di lettere greche, quanto grande sia stato quell’uomo. E così andrò incontro a tutte e due le cose, per quanto avrò potuto, e rimedierò sia alla noiosità sia alla disinformazione dei lettori. Fetida lacedemone guidando l’esercito ad Olinto e facendo la marcia attraverso Tebe, occupò la rocca della cittadella, che si chiama Cadmea, con la resistenza di pochi Tebani, che per resistere più facilmente alla fazione avversaria, favorivano le cose dei Laconici e fece ciò non per decisione pubblica, ma privata. Per tale fatto i Lacedemoni lo rimossero dall’esercito e lo multarono di una somma, me non restituirono più per questo la rocca ai Tebani, perché, iniziate le inimicizie, pensavano più opportuno che essi fossero sottomessi che liberati. Infatti dopo la guerra peloponnesiaca ed Atene vinta ritenevano che per loro la cosa fosse (che loro se la vedessero) coi Tebani e che erano loro soli, che osassero resistere contro. Con questa idea avevano dato ai loro amici i sommi poteri ed in parte avevano ucciso i capi dell’altra fazione, avevano cacciati gli altri in esilio; ma tra essi questo Pelopida, di cui abbiamo cominciato a scrivere, cacciato mancava della patria.
2. De Pelopidae consilio patriae liberandae.
2. Piano di Pelopida di liberare la patria.
Hi omnes fere Athenas se contulerant, non quo sequerentur otium, sed ut, quem ex proximo
locum fors obtulisset, eo patriam recuperare niterentur. Itaque cum tempus est visum rei
gerendae, communiter cum iis, qui Thebis idem sentiebant, diem delegerunt ad inimicos opprimendos civitatemque liberandam eum, quo maximi magistratus simul consuerant epulari. 3
Magnae saepe res non ita magnis copiis sunt gestae; sed profecto numquam tam ab tenui initio
tantae opes sunt profligatae. Nam duodecim adulescentuli coierunt ex iis, qui exsilio erant
multati, cum omnino non essent amplius centum, qui tanto se offerrent periculo. 4 Qua paucitate percussa est Lacedaemoniorum potentia. Hi enim non magis adversariorum factioni quam Spartanis eo tempore bellum intulerunt, qui principes erant totius Graeciae; quorum imperii maiestas, neque ita multo post, Leuctrica pugna ab hoc initio perculsa concidit. 5 Illi igitur duodecim, quorum dux erat Pelopidas, cum Athenis interdiu exissent, ut vesperascente caelo Thebas possent pervenire, cum canibus venaticis exierunt, retia ferentes, vestitu agresti, quo minore suspicione facerent iter. Qui cum tempore ipso, quo studuerant, pervenissent, domum Charonis deverterunt, a quo et tempus et dies erat datus.
Quasi tutti questi si erano recati ad Atene, non per inseguire la tranquillità, ma per tentare, quel momento che la sorte avesse presentato da vicino, di riprendere la patria. E così quando parve l’occasione di fare la cosa, d’accordo con quelli, che a Tebe sentivano la stessa cosa, scelsero per sopprimere i nemici e liberare la città quel giorno, in cui i massimi magistrati erano soliti banchettare. La grandi cose spesso non sono state fatte con grandi forze; ma senz’altro ma da un così piccolo inizio così grandi potenze sono state sconfitte.
Infatti dodici giovani si incontrarono con quelli che erano stati condannati all’esilio, essendo in tutto non più di cento, quelli che si offrissero a così grande pericolo.
Ma da questa pochezza fu colpita la potenza dei lacedemoni. Questi infatti in quel tempo non dichiararono guerra più alla fazione degli avversari che agli Spartani, che erano i capi di tutta la Grecia;
e la maestà del loro impero, non così molto dopo, con la battaglia di Leuttra cadde abbattuta da questo inizio.
Pertanto quei dodici, di cui era comandante Pelopida, essendo usciti da Atene di giorno, per poter arrivare a Tebe sull’imbrunire, uscirono con cani da caccia, portando reti, con abbigliamento rozzo, per fare il viaggio con minore sospetto. E questi, essendo giunti proprio al momento che avevano studiato, si volsero alla casa di Carone, dal quale era stato dato e il tempo e il giorno.
3. De patria liberata, duce Pelopida.
3. Liberazione della patria, sotto la guida di Pelopida.
Hoc loco libet interponere, etsi seiunctum ab re proposita est, nimia fiducia quantae calamitati soleat esse. Nam magistratuum Thebanorum statim ad auris pervenit exules in urbem venisse. Id illi vino epulisque dediti usque eo despexerunt, ut ne quaerere quidem de tanta re laborarint. 2 Accessit etiam quod magis aperiret eorum dementiam. Allata est enim epistola Athenis ab Archino uni ex his Archiae, qui tum maximum magistratum Thebis obtinebat, in qua omnia de profectione eorum perscripta erant. Quae cum iam accubanti in convivio esset data, sicut erat signata, sub pulvinum subiciens “In crastinum, inquit, differo res severas. ” 3 At illi omnes, cum iam nox processisset, vinolenti ab exulibus duce Pelopida sunt interfecti.
Quibus rebus confectis, vulgo ad arma libertatemque vocato, non solum qui in urbe erant, sed etiam undique ex agris concurrerunt, praesidium Lacedaemoniorum ex arce pepulerunt, patriam obsidione liberarunt, auctores Cadmeae occupandae partim occiderunt, partim in exsilium
eiecerunt.
A questo punto piace inserire, anche se è una cosa disgiunta dalla cosa proposta, (come) la troppa fiducia sia solita essere di così grande rovina. Infatti subito giunse alle orecchie dei magistrati tebani che gli esuli erano arrivati in città. Perciò essi dediti al vino ed ai banchetti a tal punto disprezzarono, che neppure si indaffararono di indagare su una cosa così grave. Si aggiunse anche che maggiormente si manifestasse la loro stupidità. Fu portata infatti da Atene la notizia da parte di Archino ad uno di essi, Archia, che allora a Tebe deteneva la massima magistratura, in cui erano descritte tutte le cose sulla loro partenza. Ma essendogli stata data durante il banchetto, mentre era sdraiato, mettendola sotto il cuscino, sigillata come era “A domani, disse, differisco le cose serie.” Ma tutti quelli, essendo ormai la notte avanzata, avvinazzati furono uccisi dagli esuli, sotto la guida di Pelopida. Concluse quelle cose, chiamato l volgo alle armi ed alla libertà, non solo quelli che erano in città, ma anche da ovunque dai campi accorsero, cacciarono il presidio dei lacedemoni dalla rocca, liberarono la patria dall’assedio, in parte uccisero i promotori della occupazione di Cadmea, in parte li cacciarono in esilio.
4. De Pelopidae laude liberandarum Thebarum propria.
4. Il merito proprio di Pelopida di liberare Tebe.
Hoc tam turbido tempore, sicut supra docuimus, Epaminondas quoad cum civibus dimicatum est, domi quietus fuit. Itaque haec liberandarum Thebarum propria laus est Pelopidae: ceterae fere communes cum Epaminonda. 2 Namque in Leuctrica pugna imperatore Epaminonda hic fuit dux delectae manus, quae prima phalangem prostravit Laconum. 3 Omnibus praeterea periculis adfuit - sicut, Spartam cum oppugnavit, alterum tenuit cornu -, quoque Messena celerius restitueretur, legatus in Persas est profectus. Denique haec fuit altera persona Thebis, sed tamen secunda ita, ut proxima esset Epaminondae.
In questo tempo così torbido, come sopra abbiamo dimostrato, Epaminonda, fin che si combattè contro i cittadini, fu quieto in casa. E così questo onore di liberare Tebe è proprio di pelopida: gli altri (onori) quasi comuni con Epaminonda. Infatti nella battaglia di Leuttra, sotto il comando di Epaminonda, costui fu condottiero di un manipolo scelto, che atterrò la prima falange dei Laconici. Fu presente inoltre a tutti i pericoli – così come, quando attaccò Sparta, tenne la seconda ala -, pure partì come delegato verso i Persiani, perchè Messene fosse ricostruita.
Infine questa fu la seconda personalità a Tebe, ma tuttavia seconda così da essere vicinissima ad Epaminonda.
5. De Pelopida interfecto, sed celebrato.
5. Uccisione e celebrazione di Pelopida.
Conflictatus autem est cum adversa fortuna. Nam et initio, sicut ostendimus, exul patria caruit, et cum Thessaliam in potestatem Thebanorum cuperet redigere legationisque iure satis tectum se arbitraretur, quod apud omnes gentes sanctum esse consuesset, a tyranno Alexandro Pheraeo simul cum Ismenia comprehensus in vincla coniectus est. 2 Hunc Epaminondas recuperavit, bello persequens Alexandrum. Post id factum numquam animo placari potuit in eum, a quo erat violatus. Itaque persuasit Thebanis, ut subsidio Thessaliae proficiscerentur tyrannosque eius expellerent. 3 Cuius belli cum ei summa esset data eoque cum exercitu profectus esset, non dubitavit, simul ac conspexit hostem, confligere. 4 In quo proelio Alexandrum ut animadvertit, incensus ira equum in eum concitavit, proculque digressus a suis, coniectu telorum confossus concidit. Atque hoc secunda victoria accidit: nam iam inclinatae
erant tyrannorum copiae. 5 Quo facto omnes Thessaliae civitates interfectum Pelopidam
coronis aureis et statuis aeneis liberosque eius multo agro donarunt.
Lottò anche contro la fortuna avversa. Infatti sia all’inizio, come mostrammo, da esule mancò della patria, sia desiderando riportare al potere dei Tebani la Tessaglia e giudicando di essere abbastanza coperto dal diritto di delegazione, che presso tutte le genti era solito essere sacro, catturato insieme con Ismenia da Alessandro tiranno di fere, fu gettato in catene.
Epaminonda riprese costui, perseguendo Alessandro con una guerra. Dopo quel fatto, mai nell’animo potè essere placato contro colui, dal quale era stato oltraggiato.
E così persuase i Tebani, perché partissero in aiuto alla Tessaglia e cacciassero i loro tiranni.
Di tale guerra essendogli stata data la supremazia del comando e partito perciò coll’esercito, non dubitò, appena vide il nemico, di attaccare. In tale scontro però come scoprì Alessandro, acceso d’ira spronò contro di lui il cavallo, ed uscito lontano dai suoi, trafitto dal lancio di giavellotti, cadde. Anche questo accadde essendo la vittoria favorevole: infatti le truppe dei tiranni erano già piegate. Per tale fatto tutte le città della Tessaglia donarono a Pepopida, (già ) ucciso, corone d’oro e statue di bronzo ed ai suoi figli molto terreno.
AGESILAUS
AGESILAO
1. De Agesilai contentione regni causa.
1. Contesa di Agesilao per il regno.
Agesilaus Lacedaemonius cum a ceteris scriptoribus tum eximie a Xenophonte Socratico collaudatus est; eo enim usus est familiarissime. 2 Hic primum de regno cum Leotychide, fratris filio, habuit contentionem. Mos erat enim a maioribus Lacedaemoniis traditus, ut duos haberent semper reges, nomine magis quam imperio, ex duabus familiis Procli et Eurysthenis, qui principes ex progenie Herculis Spartae reges fuerunt. 3 Horum ex altera in alterius familiae locum fieri non licebat. Ita utraque suum retinebat ordinem. Primum ratio habebatur, qui maximus natu esset ex liberis eius, qui regnans decessisset; sin is virilem sexum non reliquisset, tum deligebatur, qui proximus esset propinquitate. 4 Mortuus erat Agis rex, frater Agesilai. Filium reliquerat Leotychidem, quem ille natum non agnorat; eundem moriens suum esse dixerat. Is de honore regni cum Agesilao, patruo suo, contendit neque id, quod petivit, consecutus est. 5 Nam Lysandro suffragante, homine, ut ostendimus supra, factioso et his temporibus potente, Agesilaus antelatus est.
Agesilao spartano fu esaltato sia da altri scrittori sia particolarmente da Senofonte, (discepolo) di Socrate ; con lui infatti trattò molto famigliarmente.
Costui anzitutto ebbe una contesa per il potere con Leotichide, figlio del fratello. Era infatti costume tramandato dagli antenati spartani, che avessero sempre due re, di nome più che di potere, dalle due famiglie di Proco e di Euristene, che dalla stirpe di Ercole, furono i primi re di Sparta.
Non era permesso che dalla famiglia di costoro fosse eletto al posto dell’altra famiglia. Così l’una e l’altra manteneva il suo ordine. Anzitutto si riteneva come regola, chi fosse il maggiore tra i figli di chi fosse morto regnando; se egli non avesse lasciato prole maschile, allora era scelto chi fosse prossimo per parentela. Era morto il re Agide, fratello di Agesilao. Aveva lasciato il figlio Leotichide, che egli non aveva riconosciuto come figlio; morendo aveva detto che lo stesso (Leotichide) era suo. Egli per l’onore del regno contese con Agesilao, suo zio, né ciò che chiese, lo ottenne. Infatti, consentendo Lisandro, personaggio, come mostrammo sopra, fazioso ed a quei tempi potente, Agesilao fu preferito.
2. De Agesilai religione fideque.
2. Religiosità e lealtà di Agesilao.
Hic simulatque imperii potitus est, persuasit Lacedaemoniis, ut exercitus emitterent in Asiam
bellumque regi facerent, docens satius esse in Asia quam in Europa dimicari. Namque fama exierat Artaxerxen comparare classis pedestrisque exercitus, quos in Graeciam mitteret. 2 Data
potestate tanta celeritate usus est, ut prius in Asiam cum copiis pervenerit, quam regii satrapae
eum scirent profectum. Quo factum est, ut omnis imparatos imprudentesque offenderet. 3 Id ut
cognovit Tissaphernes, qui summum imperium tum inter praefectos habebat regios, indutias a
Lacone petivit, simulans se dare operam, ut Lacedaemoniis cum rege conveniret, re autem vera ad copias comparandas, easque impetravit trimenstris. 4 Iuravit autem uterque se sine dolo
indutias conservaturum. In qua pactione summa fide mansit Agesilaus; contra ea Tissaphernes
nihil aliud quam bellum comparavit. 5 Id etsi sentiebat Laco, tamen ius iurandum servabat
multumque in eo se consequi dicebat, quod Tissaphernes periurio suo et homines suis rebus
abalienaret et deos sibi iratos redderet; se autem conservata religione confirmare exercitum, cum animadverteret deum numen facere secum hominesque sibi conciliare amiciores, quod iis
studere consuessent, quos conservare fidem viderent.
Costui appena si impadronì del potere, persuase i Lacedemoni, che mandassero gli eserciti in Asia e facessero guerra al re, dimostrando che era meglio si combattesse in Asia che in Europa. Infatti era uscita la notizia che Artaserse preparava flotte ed eserciti di fanti, da mandare in Grecia.
Dato il potere, usò tanta celerità, che giunse in Asia con le truppe prima che i satrapi regi lo sapessero partito.
Perciò accadde che li colse impreparati ed ignari.
Come seppe ciò Tissaferne, che allora aveva il potere supremo tra i comandanti regi, chiese una tregua allo spartano, simulando di dare l’impegno perché per i Lacedemoni ci fosse accordo col re, ma nella vera realtà per preparare truppe e la (la tregua) la chiese trimestrale.
Poi l’uno e l’altro giurò che avrebbe osservato la tregua senza inganno. Ed in tale patto col la massima lealtà rimase Agesilao; contrariamente Tissaferne preparò niente altro che la guerra. Anche se lo spartano avvertiva ciò, tuttavia osservava il giuramento e molto diceva che otteneva in quello, perché Tissaferne col suo spergiuro sia allontanava gli uomini dalle sue cose sia rendeva adirati gli dei; (diceva che) lui poi, osservato il rito sacro, rassicurava l’esercito, avvertendo che rendeva (con sé) dalla sua la volontà degli dei e si conciliava come più amici gli uomini, poiché essi erano soliti impegnarsi per quelli, che vedevano osservare la lealtà.
3. De Agesilai superiore consilio.
3. Superiore strategia di Agesilao.
Postquam indutiarum praeteriit dies, barbarus non dubitans, quod ipsius erant plurima domicilia in Caria et ea regio his temporibus multo putabatur locupletissima, eo potissimum hostis impetum facturos, omnis suas copias eo contraxerat. 2 At Agesilaus in Phrygiam se convertit eamque prius depopulatus est, quam Tissaphernes usquam se moveret. Magna praeda militibus locupletatis Ephesum hiematum exercitum reduxit atque ibi officinis armorum institutis magna industria bellum apparavit. Et quo studiosius armarentur insigniusque ornarentur, praemia proposuit, quibus donarentur, quorum egregia in ea re fuisset industria. 3 Fecit idem in exercitationum generibus, ut, qui ceteris praestitissent, eos magnis afficeret muneribus. His igitur rebus effecit, ut et ornatissimum et exercitatissimum haberet exercitum. 4 Huic cum tempus esset visum copias extrahere ex hibernaculis, vidit, si, quo esset iter facturus, palam pronuntiasset, hostis non credituros aliasque regiones praesidiis occupaturos neque dubitaturos aliud eum facturum, ac pronuntiasset. 5 Itaque cum ille Sardis iturum se dixisset, Tissaphernes eandem Cariam defendendam putavit. In quo cum eum opinio fefellisset victumque se vidisset consilio, sero suis praesidio profectus est. Nam cum illo venisset, iam Agesilaus multis locis expugnatis magna erat praeda potitus. 6 Laco autem cum videret hostis equitatu superare, numquam in campo sui fecit potestatem et iis locis manum conseruit, quibus plus pedestres copiae valerent. Pepulit ergo, quotienscumque congressus est, multo maiores adversariorum copias et sic in Asia versatus est, ut omnium opinione victor duceretur.
Dopo che passò il giorno delle tregue, il barbaro non dubitando, poiché le sue residenze erano moltissime in Caria e quella regione a quei tempi era considerata ricchissima, che i nemici soprattutto per quello avrebbero sferrato l’attacco, aveva radunato là tutte le sue truppe. Ma Agesilao si diresse in Frigia e la devastò prima che Tissaferne si muovesse verso di là.
Arricchiti i soldati di grande preda riportò l’esercito ad Efeso per svernare e li organizzate le officine delle armi con grande impegno preparò la guerra.
E perché si armassero più impegnatamente e si equipaggiassero più accuratamente, mise davanti i premi, da dare a quelli, la cui attività in quella cosa sarebbe stata straordinaria. Fece la stessa cosa nei generi delle esercitazioni perché, chi fosse stato superiore agli altri, li premiasse di molti regali. Orbene con queste cose fece sì che avesse sia un esercito equipaggiatissimo sia esercitatissimo. A costui quando parve opportuno togliere le truppe dagli accampamenti invernali, vide, che, se avesse dichiarato chiaramente, dove avesse marciato, i nemici non avrebbero creduto ed avrebbero occupato con guarnigioni altre regioni e non avrebbero dubitato che lui avrebbe fatto altro da quello che avrebbe detto. E così avendo detto che egli sarebbe andato a Sardi, Tissaferne credette che la stessa Caria fosse da difendere. Ma in questo avendolo ingannato l’idea ed avendo visto che era stato vinto dalla strategia, partì tardi in aiuto ai suoi. Infatti essendo giunto là, Agesilao, espugnati molti luoghi, si era impadronito di grande preda. Ma lo spartano vedendo che i nemici erano superiore per la cavalleria, mai diede la possibilità (di sé) in campo aperto contro di sé e venne alle mani in quei luoghi, in cui le truppe di fanteria potessero di più. Respinse dunque, ogni volta che si scontrò, truppe molto maggiori di avversari ed in Asia si comportò così che fosse considerato vincitore dall’opinione di tutti.
4. De Agesilai religione.
4. Scrupolo religioso di Agesilao.
Hic cum iam animo meditaretur proficisci in Persas et ipsum regem adoriri, nuntius ei domo
venit ephororum missu, bellum Athenienses et Boeotos indixisse Lacedaemoniis; quare venire
ne dubitaret. 2 In hoc non minus eius pietas suspicienda est quam virtus bellica: qui cum victori praeesset exercitui maximamque haberet fiduciam regni Persarum potiundi, tanta modestia dicto audiens fuit iussis absentium magistratuum, ut si privatus in comitio esset Spartae. Cuius
exemplum utinam imperatores nostri sequi voluissent! 3 Sed illuc redeamus. Agesilaus
opulentissimo regno praeposuit bonam existimationem multoque gloriosius duxit, si institutis patriae paruisset, quam si bello superasset Asiam. 4 Hac igitur mente Hellespontum copias traiecit tantaque usus est celeritate, ut quod iter Xerxes anno vertente confecerat, hic transierit XXX diebus. 5 Cum iam haud ita longe abesset a Peloponneso, obsistere ei conati sunt Athenienses et Boeotii ceterique eorum socii apud Coroneam; quos omnes gravi proelio vicit. 6 Huius victoriae vel maxima fuit laus, quod, cum plerique ex fuga se in templum Minervae coniecissent quaerereturque ab eo, quid his vellet fieri, etsi aliquot vulnera acceperat eo proelio et iratus videbatur omnibus, qui adversus arma tulerant, tamen antetulit irae religionem et eos vetuit violari. 7 Neque vero hoc solum in Graecia fecit, ut templa deorum sancta haberet, sed etiam apud barbaros summa religione omnia simulacra arasque conservavit. 8 Itaque
praedicabat mirari se, non sacrilegorum numero haberi, qui supplicibus eorum nocuissent, aut
non gravioribus poenis affici, qui religionem minuerent, quam qui fana spoliarent.
Costui meditando già in cuore di partire contro i Persiani ed assalire lo stesso re, gli venne dalla patria un messaggero per ordine degli efori, che gli Ateniesi ed i Beoti avevano dichiarato guerra ai Lacedemoni; perciò non dubitasse di tornare. In questo è da ammirare non meno il suo amor patrio che il valore bellico: lui che presiedendo ad un esercito vincitore ed avendo la massima certezza di impadronirsi del re dei persiani, con tanto controllo fu obbediente alla parola dei magistrati assenti, come se da privato fosse a Sparta in una assemblea. Oh se i nostri comandanti avessero voluto seguire il suo esempio! Ma ritorniamo là. Agesilao preferì ad un ricchissimo regno la buona reputazione e giudicò cosa molto più gloriosa se avesse obbedito alla patria che se avesse superato l’Asia in guerra. Con questa idea dunque fece passare alle truppe l’Ellesponto ed usò tanta celerità che la marcia che Serse aveva compiuto, passando un anno, costui passò in 30 giorni. Mentre ancora non era così lontano dal Peloponneso, tentarono di resistergli Ateniesi e Beoti e gli altri loro alleati presso Coronea; ma li vinse tutti con un pesante scontro. Di questa vittoria l’onore fu oltremodo massimo, perché, essendosi molti in fuga gettati nel tempio di Minerva e poiché gli si chiedeva, cosa voleva si facesse di costoro, anche se aveva ricevuto alcune ferite in quello scontro e sembrava adirato con tutti quelli che avevano portato armi contro (di lui), tuttavia antepose il senso religioso all’ira e vietò che quelli fossero oltraggiati. Ma non solo fece questo in Grecia, di considerare sacri i templi degli dei, ma anche presso i barbari con sommo scrupolo rispettò tutte le statue e gli altari. E così dichiarava che si meravigliava che non si considerassero nel numero dei sacrileghi quelli che avevano nuociuto ai loro supplici o non fossero colpiti con pene maggiori, coloro che denigravano il senso religioso di chi spogliasse i templi.
5. De Agesilai commiseratione Greciae fortune.
5. Compassione di Agesilao per la sorte della Grecia.
Post hoc proelium collatum omne bellum est circa Corinthum ideoque Corinthium est appellatum. 2 Hic cum una pugna decem milia hostium Agesilao duce cecidissent eoque facto opes adversariorum debilitatae viderentur, tantum afuit ab insolentia gloriae, ut commiseratus sit fortunam Graeciae, quod tam multi a se victi vitio adversariorum concidissent: namque illa multitudine, si sana mens esset, Graeciae, supplicium Persas dare potuisse. 3 Idem cum adversarios intra moenia compulisset et, ut Corinthum oppugnaret, multi hortarentur, negavit id suae virtuti convenire: se enim eum esse dixit, qui ad officium peccantis redire cogeret, non qui urbes nobilissimas expugnaret Graeciae. 4 “Nam si, inquit, eos exstinguere voluerimus, qui nobiscum adversus barbaros steterunt, nosmet ipsi nos expugnaverimus illis quiescentibus. Quo facto sine negotio, cum voluerint, nos oppriment”.
Dopo questo scontro tutta la guerra fu portata attorno a Corinto e perciò fu chiamata corinzia. Qui essendo caduti in una sola battaglia dieci migliaia di nemici, sotto il comando di Agesilao e per tale fatto sembrando indebolite le forze degli avversari, tanto fu lontano dalla superbia della gloria, che compianse la sorte della Grecia, perché per colpa degli avversari erano caduti molti vinti da lui: infatti con quella moltitudine, se la mente era sana, Persiani avrebbero potuto pagare il fio alla Grecia. Ugualmente avendo spinto gli avversari entro le mura e molti lo consigliavano ad assediare Corinto, disse che ciò non si accordava col suo valore: disse infatti che lui era colui che costringeva a tornare al dovere gli sbagliava, non colui che espugnasse le città più nobili della Grecia. “Infatti, disse, se noi avremo voluto estinguere coloro che con noi sono stati contro i barbari, noi stessi ci saremo espugnati, stando quelli (barbari) tranquilli. Da tale fatto senza fatica, quando avranno voluto, ci opprimeranno”.
6. De Agesilai virtute in adulescentulos perterritos recuperandos.
6. Coraggio di Agesilao nel recuperare giovani terrorizzati.
Interim accidit illa calamitas apud Leuctra Lacedaemoniis. Quo ne proficisceretur, cum a
plerisque ad exeundum premeretur, ut si de exitu divinaret, exire noluit. Idem, cum Epaminondas Spartam oppugnaret essetque sine muris oppidum, talem se imperatorem praebuit, ut eo tempore omnibus apparuerit, nisi ille fuisset, Spartam futuram non fuisse. 2 In quo quidem discrimine celeritas eius consilii saluti fuit universis. Nam cum quidam adulescentuli, hostium adventu perterriti, ad Thebanos transfugere vellent et locum extra urbem editum cepissent, Agesilaus, qui perniciosissimum fore videret, si animadversum esset quemquam ad hostis transfugere conari, cum suis eo venit atque, ut si bono animo fecissent, 3 laudavit consilium eorum, quod eum locum occupassent; id se quoque fieri debere animadvertisse. Sic adulescentis simulata laudatione recuperavit et adiunctis de suis comitibus locum tutum reliquit. Namque illi aucti numero eorum, qui expertes erant consilii, commovere se non sunt ausi eoque libentius, quod latere arbitrabantur, quae cogitaverant.
Intanto accadde presso Leuttra quella (famosa strage per i Lacedemoni. Per non recarsi là, essendo incalzato da parecchi per uscire, come se indovinasse sull’uscita, non volle uscire. Ugualmente, quando Epaminonda assediava Sparta e la città era senza mura, si mostrò un comandante tale che in quel tempo apparve a tutti che se non ci fosse stato lui, Sparta non sarebbe (più) esistita.
Ma in quel frangente la sua celerità fu di salvezza per tutti quanti. Infatti poiché alcuni giovani, atterriti dall’arrivo dei nemici, volevano passare ai Tebani e avevano occupato una postazione alta fuori della città, Agesilao, che vedeva sarebbe stata cosa dannosissima se si fosse avvertito che qualcuno tentava di passare ai nemici, venne con i suoi e, come se l’avessero fatto con buona intenzione, lodò la loro decisione, perché avevano occupato quel luogo; (dicendo) che anche lui aveva avvertito che ciò doveva essere fatto. Così simulata una lode per i giovani li recuperò e aggiuntivi compagni tra i suoi lasciò il posto sicuro. Infatti essi aumentati col numero di coloro che erano esperti di strategia, non osarono muoversi e tanto più volentieri, perché pensavano che fosse nascosto ciò che avevano pensato.

7. De maxima Agesilai patientia etque abstinentia.
7. Massima austerità e disinteresse di Agesilao.
Sine dubio post Leuctricam pugnam Lacedaemonii se numquam refecerunt neque pristinum imperium recuperarunt, cum interim numquam Agesilaus destitit, quibuscumque rebus posset, patriam iuvare. 2 Nam cum praecipue Lacedaemonii indigerent pecunia, ille omnibus, qui a rege defecerant, praesidio fuit; a quibus magna donatus pecunia patriam sublevavit. 3 Atque in hoc illud in primis fuit admirabile, cum maxima munera ei ab regibus ac dynastis civitatibusque conferrentur, quod nihil umquam domum suam contulit, nihil de victu, nihil de vestitu Laconum mutavit. 4 Domo eadem fuit contentus, qua Eurysthenes, progenitor maiorum suorum, fuerat usus; quam qui intrarat, nullum signum libidinis, nullum luxuriae videre poterat, contra ea plurima patientiae atque abstinentiae: sic enim erat instructa, ut in nulla re differret cuiusvis
inopis atque privati.
Senza dubbio dopo la battaglia di Leuttra i Lacedemoni non si ripresero mai né recuperarono l’antico potere, mentre intanto Agesilao non desistette mai di aiutare la patria, con qualsiasi cosa potesse.
Infatti avendo bisogno i Lacedemoni soprattutto di denaro, egli fu di aiuto per tutti quelli, che si erano ribellati al re (di Persia); e ripagato da questi con denaro sollevò la patria.
Anche in questo, tale cosa fu principalmente ammirevole, pur essendo portati grandissimi doni a lui da re e principi e città, il fatto che mai nulla portò a casa sua, niente mutò sul vitto, niente sul vestiario degli Spartani. Fu contento della stessa casa, di cui si era servito Euristene, progenitore dei suoi antenati; e chi entrava in essa non poteva vedere nessun segnale di capriccio, nessuno di lusso, contrariamente (segnali) di austerità e di disinteresse: era stata infatti costruita così che in nessuna cosa differisse (da quella) di qualsiasi povero e privato.
8. De Agesilai interitu.
8. Morte di Agesilao.
Atque hic tantus vir ut naturam fautricem habuerat in tribuendis animi virtutibus, sic maleficam nactus est in corpore fingendo. Nam et statura fuit humili et corpore exiguo et claudus altero pede. Quae res etiam nonnullam afferebat deformitatem, atque ignoti, facies eius cum intuerentur, contemnebant; qui autem virtutes noverant, non poterant admirari satis. 2 Quod ei usu venit, cum annorum LXXX subsidio Tacho in Aegyptum isset et in acta cum suis accubuisset sine ullo tecto stratumque haberet tale, ut terra tecta esset stramentis neque huc amplius quam pellis esset iniecta, eodemque comites omnes accubuissent, vestitu humili atque obsoleto, ut eorum ornatus non modo in his regem neminem significaret, sed homines non beatissimos esse suspicionem praeberet. 3 Huius de adventu fama cum ad regios esset perlata, celeriter munera eo cuiusque generis sunt allata. His quaerentibus Agesilaum vix fides facta est unum esse ex iis, qui tum accubabant. 4 Qui cum regis verbis, quae attulerant, dedissent, ille praeter vitulinam et eiusmodi genera obsonii, quae praesens tempus desiderabat, nihil accepit;
unguenta, coronas secundamque mensam servis dispertiit, cetera referri iussit. 5 Quo facto eum
barbari magis etiam contempserunt, quod eum ignorantia bonarum rerum illa potissimum
sumpsisse arbitrabantur. 6 Hic cum ex Aegypto reverteretur, donatus a rege Nectanabide ducentis viginti talentis, quae ille muneri populo suo daret venissetque in portum, qui Menelai vocatur, iacens inter Cyrenas et Aegyptum, in morbum implicitus decessit. 7 Ibi eum amici, quo
Spartam facilius perferre possent, quod mel non habebant, cera circumfuderunt atque ita domum rettulerunt.
Ma un così grande uomo come aveva avuto la natura promotrice nell’attribuire le qualità dell’animo, così la ottenne malefica nel creargli il corpo. Infatti fu di statura bassa e di corpo esile e zoppo ad un piede.
Ma questa cosa pure portava una qualche bruttezza e gli sconosciuti, vedendo il suo aspetto, lo disprezzavano; ma quelli che conoscevano le virtù, non potevano meravigliarsi abbastanza. Cosa che gli capitò, quando essendo andato ad 80 anni in aiuto a Taco in Egitto ed essendosi coricato sulla spiaggia coi suoi senza alcun tetto ed avendo un giaciglio tale, che la terra era coperta di paglia e qui niente altro che una pelle essendo stesa sopra, ed allo stesso modo essendosi sdraiati tutti i compagni, con vestiario povero e consunto, tanto che il loro abbigliamento non solo non rivelava nessuno in questi come re, ma presentava l’idea che fossero uomini non fortunatissimi. Essendo giunta la fama dell’arrivo di costui agli uomini regi, celermente là furono portati doni di qualsiasi genere. A questi che chiedevano a stento fu data sicurezza che Agesilao era uno tra quelli che allora erano sdraiati. Ed avendo dato a nome del re, le cose che avevano portato, egli non accettò nulla eccetto carne di vitello e generi di tal genere di provviste, che il momento presente desiderava; divise ai servi unguenti, corone e la seconda portata di mensa, ordinò che le altre cose fossero riportate. Per tale fatto i barbari ancora di più lo disprezzarono, perché pensavano che soprattutto avesse preso quelle per l’ignoranza delle cose buone.
Costui, ritornando dall’Egitto, ricompensato dal re Nectanabide con duecento venti talenti, che egli desse in dono al suo popolo, ma essendo giunto al porto, che si chiama di Menelao, caduto in una malattia morì. Ivi gli amici, per poterlo portare più facilmente a Sparta, poiché no avevano miele, lo avvolsero di cera e così lo riportarono in patria.
EUMENES
EUMENE
1. De Eumene optimo scriba atque duce.
1. Eumene ottimo segretario e comandante.
Eumenes Cardianus. Huius si virtuti par data esset fortuna, non ille quidem maior exstitisset, sed multo illustrior atque etiam honoratior, quod magnos homines virtute metimur, non fortuna.
2 Nam cum aetas eius incidisset in ea tempora, quibus Macedones florerent, multum ei detraxit inter eos viventi, quod alienae erat civitatis, neque aliud huic defuit quam generosa stirps. 3 Etsi ille domestico summo genere erat, tamen Macedones eum sibi aliquando anteponi indigne ferebant, neque tamen non patiebantur. Vincebat enim omnes cura, vigilantia, patientia, calliditate et celeritate ingenii. 4 Hic peradulescentulus ad amicitiam accessit Philippi, Amyntae filii, brevique tempore in intimam pervenit familiaritatem. 5 Fulgebat enim iam in adulescentulo indoles virtutis. Itaque eum habuit ad manum scribae loco, quod multo apud
Graios honorificentius est quam apud Romanos. Namque apud nos re vera, sicut sunt, mercennarii scribae existimantur; at apud illos e contrario nemo ad id officium admittitur nisi honesto loco, et fide et industria cognita, quod necesse est omnium consiliorum eum esse participem. 6 Hunc locum tenuit amicitiae apud Philippum annos septem. Illo interfecto eodem gradu fuit apud Alexandrum annos tredecim. Novissimo tempore praefuit etiam alterae equitum alae, quae Hetaerice appellabatur. Utrique autem in consilio semper adfuit et omnium rerum habitus est particeps.
Eumene di Cardia. Se alla virtù di costui fosse stata data pari fortuna, egli certamente non sarebbe stato più grande, ma molto più famoso ed onorato, perché misuriamo i grandi uomini non per la virtù, ma per la fortuna. Infatti poiché la sua epoca era capitata in quei tempi, in cui brillavano i Macedoni, molto sottrasse a lui che viveva tra essi, il fatto che era di una città straniera, e null’altro mancò a costui che la stirpe nobile. Anche se egli era di famosissima stirpe locale, tuttavia i Macedoni sopportavano malamente che lui talvolta fosse preferito a loro, né tuttavia non accettavano. Infatti vinceva tutti per impegno, attenzione, sopportazione, astuzia e velocità di ingegno. Costui giovanissimo si accostò all’amicizia di Filippo, figlio di Aminta, ed in breve tempo giunse ad intima famigliarità.
Risplendeva infatti nel giovane l’indole del valore.
E così lo tenne al fianco col ruolo di segretario, cosa che è molto più onorifica presso i Grai che presso i Romani. Infatti presso di noi in realtà vera i segretari sono considerati, come lo sono, mercenari, ma presso di loro al contrario nessuno è ammesso a tale ufficio se non di nobile famiglia, di riconosciuta lealtà ed impegno, perché è necessario che lui sia partecipe di tutte le decisioni. Questo ruolo di amicizia lo tenne presso Filippo per sette anni.
Ucciso lui, fu dello stesso grado presso Alessandro per tredici anni. Nell’ultimo tempo fu anche a capo della seconda ala, che si chiamava Eterica. Ma per l’uno e l’altro fu sempre presente nel consiglio e fu partecipe di tutte le cose.
2. De Eumenis fortuna post Alexandrum mortuum.
2. La sorte di eumene dopo la morte di Alessandro.
Alexandro Babylone mortuo cum regna singulis familiaribus dispertirentur et summa rerum
tradita esset tuenda eidem, cui Alexander moriens anulum suum dederat, 2 Perdiccae - ex quo
omnes coniecerant eum regnum ei commisisse, quoad liberi eius in suam tutelam pervenissent:
aberat enim Crateros et Antipater, qui antecedere hunc videbantur; mortuus erat Hephaestio,
quem unum Alexander, quod facile intellegi posset, plurimi fecerat -, hoc tempore data est
Eumeni Cappadocia sive potius dicta: nam tum in hostium erat potestate. 3 Hunc sibi Perdiccas
adiunxerat magno studio, quod in homine fidem et industriam magnam videbat, non dubitans, si
eum pellexisset, magno usui fore sibi in iis rebus, quas apparabat. Cogitabat enim, quod fere
omnes in magnis imperiis concupiscunt, omnium partis corripere atque complecti. 4 Neque vero
hoc ille solus fecit, sed ceteri quoque omnes, qui Alexandri fuerant amici. Primus Leonnatus
Macedoniam praeoccupare destinavit. Hic multis magnisque pollicitationibus persuadere
Eumeni studuit, ut Perdiccam desereret ac secum faceret societatem. 5 Cum perducere eum
non posset, interficere conatus est; et fecisset, nisi ille clam noctu ex praesidiis eius effugisset.
Morto Alessandro a Babilonia, essendo divisi i regni ai singoli famigliari ed essendo stata affidata la supremazia delle cose allo stesso Perdicca, al quale Alessandro morente aveva dato il suo anello – da cui tutti avevano congetturato che gli aveva affidato il regno, fino a quando i suoi figli fossero giunti alla loro autonomia: infatti era lontano Cratero ed Antipatro, che sembravano precedere costui, era morto Efestione, che, unico, Alessandro aveva stimato moltissimo, cosa che si poteva capire facilmente-, in questo tempo fu data ad Eumene la Cappadocia o piuttosto dedicata: infatti allora era in potere dei nemici. Costui, Perdicca con grande impegno l’aveva unito a sé, perché nel personaggio vedeva grande lealtà e attività, non dubitando che, se le l’avesse conquistato, gli sarebbe stato di grande utilità in quelle cose che preparava. Pensava infatti, cosa che quasi tutti nei grandi imperi bramano, impadronirsi delle parti di tutti e unirle. Né però lui solo fece questo, ma anche tutti gli altri, che erano stati amici di Alessandro. Per primo Leonnato si affrettò ad occupare la Macedonia. Costui con grandi e molte promesse cercò di persuadere Eumene, perché abbandonasse Perdicca e facesse alleanza con lui.
Non potendo condurlo, tentò di ucciderlo; e l’avrebbe fatto, se egli nascostamente di notte no fosse fuggito dalle sue guarnigioni.
3. De Eumenis consilio contra potentiores dimicandi.
3. Decisione di Eumene di combattere contro più potenti.
Interim conflata sunt illa bella, quae ad internecionem post Alexandri mortem gesta sunt,
omnesque concurrerunt ad Perdiccam opprimendum. Quem etsi infirmum videbat, quod unus omnibus resistere cogebatur, tamen amicum non deseruit neque salutis quam fidei fuit cupidior. 2 Praefecerat hunc Perdiccas ei parti Asiae, quae inter Taurum montem iacet atque
Hellespontum, et illum unum opposuerat Europaeis adversariis; ipse Aegyptum oppugnatum adversus Ptolemaeum erat profectus. 3 Eumenes cum neque magnas copias neque firmas haberet, quod et inexercitatae et non multo ante erant contractae, adventare autem dicerentur
Hellespontumque transisse Antipater et Crateros magno cum exercitu Macedonum, viri cum
claritate tum usu belli praestantes - 4 Macedones vero milites ea tum erant fama, qua nunc Romani feruntur: etenim semper habiti sunt fortissimi, qui summa imperii potirentur -: Eumenes
intellegebat, si copiae suae cognossent, adversus quos ducerentur, non modo non ituras, sed simul cum nuntio dilapsuras. 5 Itaque hoc ei visum est prudentissimum, ut deviis itineribus milites duceret, in quibus vera audire non possent, et his persuaderet se contra quosdam barbaros proficisci. 6 Itaque tenuit hoc propositum et prius in aciem exercitum eduxit proeliumque commisit, quam milites sui scirent, cum quibus arma conferrent. Effecit etiam illud locorum praeoccupatione, ut equitatu potius dimicaret, quo plus valebat, quam peditatu, quo erat deterior.
Intanto scoppiarono quella guerre, che per lo sterminio furono fatte dopo la morte di Alessandro, e tutti si unirono per sopprimere Perdicca. Ma anche se lo vedeva insicuro, perché uno da solo era costretto a resistere a tutti, tuttavia non abbandonò l’amico e non fu più desideroso della salvezza che della lealtà.
Perdicca aveva messo a capo costui a quella parte dell’Asia, che giace tra il monte Tauro e l’Ellesponto, ed aveva opposto lui solo agli avversari europei; lui stesso era partito contro Tolomeo per combattere l’Egitto.
Eumene non avendo né grandi truppe né salde, perché sia non esercitate sia arruolate non molto prima, ma dicendosi arrivare e aver passato l’Ellesponto Antipatro e Cratero con un grande esercito di Macedoni, uomini sia illustri per fama che per esperienza di guerra – i Macedoni veramente allora erano di quella fama, di cui ora sono raccontati i Romani: infatti sono sempre considerati i più forti, coloro che si impadroniscono della supremazia del potere . : Eumene capiva che, se le sue truppe avessero saputo, contro chi erano condotti, non solo non sarebbero andate, subito alla notizia si sarebbero sciolte.
Così gli sembrò molto prudente, di condurre i soldati attraverso vie secondarie, in cui non potessero udire la verità e persuadere costoro che lui si recava contro alcuni barbari.
E così mantenne questo proposito e portò l’esercito nello schieramento ed attaccò battaglia prima che i suoi soldati sapessero, con chi portassero le armi.
Con l’occupazione dei luoghi fece anche ciò, che combattesse piuttosto con la cavalleria, con cui valeva di più che con la fanteria, con cui era inferiore.
4. De acerrimo concursu et Eumenis victoria.
4. Accanitissimo scontro e vittoria di Eumene.
Quorum acerrimo concursu cum magnam partem diei esset pugnatum, cadit Crateros dux et
Neoptolemus, qui secundum locum imperii tenebat. Cum hoc concurrit ipse Eumenes. 2 Qui
cum inter se complexi in terram ex equis decidissent, ut facile intellegi possent inimica mente contendisse animoque magis etiam pugnasse quam corpore, non prius distracti sunt, quam alterum anima relinqueret. Ab hoc aliquot plagis Eumenes vulneratur, neque eo magis ex proelio excessit, sed acrius hostis institit. 3 Hic equitibus profligatis, interfecto duce Cratero, multis praeterea et maxime nobilibus captis pedester exercitus, quod in ea loca erat deductus, ut invito Eumene elabi non posset, pacem ab eo petit. Quam cum impetrasset, in fide non mansit et se, simulac potuit, ad Antipatrum recepit. 4 Eumenes Craterum ex acie semivivum elatum ricreare studuit; dum id non posset, pro hominis dignitate proque pristina amicitia - namque illo usus erat Alexandro vivo familiariter - amplo funere extulit ossaque in Macedoniam uxori eius ac liberis remisit.
Ma col loro accanitissimo scontro essendosi combattuto per gran parte del giorno, cade il comandante Cratero e Neottolemo, che deteneva il secondo grado di comando.
Con costui si scontrò lo stesso Eumene. Ed essi essendo caduti da cavallo in terra avvinghiati tra loro, tanto che facilmente si poteva capire che avevano combattuto con animo nemico e che avevano combattuto più con l’animo che col corpo, non si staccarono prima che l’anima abbandonasse uno dei due. Da costui Eumene è ferito da alcuni colpi, né tanto più si ritirò dallo scontro, ma incalzò più accanitamente i nemici. A questo punto sconfitti i nemici, ucciso il comandante Cratero, inoltre catturati molti soprattutto nobili, l’esercito dei fanti, poiché era stato condotto in quei luoghi, così che non poteva sfuggire, ( se era) contrario Eumene, chiede a lui la pace. Ed avendola ottenuta, non rimase al patto e appena potè, si ritirò presso Antipatro.
Eumene si impegnò di rianimare Cratero preso semivivo dalla schiera; ma non potendo ciò, per l’onore del personaggio e per l’antica amicizia – infatti, essendo vivo Alessandro, aveva trattato famigliarmente con lui – lo onorò con splendido funerale ed inviò le ossa in Macedonia a sua moglie ed ai figli.

5. De Eumenis calliditate.
5. Astuzia di Eumene.
Haec dum apud Hellespontum geruntur, Perdiccas apud Nilum flumen interficitur a Seleuco et Antigene rerumque summa ad Antipatrum defertur. Hic, qui deseruerant, exercitu suffragium
ferente, capitis absentes damnantur, in his Eumenes. Hac ille perculsus plaga non succubuit
neque eo setius bellum administravit. Sed exiles res animi magnitudinem, etsi non frangebant,
tamen minuebant. 2 Hunc persequens Antigonus, dum omni genere copiarum abundaret, saepe
in itineribus vexabatur, neque umquam ad manum accedere licebat nisi iis locis, quibus pauci
multis possent resistere. 3 Sed extremo tempore, cum consilio capi non posset, multitudine
circumitus est. Hinc tamen multis suis amissis se expedivit et in castellum Phrygiae, quod Nora
appellatur, confugit. 4 In quo cum circumsederetur et vereretur, ne uno loco manens equos militares perderet, quod spatium non esset agitandi, callidum fuit eius inventum, quemadmodum stans iumentum concalfieri exercerique posset, quo libentius et cibo uteretur et a corporis motu non removeretur. 5 Substringebat caput loro altius, quam ut prioribus pedibus plene terram posset attingere; deinde post verberibus cogebat exsultare et calces remittere. Qui motus non minus sudorem excutiebat, quam si in spatio decurreret. 6 Quo factum est, quod omnibus mirabile est visum, ut aeque iumenta nitida ex castello educeret, cum complures menses in obsidione fuisset, ac si in campestribus ea locis habuisset. 7 In hac conclusione, quotienscumque voluit, apparatum et munitiones Antigoni alias incendit, alias disiecit. Tenuit autem se uno loco, quamdiu hiems fuit, quod castra sub divo habere non poterat. Ver
appropinquabat: simulata deditione, dum de condicionibus tractat, praefectis Antigoni imposuit
seque ac suos omnes extraxit incolumis.
Mentre presso l’Ellesponto si fanno queste cose, Perdicca è ucciso presso il fiume Nilo da Seleuco ed Antigene e la somma delle cose è trasferita presso Antipatro. Allora, quelli che l’avevano abbandonato, poichè l’esercito dava il voto, sono condannati a morte assente, tra questi Eumene. Egli percosso da questo colpo non soccombette e non meno organizzò la guerra. Ma le esili cose, anche se non infrangevano la grandezza dell’animo, tuttavia l’indebolivano. Inseguendolo Antigono, mentre abbandona d’ogni genere di truppe, spesso in marcia era assalito, e non era mai possibile venire alle mani se non in quei luoghi dove pochi potevano resistere a molti. Ma nell’ultimo tempo, non potendo esser preso dalla tattica, fu circondato dalla moltitudine. Di qui tuttavia, perduti molti suoi, si liberò e si rifugiò in una fortezza della Frigia, che si chiama Nora. Ma in questa essendo assediato e temendo che restando in un unico luogo rovinasse i cavalli dell’esercito, perché non c’era spazio di muoverli,
astuta fu la sua scoperta, come stando fermo l’animale potesse scaldarsi ed esercitarsi, perché più volentieri sia si servisse del cibo sia non fosse impedito dal movimento del corpo. Legava la testa con una cinghia troppo in alto, che potesse toccare pienamente terra con le zampe anteriori; poi con frustate dietro costringeva a saltare e dare calci. E questo moto non provocava meno sudore che se corresse in uno spazio. Perciò accadde una cosa che a tutti parve straordinaria, che fece uscire dalla fortezza ugualmente gli animali belli, pur essendo stato parecchi mesi in assedio, come se li avesse tenuti in luoghi di pianura. In questa reclusione, ogni volta che volle, a volte incendiò l’apparato e le fortificazioni di Antigono, altre volte le distrusse. Ma si trattenne in un luogo unico, fin che fu inverno, perché non poteva avere gli accampamenti a cielo aperto. La primavera si avvicinava: simulata la resa, mentre tratta delle condizioni, ingannò i luogotenenti di Antigono e tirò fuori se stesso ed i suoi incolumi.

6. De Eumenis grato animo in Alexandri matrem.
6. Gratitudine di Eumene verso la madre di Alessandro.
Ad hunc Olympias, mater quae fuerat Alexandri cum litteras et nuntios misisset in Asiam consultum, utrum regnum repetitum in Macedoniam veniret - nam tum in Epiro habitabat – et eas res occuparet, 2 huic ille primum suasit, ne se moveret et exspectaret, quoad Alexandri filius regnum adipisceretur; sin aliqua cupiditate raperetur in Macedoniam, oblivisceretur omnium
iniuriarum et in neminem acerbiore uteretur imperio. 3 Horum illa nihil fecit. Nam et in
Macedoniam profecta est et ibi crudelissime se gessit. Petit autem ab Eumene absente, ne
pateretur Philippi domus ac familiae inimicissimos stirpem quoque interimere ferretque opem liberis Alexandri. 4 Quam veniam si daret, quam primum exercitus appararet, quos sibi subsidio adduceret. Id quo facilius faceret, se omnibus praefectis, qui in officio manebant, misisse litteras, ut ei parerent eiusque consiliis uterentur. 5 His rebus Eumenes permotus satius duxit, si ita tulisset fortuna, perire bene meritis referentem gratiam quam ingratum vivere.
A costui avendo Olimpia, che era stata la madre di Alessandro inviato lettere e messaggeri in Asia per consultarlo se andasse in Macedonia per riprendere il regno – infatti allora abitava in Epiro – ed occupasse quelle cose, egli anzitutto persuase costei a non muoversi ed aspettare fin che il figlio di Alessandro ottenesse il regno; se invece fosse tratta da qualche desiderio in Macedonia, si dimenticasse di tutti gli oltraggi e verso nessuno usasse un potere troppo duro.
Ella non valutò niente di queste cose. Infatti sia partì per la Macedonia e lì si comportò molto crudelmente. Chiede poi ad Eumene assente che non permettesse che i maggiori nemici della casa e della famiglia di Filippo sopprimessero la stirpe e portasse aiuto ai figli di Alessandro. Se dava questo favore, al più presto preparasse esercito che portasse in aiuto a lei. Perché facesse ciò più facilmente (disse che) aveva mandato lettere a tutti i governatori, che rimanevano (fedeli) nelll’incarico, perché obbedissero a lui e si servissero dei suoi consigli. Eumene commosso da tali cose pensò cosa migliore, se così avesse voluto la sorte, morire portando riconoscenza ai benemeriti che vivere ingrato.

7. De Eumenis consilio belli administrandi nomine Alexanris regis.
7. Piano di Eumene di organizza re la guerra in nome del re Alessandro.
Itaque copias contraxit, bellum adversus Antigonum comparavit. Quod una erant Macedones complures nobiles, in his Peucestes, qui corporis custos fuerat Alexandri, tum
autem obtinebat Persidem, et Antigenes, cuius sub imperio phalanx erat Macedonum, invidiam
verens, quam tamen effugere non potuit, si potius ipse alienigena summi imperii potiretur quam
alii Macedonum, quorum ibi erat multitudo, 2 in principiis Alexandri nomine tabernaculum statuit in eoque sellam auream cum sceptro ac diademate iussit poni eoque omnes cotidie convenire, ut ibi de summis rebus consilia caperentur, credens minore se invidia fore si specie imperii nominisque simulatione Alexandri bellum videretur administrare. 3 Quod effecit. Nam cum non ad Eumenis principia, sed ad regia conveniretur atque ibi de rebus deliberaretur,
quodam modo latebat, cum tamen per eum unum gererentur omnia.
E così arruolò truppe, preparò una guerra contro Antigono. Erano insieme parecchi nobili macedoni, tra questi Peuceste, che era stato guardia del corpo di Alessandro ed allora governava la Persia, ed Antigene, sotto il cui comando stava la falange dei Macedoni, (Eumene) temendone l’odio, che tuttavia non potè sfuggire, se lui straniero si impadronisse della supremazia del potere piuttosto che gli altri dei Macedoni, di cui lì c’era la moltitudine, ai quartieri generali stabilì una tenda col nome di Alessandro ed in essa ordinò che si ponesse il trono dorato con scettro e diadema e là tutti si riunissero, perché lì si prendessero le decisioni sulle cose più importanti, credendo che lui sarebbe stato (oggetto) di minore invidia, se sembrasse amministrare la guerra sotto la parvenza del potere e la finzione del nome di Alessandro. E fece ciò. Infatti non radunandosi ai quartieri di Eumene, ma del re e deliberandosi lì sulle cose, in qualche modo era in ombra, mentre tuttavia tutto era fatto da lui solo.

8. De Antigoni consilio in Eumenem.
8. Piano di Antigono contro Eumene.
Hic in Paraetacis cum Antigono conflixit, non acie instructa, sed in itinere, eumque male acceptum in Mediam hiematum coegit redire. Ipse in finitima regione Persidis hiematum copias divisit, non ut voluit, sed ut militum cogebat voluntas. 2 Namque illa phalanx Alexandri Magni, quae Asiam peragrarat deviceratque Persas, inveterata cum gloria tum etiam licentia, non parere se ducibus, sed imperare postulabat, ut nunc veterani faciunt nostri. Itaque periculum est, ne faciant, quod illi fecerunt, sua intemperantia nimiaque licentia ut omnia perdant neque minus eos, cum quibus steterint, quam adversus quos fecerint. 3 Quod si quis illorum veteranorum legat facta, paria horum cognoscat neque rem ullam nisi tempus interesse iudicet. Sed ad illos revertar. Hiberna sumpserant non ad usum belli, sed ad ipsorum luxuriam longeque inter se discesserant. 4 Hoc Antigonus cum comperisset intellegeretque se parem non esse paratis adversariis, statuit aliquid sibi consilii novi esse capiendum. Duae erant viae, qua ex Medis, ubi ille hiemabat, ad adversariorum hibernacula posset perveniri. 5 Quarum brevior per loca deserta, quae nemo incolebat propter aquae inopiam, ceterum dierum erat fere decem; illa autem, qua omnes commeabant, altero tanto longiorem habebat anfractum, sed erat copiosa
omniumque rerum abundans. 6 Hac si proficisceretur, intellegebat prius adversarios rescituros de suo adventu, quam ipse tertiam partem confecisset itineris; sin per loca sola contenderet, sperabat se imprudentem hostem oppressurum. 7 Ad hanc rem conficiendam imperavit quam plurimos utris atque etiam culleos comparari, post haec pabulum, praeterea cibaria cocta dierum decem, ut quam minime fieret ignis in castris. Iter quo habeat, omnis celat.
Sic paratus, qua constituerat, proficiscitur.
Costui nei Paretaci si scontrò con Antigono, non con esercito schierato, ma in marcia e lo costrinse, conciato male, a ritornare in Media per svernare. Egli divise le truppe per svernare nella vicina regione della Persia, non come volle, ma come costringeva la volontà dei soldati. Infatti quella falange di Alessandro Magno, che aveva attraversato l’Asia ed aveva vinto i Persiani, indurita sia nella gloria sia nella libertà, esigeva di non obbedire ai comandanti, ma di comandare, come ora fanno i nostri veterani. E così c’è pericolo che facciano, quello che essi fecero, che rovinino con la loro intemperanza e libertà tutto e non meno quelli, con cui siano stati, che quelli contro cui abbiano agito. Che se qualcuno di quei veterani leggesse i fatti, li riconoscerebbe pari di questi e giudicherebbe che non c’è nessuna differenza se non il tempo. Ma ritornerò da quelli. Non avevano scelto gli accampamenti invernali per il bisogno di guerra, ma per il loro capriccio ed erano partiti lontano tra loro. Avendo Antigono scoperto questo e capendo che lui non era pari agli avversari preparati, stabilì che lui doveva prendere qualcosa di una nuova decisione. Due erano le vie, attraverso cui dai Medi, dove egli svernava, si potesse giungere agli accampamenti invernali degli avversari. La più breve di quelle per luoghi deserti, che nessuno abitava per la mancanza d’acqua, era del resto circa di dieci giorni ; quella invece per cui tutti transitavano, aveva un giro più lungo di altrettanto, ma era fertile e ricca di tutte le cose. Se fosse andato per questa,capiva che gli avversari avrebbero saputo del suo arrivo, prima che lui avesse compiuto la terza parte della marcia; se invece passasse attraverso luoghi solitari, sperava che avrebbe vinto il nemico ignaro. Per concludere questa cosa comandò che fossero procurati otri e recipienti di cuoio il maggior numero possibile, oltre queste cose foraggio ed inoltre cibarie cotte di dieci giorni, che negli accampamenti si facesse il minor fuoco possibile. Nasconde a tutti, dove diriga la marcia. Così preparato, parte per dove aveva stabilito.

9. De Eumenis consilio contra Antigonum.
9. Piano di Eumene contro Antigono.
Dimidium fere spatium confecerat, cum ex fumo castrorum eius suspicio allata est ad Eumenem hostem appropinquare. Conveniunt duces; quaeritur, quid opus sit facto.
Intellegebant omnes tam celeriter copias ipsorum contrahi non posse, quam Antigonus adfuturus videbatur. 2 Hic omnibus titubantibus et de rebus summis desperantibus Eumenes ait, si celeritatem velint adhibere et imperata facere, quod ante non fecerint, se rem expediturum.
Nam quod diebus quinque hostis transisse posset, se effecturum, ut non minus totidem dierum spatio retardaretur. Quare circumirent, suas quisque contraheret copias. 3 Ad Antigoni autem
refrenandum impetum tale capit consilium. Certos mittit homines ad infimos montes, qui obvii
erant itineri adversariorum, hisque praecipit, ut prima nocte, quam latissime possint, ignis
faciant quam maximos atque hos secunda vigilia minuant, tertia perexiguos reddant 4 et
assimulata castrorum consuetudine suspicionem iniciant hostibus, his locis esse castra ac de eorum adventu esse praenuntiatum; idemque postera nocte faciant. 5 Quibus imperatum erat, diligenter praeceptum curant. Antigonus tenebris obortis ignis conspicatur; credit de suo adventu esse auditum et adversarios illuc suas contraxisse copias. 6 Mutat consilium et, quoniam imprudentes adoriri non posset, flectit iter suum et illum anfractum longiorem copiosae viae capit ibique diem unum opperitur ad lassitudinem sedandam militum ac reficienda iumenta, quo integriore exercitu decerneret.
Aveva quasi compiuto metà percorso, quando dal fumo degli accampamenti il sospetto di lui fu portato ad Eumene che il nemico si avvicinava. Si riuniscono i comandanti; ci si domanda, cosa ci sia bisogno di fare.
Tutti capivano che le loro truppe non potevano essere raccolte tanto celermente, quanto Antigono sembrava stesse per arrivare. Allora, mentre tutti erano titubanti e disperavano delle cose più importanti Eumene disse che se volessero usare celerità ed eseguire i comandi, cosa che prima non avevano fatto, lui avrebbe risolto la cosa.
Infatti quello che il nemico avrebbe potuto percorrere in cinque giorni, lui avrebbe fatto in modo che fosse ritardato non meno di altrettanto intervallo di giorni. Perciò andassero in giro, ognuno raccogliesse le sue truppe. Per frenare poi l’assalto di Antigono prende tale decisione. Manda uomini fidati ai piedi dei monti, che stavano davanti al percorso degli avversari, ed a questi comanda, che sul far della notte, nel tratto più vasto che potessero, accendano fuochi il massimo possibile e diminuiscano questi al secondo turno, e li rendano minimi alla terza e, simulata l’usanza degli accampamenti, incutano nei nemici il sospetto, che in questi luoghi ci siano accampamenti e si sia annunciato prima circa il loro arrivo; lo stesso facciano la notte successiva. Quelli, cui era stato comandato, eseguono diligentemente l’ordine. Antigono, sorte le tenebre, vede i fuochi; crede che si sia udito del suo arrivo e che gli avversari abbiano raccolto lì le loro truppe. Cambia decisione e, poiché non poteva assalirli impreparati, piega la sua marcia e prende quel giro più lungo, di una via ricca e lì aspetta un intero giorno per riposare la stanchezza dei soldati e ristorare gli animali, per combattere con un esercito più fresco.

10. De Eumene a perfido exercito prodito.
10. Eumene tradito da un esercito sleale.
Sic Eumenes callidum imperatorem vicit consilio celeritatemque impedivit eius, neque tamen multum profecit. 2 Nam invidia ducum, cum quibus erat, perfidiaque Macedonum veteranorum, cum superior proelio discessisset, Antigono est deditus, cum exercitus ei ter ante separatis temporibus iurasset se eum defensuram neque umquam deserturum. Sed tanta fuit nonnullorum virtutis obtrectatio, ut fidem amittere mallent quam eum non perdere. 3 Atque hunc Antigonus, cum ei fuisset infestissimus conservasset, si per suos esset licitum, quod ab nullo se plus adiuvari posse intellegebat in iis rebus, quas impendere iam apparebat omnibus.
Imminebant enim Seleucus, Lysimachus, Ptolemaeus, opibus iam valentes, cum quibus ei de summis rebus erat dimicandum. 4 Sed non passi sunt ii, qui circa erant, quod videbant Eumene recepto omnis prae illo parvi futuros. Ipse autem Antigonus adeo erat incensus, ut nisi magna
spe maximarum rerum leniri non posset.
Così Eumene vinse l’astuto comandante con la tattica e bloccò la sua celerità, ma non guadagnò molto. Ma per l’odio dei comandanti, con cui era, e la slealtà dei Macedoni veterani, pur essendo riuscito superiore, fu consegnato ad Antigono, pur avendogli per tre volte l’esercito giurato prima, in tempi separati, che l’avrebbe difeso e mai abbandonato.
Ma fu così grande l’astio di alcuni per il valore, che preferirono rinunciare alla lealtà che non rovinarlo. E Antigono avrebbe salvato costui, pur essendogli stato odiosissimo, se fosse stato possibile da parte dei suoi, perché capiva che da nessuno poteva essere aiutato di più in quelle cose, che a tutti appariva che incombevano.
Incalzavano infatti Seleuco, Lisimaco, Tolomeo, ormai potenti per i mezzi, coi quali egli doveva scontrarsi per le cose più importanti. Ma no lo permisero quelli, che erano attorno, perché vedevano che, accolto Eumene, tutti sarebbero stati considerati poco in confronto a lui. Lo stesso Antigono era così adirato, che non poteva essere calmato se non dalla grande speranza di cose importantissime.

11. De Eumenis custodia.
11. Prigionia di Eumene.
Itaque cum eum in custodiam dedisset et praefectus custodum quaesisset, quemadmodum
servari vellet, ”Ut acerrimum, inquit, leonem aut ferocissimum elephantum”. Nondum enim
statuerat, conservaret eum necne. 2 Veniebat autem ad Eumenem utrumque genus hominum, et
qui propter odium fructum oculis ex eius casu capere vellent, et qui propter veterem amicitiam
colloqui consolarique cuperent; multi etiam, qui eius formam cognoscere studebant, qualis esset, quem tam diu tamque valde timuissent, cuius in pernicie positam spem habuissent victoriae. 3 At Eumenes cum diutius in vinclis esset, ait Onomarcho, penes quem summa imperii erat custodiae, se mirari, quare iam tertium diem sic teneretur: non enim hoc convenire Antigoni prudentiae, ut sic deuteretur victo; quin aut interfici aut missum fieri iuberet. 4 Hic cum ferocius Onomarcho loqui videretur, ”Quid?, tu inquit, animo si isto eras, cur non in proelio cecidisti potius, quam in potestatem inimici venires? ” 5 Huic Eumenes ”Utinam quidem
istud evenisset! Sed eo non accidit, quod numquam cum fortiore sum congressus. Non enim
cum quoquam arma contuli, quin is mihi succubuerit; non enim virtute hostium, sed amicorum perfidia decidi”. Neque id erat falsum. Nam et dignitate fuit honesta et viribus ad laborem ferendum firmis neque tam magno corpore quam figura venusta.
E così avendolo stato consegnato alla detenzione ed avendo il comandante delle guardie chiesto, come volesse essere custodito, “Come un crudelissimo leone, disse, o un ferocissimo elefante”. Non aveva infatti ancora deciso se salvarlo o no. Venivano poi da Eumene l’uno e l’altro genere di uomini, sia quelli che per odio volevano prendere soddisfazione com gli occhi dal suo caso, sia quelli che per antica amicizia desideravano parlargli e consolarlo; molti anche che cercavano di conoscere l’aspetto di lui, quale fosse, chi tanto a lungo e tanto intensamente avevano temuto, nella cui disgrazia avevano posto la speranza di vittoria. Ma Eumene essendo piuttosto a lungo in catene, disse a Onomarco, presso il quale era la somma del comando della prigione, di meravigliarsi perché era tenuto così dopo due giorni: infatti non conveniva alla accortezza di Antigono, che così abusasse di un vinto; che comandasse o che fosse ucciso e che diventasse dimesso. Allora sembrando ad Onomarco che parlasse troppo fieramente, “ E che?, disse, tu se eri di codesto spirito, perché non cadesti piuttosto in battaglia, che arrivare nel potere di un nemico?” A costui Eumene:”Oh se questo fosse proprio capitato! Ma non capitò per questo, che mai mi sono incontrato con uno più forte. Infatti non ho portato le armi contro qualcuno, che costui non mi abbia ceduto; infatti non sono caduto per il valore dei nemici, ma per la slealtà degli amici.”Infatti fu di comportamento dignitoso e di solide forze per sopportare la fatica né tanto di corpo grande che di bell’aspetto.
12. De Eumenis caede.
12. Assassinio di Eumene.
De hoc Antigonus cum solus constituere non auderet, ad consilium rettulit. Hic cum omnes
primo perturbati admirarentur non iam de eo sumptum esse supplicium, a quo tot annos adeo
essent male habiti, ut saepe ad desperationem forent adducti, 2 quique maximos duces interfecisset, denique in quo uno tantum esset, ut, quoad ille viveret, ipsi securi esse non possent, interfecto nihil habituri negotii essent, postremo, si illi redderet salutem, quaerebant, quibus amicis esset usurus: sese enim cum Eumene apud eum non futuros. 3 Hic cognita consilii voluntate tamen usque ad septimum diem deliberandi sibi spatium reliquit. Tum autem, cum iam vereretur, ne qua seditio exercitus oriretur, vetuit quemquam ad eum admitti et cotidianum victum removeri iussit. Nam negabat se ei vim allaturum, qui aliquando fuisset amicus. 4 Hic tamen non amplius quam triduum fame fatigatus, cum castra moverentur, insciente Antigono iugulatus est a custodibus.
Non osando Antigono da solo decidere su costui, riferì al consiglio. Allora poiché tutti da principio turbati si meravigliavano che non fosse già stata decisa la morte su di lui, da cui per tanti anni erano stati trattati male al punto che spesso erano stati indotti alla disperazione, e che aveva ucciso grandissimi comandanti, infine in uno solo in cui c’era tanto, che , fin che viveva lui, essi non potevano essere sicuri, ucciso, non avrebbero avuto nulla di problema, infine, se gli restituivano la salvezza, chiedevano, di quali amici si sarebbe servito: infatti essi non sarebbero stati presso di lui con Eumene. Costui, conosciuta la volontà del consiglio, tuttavia si lasciò il tempo di decidere fino al settimo giorno. Allora poi, temendo che sorgesse qualche ribellione nell’esercito, proibì che qualcuno fosse ammesso da lui ed ordinò che gli fosse tolto il vitto quotidiano. Infatti diceva che non avrebbe portato violenza a colui, che una volta era stato amico. Costui tuttavia logorato dalla fame non più di tre giorni, quando si mossero gli accampamento, all’insaputa di Antigono, fu sgozzato dai carcerieri.
13. De Eumenis militari honestoque funere.
13. Solenne funerale militare di Eumene.
Sic Eumenes annorum V et XL, cum ab anno vicesimo, uti supra ostendimus, VII annos Philippo apparuisset, XIII apud Alexandrum eundem locum obtinuisset, in his unum equitum
alae praefuisset, post autem Alexandri Magni mortem imperator exercitus duxisset summosque
duces partim reppulisset, partim interfecisset, captus non Antigoni virtute, sed Macedonum
periurio, talem habuit exitum vitae. 2 In quo quanta omnium fuerit opinio eorum, qui post
Alexandrum Magnum reges sunt appellati, ex hoc facillime potest iudicari, quod nemo Eumene
vivo rex appellatus est, sed praefectus, 3 eidem post huius occasum statim regium ornatum
nomenque sumpserunt neque, quod initio praedicarant, se Alexandri liberis regnum servare,
praestare voluerunt et uno propugnatore sublato, quid sentirent, aperuerunt. Huius sceleris principes fuerunt Antigonus, Ptolemaeus, Seleucus, Lysimachus, Cassandrus. 4 Antigonus autem Eumenem mortuum propinquis eius sepeliundum tradidit. Hi militari honestoque funere, comitante toto exercitu, humaverunt ossaque eius in Cappadociam ad matrem atque uxorem liberosque eius deportanda curarunt.
Così Eumene di quaranta cinque anni, avendo servito a Filippo dal ventesimo anno, per sette anni, come mostrammo sopra, avendo ottenuto lo stesso incarico per tredici presso Alessandro, tra questi per un anno avendo comandato un’ala dei cavalieri, poi dopo la morte di Alessandro magno, avendo guidato gli eserciti da comandante e in parte respinto grandissimi condottieri, in parte avendoli uccisi, catturato non dal valore di Antigono, ma dallo spergiuro dei Macedoni, ebbe tale fine della vita. Quanto grande sia stata in lui la stima di tutti quelli che dopo Alessandro Magno furono chiamati re, si può giudicare molto facilmente da ciò, che nessuno, vivo Eumene, fu chiamato re, ma governatore, gli stessi dopo la sua caduta subito presero l’abbigliamento regale ed il titolo, né quello che avevano dichiarato all’inizio, di volere conservare il regno per i figli di Alessandro, vollero mantenerlo e tolto l’unico difensore, manifestarono, quello che sentivano. I capi di questo delitto furono Antigono, Tolomeo, Seleuco, Lisimaco, Cassandro. Antigono però diede Eumene morto da seppellire ai suoi parenti. Questi con funerale militare e dignitoso, accompagnandolo tutto l’esercito, inumarono le sue ossa e le fecero portare in Cappadocia presso la madre, la moglie ed i figli.
PHOCION
FOCIONE
1. De Phocionis integritate vitae.
1, Integrità di vita di Focione.
Phocion Atheniensis etsi saepe exercitibus praefuit summosque magistratus cepit, tamen
multo eius notior integritas vitae quam rei militaris labor. Itaque huius memoria est nulla, illius autem magna fama, ex quo cognomine Bonus est appellatus. 2 Fuit enim perpetuo pauper, cum divitissimus esse posset propter frequentis delatos honores potestatesque summas, quae ei a
populo dabantur. 3 Hic cum a rege Philippo munera magnae pecuniae repudiaret legatique
hortarentur accipere simulque admonerent, si ipse his facile careret, liberis tamen suis prospiceret, quibus difficile esset in summa paupertate tantam paternam tueri gloriam, 4 his ille ”Si mei similes erunt, idem hic, inquit, agellus illos alet, qui me ad hanc dignitatem perduxit; sin dissimiles sunt futuri, nolo meis impensis illorum ali augerique luxuriam. ”
L’ateniese Focione anche se spesso fu a capo di eserciti ed occupo altissime cariche, tuttavia è molto più nota la sua integrità di vita che l’impegno della cosa militare. E così il ricordo di questa è nulla, di quella invece la fama (è) grande, e da ciò è stato chiamato col soprannome di Buono. Infatti fu sempre povero, potendo essere ricchissimo per le continue cariche conferite e le altissime cariche, che gli erano date dal popolo. Rifiutando costui doni di grande somma dal re Filippo ed invitandolo i delegati ad accettarli ed insieme osservando, che, se lui facilmente ne faceva a meno, provvedesse tuttavia ai suoi figli, ai quali sarebbe stato difficile nella massima povertà difendere una così grande gloria paterna, a costoro egli “Se saranno simili a me, questo identico, disse, campicello li nutrirà, quello che condusse me a questo onore; se invece sono destinati ad essere diversi, non voglio che a mie spese sia nutrito ed aumentato il loro lusso.”
2.
Idem cum prope ad annum octogesimum prospera pervenisset fortuna, extremis temporibus magnum in odium pervenit suorum civium, 2 primo quod cum Demade de urbe tradenda Antipatro consenserat eiusque consilio Demosthenes cum ceteris, qui bene de re publica meriti existimabantur, populi scito in exsilium erant expulsi. Neque in eo solum offenderat, quod
patriae male consuluerat, sed etiam quod amicitiae fidem non praestiterat. 3 Namque auctus
adiutusque a Demosthene eum, quem tenebat, ascenderat gradum, cum adversus Charetem
eum subornaret; ab eodem in iudiciis, cum capitis causam diceret, defensus aliquotiens, liberatus discesserat. Hunc non solum in periculis non defendit, sed etiam prodidit. 4 Concidit autem maxime uno crimine, quod, cum apud eum summum esset imperium populi et Nicanorem, Cassandri praefectum, insidiari Piraeo Atheniensium a Dercylo moneretur idemque
postularet, ut provideret, ne commeatibus civitas privaretur, huic audiente populo Phocion negavit esse periculum seque eius rei obsidem fore pollicitus est. 5 Neque ita multo post Nicanor Piraeo est potitus, sine quo Athenae omnino esse non possunt. Ad quem recuperandum cum populus armatus concurrisset, ille non modo neminem ad arma vocavit, sed ne armatis quidem praeesse voluit.
Lui stesso essendo giunto all’ottantesimo anno con prospera fortuna, negli ultimi tempi venne in grande odio dei suoi concittadini, primo perché aveva acconsentito con decade di consegnare la città ad Antipatro e per suo consiglio Demostene con gli altri, che erano giudicati benemeriti dello stato, per decreto del popolo erano stati cacciati in esilio. Ma non solo aveva mancato nel fatto che aveva male provveduto per la patria, ma anche perché non aveva mantenuto fede all’amicizia. Infatti era salito a quel grado, che occupava, sostenuto ad aiutato da Demostene, istigandolo contro Carete; dallo stesso nei processi, celebrando un processo di pena capitale, ogni volta (era stato) difeso, era uscito prosciolto.
E non solo non difese costui nei pericoli, ma addirittura lo tradì. Però cadde soprattutto per un’unica accusa, perché, essendo presso di lui il massimo potere del popolo e essendo avvisato da Dercilo che Nicanore, luogotenente di Cassandro, minacciava il Pireo degli Ateniesi e lo stesso chiedeva che provvedesse perché la città non fosse privata dei rifornimenti, a costui, mentre il popolo udiva, disse che non c’era pericolo e promise che lui sarebbe stato garante di quella cosa.
Né molto dopo Nicanore si impadronì così del Pireo, senza il quale Atene non può assolutamente stare. Ed essendo il popolo accorso armato per riconquistarlo, egli no solo non chiamò nessuno alle armi, ma non volle neppure essere a capo degli armati.

3. De Phocionis accusatione.
3. Accusa a Focione.
Erant eo tempore Athenis duae factiones, quarum una populi causam agebat, altera optimatium. In hac erat Phocion et Demetrius Phalereus. Harum utraque Macedonum patrociniis utebatur. Nam populares Polyperchonti favebant, optimates cum Cassandro sentiebant. 2 Interim a Polyperchonte Cassandrus Macedonia pulsus est. Quo facto populus superior factus statim duces adversariae factionis capitis damnatos patria propulit, in his
Phocionem et Demetrium Phalereum, deque ea re legatos ad Polyperchontem misit, qui ab eo
peterent, ut sua decreta confirmaret. 3 Huc eodem profectus est Phocion. Quo ut venit, causam apud Philippum regem verbo, re ipsa quidem apud Polyperchontem iussus est dicere: namque is tum regis rebus praeerat. 4 Hic ab Agnone accusatus, quod Piraeum Nicanori prodidisset, ex consilii sententia in custodiam coniectus, Athenas deductus est, ut ibi de eo legibus fieret iudicium.
C’erano in quel tempo due partiti, di cui una faceva la causa del popolo, l’altra degli aristocratici. In questa c’era Focione e Demetrio Falereo. L’una e l’altra di queste si serviva dei patrocini dei macedoni. Infatti i popolari favorivano Poliperconte, gli aristocratici erano d’accordo con Cassandro. Intanto Cassandro fu cacciato da Poliperconte dalla Macedonia. Per tale fatto il popolo diventato vincitore subito cacciò dalla patria i capi del partito avversario, condannati a morte, tra questi Focione e Demetrio Falereo, e per tale cosa mandò delegati a Poliperconte, che gli chiedessero di confermare i loro provvedimenti. A questa stessa volta partì Focione. Come vi giunse, fu comandato di dire a parole la causa davanti al re Filippo, ma in realtà davanti a Poliperconte: infatti egli allora era a capo delle cose del re. Costui accusato da Agnone, perché aveva consegnato il Pireo a Nicanore, su sentenza del consiglio gettato in prigione, fu condotto ad Atene, perché ivi si facesse il processo su di lui secondo le leggi.
4. De Phocionis supplicio.
4. Esecuzione di Focione.
Huc ut perventum est, cum propter aetatem pedibus iam non valeret vehiculoque portaretur, magni concursus sunt facti, cum alii, reminiscentes veteris famae, aetatis
misererentur, plurimi vero ira exacuerentur propter proditionis suspicionem Piraei maximeque, quod adversus populi commoda in senectute steterat. 2 Quare ne perorandi quidem ei data est facultas et dicendi causam. Inde iudicio legitimis quibusdam confectis damnatus, traditus est undecimviris, quibus ad supplicium more Atheniensium publice damnati tradi solent. 3 Hic cum ad mortem duceretur, obvius ei fuit Euphiletus, quo familiariter fuerat usus. Is cum lacrimans dixisset ”O quam indigna perpeteris, Phocion! ” huic ille ”At non inopinata, inquit: `hunc enim exitum plerique clari viri habuerunt Athenienses”. 4 In hoc tantum fecit odium multitudinis, ut nemo ausus sit eum liber sepelire. Itaque a servis sepultus est.
Come giunse qui, poiché per l’età non si reggeva sui piedi ed era portato su carro, ci furono grandi assembramenti, mentre alcuni, ricordandosi dell’antica fama, commiseravano l’età, moltissimi però erano accesi d’ira per il sospetto di tradimento del Pireo e soprattutto, perché in vecchiaia era stato contro gli interessi del popolo. Perciò neppure gli fu data la facoltà di perorare e difendere la causa. Poi completate alcune formalità, condannato, fu consegnato agli undici uomini, ai quali secondo la tradizione degli Ateniesi sono soliti essere consegnati i condannati a morte pubblicamente.
Mentre costui era condotto a morte, gli fu davanti Eufileto, con cui aveva trattato famigliarmente.
Avendo egli detto “ Oh quanto indegne cose patisci, Focione!”, a costui egli “ Ma non impreviste, disse: questa fine infatti la ebbero parecchi famosi uomini ateniesi.”
Contro costui tanto fece l’odio della moltitudine, che nessun libero osò seppellirlo.
E così fu sepolto da schiavi.
TIMOLEON
TIMOLEONTE
1. De Timoleontis virtute pro patiae libertate.
1. Coraggio di timoleonte per la libertà della patria.
Timoleon Corinthius. Sine dubio magnus omnium iudicio hic vir exstitit. Namque huic uni contigit, quod nescio an nulli, ut et patriam, in qua erat natus, oppressam a tyranno liberaret et a Syracusanis, quibus auxilio erat missus, iam inveteratam servitutem depelleret totamque
Siciliam multos annos bello vexatam a barbarisque oppressam suo adventu in pristinum
restitueret. 2 Sed in his rebus non simplici fortuna conflictatus est et, id quod difficilius putatur,
multo sapientius tulit secundam quam adversam fortunam. 3 Nam cum frater eius Timophanes,
dux a Corinthiis delectus, tyrannidem per milites mercennarios occupasset particepsque regni
posset esse, tantum afuit a societate sceleris, ut antetulerit civium suorum libertatem fratris saluti et parere legibus quam imperare patriae satius duxerit. 4 Hac mente per haruspicem communemque affinem, cui soror ex eisdem parentibus nata nupta erat, fratrem tyrannum
interficiundum curavit. Ipse non modo manus non attulit, sed ne aspicere quidem fraternum
sanguinem voluit. Nam dum res conficeretur, procul in praesidio fuit, ne quis satelles posset
succurrere. 5 Hoc praeclarissimum eius factum non pari modo probatum est ab omnibus.
Nonnulli enim laesam ab eo pietatem putabant et invidia laudem virtutis obterebant. Mater vero
post id factum neque domum ad se filium admisit neque aspexit, quin eum fratricidam impiumque detestans compellaret. 6 Quibus rebus ille adeo est commotus, ut nonnumquam vitae finem facere voluerit atque ex ingratorum hominum conspectu morte decedere.
Timoleonte corinzio. Senza dubbio questo uomo fu grande a giudizio di tutti. Infatti a costui solo toccò, cosa che non so se a nessun altro, sia di liberare la patria, in cui era nato, oppressa dal tiranno, sia di allontanare dai Siracusani, in aiuto ai quali era stato mandato, una schiavitù ormai inveterata e restituire all’antico, col suo arrivo, tutta la Sicilia straziata dalla guerra per molti anni e oppressa dai barbari.
Ma in queste cose lottò con una sorte non semplice e, cosa che si pensa piuttosto difficile, sopportò molto più saggiamente la prospera che l’avversa sorte. Infatti poiché suo fratello Timofane, scelto come comandante dai Corinzi, aveva occupato la tirannide per mezzo di soldati mercenari e poteva essere partecipe del regno, fu tanto lontano dall’alleanza del delitto, che preferì la libertà dei suoi concittadini alla salvezza del fratello e ritenne meglio obbedire alle leggi che comandare alla patria. Con questa mentalità fece uccidere il fratello tiranno per mezzo di un aruspice e un parente comune, cui era stata sposata la sorella nata dagli stessi genitori.
Egli non solo non mise le mani, ma neppure volle vedere il sangue fraterno. Infatti mentre si concludeva la cosa, stette lontano nella guarnigione, perché nessuna sentinella potesse portare aiuto. Questo suo gesto mobilissimo non fu approvato allo stesso modo da tutti. Alcuni infatti pensavano che fosse stata violata ad lui la pietà e per invidia svilivano l’elogio del coraggio. La madre però dopo tale fatto né ammise il figlio alla sua presenza né lo incontrò senza chiamarlo fratricida ed empio, maledicendolo.
Da tali cose egli fu talmente turbato da voler finalmente metter fine alla vita ed allontanarsi con la morte dal cospetto di uomini ingrati.
2. De Timoleontis virtute ad Siciliam liberandam.
2. Valore di Timoleonte a liberare la Sicilia.
Interim Dione Syracusis interfecto Dionysius rursus Syracusarum potitus est. Cuius adversarii opem a Corinthiis petierunt ducemque, quo in bello uterentur, postularunt. Huc Timoleon missus incredibili felicitate Dionysium tota Sicilia depulit. 2 Cum interficere posset, noluit, tutoque ut Corinthum perveniret, effecit, quod utrorumque Dionysiorum opibus Corinthii saepe adiuti fuerant, cuius benignitatis memoriam volebat exstare, eamque praeclaram victoriam ducebat, in qua plus esset clementiae quam crudelitatis, postremo ut non solum auribus acciperetur, sed etiam oculis cerneretur, quem et ex quanto regno ad quam fortunam detulisset. 3 Post Dionysii decessum cum Hiceta bellavit, qui adversatus erat Dionysio; quem non odio tyrannidis dissensisse, sed cupiditate indicio fuit, quod ipse expulso Dionysio imperium dimittere noluit. 4 Hoc superato Timoleon maximas copias Carthaginiensium apud Crinissum flumen fugavit ac satis habere coegit, si liceret Africam obtinere, qui iam complures annos possessionem Siciliae tenebant. Cepit etiam Mamercum, Italicum ducem, hominem bellicosum et potentem, qui tyrannos adiutum in Siciliam venerat.
Intanto, ucciso Dione a Diracusa, Dionisio di nuovo si impadronì del potere. I suoi avversari chiesero l’aiuto ai Corinzi e domandarono il comandante, di cui servirsi nella guerra. Timoleonte mandato qui con incredibile successo cacciò Dionisio da tutta la Sicilia.
Potendo ucciderlo, non volle, e fece in modo che giungesse a Corinto con sicurezza, perché dalle forze di entrambi i Dionisi i Corinzi erano stati aiutati, e di tale benevolenza voleva che restasse il ricordo e ritenera la più famosa quella vittoria, in cui ci fosse più di clemenza che di crudeltà, ed infine che non solo si sentisse con le orecchie, ma si vedesse anche con gli occhi, chi e da quanto grande regno avesse trascinato a quella situazione. Dopo la partenza di Dionisio si scontrò con Iceta, che aveva avversto Dionisio; e che l’avesse contrastato non per odio, ma per amore della tirannide, fu di spia il fatto che, cacciato Dionisio, non volle lasciare il potere. Vinto costui, Timoleonte mise in fuga le grandissime truppe dei Cartaginesi presso il fiume Crinisso e li costrinse a considerare sufficiente, se fosse permesso di tenere l’Africa, loro che già da parecchi anni tenevano il possesso della Sicilia. Catturò anche Mamerco, comandante italico, uomo battagliero e potente, che era giunto in Sicilia per aiutare i tiranni.

3. De Timoleontis benevolentia atque prudentia.
3. Benevolenza e saggezza di Timoleonte.
Quibus rebus confectis cum propter diuturnitatem belli non solum regiones, sed etiam urbes desertas videret, conquisivit, quos potuit, primum Siculos; dein Corintho arcessivit colonos, quod ab his initio Syracusae erant conditae. 2 Civibus veteribus sua restituit, novis bello vacuefactas possessiones divisit; urbium moenia disiecta fanaque deserta refecit; civitatibus leges libertatemque reddidit; ex maximo bello tantum otium totae insulae conciliavit, ut hic conditor urbium earum, non illi, qui initio deduxerant, videretur. 3 Arcem Syracusis, quam munierat Dionysius ad urbem obsidendam, a fundamentis disiecit; cetera tyrannidis propugnacula demolitus est deditque operam, ut quam minime multa vestigia servitutis manerent. 4 Cum tantis esset opibus, ut etiam invitis imperare posset, tantum autem amorem haberet omnium Siculorum, ut nullo recusante regnum obtinere, maluit se diligi quam metui. Itaque, cum primum potuit, imperium deposuit ac privatus Syracusis, quod reliquum vitae fuit, vixit. 5 Neque vero id imperite fecit. Nam quod ceteri reges imperio potuerunt, hic benevolentia tenuit. Nullus honos huic defuit, neque postea res ulla Syracusis gesta est publice, de qua prius sit decretum quam Timoleontis sententia cognita. 6 Nullius umquam consilium non modo antelatum, sed ne comparatum quidem est; neque id magis benevolentia factum est quam
prudentia.
Compiute queste imprese, per la lunga durata della guerra vedendo deserte non solo le regioni, ma anche le città, cercò (gli uomini) che potè, anzitutto Siculi; poi da Corinto fece venire coloni, perché da questi all’inizio era stata fondata Siracusa. Agli antichi cittadini restituì le loro cose, ai nuovi divise i possedimenti resi vuoti dalla guerra; ricostruì le mura abbattute ed i templi abbandonati; ridiede alle cittadinanze leggi e libertà; dalla guerra più grande donò a tutta l’isola una pace così grande, che sembrava costui il fondatore di quelle città, non quelli, che all’inizio le avevano fondate.
Distrusse dalle fondamenta a Siracusa la rocca, che Dionisio aveva fortificato per sottomettere la città; demolì le altre fortezze della tirannide e fece in modo che rimanessero quanto minimamente (possibile) le molte vestigia della schiavitù. Essendo di tali potenze da poter comandare anche ai contrari, ma da avere così grande amore di tutti i Siculi, da (poter) tenere il potere, senza che nessuno si opponesse, preferì essere amato che temuto. E così appena potè, depose il potere e visse da privato a Siracusa, quello che fu il resto della vita.
Ma no fece ciò senza attenzione. Infatti quello che gli altri re poterono col potere, costui l’ottenne con la benevolenza. Nessun prestigio gli mancò, né poi a Siracusa nessuna cosa fu compiuta pubblicamente, di cui si fosse deciso prima che (fosse) sentito il parere di Timoleonte. Di nessuno mai fu preferito non solo il consiglio, ma neppure confrontato; né ciò fu fatto con benevolenza più che con saggezza.
4. De Timoleontis summa patientia mirabilibusque casibus.
4. Somma pazienza di Timoleonte e staordinarie casualità.
Hic cum aetate iam provectus esset, sine ullo modo morbo lumina oculorum amisit. Quam
calamitatem ita moderate tulit, ut neque eum querentem quisquam audierit, neque eo minus
privatis publicisque rebus interfuerit. 2 Veniebat autem in theatrum, cum ibi concilium populi
haberetur, propter valetudinem vectus iumentis iunctis, atque ita de vehiculo, quae videbantur,
dicebat. Neque hoc illi quisquam tribuebat superbiae. Nihil enim umquam neque insolens neque gloriosum ex ore eius exiit. 3 Qui quidem, cum suas laudes audiret praedicari, numquam aliud dixit quam se in ea re maxime diis agere gratias atque habere, quod, cum Siciliam recreare
constituissent, tum se potissimum ducem esse voluissent. Nihil enim rerum humanarum sine
deorum numine geri putabat. Itaque suae domi sacellum Automatias constituerat idque
sanctissime colebat. 4 Ad hanc hominis excellentem bonitatem mirabiles accesserant casus. Nam proelia maxima natali suo die fecit omnia: quo factum est, ut eius diem natalem festum haberet universa Sicilia.
Costui essendo già avanzato in età, tuttavia senza alcuna malattia predette le luci degli occhi. Ma sopportò quella disgrazia con tale rassegnazione, che nessuno né lo senti lamentarsi, né non di meno partecipò alle cose private e pubbliche. Veniva pure in teatro, tenendosi lì l’assemblea del popolo, trasportato per l’infermità da giumenti aggiogati, e così dal carro diceva, le cose che sembravano (opportune).
Né mai qualcuno gli ascriveva ciò a superbia. Nulla infatti ma né (di) arrogante o borioso uscì dalla sua bocca. Lui veramente sentendo che si pronunciavano suoi elogi, mai null’altro disse che lui in quella cosa soprattutto rendeva e offriva grazie agli dei, perché avendo (gli dei) deciso di ricostruire la Sicilia, avevano voluto che lui principalmente ne fosse il capo.
Pensava infatti che nulla delle cose umane si facesse senza la volontà degli dei. E così nella sua casa aveva costruito un tempietto di Automazia (Fortuna) e lo venerava molto religiosamente. A questa eccellente bontà si erano aggiunti casi meravigliosi.
Infatti fece le maggiori battaglie nel suo giorno di compleanno: perciò accadde, che tutta la Sicilia considerasse festivo il suo compleanno.

5. De Timoleontis maximo amore in libertatem.
5. Massimo amore di Timoleonte per la libertà.
Huic quidam Laphystius, homo petulans et ingratus, vadimonium cum vellet imponere,
quod cum illo se lege agere diceret, et complures concurrissent, qui procacitatem hominis manibus coercere conarentur, Timoleon oravit omnes, ne id facerent. 2 Namque id ut Laphystio et cuivis liceret, se maximos labores summaque adisse pericula. Hanc enim speciem libertatis esse, si omnibus, quod quisque vellet, legibus experiri liceret. Idem, cum quidam Laphystii similis, nomine Demaenetus, in contione populi de rebus gestis eius detrahere coepisset ac nonnulla inveheretur in Timoleonta, 3 dixit nunc demum se voti esse damnatum: namque hoc a diis immortalibus semper precatum, ut talem libertatem restitueret Syracusanis, in qua cuivis
liceret, de quo vellet, impune dicere. 4 Hic cum diem supremum obisset, publice a Syracusanis
in gymnasio, quod Timoleonteum appellatur, tota celebrante Sicilia sepultus est.
A costui un certo Lafistio, uomo sfacciato ed ingrato, volendo imporre una comparizione (in tribunale), che diceva di fare con lui secondo la legge e poiché molti erano accorsi, che tentavano con le mani di bloccare la sfrontatezza del personaggio, Timoleonte pregò tutti, che non lo facessero. Infatti (diceva che) perché ciò fosse possibile a Lafistio ed a chiunque, egli aveva incontrato massime difficoltà e grandissimi pericoli. (Diceva che) questa era la bellezza della libertà, se a tutti fosse possibile provare con le leggi, ciò che ciascuno voleva. Ugualmente, poiché un tale simile a Lafistio, di nme Dameneto, nell’assemblea del popolo aveva cominciato a criticare sulle sue imprese ed in qualcosa si scagliava contro Timoleonte, disse che finalmente ora era condannato a sciogliere un voto: infatti questo aveva sempre chiesto agli dei, di restituire ai Siracusani una libertà tale, nella quale a chiunque fosse possibile dire impunemente, su quello che volesse. Costui avendo incontrato il giorno supremo (la morte), a spese pubbliche fu dai Siracusani sepolto nel ginnasio, che è chiamato timoleonteo, accorrendo tutta la Sicilia.
REGES
I RE
1. De Persaru regibus.
1. I re di Persia.
Hi fere fuerunt Graecae gentis duces, qui memoria digni videantur, praeter reges: namque eos attingere noluimus, quod omnium res gestae separatim sunt relatae. Neque tamen hi admodum sunt multi. 2 Lacedaemonius autem Agesilaus nomine, non potestate fuit rex, sicut ceteri Spartani. Ex iis vero, qui dominatum imperio tenuerunt, excellentissimi fuerunt, ut nos
iudicamus, Persarum Cyrus et Darius, Hystaspi filius; quorum uterque privatus virtute regnum
est adeptus. Prior horum apud Massagetas in proelio cecidit; Darius senectute diem obiit
supremum. 3 Tres sunt praeterea eiusdem generis: Xerxes et duo Artaxerxae, Macrochir cognomine et Mnemon. Xerxi maxime est illustre, quod maximis post hominum memoriam exercitibus terra marique bellum intulit Graeciae. 4 At Macrochir praecipuam habet laudem amplissimae pulcherrimaeque corporis formae, quam incredibili ornavit virtute belli: namque illo Perses nemo manu fuit fortior. Mnemon autem iustitiae fama floruit. Nam cum matris suae scelere amisisset uxorem, tantum indulsit dolori, ut eum pietas vinceret. 5 Ex his duo eodem nomine morbo naturae debitum reddiderunt; tertius ab Artabano praefecto ferro interemptus est.
Questi furono approssimativamente i capi della popolazione greca, che sembrano degni di ricordo, eccetto i re: infatti non vogliamo toccarli, perché le imprese di tutti sono state riferite separatamente. Né tuttavia questi sono davvero molti. Ma lo spartano Agesilao fu re di nome, non per l’ autorità, come gli altri Spartani. Tra quelli invece che detennero il dominio col potere, furono eccellentissimi, come noi pensiamo, dei Persiani Ciro e Dario, figlio di Istaspe; l’uno e l’altro di questi da privato conseguì il regno col coraggio.
Il primo di questi cadde in battaglia presso i Massageti; Dario incontro il giorno supremo (morì) in vecchiaia. Inoltre ci sono tre della stessa stirpe: Serse ed i due Artaserse, di soprannome Macrochiro e Anemone. Per Serse è oltremodo cosa illustre, il fatto che con eserciti, al di là della memoria degli uomini, grandissimi dichiarò per terra e per mare guerra alla Grecia. Ma Macrochiro ha la particolarissima lode dell’imponentissimo e bellissimo aspetto del corpo, che nobilitò con l’incredibile valore di guerra: infatti nessun persiano fu di mano più forte di lui. Anemone poi brillò per fama di giustizia. Infatti avendo perso la moglie per la scelleratezza di sua madre, perdonò tanto al dolore, che lo vinse l’amore (figliale). Due di essi dello stesso nome con la malattia pagarono il debito alla natura; il terzo fu ucciso col ferro dal governatore Artabano.
2. De Macedonum, Epitorarum, Siracusarum ceteris regibus.
2. Altri re di Macedonia, Epiro, Siracusa.
Ex Macedonum autem gente duo multo ceteros antecesserunt rerum gestarum gloria: Philippus, Amyntae filius, et Alexander Magnus. Horum alter Babylone morbo consumptus est: Philippus Aegiis a Pausania, cum spectatum ludos iret, iuxta theatrum occisus est. 2 Unus Epirotes, Pyrrhus, qui cum populo Romano bellavit. Is cum Argos oppidum oppugnaret in Peloponneso, lapide ictus interiit. Unus item Siculus, Dionysius prior. Nam et manu fortis et belli peritus fuit et, id quod in tyranno non facile reperitur, minime libidinosus, non luxuriosus, non avarus, nullius denique rei cupidus nisi singularis perpetuique imperii ob eamque rem crudelis. Nam dum id studuit munire, nullius pepercit vitae, quem eius insidiatorem putaret. 3 Hic cum virtute tyrannidem sibi peperisset, magna retinuit felicitate. Maior enim annos LX natus decessit florente regno neque in tam multis annis cuiusquam ex sua stirpe funus vidit, cum ex tribus uxoribus liberos procreasset multique ei nati essent nepotes.
Dalla stirpe poi dei Macedoni due superarono molto gli altri per la gloria delle cose compiute: Filippo, figlio di Aminta, e Alessandro Magno. Uno di questi fu spento dalla malattia a Babilonia: Filippo fu ucciso ad Ege da Pausania, mentre andava a vedere i giochi, vicino al Teatro. Un solo epirota, (fu) Pirro, che combattè contro il popolo romano. Egli mentre assediava la città di Argo nel Peloponneso, morì colpito da una pietra. Ugualmente l’unico siculo, Dionisio primo. Infatti fu sia forte di mano sia esperto di guerra e, ciò che in un tiranno non si trova facilmente, per nulla dissoluto, non sfrenato, non avaro, infine di nessuna cosa desideroso se non di un dominio unico e perpetuo e per tale cosa crudele. Infatti mentre cercò di fortificarlo, non risparmiò la vita di nessuno, che considerasse suo insidiatore. Costui avendo prodotto per sé la tirannide, la tenne con grande fortuna. Infatti morì piuttosto maturo a sessant’anni con regno fiorente né in così tanti anni non vide la morte di nessuno della sua stirpe, pur avendo procreato figli da tre mogli ed essendogli nati molti nipoti.
3. De regibus ex amicis Alexandri Magni.
3. I re tra gli amici di Alessandro Magno.
Fuerunt praeterea magni reges ex amicis Alexandri Magni, qui post obitum eius imperia
ceperunt, in his Antigonus et huius filius Demetrius, Lysimachus, Seleucus, Ptolemaeus. 2 Ex his Antigonus in proelio, cum adversus Seleucum et Lysimachum dimicaret, occisus est. Pari leto affectus est Lysimachus ab Seleuco; namque societate dissoluta bellum inter se gesserunt. 3 At Demetrius, cum filiam suam Seleuco in matrimonium dedisset neque eo magis fida inter eos amicitia manere potuisset, captus bello in custodia socer generi periit a morbo. 4 Neque ita multo post Seleucus a Ptolemaeo Cerauno dolo interfectus est, quem ille a patre expulsum Alexandrea, alienarum opum indigentem receperat. Ipse autem Ptolemaeus, cum vivus filio regnum tradidisset, ab illo eodem vita privatus dicitur. 5 De quibus quoniam satis dictum putamus, non incommodum videtur non praeterire Hamilcarem et Hannibalem, quos et animi magnitudine et calliditate omnes in Africa natos praestitisse constat.
Inoltre furono grandi i re tra gli amici di Alessandro Magno, che dopo la sua morte presero i poteri, tra questi Antigono ed il figlio di questi Demetrio, Lisimaco, Seleuco,Tolomeo.
Tra questi Antigono fu ucciso in battaglia, mentre combatteva contro Seleuco e Lisimaco. Di pari morte fu colpito Lisimaco da parte di Seleuco; infatti sciolta l’alleanza, fecero guerra tra loro. Ma Demetrio, avendo dato sua figlia in matrimonio a Seleuco né per ciò avendo potuto rimanere leale l’amicizia tra loro, il suocero catturato in guerra morì nella prigione del genero per malattia. E così non molto dopo Seleuco fu ucciso con l’inganno da Tolomeo Cerano, che egli aveva accolto cacciato dal padre da Alessandria, bisognoso di aiuti esterni.
Poi lo stesso Tolomeo, avendo trasmesso da vivo il regno al figlio, si dice (fu) privato della vita dallo stesso (figlio). Ma su questi poiché pensiamo detto abbastanza, non sembra non inopportuno non tralasciare Amilcare ed Annibale, che risulta aver superato tutti i nati in Africa per grandezza d’animo ed astuzia.
HAMILCAR
AMILCARE
1. De Hamilcaris ferocia et pertinacia in Romanos.
1. Fierezza e tenacia di Amilcare contro i Romani.
Hamilcar, Hannibalis filius, cognomine Barca, Carthaginiensis, primo Poenico bello, sed
temporibus extremis, admodum adulescentulus in Sicilia praeesse coepit exercitui. 2 Cum ante eius adventum et mari et terra male res gererentur Carthaginiensium, ipse, ubi adfuit, numquam
hosti cessit neque locum nocendi dedit saepeque e contrario occasione data lacessivit semperque superior discessit. Quo facto, cum paene omnia in Sicilia Poeni amisissent, ille Erycem sic defendit, ut bellum eo loco gestum non videretur. 3 Interim Carthaginienses classe apud insulas Aegatis a C. Lutatio, consule Romanorum, superati statuerunt belli facere finem eamque rem arbitrio permiserunt Hamilcaris. Ille etsi flagrabat bellandi cupiditate, tamen paci serviundum putavit, quod patriam, exhaustam sumptibus, diutius calamitates belli ferre non posse intellegebat, 4 sed ita, ut statim mente agitaret, si paulum modo res essent refectae, bellum renovare Romanosque armis persequi, donicum aut virtute vicissent aut victi manus dedissent 5 Hoc consilio pacem conciliavit; in quo tanta fuit ferocia, cum Catulus negaret bellum compositurum, nisi ille cum suis, qui Erycem tenuerunt, armis relictis Sicilia decederent, ut succumbente patria ipse periturum se potius dixerit, quam cum tanto flagitio domum rediret. Non enim suae esse virtutis arma a patria accepta adversus hostis adversariis tradere. Huius
pertinaciae cessit Catulus.
Amilcare, figlio di Annibale, di soprannome Barca, cartaginese, nella prima guerra punica, ma negli ultimi tempi, molto giovane cominciò ad essere a capo dell’esercito in Sicilia. Poiché prima del suo arrivo per mare e per terra le cose dei Cartaginesi si mettevano male, lui stesso, quando fu presente, mai cedette al nemico né diede luogo di nuocere e spesso al contrario, presentatasi l’occasione, provocò e sempre uscì vincitore. Per tale fatto, avendo i Punici perduto quasi tutto in Sicilia, egli difese così Erice, che non sembrava fosse stata combattuta una guerra in quel luogo. Intanto i Cartaginesi con la flotta presso le isole Egadi vinti da C. Lutezio, console romano stabilirono di fare la fine della guerra ed affidarono quella cosa all’arbitrio di Amilcare. Egli anche se bruciava dal desiderio di combattere, tuttavia pensò di servire alla pace, perché capiva che la patria, esausta per le spese, non poteva sopportare più a lungo le disgrazie della guerra, ma così da agitare nella mente subito, se un poco le cose si fossero riprese, rinnovare la guerra e perseguire i Romani con la guerra, finché avessero vinto col valore o vinti avessero consegnato le mani. Con questo piano accettò la pace; ed in questo fu di così grande fierezza, quando Catulo diceva che non avrebbe concluso la pace, se egli con i suoi, che tennero Erice, lasciate le armi, non si allontanassero dalla Sicilia, che lui stesso disse che piuttosto sarebbe morto, come se la patria soccombesse, che ritornare in patria con un così grande disonore. Non era infatti (proprio) del suo valore consegnare agli avversari le armi ricevute dalla patria contro i nemici. Alla tenacia di costui Catulo cedette.
2. De Hamilcaris virtute in serranda patria.
2. Coraggio di Amilcare nel salvare la patria.
At ille ut Carthaginem venit, multo aliter, ac sperarat, rem publicam se habentem cognovit.
Namque diuturnitate externi mali tantum exarsit intestinum bellum, ut numquam in pari periculo
fuerit Carthago, nisi cum deleta est. 2 Primo mercennarii milites, qui adversus Romanos
fuerant, desciverunt; quorum numerus erat XX milium. Hi totam abalienarunt Africam, ipsam
Carthaginem oppugnarunt. 3 Quibus malis adeo sunt Poeni perterriti, ut etiam auxilia ab Romanis petierint eaque impetrarint. Sed extremo, cum prope iam ad desperationem pervenissent, Hamilcarem imperatorem fecerunt. 4 Is non solum hostis a muris Carthaginis removit, cum amplius C milia facta essent armatorum, sed etiam eo compulit, ut locorum angustiis clausi plures fame quam ferro interirent. Omnia oppida abalienata, in his Uticam atque Hipponem, valentissima totius Africae, restituit patriae. 5 Neque eo fuit contentus, sed etiam finis imperii propagavit, tota Africa tantum otium reddidit, ut nullum in ea bellum videretur multis annis fuisse.
Ma egli come giunse a Cartagine riconobbe che lo stato si trovava molto diversamente da come aveva sperato.
Infatti per la durata del male estero così tanto arse la guerra intestina che mai Cartagine era stata in pari pericolo, se non quando fu distrutta. Anzitutto i soldati mercenari, che erano stati contro i Romani, si ribellarono; ed il loro numero era di venti migliaia. Questi sollevarono tutta l’Africa, assediarono la stessa Cartagine. Da tali mali i Punici furono così atterriti, che chiesero aiuti anche ai Romani e li ottennero. Ma alla fine, essendo quasi giunti alla disperazione, elessero comandante Amilcare. Egli non solo allontanò i nemici dalle mura di Cartagine, essendo diventate le migliaia di armati più di cento migliaia, ma anche a tanto li costrinse, che parecchi chiusi nelle strettoie dei luoghi perivano più per fame che per ferro. Restituì alla patria tutte le città ribellatesi, tra queste Utica e Ippona, le più forti di tutta l’Africa.
Ma non fu contento di ciò, ma allargò anche i confini dell’impero, per tutta l’Africa portò così tanta pace, che sembrava non ci fosse stata nessuna guerra un essa da molti anni.
3. De Hamilcaris amicitia cum Hasdrubale.
3. Amicizia di Amilcare con Asdrubale.
Rebus his ex sententia peractis, fidenti animo atque infesto Romanis, quo facilius causam
bellandi reperiret, effecit, ut imperator cum exercitu in Hispaniam mitteretur, eoque secum duxit filium Hannibalem annorum novem. 2 Erat praeterea cum eo adulescens illustris, formosus,
Hasdrubal; quem nonnulli diligi turpius, quam par erat, ab Hamilcare loquebantur. Non enim maledici tanto viro deesse poterant. Quo factum est, ut a praefecto morum Hasdrubal cum eo
vetaretur esse. Huic ille filiam suam in matrimonium dedit, quod moribus eorum non poterat interdici socero genero. 3 De hoc ideo mentionem fecimus, quod Hamilcare occiso ille exercitui praefuit resque magnas gessit et princeps largitione vetustos pervertit mores Carthaginiensium eiusdemque post mortem Hannibal ab exercitu accepit imperium.
Realizzate queste cose secondo il piano, con animo fiducioso ed ostile ai Romani, per trovare più facilmente una causa di combattere, fece sì che fosse inviato come comandante con un esercito in Spagna, e là condusse con sé il figlio di nove anni. C’era inoltre con lui un giovane nobile, bello, Asdrubale; ed alcuni dicevano che quello era amato da Amilcare più vergognosamente di quanto (fosse) conveniente. Infatti non potevano mancare i maldicenti per un uomo così grande. Perciò accadde che da parte del responsabile dei costumi Asdrubale fu impedito di stare con lui. Egli diede a costui sua figlia in matrimonio, perché secondo i loro costumi non si poteva vietare al suocero (di convivere) col genero. Di questo abbiamo fatto menzione, per questo, perché, ucciso Amilcare, (Amilcare) presiedette all’esercito e compì grandi cose e per primo con l’elargizione sconvolse i costumi dei Cartaginesi e dopo la sua morte Annibale ebbe dall’esercito il potere.
4. De Hamilcaris consilio in Italiam belli inferendi.
4. Progetto di Amilcare di portare la guerra in Italia.
At Hamilcar posteaquam mare transiit in Hispaniamque venit, magnas res secunda gessit
fortuna; maximas bellicosissimasque gentes subegit; equis, armis, viris, pecunia totam locupletavit Africam. 2 Hic cum in Italiam bellum inferre meditaretur, nono anno, postquam in
Hispaniam venerat, in proelio pugnans adversus Vettones occisus est. 3 Huius perpetuum odium
erga Romanos maxime concitasse videtur secundum bellum Poenicum. Namque Hannibal,
filius eius, assiduis patris obtestationibus eo est perductus, ut interire quam Romanos non experiri mallet.
Ma Amilcare dopo che passò il mare e giunse in Spagna, compì grandi cose con prospera fortuna ; sottomise grandissime e bellicosissime popolazioni; arricchì tutta l’Africa di cavalli, armi, uomini, denaro.
Qui meditando di portare la guerra in Italia, nel nono anno, dopo che era giunto in Spagna, combattendo in uno scontro contro i Vettoni, fu ucciso.
Il perpetuo odio di costui verso i Romani sembra aver particolarmente provocato la seconda guerra punica.
Infatti Annibale, suo figlio, per i continui giuramenti del padre fu condotto al punto di preferire di morire piuttosto che non confrontarsi con i Romani.
HANNIBAL
ANNIBALE
1 De Hannibalis perpetuo odio erga Romanos.
1. Il perpetuo odio di Annibale verso i Romani.
Hannibal, Hamilcaris filius, Carthaginiensis. Si verum est, quod nemo dubitat, ut populus Romanus omnes gentes virtute superarit, non est infitiandum Hannibalem tanto praestitisse ceteros imperatores prudentia, quanto populus Romanus antecedat fortitudine cunctas nationes. 2 Nam quotienscumque cum eo congressus est in Italia, semper discessit superior. Quod nisi domi civium suorum invidia debilitatus esset, Romanos videtur superare potuisse. Sed multorum obtrectatio devicit unius virtutem. 3 Hic autem velut hereditate relictum odium paternum erga Romanos sic conservavit, ut prius animam quam id deposuerit, qui quidem, cum patria pulsus esset et alienarum opum indigeret, numquam destiterit animo bellare cum Romanis.
Annibale, figlio di Amilcare, cartaginese. Se è vero, e nessuno lo dubita, che il popolo romano superò in valore tutti i popoli, non bisogna negare che Annibale tanto primeggiò sugli altri comandanti per saggezza, quanto il popolo romano precede per forza tutte le nazioni. Infatti ogni volta che si scontrò con lui in Italia, sempre ne uscì superiore.
Che se non fosse stato indebolito in patria dall’invidia dei suoi concittadini, sembra che avrebbe potuto superare i Romani. Ma la critica di molti vinse il valore di uno solo. Costui però conservò così l’odio paterno quasi lasciato in eredità contro i Romani, che lasciò prima la vita che quello, lui che proprio, essendo stato cacciato dalla patria e avendo bisogno degli aiuti altrui, mai desistette dal combattere con l’animo contro i Romani.

2. De Hannibalis pueruli iure iurando contra Romanos.
2. Giuramento di Annibale bambino contro i Romani.
Nam ut omittam Philippum, quem absens hostem reddidit Romanis, omnium his temporibus
potentissimus rex Antiochus fuit. Hunc tanta cupiditate incendit bellandi, ut usque a rubro mari
arma conatus sit inferre Italiae. 2 Ad quem cum legati venissent Romani, qui de eius voluntate
explorarent darentque operam, consiliis clandestinis ut Hannibalem in suspicionem regi
adducerent, tamquam ab ipsis corruptus alia atque antea sentiret, neque id frustra fecissent idque Hannibal comperisset seque ab interioribus consiliis segregari vidisset, tempore dato adiit ad regem, 3 eique cum multa de fide sua et odio in Romanos commemorasset, hoc adiunxit: “Pater meus, inquit, Hamilcar puerulo me, utpote non amplius VIIII annos nato, in Hispaniam imperator proficiscens Carthagine, Iovi optimo maximo hostias immolavit. 4 Quae divina res dum conficiebatur, quaesivit a me, vellemne secum in castra proficisci. Id cum libenter accepissem atque ab eo petere coepissem, ne dubitaret ducere, tum ille ”Faciam, inquit, si mihi fidem, quam postulo, dederis. ” Simul me ad aram adduxit, apud quam sacrificare instituerat, eamque ceteris remotis tenentem iurare iussit numquam me in amicitia cum Romanis fore. 5 Id ego ius iurandum patri datum usque ad hanc aetatem ita conservavi, ut nemini dubium esse debeat, quin reliquo tempore eadem mente sim futurus. 6 Quare, si quid amice de Romanis cogitabis, non imprudenter feceris, si me celaris; cum quidem bellum parabis, te ipsum
frustraberis, si non me in eo principem posueris.” Hac igitur, qua diximus, aetate cum patre in
Hispaniam profectus est.
Infatti per tralasciare Filippo, che (Annibale) da lontano rese nemico ai Romani, in questi tempi il re più potente di tutti fu Antioco. Accese costui di così grande desiderio di combattere, che tentò fin dal Mar Rosso di portare armi contro l’Italia. Ed essendo giunti da lui i delegati romani, per esplorare la sua volontà e dare un contributo, con piani segreti, per portare Annibale in sospetto al re, come se (Annibale) corrotto da loro pensasse altre cose rispetto a prima, e non avendo operato ciò invano ed avendolo Annibale saputo e avendo visto che lui era escluso dai piani più segreti, data l’occasione si presentò al re ed avendogli ricordato molte cose sulla propria lealtà e sull’odio contro i Romani, aggiunse questo: “ Mio padre, disse, Amilcare, essendo io bambino, nato da non più di nove anni, recandosi da Cartagine in Spagna come comandante, immolò a giove Massimo delle vittime. E mentre quel rito sacro si compiva, chiese a me se volessi partire con lui verso gli accampamenti.
Avendo io accettato volentieri ed avendo cominciato a chiedergli di non dubitare a condurmi, allora egli “ (Lo) farò, disse, se mi avrai fatto la promessa, che esigo.”
Subito mi condusse all’altare, presso cui aveva deciso di sacrificare e, allontanati gli altri, ordinò che tenendola giurassi che io non sarei mai stato in amicizia con i Romani. Io, quel giuramento fatto al padre, l’ho conservato fino a questa età così, che per nessuno ci sia il dubbio che per il tempo restante io sia destinato ad essere dello stesso parere. Perciò se penserai qualcosa amichevolmente sui Romani, non avrai agito imprudentemente, se me lo nascondi; quando invece preparerai la guerra, danneggerai te stesso, se non mi avrai reso promotore in quello.” Perciò a questa età, di cui parlammo, col padre partì per la Spagna.

3. De Hannibalis Alpium transitu.
2. Passaggio delle Alpi di Annibale.
Cuius post obitum, Hasdrubale imperatore suffecto, equitatui omni praefuit. Hoc quoque
interfecto exercitus summam imperii ad eum detulit. Id Carthaginem delatum publice
comprobatum est. 2 Sic Hannibal, minor V et XX annis natus imperator factus, proximo triennio omnes gentes Hispaniae bello subegit; Saguntum, foederatam civitatem, vi expugnavit; tres exercitus maximos comparavit. 3 Ex his unum in Africam misit, alterum cum Hasdrubale fratre in Hispania reliquit, tertium in Italiam secum duxit. Saltum Pyrenaeum transiit. Quacumque iter fecit, cum omnibus incolis conflixit: neminem nisi victum dimisit. 4 Ad Alpes posteaquam venit, quae Italiam ab Gallia seiungunt, quas nemo umquam cum exercitu ante eum praeter Herculem Graium transierat, quo facto is hodie saltus Graius appellatur, Alpicos conantes prohibere transitu concidit; loca patefecit, itinera muniit, effecit, ut ea elephantus ornatus ire posset, qua antea unus homo inermis vix poterat repere. Hac copias traduxit in Italiamque pervenit.
Dopo la sua (del padre) morte, nominato comandante Asdrubale, fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche questi, l’esercito trasferì a lui la somma del potere.
Ciò riferito a Cartagine fu pubblicamente approvato.
Così Annibale, (nato) minore di venticinque anni, diventato generale, nel triennio successivo sottomise con la guerra tutti i popoli della Spagna; espugnò con la forza Sagunto, città alleata; organizzò tre grandissimi eserciti. Di questi uno lo mandò in Africa, il secondo lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale, il terzo lo condusse con sé in Italia. Passò la catena pirenaica. Dovunque marciò, si scontrò con tutti gli abitanti: non ne lasciò nessuno se non vinto.
Dopo che giunse alle Alpi, che dividono l’Italia dalla Gallia, che nessuno mai con un esercito aveva passato prima di lui eccetto il graio Ercole, e per tale fatto oggi il passo è chiamato Graio, abbattè gli alpigiani che tentavano di bloccarlo nel passaggio; aprì i luoghi, organizzò strade, fece sì che di là potesse passare un elefante equipaggiato, dove prima a fatica un uomo da solo inerme poteva arrampicarsi. Di qui fece tassare le truppe e giunse in Italia.
4. De Hannibalis victoriis in Italia.
4. Le vittorie di Annibale in Italia.
Conflixerat apud Rhodanum cum P. Cornelio Scipione consule eumque pepulerat. Cum hoc
eodem Clastidi apud Padum decernit sauciumque inde ac fugatum dimittit. 2 Tertio idem Scipio
cum collega Tiberio Longo apud Trebiam adversus eum venit. Cum his manum conseruit,
utrosque profligavit. Inde per Ligures Appenninum transiit, petens Etruriam. 3 Hoc itinere adeo gravi morbo afficitur oculorum, ut postea numquam dextro aeque bene usus sit. Qua valetudine cum etiam tum premeretur lecticaque ferretur C. Flaminium consulem apud Trasumenum cum exercitu insidiis circumventum occidit neque multo post C. Centenium praetorem cum delecta manu saltus occupantem. Hinc in Apuliam pervenit. 4 Ibi obviam ei venerunt duo consules, C. Terentius et L. Aemilius. Utriusque exercitus uno proelio fugavit, Paulum consulem occidit et aliquot praeterea consulares, in his Cn. Servilium Geminum, qui superiore anno fuerat consul.
Si era scontrato presso il Rodano con il console P. Cornelio Scipione e lo aveva sconfitto. Con questo stesso a Casteggio presso il Po combatte e lo congeda di lì ferito e messo in fuga. Per la terza volta lo stesso Scipione col collega Tiberio Longo presso la Trebbia venne contro di lui. Con costoro venne alle mani, li sconfisse entrambi. Di lì attraverso i Liguri passò l’Appennino, dirigendosi in Etruria. Durante questa marcia è colpito da una grave malattia degli occhi al punto, che in seguito non usò ugualmente bene l’occhio destro. E pur essendo allora oppresso da questa indisposizione ed essendo trasportato in lettiga uccise presso il lago Trasimeno il console C. Flaminio circondato con l’esercito da un agguato e non molto dopo il pretore C. Centenio che occupava i passi con un manipolo scelto. Di qui giunse in Puglia. Qui gli vennero contro due consoli, C. Terenzio e L. Emilio. Con un solo scontro mise in fuga gli eserciti di entrambi, uccise il console Paolo ed inoltre alcuni ex consoli, tra questi Gn. Servilio Gemino, che l’anno precedente era stato console.

5. De Hannibale in Italia sempre victore.
5. Annibale sempre vincitore in Italia.
Hac pugna pugnata Romam profectus est nullo resistente. In propinquis urbi montibus moratus est. Cum aliquot ibi dies castra habuisset et Capuam reverteretur, Q. Fabius Maximus,
dictator Romanus, in agro Falerno ei se obiecit. 2 Hic clausus locorum angustiis noctu sine ullo
detrimento exercitus se expedivit; Fabioque, callidissimo imperatori, dedit verba. Namque
obducta nocte sarmenta in cornibus iuvencorum deligata incendit eiusque generis multitudinem
magnam dispalatam immisit. Quo repentino obiecto visu tantum terrorem iniecit exercitui
Romanorum, ut egredi extra vallum nemo sit ausus. 3 Hanc post rem gestam non ita multis
diebus M. Minucium Rufum, magistrum equitum pari ac dictatorem imperio, dolo productum in
proelium fugavit. Tiberium Sempronium Gracchum, iterum consulem, in Lucanis absens in
insidias inductum sustulit. M. Claudium Marcellum, quinquies consulem, apud Venusiam pari modo interfecit. 4 Longum est omnia enumerare proelia. Quare hoc unum satis erit dictum, ex quo intellegi possit, quantus ille fuerit: quamdiu in Italia fuit, nemo ei in acie restitit, nemo adversus eum post Cannensem pugnam in campo castra posuit.
Combattuta questa battaglia partì per Roma, non resistendogli nessuno. Si fermò su monti vicini alla città.
Avendo posto qui gli accampamenti per alcuni giorni e ritornando a Capua, Q. Fabio Massimo, dittatore romano, gli si oppose nel territorio di Falerno. Qui, chiuso dalle strettezze del luogo, di notte si liberò senza alcun danno dell’esercito; ed ingannò (diede parole a) Fabio, comandante molto scaltro. Infatti calata la notte incendiò le sterpaglie legate sulle corna di giovenchi ed ne lanciò, sparpagliata, una gran quantità di tal genere.
presentatasi quella vista improvvisa, incusse un così grande terrore all’esercito dei Romani, che nessuno osò uscire fuori dal vallo.
Dopo questa impresa non dopo molti giorni mise in fuga M. Minucio Rufo, comandante dei cavalieri con potere pari a dittatore, indotto allo scontro con l’inganno.
Assente tolse di mezzo Tiberio Gracco, console per la seconda volta, attratto in agguato nei Lucani. Allo stesso modo uccise M. Claudio Marcello, console per la quinta volta, presso Venosa.
Eè lungo enumerare tutte le battaglie.
Perciò sarè detto solo questo, da cui si potrà capire, quanto egli sia stato grande: fin che fu in Italia, nessuno gli resistette sul campo, nessuno dopo la battaglia di Canne pose gli accampamenti contro di lui in campo aperto.
6. De Hannibale apud Zamam victo.
6. Annibale vinto a Zama.
Hinc invictus patriam defensum revocatus bellum gessit adversus P. Scipionem, filium eius, quem ipse primo apud Rhodanum, iterum apud Padum, tertio apud Trebiam fugarat. 2 Cum hoc exhaustis iam patriae facultatibus cupivit impraesentiarum bellum componere, quo valentior postea congrederetur. In colloquium convenit; condiciones non convenerunt. 3 Post id factum
paucis diebus apud Zamam cum eodem conflixit: pulsus - incredibile dictu - biduo et duabus
noctibus Hadrumetum pervenit, quod abest ab Zama circiter milia passuum trecenta. 4 In hac
fuga Numidae, qui simul cum eo ex acie excesserant, insidiati sunt ei; quos non solum effugit, sed etiam ipsos oppressit. Hadrumeti reliquos e fuga collegit; novis dilectibus paucis diebus multos contraxit.
Di qui, invitto, richiamato per difendere la patria fece la guerra contro Publio Scipione, figlio di quello, che lui stesso aveva messo in fuga prima presso il Rodano, poi presso il Po, la terza volta presso la Trebbia. Con costui, esaurite ormai le forze della patria, desiderò per allora chiudere la guerra, per scontrarsi in seguito più potente. Venne al colloquio; non s’accordarono sulle condizioni. Dopo tale fatto entro pochi giorni si scontrò con lo stesso presso Zama: sconfitto – incredibile a dirsi – in due giorni e tre notti giunse ad Agrumeto, che dista da Zama circa trecento migliaia di passi.
In questa fuga i Numidi che insieme con lui erano scampati dallo scontro, gli tesero un agguato; e non solo li sfuggì, ma addirittura li annientò.
Ad Adrumeto raccolse gli altri dalla fuga; con nuovi arruolamenti in pochi giorni riunì molti.
7. De Hannibalis fuga ad Antiochum.
7. Fuga di Annibale presso Antioco.
Cum in apparando acerrime esset occupatus, Carthaginienses bellum cum Romanis
composuerunt. Ille nihilo setius exercitui postea praefuit resque in Africa gessit usque ad P. Sulpicium C. Aurelium consules. 2 His enim magistratibus legati Carthaginienses Romam venerunt, qui senatui populoque Romano gratias agerent, quod cum iis pacem fecissent, ob eamque rem corona aurea eos donarent simulque peterent, ut obsides eorum Fregellis essent captivique redderentur. 3 His ex senatus consulto responsum est: munus eorum gratum acceptumque esse; obsides, quo loco rogarent, futuros; captivos non remissuros, quod Hannibalem, cuius opera susceptum bellum foret, inimicissimum nomini Romano, etiamnum cum imperio apud exercitum haberent itemque fratrem eius Magonem. 4 Hoc responso Carthaginienses cognito Hannibalem domum et Magonem revocarunt. Huc ut rediit, rex factus est, postquam praetor fuerat, anno secundo et vicesimo. Ut enim Romae consules, sic Carthagine quotannis annui bini reges creabantur. 5 In eo magistratu pari diligentia se Hannibal praebuit, ac fuerat in bello. Namque effecit, ex novis vectigalibus non solum ut esset pecunia, quae Romanis ex foedere penderetur, sed etiam superesset, quae in aerario reponeretur. 6 Deinde anno post M. Claudio L. Furio consulibus Roma legati Carthaginem venerunt. Hos Hannibal ratus sui exposcendi gratia missos, priusquam iis senatus daretur, navem ascendit clam atque in Syriam ad Antiochum profugit. 7 Hac re palam facta Poeni naves duas, quae eum comprehenderent, si possent consequi, miserunt, bona eius publicarunt, domum a fundamentis disiecerunt, ipsum exulem iudicarunt.
Essendo impegnato nel prepararsi molto accanitamente, i Cartaginesi conclusero la guerra con i Romani.
Non di meno egli fu ancora a capo dell’esercito ed in Africa fece imprese fino al consolato di P. Sulpicio e C. Aurelio. Essendo infatti essi magistrati, i delegati cartaginesi vennero a Roma, per rendere grazie a senato ed al popolo romano, perché avevano fatto la pace con loro, e per tale cosa premiarli con una corona d’oro ed allo stesso tempo chiedere che i loro ostaggi fossero a Fregelle e fossero restituiti i prigionieri.
A questi per decisione del senato fu risposto: il loro dono era gradito ed accetto; gli ostaggi sarebbero stati, nel luogo che chiedevano; non avrebbero restituito i prigionieri, perché tenevano Annibale, per la cui opera era scoppiata la guerra, inimicassimo al nome romano, ed ugualmente suo fratello Magone ancora con potere presso l’esercito. Saputa questa risposta, i Cartaginesi richiamarono Annibale e Magone. Come ritornò qui, fu fatto re, dopo che era stato comandante per il ventiduesimo anno. Infatti come i consoli a Roma, così a Cartagine ogni anno erano eletti due re. In quella magistratura Annibale si presentò con la stessa premura con cui era stato in guerra. Infatti fece sì che da nuovi tributi non solo ci fosse denaro, da pagare ai Romani secondo il patto, ma anche avanzasse, per essere riposto nell’erario. Poi l’anno dopo, sotto il consolato di M. Claudio e L. Furio, vennero ambasciatori da Roma a Cartagine.
Annibale pensando che costoro fossero stati inviati per richiedere lui, prima che ad essi fosse aperto il senato, salì su di una nave di nascosto e si rifugiò in Siria presso Antioco. Resa pubblicamente la cosa, i Punici inviarono due navi, che lo catturassero, se potevano raggiungerlo, confiscarono i suoi beni, distrussero la casa dalle fondamenta, lo dichiararono esule.
8. De Hannibalis opera apud Antiochum.
8. Attività di Annibale presso Antioco.
At Hannibal anno tertio, postquam domo profugerat, L. Cornelio Q. Minucio consulibus,
cum V navibus Africam accessit in finibus Cyrenaeorum si forte Carthaginienses ad bellum
Antiochi spe fiduciaque inducere posset, cui iam persuaserat, ut cum exercitibus in Italiam
proficisceretur. Huc Magonem fratrem excivit. 2 Id ubi Poeni resciverunt, Magonem eadem, qua fratrem, absentem affecerunt poena. Illi desperatis rebus cum solvissent naves ac vela ventis dedissent, Hannibal ad Antiochum pervenit. De Magonis interitu duplex memoria prodita est. Namque alii naufragio, alii a servolis ipsius interfectum eum scriptum reliquerunt. 3 Antiochus autem, si tam in agendo bello consiliis eius parere voluisset, quam in suscipiendo instituerat, propius Tiberi quam Thermopylis de summa imperii dimicasset. Quem etsi multa stulte conari videbat, tamen nulla deseruit in re. 4 Praefuit paucis navibus, quas ex Syria iussus erat in Asiam ducere, hisque adversus Rhodiorum classem in Pamphylio mari conflixit. Cum multitudine adversariorum sui superarentur, ipse, quo cornu rem gessit, fuit superior.
Ma Annibale, nel terzo anno, da che era fuggito dalla patria, sotto il consolato di L. Cornelio e Q. Minucio, con cinque navi approdò in Africa nei territori dei Cirenei, se per caso potesse indurre i Cartaginesi alla guerra nella speranza e sicurezza di Antioco, che già aveva persuaso, a partire verso l’Italia con gli eserciti.
Qui chiamò il fratello Magone.
Quando i Punici seppero ciò, colpirono Magone con la stessa pena, con cui (avevano colpito) il fratello. Essendo le cose disperate, avendo essi sciolte le navi e le vele ai venti, Annibale giunse da Antioco. Sulla morte di Magone è stata tramandata una duplice storia.
Infatti alcuni lasciarono scritto che (morì) per un naufragio, altri che fu ucciso dai suoi schiavetti. Antioco però se avesse voluto obbedire ai suoi consigli tanto nel fare la guerra quanto aveva stabilito nell’intraprenderla, avrebbe combattuto più vicino al Tevere che alle Termopili per l’egemonia del potere. Anche se (Annibale) lo (Antioco) vedeva tentare molte cose stoltamente, tuttavia non l’abbandonò in nessuna cosa. Fu a capo delle poche navi, che era stato incaricato di condurre in Asia, e con queste si scontro contro la flotta dei rodesi nel mare della Panfilia. Essendo i suoi vinti dalla moltitudine degli avversari, egli, con l’ala con cui fece l’impresa, fu vincitore.

9. De Cretensium avaritia et Hannibalis calliditate.
9. Avidità dei Cretesi ed astuzia di Annibale.
Antiocho fugato verens, ne dederetur, quod sine dubio accidisset, si sui fecisset potestatem, Cretam ad Gortynios venit, ut ibi, quo se conferret, consideraret. 2 Vidit autem vir omnium callidissimus in magno se fore periculo, nisi quid providisset, propter avaritiam Cretensium.
Magnam enim secum pecuniam portabat, de qua sciebat exisse famam. 3 Itaque capit tale consilium. Amphoras complures complet plumbo, summas operit auro et argento. Eas praesentibus principibus deponit in templo Dianae, simulans se suas fortunas illorum fidei credere. His in errorem inductis statuas aeneas, quas secum portabat, omni sua pecunia complet easque in propatulo domi abicit. 4 Gortynii templum magna cura custodiunt non tam a ceteris quam ab Hannibale, ne ille inscientibus iis tolleret secumque duceret.
Messo in fuga Antioco, temendo di essere consegnato, cosa che senza dubbio sarebbe accaduta, se avessero avuto il potere di lui (della sua persona), giunse a Creta presso i Gortini, per riflettere qui dove recarsi. Ma l’uomo più astuto di tutti vide che sarebbe stato in grande pericolo, se non avesse provveduto qualcosa, per l’avidità dei Cretesi. Infatti portava con sè molto denaro, di cui sapeva essere uscita la notorietà. E così prese tale decisione. Riempie di piombo parecchie anfore, copre le sommità d’oro e d’argento. Le depone, presenti i capi, nel tempio di Diana, simulando di affidare le se fortune alla loro lealtà. Indotti costoro in errore, riempie statue di bronzo, che portava con sé, con tutto il suo denaro e le butta nel cortile di casa.
I Gortini custodiscono il tempio con gran cura non tanto dagli altri quanto da Annibale, perché, a loro insaputa, lui non lo prendesse e lo portasse con sé.
10. De Hannibalis consilio Eumenis regis interficiendi.
10. Piano di Annibale di uccidere il re Eumene.
Sic conservatis suis rebus Poenus illusis Cretensibus omnibus ad Prusiam in Pontum
pervenit. Apud quem eodem animo fuit erga Italiam neque aliud quicquam egit quam regem
armavit et exercuit adversus Romanos. 2 Quem cum videret domesticis opibus minus esse robustum, conciliabat ceteros reges, adiungebat bellicosas nationes. Dissidebat ab eo Pergamenus rex Eumenes, Romanis amicissimus, bellumque inter eos gerebatur et mari et terra; 3 sed utrobique Eumenes plus valebat propter Romanorum societatem. Quo magis cupiebat eum Hannibal opprimi; quem si removisset, faciliora sibi cetera fore arbitrabatur. Ad hunc interficiundum talem iniit rationem. 4 Classe paucis diebus erant decreturi. Superabatur navium multitudine; dolo erat pugnandum, cum par non esset armis. Imperavit quam plurimas venenatas serpentes vivas colligi easque in vasa fictilia conici. 5 Harum cum effecisset magnam multitudinem, die ipso, quo facturus erat navale proelium, classiarios convocat hisque praecipit, omnes ut in unam Eumenis regis concurrant navem, a ceteris tantum satis habeant se defendere. Id illos facile serpentium multitudine consecuturos. 6 Rex autem in qua nave veheretur, ut scirent, se facturum. Quem si aut cepissent aut interfecissent, magno iis pollicetur praemio fore.
Salvate così le sue cose, il punico, illusi tutti i Cretesi giunse nel Ponto presso Prusia.
Ma presso di lui fu dello stesso animo verso l’Italia e non fece nient’altro che armare il re e spingerlo contro i Romani. Vedendo che egli (il re) era meno potente di sostanze interne, alleava altri re, aggiungeva popoli bellicosi.
Dissentiva da lui il re di Pergamo, Eumene, amicissimo per i Romani, e tra loro si faceva la guerra per mare e per terra; ma in entrambi i luoghi Eumene era più forte
a causa dell’alleanza dei Romani.
Per questo Annibale desiderava che fosse ucciso; se lo avesse tolto di mezzo, pensava che per lui le altre cose sarebbero state più facili. Per uccidere costui intraprese tale piano. Stavano per combattere con la flotta entro pochi giorni. Era superato dalla moltitudine delle navi; bisognava combattere con l’inganno, non essendo pari per le armi. Comandò che si raccogliessero serpenti velenosi vivi, il maggior numero possibile, e di gettarli in vasi di terracotta. Avendone fatta una grande quantità, il giorno stesso, in cui aveva intenzione di fare la battaglia navale, chiama i marinai e ad essi comanda di correre tutti contro la sola nave del re Eumene, dagli altri considerassero sufficiente difendersi. Essi avrebbero raggiunto facilmente ciò con la quantità di serpenti. Egli avrebbe fatto (in modo) che sapessero, in quale nave fosse trasportato il re. Se l’avessero o preso o ucciso, prometteva per loro sarebbe stato di grosso guadagno.
11. De Hannibalis consilio contra Eumenem regem.
11. Stratagemma di Annibale contro il re Eumene.
Tali cohortatione militum facta classis ab utrisque in proelium deducitur. Quarum acie constituta, priusquam signum pugnae daretur, Hannibal, ut palam faceret suis, quo loco Eumenes esset, tabellarium in scapha cum caduceo mittit. 2 Qui ubi ad naves adversariorum pervenit epistulamque ostendens se regem professus est quaerere, statim ad Eumenem deductus est, quod nemo dubitabat, quin aliquid de pace esset scriptum. Tabellarius ducis nave declarata suis eodem, unde erat egressus, se recepit. 3 At Eumenes soluta epistula nihil in ea repperit, nisi quae ad irridendum eum pertinerent. Cuius etsi causam mirabatur neque
reperiebat, tamen proelium statim committere non dubitavit. 4 Horum in concursu Bithynii Hannibalis praecepto universi navem Eumenis adoriuntur. Quorum vim rex cum sustinere non
posset, fuga salutem petit; quam consecutus non esset, nisi intra sua praesidia se recepisset,
quae in proximo litore erant collocata. 5 Reliquae Pergamenae naves cum adversarios premerent
acrius, repente in eas vasa fictilia, de quibus supra mentionem fecimus, conici coepta sunt.
Quae iacta initio risum pugnantibus concitarunt, neque, quare id fieret, poterat intellegi. 6 Postquam autem naves suas oppletas conspexerunt serpentibus, nova re perterriti, cum, quid
potissimum vitarent, non viderent, puppes verterunt seque ad sua castra nautica rettulerunt. 7
Sic Hannibal consilio arma Pergamenorum superavit neque tum solum, sed saepe alias
pedestribus copiis pari prudentia pepulit adversarios.
Fatta tale esortazione dei soldati, la flotta è condotta allo scontro da entrambi. Disposto il loro ordine, prima che fosse dato il segnale della battaglia, Annibale, per manifestare apertamente, in quale luogo fosse Eumene, manda su scialuppa un messo col caduceo. Quando egli giunse alle navi degli avversari e mostrando la lettera dichiarò di cercare il re, subito fu condotto da Eumene, perché nessuno dubitava, che ci fosse scritto qualcosa sulla pace. Il messo, rivelata ai suoi la nave del comandante, si ritirò nello stesso posto da cui era partito. Ma Eumene, sciolta la lettera, in essa non trovò nulla, se non cose che miravano a deriderlo. Anche se si meravigliava del motivo di quella cosa e non lo trovava, tuttavia non dubitò di attaccare battaglia. Nell’attacco di costoro i Bitini, secondo il comando di Annibale, tutti insieme assalgono la nave di Eumene. Ma non potendo il re sostenere la violenza di quello, cerca la salvezza con la fuga; e non l’avrebbe raggiunta, se non si fosse ritirato fra le sue guarnigioni, che erano state collocate sul litorale vicino. Mentre le altre navi di Pergamo incalzavano gli avversari piuttosto accanitamente, subito cominciarono ad essere lanciate contro di esse i vasi di terracotta, di cui abbiamo fatto menzione sopra. Il loro lancio (quelle scagliate) all’inizio eccitarono il riso ai combattenti, né si poteva capire, perché si facesse ciò. Ma dopo che videro le loro navi riempite di serpenti, atterriti dalla cosa nuova, non potendo vedere, cosa evitare particolarmente, volsero le poppe e si riportarono alle loro basi nautiche. Così Annibale con uno stratagemma vinse le armi dei Pergameni e non solo allora, ma altre volte spesso con pari avvedutezza respinse gli avversari con truppe di fanteria.
12. De Hannibalis interitu.
12. Morte di Annibale.
Quae dum in Asia geruntur, accidit casu, ut legati Prusiae Romae apud T. Quintium Flamininum consularem cenarent atque ibi de Hannibale mentione facta ex his unus diceret eum in Prusiae regno esse. 2 Id postero die Flamininus senatui detulit. Patres conscripti, qui Hannibale vivo numquam se sine insidiis futuros existimarent, legatos in Bithyniam miserunt, in his Flamininum, qui ab rege peterent, ne inimicissimum suum secum haberet sibique dederet. 3 His Prusia negare ausus non est: illud recusavit, ne id a se fieri postularent, quod adversus ius hospitii esset: ipsi, si possent, comprehenderent; locum ubi esset, facile inventuros. Hannibal enim uno loco se tenebat, in castello, quod ei a rege datum erat muneri, idque sic aedificarat, ut in omnibus partibus aedificii exitus haberet, scilicet verens, ne usu veniret, quod accidit. 4 Huc cum legati Romanorum venissent ac multitudine domum eius circumdedissent, puer ab ianua prospiciens Hannibali dixit plures praeter consuetudinem armatos apparere. Qui imperavit ei, ut omnes fores aedificii circumiret ac propere sibi nuntiaret, num eodem modo undique obsideretur. 5 Puer cum celeriter, quid esset, renuntiasset omnisque exitus occupatos ostendisset, sensit id non fortuito factum, sed se peti neque sibi diutius vitam esse retinendam. Quam ne alieno arbitrio dimitteret, memor pristinarum virtutum venenum, quod semper secum habere consuerat, sumpsit.
Mentre queste cose si facevano in Asia, accadde per caso che delegati di Prusia cenassero a Roma presso T. Quinzio Flaminino e lì, fatta menzione di Annibale, uno tra questi dicesse che lui era nel regno di Prusia. Il giorno dopo Flaminino riferì ciò al senato. I padri senatori, che ritenevano che, vivo Annibale, mai sarebbero stati senza insidie, mandarono delegati in Bitinia, tra questi Flaminino, per chiedere al re di non tenere con sé il loro massimo nemico e di consegnarlo loro. A costoro Prusia non osò dire di no: rifiutò questo, che non chiedessero che fosse fatto da lui ciò che era contro il diritto di ospitalità: loro stessi, se potevano, lo catturassero; avrebbero trovato facilmente il luogo dove era. Annibale infatti si teneva in un solo luogo, in una fortezza, che gli era stata data in regalo dal re, e così l’aveva ristrutturata, che avesse in tutte le parti dell’edificio delle uscite, temendo senz’altro, che venisse in utilità, cosa che accadde. Qui essendo giunti i delegati dei Romani ed avendo circondato con una moltitudine la casa, un servo guardando dalla porta, disse ad Annibale che apparivano parecchi armati, fuori dell’ordinario. Ed egli gli comandò di controllare tutte le porte dell’edificio e celermente gli riferisse, se fosse assediato da ogni parte allo stesso modo. Avendogli il servo riferito celermente, cosa ci fosse, e avendo dichiarato occupate tutte le uscite, capì che ciò non era avvenuto fortuitamente, ma che era ricercato e che non doveva mantenere più a lungo la vita. E per non consegnarla all’arbitrio altrui, memore delle antiche doti, assunse il veleno, che aveva usato avere sempre con sé.
13. De Hannibalis libris Graeco sermone confectis.
13. I libri di Annibale compilati in lingua greca.
Sic vir fortissimus, multis variisque perfunctus laboribus, anno acquievit septuagesimo. Quibus consulibus interierit, non convenit. Namque Atticus M. Claudio Marcello Q. Fabio Labeone consulibus mortuum in annali suo scriptum reliquit, at Polybius L. Aemilio Paulo Cn. Baebio Tamphilo, Sulpicius autem Blitho P. Cornelio Cethego M. Baebio Tamphilo. 2 Atque hic tantus vir tantisque bellis districtus nonnihil temporis tribuit litteris. Namque aliquot eius libri sunt, Graeco sermone confecti, in his ad Rhodios de Cn. Manlii Volsonis in Asia rebus gestis. 3 Huius belli gesta multi memoriae prodiderunt, sed ex his duo, qui cum eo in castris fuerunt simulque vixerunt, quamdiu fortuna passa est, Silenus et Sosylus Lacedaemonius. Atque hoc Sosylo Hannibal litterarum Graecarum usus est doctore. 4 Sed nos tempus est huius libri facere finem et Romanorum explicare imperatores, quo facilius collatis utrorumque factis, qui viri praeferendi sint, possit iudicari.
Così un uomo fortissimo, dopo aver assolto molte e varie fatiche, si riposò a settant’anni. Non c’è accordo sotto quali consoli sia morto. Infatti Attico lasciò scritto nel suo annale che morì sotto M. Claudio Marcello e Q. Fabio La beone, ma Polibio sotto L. Aemilio Paolo e Gn. Bebio Tamfilo, Sulpicio infine sotto Blito P. Cornelio Cetego e M. Bebio Tamfilo.
Ma questo uomo così grande e preso da così grandi guerre concesse un poco di tempo alle lettere. Infatti ci sono alcuni suoi libri, scritti in lingua greca, tra questi (uno dedicato) ai rodesi sulle cose compiute in Asia di Gn. Manlio Volsone. Molti consegnarono alla storia le imprese di questa guerra , ma tra questi due, che furono con lui e vissero insieme negli accampamenti, fin che fortuna lo permise, Sileno e Rosilo spartano.
E Annibale si servì di questo Rosilo come maestro delle lettere greche. Ma è tempo che noi mettiamo la fine di questo libro e raccontiamo i comandanti dei Romani, perché, confrontate le imprese degli uni e degli altri, più facilmente si possa giudicare quali uomini siano da preferire.
EX LIBRIS CORNELII NEPOTIS
DE LATINIS HISTORICIS
DAI LIBRI DI CORNELIO NEPOTE SUGLI STORICI LATINI

M. CATO
M. CATO
1. De Catonis cursu honorum.
1. La carriera politica di Catone.
M. Cato, ortus municipio Tusculo adulescentulus, priusquam honoribus operam daret, versatus est
in Sabinis, quod ibi heredium a patre relictum habebat. Inde hortatu L. Valerii Flacci, quem in consulatu censuraque habuit collegam, ut M. Perpenna censorius narrare solitus est, Romam demigravit in foroque esse coepit. 2 Primum stipendium meruit annorum decem septemque. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit. Inde ut rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam, quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. 3 Quaestor obtigit P. Africano consuli; cum quo non pro sortis necessitudine vixit: namque ab eo perpetua dissensit vita. 4
Aedilis plebi factus est cum C. Helvio. Praetor provinciam obtinuit Sardiniam, ex qua, quaestor superiore tempore ex Africa decedens, Q. Ennium poetam deduxerat; quod non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum.
M. Catone, nato nel municipio di Tuscolo, da giovane, prima di impegnarsi nelle cariche (pubbliche), dimorò nei Sabini, perché aveva un podere lasciato dal padre. Poi su esortazione di L. Valerio Flacco, che ebbe come collega nel consolato e nella censura, come fu solito narrare M. Per penna ex censore, emigrò a Roma e cominciò ad essere nel foro. Dapprima si arruolò a diciassette anni. Sotto il consolato di Q. Fabio e M. Claudio fu tribuno dei soldati in Sicilia. Poi come tornò, seguì gli accampamenti di C. Claudio Nerone, e fu valutata molto la sua opera nella battaglia presso Siena, dove cadde Asdrubale, fratello di Annibale. Come questore toccò in sorte al console P. Africano; e con lui non visse per il legame della sorte: infatti da lui dissentì per tutta la vita. Diventò edile per la plebe con C. Elvio. Da pretore ottenne la provincia della Sardegna, dalla quale, ritornando dall’Africa l’anno precedente come questore, aveva portato il poeta Ennio; e questo non lo valutiamo di meno di qualsiasi splendidissimo trionfo sardo.
2. De Catonis virtutum laude.
2. Elogio delle virtù di Catone.
Consulatum gessit cum L. Valerio Flacco, sorte provinciam nactus Hispaniam citeriorem, exque ea
triumphum deportavit. 2 Ibi cum diutius moraretur, P. Scipio Africanus, consul iterum, cuius in priori consulatu quaestor fuerat, voluit eum de provincia depellere et ipse ei succedere neque hoc per senatum efficere potuit, cum quidem Scipio principatum in civitate obtineret, quod tum non potentia, sed iure res publica administrabatur. Qua ex re iratus senatu, consulatu peracto privatus in urbe mansit. 3 At Cato, censor cum eodem Flacco factus, severe praefuit ei potestati. Nam et in complures nobiles animadvertit et multas res novas in edictum addidit, qua re luxuria reprimeretur, quae iam tum incipiebat pullulare. 4 Circiter annos octoginta, usque ad extremam aetatem ab adulescentia, rei publicae causa suscipere inimicitias non destitit. A multis temptatus non modo nullum detrimentum existimationis fecit, sed, quoad vixit, virtutum laude crevit.
Esercitò il consolato con L. Valerio Flacco, ottenuta per sorteggio la provincia della Gallia citeriore e da essa riportò un trionfo. Avendo dimorato piuttosto a lungo, P. Cornelio Africano, console per la seconda volta, nel precedente consolato del quale era stato questore, volle cacciarlo dalla provincia e lui stesso succedergli e non potè effettuare questo per mezzo del senato, pur ottenendo certamente Scipione il primato in città, perché allora lo stato era amministrato non dalla potenza, ma dal diritto. Per tale cosa adirato col senato, concluso il consolato. Rimase in città come privato (cittadino). Ma Catone, diventato censore con lo stesso Flacco, fu a capo di quella carica severamente. Infatti prese provvedimenti contro parecchi nobili ed aggiunse nell’editto molte cose nuove, per cui fosse represso il lusso, che già allora cominciava a pullulare. A circa ottant’anni fino alla età estrema dalla giovinezza, non desistette di attirare inimicizie a causa dello stato. Attaccato da molti non solo non ebbe danno alcuno della stima, ma, fin che visse, crebbe nell’elogio delle virtù.
3. De Catone litterarum cupidissimo.
3. Catone appassionatissimo di letteratura.
In omnibus rebus singulari fuit industria. Nam et agricola sollers et peritus iuris consultus et magnus imperator et probabilis orator et cupidissimus litterarum fuit. 2 Quarum studium etsi senior arripuerat, tamen tantum progressum fecit, ut non facile reperiri possit neque de Graecis neque de Italicis rebus, quod ei fuerit incognitum. Ab adulescentia confecit orationes. Senex historias scribere instituit. 3 Earum sunt libri VII. Primus continet res gestas regum populi Romani: secundus et tertius, unde quaeque civitas
orta sit Italica; ob quam rem omnes Origines videtur appellasse. In quarto autem bellum Poenicum est primum, in quinto secundum. 4 Atque haec omnia capitulatim sunt dicta. Reliquaque bella pari modo persecutus est usque ad praeturam Servii Galbae, qui diripuit Lusitanos; atque horum bellorum duces non
nominavit, sed sine nominibus res notavit. In eisdem exposuit, quae in Italia Hispaniisque aut fierent aut viderentur admiranda. In quibus multa industria et diligentia comparet, nulla doctrina. 5 Huius de vita et moribus plura in eo libro persecuti sumus, quem separatim de eo fecimus rogatu T. Pomponii Attici. Quare studiosos Catonis ad illud volumen delegamus.
In tutte le cose fu di singolare attività. Infatti fu sia agricoltore solerte, sia esperto giureconsulto, sia grande generale, sia gradito oratore, sia molto appassionato di letteratura. Il cui studia anche se l’aveva intrapreso da anziano, tuttavia fece un così grande progresso, che non facilmente può essere trovato né sulle cose greche né sulle italiche, cosa che gli sia stata sconosciuta.
Dalla giovinezza produsse discorsi. Da vecchio decise di scrivere le storie. Di esse ci sono sette libri. Il primo contiene le cose compiute del popolo romano: il secondo ed il terzo, da dove ogni città italica sia nata; per la qual cosa sembra le avesse chiamate Origini.
Nel quarto poi c’è la prima guerra punica, nel quarto la seconda.
E tutte queste cose sono state dette per sommi capi.
Continuò in ugual modo le altre guerre fino alla pretura di Servio Galba, che saccheggiò i Lusitani; ma di queste guerre non nominò i comandanti, ma annotò le cose senza i nomi. Negli stessi (libri) espose, le cose che o accadevano in Italia e nelle Spagne o sembravano da ammirare. Ed in essi appare molto impegno e diligenza, nessuna erudizione.
Sulla vita e sui costumi di costui parecchie cose abbiamo trattato in quel libro, che separatamente facemmo su di lui su richiesta di T. Pomponio Attico. Perciò rimandiamo gli appassionati di Catoni a quel volume.
ATTICUS
ATTICO
1. De Attici mira pueritia.
1. Straordinaria fanciullezza di Attico.
T. Pomponius Atticus, ab origine ultima stirpis Romanae generatus, perpetuo a maioribus
acceptam equestrem obtinuit dignitatem. 2 Patre usus est diligente et, ut tum erant tempora, diti in
primisque studioso litterarum. Hic, prout ipse amabat litteras, omnibus doctrinis, quibus puerilis aetas impertiri debet, filium erudivit. 3 Erat autem in puero praeter docilitatem ingenii summa suavitas oris atque vocis, ut non solum celeriter acciperet, quae tradebantur, sed etiam excellenter pronuntiaret. Qua ex re in pueritia nobilis inter aequales ferebatur clariusque exsplendescebat, quam generosi condiscipuli animo aequo ferre possent. 4 Itaque incitabat omnes studio suo. Quo in numero fuerunt L. Torquatus, C. Marius filius, M. Cicero; quos consuetudine sua sic devinxit, ut nemo his perpetuo fuerit carior.
T. Pomponio Attico, nato da antichissima origine della stirpe romana, mantenne la dignità equestre perpetuamente trasmessa dagli antenati. Si avvalse di un padre attento e, come erano allora i tempi, ricco e soprattutto appassionato di letteratura. Costui, nella misura in cui amava la letteratura, istruì il figlio, in tutte le discipline, con cui l’età di bambino deve essere fatta partecipe. C’era poi nel ragazzo oltre l’attitudine dell’ingegno somma gradevolezza dell’atteggiamento e della voce, tanto che non solo apprendeva celermente, le cose che erano insegnate, ma anche le esponeva eccellentemente. Perciò nella fanciullezza era considerato notevole tra i coetanei e risplendeva più brillantemente di quanto i nobili condiscepoli potessero sostenere con animo sereno. E così incitava tutti col suo impegno. In quel numero ci furono L. Torquato, C. Mario figlio, M. Cicerone; ma con la sua famigliarità li avvinse tanto che nessuno fu loro più caro per sempre.
2. De Attici vita Athenis.
2 Vita di Attico sd Atene.
Pater mature decessit. Ipse adulescentulus propter affinitatem P. Sulpicii, qui tribunus plebi interfectus est, non expers fuit illius periculi. Namque Anicia, Pomponii consobrina, nupserat Servio, fratri Sulpicii. 2 Itaque interfecto Sulpicio, posteaquam vidit Cinnano tumultu civitatem esse perturbatam neque sibi dari facultatem pro dignitate vivendi, quin alterutram partem offenderet, dissociatis animis civium, cum alii
Sullanis, alii Cinnanis faverent partibus, idoneum tempus ratus studiis obsequendi suis, Athenas se
contulit. Neque eo setius adulescentem Marium hostem iudicatum iuvit opibus suis, cuius fugam pecunia sublevavit. 3 Ac ne illa peregrinatio detrimentum aliquod afferret rei familiari, eodem magnam partem fortunarum traiecit suarum. Hic ita vixit, ut universis Atheniensibus merito esset carissimus. 4 Nam praeter gratiam, quae iam in adulescentulo magna erat, saepe suis opibus inopiam eorum publicam levavit. Cum enim versuram facere publice necesse esset neque eius condicionem aequam haberent, semper se
interposuit atque ita, ut neque usuram umquam ab iis acceperit neque longius, quam dictum esset, debere passus sit. 5 Quod utrumque erat iis salutare. Nam neque indulgendo inveterascere eorum aes alienum patiebatur neque multiplicandis usuris crescere. 6 Auxit hoc officium alia quoque liberalitate. Nam universos frumento donavit, ita ut singulis sex modii tritici darentur; qui modus mensurae medimnus
Athenis appellatur.
Il padre morì presto. Egli giovanetto per la parentela di P. Sulpicio, che da tribuno della plebe fu ucciso, non fu esente da quel pericolo.
Infatti Anicia, cugina di Pomponio, aveva sposato Servio, fratello di Sulpicio. E così ucciso Sulpicio, dopo che vide che la città era stata sconvolta dalla sedizione di Cinna e non gli veniva data la possibilità di vivere secondo dignità, senza offendere l’uno o l’altro partito, essendo gli animi dei cittadini disuniti, mentre alcuni favorivano i partiti sillani, altri i cinnani, pensando (essere) il tempo adatto di assecondare i suoi studi, si recò ad Atene. Ma non di meno aiutò il giovane Mario, dichiarato nemico, coi suoi mezzi, e col denaro ne alleviò la fuga. E perché quel viaggio non recasse qualche danno al patrimonio famigliare, trasferì là gran parte delle sue fortune. Qui visse così che meritatamente a tutti gli Ateniesi era carissimo.
Infatti oltre il favore, che era già grande nel giovane, spesso coi suoi mezzi alleviò la loro povertà pubblica. Infatti essendo necessario fare un prestito per lo stato e non avendone una giusta condizione, sempre intervenne ed in modo da non ricevere mai da loro un interesse e non tollerare il pagare più a lungo di quanto fosse stato detto.
Cosa l’una e l’altra che era per essi salutare. Infatti né sopportava, indulgendo, che il loro debito invecchiasse né crescesse col moltiplicare gli interessi.
Accrebbe questo impegno anche con altra liberalità. Infatti a tutti regalò frumento, così che fossero dati sei moggi di grano a ciascuno; e questo genere di misura ad Atene è chiamata medimmo.
3. De Atheniensium miris honoribus in Atticum.
3. Straordinarie onorificenze degli Ateniesi verso Attico.
Hic autem sic se gerebat, ut communis infimis, par principibus videretur. Quo factum est, ut huic
omnes honores, quos possent, publice haberent civemque facere studerent; quo beneficio ille uti noluit. 2 Quamdiu adfuit, ne qua sibi statua poneretur, restitit; absens prohibere non potuit. Itaque aliquot ipsi locis sanctissimis posuerunt: hunc enim in omni procuratione rei publicae actorem auctoremque habebant. 3 Igitur primum illud munus fortunae, quod in ea potissimum urbe natus est, in qua domicilium orbis terrarum esset imperii, ut tandem et patriam haberet et domum; hoc specimen prudentiae, quod, cum in eam se civitatem contulisset, quae antiquitate, humanitate doctrinaque praestaret omnes, unus ei fuerit carissimus.
Costui poi si comportava così, che sembrava disponibile verso gli umili, pari ai capi. Perciò accadde che, per costui offrissero tutte le cariche, che potevano, a nome dello stato e desiderassero farlo cittadino; ma lui non volle servirsi di tale beneficio. Fin che fu presente (in Atene) impedì che alcuna statua fosse posta per sé; assente non potè proibirlo. E così gli posero alcune effigi nei luoghi più sacri: in ogni incarico dello stato lo consideravano aiuto ed ispiratore. Perciò (fu) quello il primo dono della fortuna, il fatto che era soprattutto nato nella città, nella quale c’era la sede dell’impero del mondo, tanto da averla come patria e come casa; questo (fu) segnale di intelligenza, il fatto che, essendosi recato in quella città, che le superava tutte per antichità, civiltà e cultura, lui solo le fu carissimo.
4. De Pomponii humanitate et doctrina.
4. La cortesia e la cultura di Pomponio.
Huc ex Asia Sulla decedens cum venisset, quamdiu ibi fuit, secum habuit Pomponium, captus adulescentis et humanitate et doctrina. Sic enim Graece loquebatur, ut Athenis natus videretur; tanta autem suavitas erat sermonis Latini, ut appareret in eo nativum quendam leporem esse, non ascitum. Item poemata pronuntiabat et Graece et Latine sic, ut supra nihil posset addi. 2 Quibus rebus factum est ut Sulla nusquam eum ab se dimitteret cuperetque secum deducere. Qui cum persuadere temptaret, “Noli,
oro te, inquit Pomponius, adversum eos me velle ducere, cum quibus ne contra te arma ferrem, Italiam reliqui. ” At Sulla adulescentis officio collaudato omnia munera ei, quae Athenis acceperat, proficiscens iussit deferri. 3 Hic complures annos moratus, cum et rei familiari tantum operae daret, quantum non indiligens deberet pater familias, et omnia reliqua tempora aut litteris aut Atheniensium rei publicae
tribueret, nihilo minus amicis urbana officia praestitit. 4 Nam et ad comitia eorum ventitavit, et si qua res maior acta est, non defuit. Sicut Ciceroni in omnibus eius periculis singularem fidem praebuit; cui ex patria fugienti HS ducenta et quinquaginta milia donavit. 5 Tranquillatis autem rebus Romanis remigravit Romam, ut opinor, L. Cotta et L. Torquato consulibus. Quem discedentem sic universa civitas Atheniensium prosecuta est, ut lacrimis desiderii futuri dolorem indicaret.
Qui essendo giunto Silla, tornando dall’Asia, fin che fu lì, tenne con sé Pomponio, catturato dalla cortesia e cultura del giovane. Parlava infatti greco così, che sembrava nato ad Atene; ma così grande era la grazia della lingua latina, che appariva in lui il garbo essere nativo, non acquisito.
Ugualmente declamava le poesie sia in greco che in latino così, che nulla si poteva aggiungere. Per tali cose accadde che Silla in nessun luogo se ne allontanava e desiderava condurlo con sé.
E tentando egli di persuaderlo, “Non volere, ti prego, disse Pomponio, condurmi contro coloro, per non esser con loro contro di te, io lasciai l’Italia.” Ma Silla, elogiato l’impegno del giovane, partendo ordinò gli fossero offerti tutti i doni, che aveva ricevuto ad Atene.
Qui fermatosi parecchi anni, sia mettendo tanto di attività del patrimonio famigliare, quanto doveva un padre di famiglia non negligente, sia concedendo tutti gli altri tempi o alla letteratura o allo stato degli Ateniesi, non di meno prestò agli amici i doveri cittadini (a Roma).
Infatti venne ripetutamente sia ai loro comizi sia non mancò, se un qualcosa di più importante fu trattato. Per esempio a Cicerone in tutti i suoi pericoli offrì una singolare lealtà; ed a lui che fuggiva dalla patria regalò duecento cinquanta migliaia di sesterzi. Ma tranquillizzate le cose romane ritornò a Roma, come penso, sotto i consoli L. Cotta e L. Torquato. Ma tutta quanta la città degli Ateniesi accompagnò lui che partiva così, che rivelava con le lacrime il dolore del futuro rimpianto.
5. De Pomponii amicizia cum M. Cicerone.
5. Amicizia di Pomponio con M. Cicerone.
Habebat avunculum Q. Caecilium, equitem Romanum, familiarem L. Luculli, divitem, difficillima natura. Cuius sic asperitatem veritus est, ut, quem nemo ferre posset, huius sine offensione ad summam senectutem retinuerit benevolentiam. Quo facto tulit pietatis fructum. 2 Caecilius enim moriens testamento adoptavit eum heredemque fecit ex dodrante; ex qua hereditate accepit circiter centiens sestertium. 3 Erat nupta soror Attici Q. Tullio Ciceroni, easque nuptias M. Cicero conciliarat, cum quo a condiscipulatu
vivebat coniunctissime, multo etiam familiarius quam cum Quinto, ut iudicari possit plus in amicitia valere similitudinem morum quam affinitatem. 4 Utebatur autem intime Q. Hortensio, qui his temporibus principatum eloquentiae tenebat, ut intellegi non posset, uter eum plus diligeret, Cicero an Hortensius, et, id quod erat difficillimum, efficiebat, ut, inter quos tantae laudis esset aemulatio, nulla intercederet obtrectatio essetque talium virorum copula.
Aveva uno zio materno Q. Cecilio, cavaliere romano, amico di L. Lucullo, ricco, di carattere difficilissimo.
Ma così rispettò la sua asprezza, che, colui che nessuno poteva sopportare, di costui mantenne la benevolenza senza scontro fino alla massima vecchiaia.
Di tale fatto riportò il frutto del rispetto. Cecilio infatti morendo con un testamento lo adottò e lo fece erede per tre quarti (del patrimonio); da quella eredità ricevette circa cento volte (cento migliaia) di sesterzi. La sorella di Attico era stata sposata a Q. Tullio Cicerone, e M. Cicerone aveva assecondato quelle nozze, con lui dalla scuola viveva molto amichevolmente, anche molto più famigliarmente che con Quinto, così che si poteva giudicare che vale più in amicizia la somiglianza dei costumi che la parentela. Trattava poi amichevolmente con Q. Ortensio, che in quei tempi deteneva il primato dell’eloquenza, così che no si poteva giudicare chi lo amasse di più, Cicerone o Ortensio, e, ciò che era difficilissimo, faceva sì che, tra coloro tra cui c’era così grande emulazione di prestigio, non intercorreva alcuna critica ed era il legame di tali uomini.
6. De Pomponii maxima observantia.
6. Massima riservatezza di Pomponio.
In re publica ita est versatus, ut semper optimarum partium et esset et existimaretur, neque tamen se civilibus fluctibus committeret, quod non magis eos in sua potestate existimabat esse, qui se his dedissent, quam qui maritimis iactarentur. 2 Honores non petiit, cum ei paterent propter vel gratiam vel dignitatem, quod neque peti more maiorum neque capi possent conservatis legibus in tam effusi ambitus largitionibus neque geri e re publica sine periculo corruptis civitatis moribus. 3 Ad hastam publicam numquam accessit.
Nullius rei neque praes neque manceps factus est. Neminem neque suo nomine neque subscribens
accusavit; in ius de sua re numquam iit: iudicium nullum habuit. 4 Multorum consulum praetorumque praefecturas delatas sic accepit, ut neminem in provinciam sit secutus, honore fuerit contentus, rei familiaris despexerit fructum; qui ne cum Q. quidem Cicerone voluerit ire in Asiam, cum apud eum legati locum obtinere posset. Non enim decere se arbitrabatur, cum praeturam gerere noluisset, asseclam esse praetoris. 5 Qua in re non solum dignitati serviebat, sed etiam tranquillitati, cum suspiciones quoque vitaret criminum. Quo fiebat, ut eius observantia omnibus esset carior, cum eam officio, non timori neque spei tribui viderent.
Nella realtà politica si comportò così che era ed era considerato del partito degli ottimati, né tuttavia si affidava alle fluttuazioni civili, poiché credeva che non erano più in possesso di sé coloro che si fossero consegnati a queste più di quelli che erano sballottati dalle (fluttuazioni9 del mare. Non cercò cariche, pur essendo esse aperte per lui o per credibilità o per prestigio, perché né si poteva aspirare (ad esse) secondo la tradizione degli antichi, salvate le leggi in mezzo ad elargizioni di così diffuso intrigo (politico) né (si potevano) esercitare secondo lo stato senza pericolo, essendo corrotti i costumi della società. Di nessuna cosa fu eletto né responsabile né imprenditore. Non accusò nessuno né a proprio nome né sottoscrivendo; non andò mai in tribunale per una cosa propria: non ebbe nessun processo. Accettò le cariche di molti consoli, offerte in modo da non seguire nessuno in provincia, da essere contento del prestigio, da disprezza re l’interesse del patrimonio famigliare; da non volere neppure andare in Asia con Q. Cicerone, potendo ottenere presso di lui il posto di delegato. Pensava infatti non essere conveniente essere aiutante di un pretore, non avendo voluto esercitare la pretura. Ed in tale cosa non solo era servitore del prestigio, ma anche della tranquillità, evitando anche i sospetti di accuse. Per cui accadeva che la sua riservatezza era più cara a tutti, vedendo che essa era attribuita al dovere, non alla paura o alla speranza.
7. De Attici quiete in novis periculis.
7. Calma di Attico nei nuovi pericoli.
Incidit Caesarianum civile bellum, cum haberet annos circiter sexaginta. Usus est aetatis vacatione
neque se quoquam movit ex urbe. Quae amicis suis opus fuerant ad Pompeium proficiscentibus, omnia ex sua re familiari dedit. Ipsum Pompeium coniunctum non offendit. 2 Nullum ab eo habebat ornamentum, ut ceteri, qui per eum aut honores aut divitias ceperant; quorum partim invitissimi castra sunt secuti, partim summa cum eius offensione domi remanserunt. 3 Attici autem quies tantopere Caesari fuit grata, ut victor, cum privatis pecunias per epistulas imperaret, huic non solum molestus non fuerit, sed etiam sororis filium et Q. Ciceronem ex Pompeii castris concesserit. Sic vetere instituto vitae effugit nova pericula.
Accadde la guerra civile di Cesare, avendo circa sessanta anni. Si servì dell’esonero dell’età e non si mosse mai dalla città. Le cose di cui c’era stato bisogno per i suoi amici che partivano verso Pompeo, le diede tutte dal proprio patrimonio famigliare. Non contrariò lo stesso Pompeo, suo parente. Non aveva da lui nessun riconoscimento, come gli altri, che per mezzo suo avevano ricevuto o cariche o ricchezze; ma parte di essi contrarissimi ne seguirono gli accampamenti, parti con gravissimo suo risentimento rimasero in patria. Ma la calma di Attico fu tanto gradita a Cesare, che vincitore, mentre ai privati imponeva somme tramite lettere, a costui non solo non fu molesto, ma addirittura concesse (di uscire liberi) dagli accampamenti di Pompeo il figlio della sorella (di Attico) e Q. Cicerone. Così con l’antico sistema di vita sfuggì i nuovi pericoli.
8. De Attici aequitate.
8. Equità di Attico.
Occiso Caesare, cum res publica penes Brutos videretur esse et Cassium ac tota civitas se ad eos convertisse, 2 sic M. Bruto usus est, ut nullo ille adulescens aequali familiarius quam hoc sene neque solum eum principem consilii haberet, sed etiam in convictu. 3 Excogitatum est a quibusdam, ut privatum aerarium Caesaris interfectoribus ab equitibus Romanis constitueretur. Id facile effici posse arbitrati sunt, si principes eius ordinis pecunias contulissent. Itaque appellatus est a C. Flavio, Bruti familiari, Atticus, ut eius rei princeps esse vellet. 4 At ille, qui officia amicis praestanda sine factione existimaret semperque a talibus se consiliis removisset, respondit: si quid Brutus de suis facultatibus uti voluisset, usurum, quantum hae paterentur, sed neque cum quoquam de ea
re collocuturum neque coiturum. Sic ille consensionis globus huius unius dissensione disiectus est. 5 Neque multo post superior esse coepit Antonius, ita ut Brutus et Cassius destituta tutela provinciarum, quae iis dicis causa datae erant a consule, desperatis rebus in exsilium proficiscerentur. 6 Atticus, qui pecuniam simul cum ceteris conferre noluerat florenti illi parti, abiecto Bruto Italiaque cedenti HS centum milia muneri misit, eidem in Epiro absens trecenta iussit dari, neque eo magis potenti adulatus est Antonio
neque desperatos reliquit.
Ucciso Cesare, sembrando che lo stato fosse in potere dei Bruti e Cassio e che tutta la città si volgesse a loro, trattò con Bruto così, che quel giovane con nessun coetaneo (trattò) più famigliarmente che con questo anziano e non solo lo considerava primo non solo per consiglio, ma anche in dimestichezza. Fu escogitato da alcuni che fosse istituito dai cavalieri romani un erario privato per gli uccisori di Cesare. Pensarono che ciò si poteva fare facilmente, se i capi di quell’ordine avessero dato i denari. Così da C. Flavio, amico di Bruto, fu chiamato Attico, perché volesse essere l’iniziatore di quella cosa. Ma lui, che pensava occorresse prestare servizi agli amici senza partigianeria e sempre si era staccato da tali iniziative, rispose: se Bruto avesse voluto usare qualcosa delle sue sostanze, se ne servisse, per quanto queste permettevano, ma su quella cosa con nessuno avrebbe trattato né si sarebbe unito. Così quel gruppo di consenso per il dissenso di costui solo si disgregò. Né molto dopo cominciò ad essere vincitore Antonio, così che Bruto e Cassio, tolto il controllo delle province, che erano state date ad essi dal console pro forma, essendo le cose disperate, partirono per l’esilio.
Attico, che non aveva voluto offrire denaro insieme con gli altri a quel partito fiorente, inviò in dono a Bruto, cacciato e che partiva dall’Italia cento migliaia di sesterzi, e comandò, lontano, ne fossero dati allo stesso trecento mila, né per questo adulò di più il potente Antonio né abbandonò i disperati.
9. De Attici maxima fide in omnes.
9. Massima lealtà di Attico verso tutti.
Secutum est bellum gestum apud Mutinam. In quo si tantum eum prudentem dicam, minus, quam
debeam, praedicem, cum ille potius divinus fuerit, si divinatio appellanda est perpetua naturalis bonitas, quae nullis casibus agitur neque minuitur. 2 Hostis Antonius iudicatus Italia cesserat; spes restituendi nulla erat. Non solum inimici, qui tum erant potentissimi et plurimi, sed etiam, qui adversariis eius se dabant et in eo laedendo aliquam consecuturos sperabant commoditatem, Antonii familiares insequebantur, uxorem Fulviam omnibus rebus spoliare cupiebant, liberos etiam exstinguere parabant. 3 Atticus cum Ciceronis
intima familiaritate uteretur, amicissimus esset Bruto, non modo nihil his indulsit ad Antonium violandum, sed e contrario familiares eius ex urbe profugientes, quantum potuit, texit, quibus rebus indiguerunt, adiuvit. 4 P. vero Volumnio ea tribuit, ut plura a parente proficisci non potuerint. Ipsi autem Fulviae, cum litibus distineretur magnisque terroribus vexaretur, tanta diligentia officium suum praestitit, ut nullum illa stiterit vadimonium sine Attico, (Atticus) sponsor omnium rerum fuerit. 5 Quin etiam, cum illa fundum secunda fortuna emisset in diem neque post calamitatem versuram facere potuisset, ille se interposuit pecuniamque sine faenore sineque ulla stipulatione credidit, maximum existimans quaestum memorem gratumque cognosci simulque aperiens se non fortunae, sed hominibus solere esse amicum. 6 Quae cum faciebat, nemo eum temporis causa facere poterat existimare: nemini enim in opinionem veniebat Antonium rerum potiturum. 7 Sed sensim is a nonnullis optimatibus reprehendebatur, quod parum odisse malos cives videretur. Ille autem, sui iudicii, potius, quid se facere par esset, intuebatur, quam quid alii laudaturi forent.
Seguì la guerra fatta presso Modena. Durante quella se lo dicessi soltanto prudente, lo presenterei meno di quanto dovrei, essendo egli stato piuttosto profetico, se si deve chiamare profezia la perpetua bontà naturale, non è spinta da nessun caso né diminuita.
Antonio giudicato nemico era partito dall’Italia; non c’era nessuna speranza di ritornare. Non solo i nemici che allora erano moltissimi e potentissimi, ma anche quelli che si davano ai suoi avversari e nel danneggiarlo speravano di conseguire qualche vantaggio, perseguitavano gli amici di Antonio, desideravano spogliare la moglie Fulvia di tutte le cose, preparavano anche di uccidere i figli. Attico, servendosi dell’intima amicizia di Cicerone, essendo amicissimo di Bruto, non solo per nulla assecondò costoro per colpire Antonio, ma al contrario per quanto potè, protesse i suoi famigliari che fuggivano dalla città, li aiutò, per quelle cose di cui abbisognavano. A P. Volumnio poi concesse quelle cose, che maggiori non avrebbero potuto partire da un padre. Alla stessa Fulvia, essendo impegnata in liti e oppressa da grandi paure, con così grande impegno prestò il suo aiuto, che ella non si presentò a nessun processo senza Attico, (Attico) fu garante di tutte le cose. Anzi, avendo ella comprato un podere nella prospera sorte a scadenza e non avendo potuto avere un prestito dopo la disgrazia, egli intervenne e prestò il denaro senza interesse e senza alcuna stipula, stimando grandissimo guadagno essere riconosciuto memore riconoscente e nello stesso tempo dimostrando che egli era solito essere amico non alla fortuna, ma agli uomini. Quando faceva queste cose, nessuno poteva pensare che egli agiva per opportunità: a nessuno infatti giungeva all’idea che Antonio si sarebbe impadronito del potere. Ma un poco era rimproverato dagli aristocratici, perché sembrava che odiasse poco i cittadini malvagi. Egli però guardava cosa della sua idea fosse giusto che facesse, , piuttosto che cosa gli altri sarebbero stati in grado di lodare.
10. De Attici singolari prudentia in civilibus procellis.
10. Singolare avvedutezza di Attico nelle bufere civili.
Conversa subito fortuna est. Ut Antonius rediit in Italiam, nemo non magno in periculo Atticum
putarat propter intimam familiaritatem Ciceronis et Bruti. 2 Itaque ad adventum imperatorum de foro decesserat, timens proscriptionem, latebatque apud P. Volumnium, cui, ut ostendimus, paulo ante opem tulerat - tanta varietas his temporibus fuit fortunae, ut modo hi, modo illi in summo essent aut fastigio aut periculo -, habebatque secum Q. Gellium Canum, aequalem simillimumque sui. 3 Hoc quoque sit Attici
bonitatis exemplum, quod cum eo, quem puerum in ludo cognorat, adeo coniuncte vixit, ut ad extremam aetatem amicitia eorum creverit. 4 Antonius autem etsi tanto odio ferebatur in Ciceronem, ut non solum ei, sed etiam omnibus eius amicis esset inimicus eosque vellet proscribere, multis hortantibus tamen Attici
memor fuit officii et ei, cum requisisset, ubinam esset, sua manu scripsit, ne timeret statimque ad se
veniret: se eum et illius causa Canum de proscriptorum numero exemisse. Ac ne quod periculum incideret, quod noctu fiebat, praesidium ei misit. 5 Sic Atticus in summo timore non solum sibi, sed etiam ei, quem carissimum habebat, praesidio fuit . Neque enim suae solum a quoquam auxilium petiit salutis, sed coniuncti, ut appareret nullam seiunctam sibi ab eo velle fortunam. 6 Quod si gubernator precipua laude fertur, qui navem ex hieme marique scopuloso servat, cur non singularis eius existimetur prudentia, qui ex tot tamque gravibus procellis civilibus ad incolumitatem pervenit?
All’improvviso la fortuna cambiò. Come Antonio ritornò in Italia nessuno non aveva pensato Attico in grande pericolo a causa della intima amicizia di Cicerone e di Bruto. E così all’arrivo dei generali si era allontanato dal foro, temendo la proscrizione, e si nascondeva presso P. Volumnio, a cui, come dimostrammo, aveva poco prima portato aiuto – così grande in questi tempi fu la varietà della sorte, che ora questi ora quelli erano al massimo o prestigio o pericolo -, ed aveva con sé Q. Gallio Cano, coetaneo e molto simile a lui. Anche questo sia un esempio della bontà di Attico, il fatto che visse così unitamente con lui, che aveva conosciuto ragazzo a scuola, che la loro amicizia crebbe fino alla estrema età.
Antonio però anche se era portato da così grande odio contro Cicerone, che non solo era a lui nemico, ma anche a tutti i suoi amici e voleva proscriverli, tuttavia esortandolo molti, fu memore del favore ed avendo chiesto dove fosse, scrisse di sua mano di non temere e di venire subito da lui: aveva tolto lui e Cano, grazie a lui, dal numero dei proscritti. Inoltre perché non capitasse qualche pericolo, poiché accadeva di notte, gli mandò una scorta. Così Attico nel massimo timore fu di protezione non solo per sé, ma anche per colui, che teneva carissimo. Né infatti chiese a qualcuno l’aiuto solo della propria salvezza, ma del congiunto, perché apparisse che non voleva che nessuna sorte fosse disgiunta da lui. Che se viene ricoperto di particolare lode un timoniere, che salva la nave dalla tempesta e dal mare pieno di scogli, perché non sarebbe considerata la singolare avvedutezza di colui, che giunse alla incolumità da tante e così gravi bufere civili?
11. De Attici moribus et fortuna.
11. Comportamenti e sorte di Attico.
Quibus ex malis ut se emersit, nihil aliud egit, quam ut quam plurimis, quibus rebus posset, esset
auxilio. Cum proscriptos praemiis imperatorum vulgus conquireret, nemo in Epirum venit, cui res ulla defuerit, nemini non ibi perpetuo manendi potestas facta est: 2 quin etiam post proelium Philippense interitumque C. Cassii et M. Bruti L. Iulium Mocillam praetorium et filium eius Aulumque Torquatum ceterosque pari fortuna perculsos instituerit tueri atque ex Epiro iis omnia Samothraciam supportari iusserit. 3 Difficile est omnia persequi et non necessarium. Illud unum intellegi volumus, illius liberalitatem neque temporariam neque callidam fuisse. 4 Id ex ipsis rebus ac temporibus iudicari potest, quod non
florentibus se venditavit, sed afflictis semper succurrit; qui quidem Serviliam, Bruti matrem, non minus post mortem eius quam florentem coluerit. 5 Sic liberalitate utens nullas inimicitias gessit, quod neque laedebat quemquam neque, si quam iniuriam acceperat, non malebat oblivisci quam ulcisci. Idem immortali memoria percepta retinebat beneficia; quae autem ipse tribuerat, tamdiu meminerat, quoad ille gratus erat, qui acceperat. 6 Itaque hic fecit, ut vere dictum videatur :
sui cuique mores fingunt fortunam hominibus.
Neque tamen ille prius fortunam quam se ipse finxit, qui cavit, ne qua in re iure plecteretur.
Ma come si riprese da queste avversità, non fece niente altro che essere di aiuto a moltissimi, con quelle cose che poteva. Mentre il volgo cercava i proscritti per i premi dei generali, nessuno venne in Epiro, cui sia mancata qualche cosa, a nessuno non fu data la possibilità di rimanere li sempre: anzi anche dopo la battaglia di Filippi e la morte di C. Cassio e M. Bruto, decise di difendere L. Giulio Mocilla ex pretore e suo figlio Aulo Torquato e gli altri colpiti da uguale sorte e ordinò che per essi fosse portato tutto dall’Epiro in Samotracia.
E’ difficile seguire tutto e non (è) necessario.
Questo solo vogliamo si capisca, che la sua liberalità non fu né temporanea né astuta. Ciò può essere giudicato dalle stesse cose e dai tempi, perché non si vendette ai potenti, ma soccorse sempre gli afflitti; lui che rispettò Servilia, madre di Bruto, non meno dopo la morte di lui che quando era potente.
Così usando la liberalità non creò nessuna inimicizia, perché non offendeva nessuno, né se aveva ricevuto un’offesa, preferiva dimenticare che vendicarsi.
Ugualmente manteneva i benefici ricevuti con memoria immortale; quelli poi che aveva fatti, li ricordava fino a che era riconoscente chi li aveva ricevuto. Costui fece sì che sembri veramente il detto:
i propri costumi creano ad ognuno tra gli uomini la sorte. Né tuttavia egli creò prima la sorte che se stesso, lui che evitò in qualche cosa fosse rimproverato giustamente.
12. De Attici maxima amicorum cura.
12. Massima attenzione di Attico verso gli amici.
His igitur rebus effecit, ut M. Vipsanius Agrippa, intima familiaritate coniunctus adulescenti Caesari, cum propter suam gratiam et Caesaris potentiam nullius condicionis non haberet potestatem, potissimum eius deligeret affinitatem praeoptaretque equitis Romani filiam generosarum nuptiis. 2 Atque harum nuptiarum conciliator fuit - non est enim celandum - M. Antonius, triumvir rei publicae constituendae.
Cuius gratia cum augere possessiones posset suas, tantum afuit a cupiditate pecuniae, ut nulla in re usus sit ea nisi in deprecandis amicorum aut periculis aut incommodis. 3 Quod quidem sub ipsa proscriptione perillustre fuit. Nam cum L. Saufeii, equitis Romani, aequalis sui, qui complures annos studio ductus philosophiae Athenis habitabat habebatque in Italia pretiosas possessiones, triumviri bona vendidissent consuetudine ea, qua tum res gerebantur, Attici labore atque industria factum est, ut eodem nuntio Saufeius fieret certior se patrimonium amisisse et recuperasse. 4 Idem L. Iulium Calidum, quem post Lucretii Catullique mortem multo elegantissimum poetam nostram tulisse aetatem vere videor posse contendere, neque minus virum bonum optimisque artibus eruditum, quem post proscriptionem equitum
propter magnas eius Africanas possessiones in proscriptorum numerum a P. Volumnio, praefecto fabrum Antonii, absentem relatum expedivit. 5 Quod in praesenti utrum ei laboriosius an gloriosius fuerit, difficile est iudicare, quod in eorum periculis non secus absentes quam praesentes amicos Attico esse curae cognitum est.
Perciò con queste cose fece sì che M. Vipsanio Agrippa, congiunto da intima amicizia al giovane Cesare, mentre per il suo favore e la potenza di Cesare aveva la possibilità di ogni condizione, preferisse particolarmente la sua parentela e scegliesse la figlia di un cavaliere romano alle nozze di (ragazze) nobili.
Di queste nozze fu intermediario M. Antonio – infatti non c’è da nasconderlo – triunviro per riorganizzare lo stato.
Col favore di costui potendo aumentare i suoi beni, fu tanto lontano dalla bramosia di denaro, che in nessuna cosa lo usò se non nello scongiurare i pericoli o le strettezze degli amici. E questo davvero fu notissimo sotto la stessa proscrizione. Infatti quando i triunviri, secondo quella consuetudine, con cui allora si facevano le cose, avevano messo in vendita i beni di L. Saufeio, cavaliere romano, suo coetaneo, che per parecchi anni abitava ad Atene spinto dalla passione della filosofia ed aveva in Italia ricchi possedimenti, per l’impegno e l’intervento di Attico accadde che con lo stesso messaggero Saufeio fosse informato che aveva perso e recuperato il patrimonio. Ugualmente liberò L. Giulio Calido, che, dopo la morte di Lucrezio e di Catullo, mi sembra poter sostenere che la nostra età ha prodotto di gran lunga come il più squisito poeta, e non meno galantuomo e dotato di ottime doti, che dopo la proscrizione dei cavalieri (era stato) inserito nel numero dei proscritti da P. Volumnio, comandante dei genieri di Antonio, a causa dei suoi grandi possedimenti africani. Al momento è difficile giudicare se per lui ciò sia stato più faticoso o più lodevole, si è saputo che nei loro pericoli ad Attico stettero a cuore non diversamente gli amici assenti che presenti.
13. De Attico bono patre familias.
13. Attico, buon padre di famiglia.
Neque vero ille vir minus bonus pater familias habitus est quam civis. Nam cum esset pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator. Neque tamen non in primis bene habitavit omnibusque optimis rebus usus est. 2 Nam domum habuit in colle Quirinali Tamphilianam, ab avunculo hereditate relictam; cuius amoenitas non aedificio, sed silva constabat. Ipsum enim tectum antiquitus constitutum plus salis quam sumptus habebat; in quo nihil commutavit, nisi si quid vetustate coactus est. 3 Usus est familia, si utilitate iudicandum est, optima; si forma, vix mediocri. Namque in ea erant pueri litteratissimi, anagnostae optimi et plurimi librarii, ut ne pedisequus quidem quisquam esset, qui non utrumque horum pulchre facere posset, pari modo artifices ceteri, quos cultus domesticus desiderat, apprime boni. 4 Neque tamen horum quemquam nisi domi natum domique factum habuit; quod est signum non solum continentiae, sed etiam diligentiae. Nam et non intemperanter concupiscere, quod a plurimis videas, continentis debet duci, et potius diligentia quam pretio parare non mediocris est industriae. 5 Elegans, non magnificus; splendidus, non sumptuosus: omnisque diligentia munditiam, non affluentiam affectabat.
Supellex modica, non multa, ut in neutram partem conspici posset. 6 Nec praeteribo, quamquam nonnullis leve visum iri putem: cum in primis lautus esset eques Romanus et non parum liberaliter domum suam omnium ordinum homines invitaret, scimus non amplius quam terna milia peraeque in singulos menses ex ephemeride eum expensum sumptui ferre solitum. 7 Atque hoc non auditum, sed cognitum praedicamus: saepe enim propter familiaritatem domesticis rebus interfuimus.
Né quell’uomo fu considerato meno buon padre di famiglia che cittadino. Essendo danaroso, nessuno fu meno smanioso di comprare di lui, meno amante di costruzioni. Né tuttavia anzitutto non abitò bene e si servì di tutte le cose migliori. Infatti ebbe la casa sul colle Quirinale, la Tanfiliana, lasciata in eredità dallo zio paterno; ma la sua bellezza consisteva non nell’edificio, ma nel parco. Infatti la stessa abitazione costruita anticamente aveva più di buon gusto che sontuosità; in essa non cambiò nulla se non qualcosa, spinto dalla vetustà. Si servì di una servitù, se si deve giudicare dall’utilità, se dall’apparenza, appena modesta. Infatti in essa c’erano schiavi istruitissimi, ottimi lettori e moltissimi copisti, così che non c’era neppure uno accompagnatore, che non sapesse fare bene l’uno e l’altro di questi (compiti, in ugual modo gli altri artigiani, che la cura domestica richiede, (erano) estremamente bravi. Né tuttavia non ne ebbe nessuno se non nato in casa e istruito in casa; e ciò non è solo segno di moderazione, ma anche di avvedutezza. Infatti sia il desiderare non controllatamente, cosa che vedi da parte dei più, deve essere considerato (tipico) del moderato, sia è di non mediocre iniziativa procurarsi (le cose) piuttosto con attenzione che col denaro. Elegante, non sfarzoso; splendido, non prodigo: ogni attenzione esibiva decoro, non lusso.
La suppellettile semplice, non molta, tanto che non si poteva vedere (piegare) verso né una parte né l’altra. Né tralascerò, benché io pensi che da alcuni sarà visto come superfluo: essendo anzitutto un raffinato cavaliere romano e invitando non poco signorilmente in casa sua uomini di tutti gli ordini, sappiamo che non era solito registrare da spendere per la spesa più di tre migliaia ( di assi), secondo il registro dei conti, per ogni mese mediamente.
E questo lo affermiamo non come sentito, ma come conosciuto: spesso infatti per amicizia abbiamo partecipato alle cose domestiche.
14. De Attici optimis lectionibus.
14. Le ottime letture di Attico.
Nemo in convivio eius aliud acroama audivit quam anagnosten; quod nos quidam iucundissimum arbitramur: neque umquam sine aliqua lectione apud eum cenatum est, ut non minus animo quam ventre convivae delectarentur: 2 namque eos vocabat, quorum mores a suis non abhorrerent. Cum tanta pecuniae facta esset accessio, nihil de cotidiano cultu mutavit, nihil de vitae consuetudine, tantaque usus est moderatione, ut neque in sestertio vicies, quod a patre acceperat, parum se splendide gesserit neque in sestertio centies affluentius vixerit, quam instituerat, parique fastigio steterit in utraque fortuna. 3 Nullos habuit hortos, nullam suburbanam aut maritimam sumptuosam villam, neque in Italia, praeter Arretinum et Nomentanum, rusticum praedium, omnisque eius pecuniae reditus constabat in Epiroticis et urbanis possessionibus. Ex quo cognosci potest usum eum pecuniae non magnitudine, sed ratione metiri solitum.
Nessuno durante un suo banchetto udì altra esibizione che il lettore; e ciò noi lo pensiamo piacevolissimo: né mai presso di lui si cenò senza una qualche lettura, così che i commensali fossero allietati non meno nell’animo che nel ventre: infatti chiamava quelli, le cui abitudini non si allontanassero dalle sue.
Essendo stato fatto così grande accrescimento di denaro, nulla cambiò della tradizione quotidiana, niente dell’abitudine di vita, ed usò un così grande controllo, che né si comportò poco decorosamente in due milioni di sesterzi, che aveva ricevuto dal padre, né visse in dieci milioni di sesterzi più sontuosamente di quanto aveva deciso e con pari dignità stette nell’una e nell’altra sorte. Non ebbe nessun giardino, nessuna lussuosa villa fuori città o al mare, né in Italia, eccetto ad Arezzo e a Nomento, un podere di campagna, tutta la rendita del suo denaro consisteva nei possedimenti dell’Epiro e di città. E da questo si può capire che egli era solito misurare l’uso del denaro non per la quantità, ma per la razionalità.
15. De Attici maxima cura in amicos.
15. Massimo impegno di Attico verso gli amici.
Mendacium neque dicebat neque pati poterat. Itaque eius comitas non sine severitate erat neque
gravitas sine facilitate, ut difficile esset intellectu, utrum eum amici magis vererentur an amarent. Quidquid rogabatur, religiose promittebat, quod non liberalis, sed levis arbitrabatur polliceri, quod praestare non posset. 2 Idem in tenendo, quod semel annuisset, tanta erat cura, ut non mandatam, sed suam rem videretur agere. Numquam suscepti negotii eum pertaesum est: suam enim existimationem in ea re agi putabat; qua nihil habebat carius. 3 Quo fiebat, ut omnia Ciceronum, Catonis Marci, Q. Hortensii, Auli Torquati, multorum praeterea equitum Romanorum negotia procuraret. Ex quo iudicari poterat non inertia, sed iudicio fugisse rei publicae procurationem.
La menzogna né la diceva né poteva sopportarla. E così la sua cortesia non era senza serietà, né l’austerità senza affabilità, tanto che era difficile da capire, se gli amici lo rispettassero o lo amassero di più. Qualunque cosa era chiesta, scrupolosamente garantiva, perché riteneva (tipico) non del generoso, ma del superficiale promettere, ciò che non poteva mantenere. Ugualmente nel mantenere, ciò che aveva promesso una volta, era così grande l’impegno, che sembrava trattare non una cosa affidata, ma sua stessa. Mai provò disgusto di un affare intrapreso: riteneva che in quella cosa si trattava la sua reputazione; e di quella non aveva nulla di più caro. Perciò accadeva che amministrava tutti gli affari dei Ciceroni, di Marco Catone, di Q. Ortensio, di Aulo Torquato ed inoltre di molti altri cavalieri romani. Da ciò si poteva giudicare che aveva fuggito l’impegno dello stato non per pigrizia, ma per decisione.
16. De Ciceronis amicitia in Atticum.
16. Amicizia di cicerone verso Attico.
Humanitatis vero nullum afferre maius testimonium possum, quam quod adulescens idem seni Sullae fuit iucundissimus, senex adulescenti M. Bruto, cum aequalibus autem suis, Q. Hortensio et M. Cicerone, sic vixit, ut iudicare difficile sit, cui aetati fuerit aptissimus. 2 Quamquam eum praecipue dilexit Cicero, ut ne frater quidem ei Quintus carior fuerit aut familiarior. 3 Ei rei sunt indicio praeter eos libros, in quibus de eo facit mentionem, qui in vulgus sunt editi, undecim volumina epistularum ab consulatu eius usque ad extremum tempus ad Atticum missarum; quae qui legat, non multum desideret historiam contextam eorum temporum. 4 Sic enim omnia de studiis principum, vitiis ducum, mutationibus rei publicae perscripta sunt, ut nihil in his non appareat et facile existimari possit prudentiam quodam modo esse divinationem. Non enim Cicero ea solum, quae vivo se acciderunt, futura praedixit, sed etiam, quae nunc usu veniunt, cecinit ut vates.
Ma della affabilità non posso portare nessuna maggiore testimonianza, del fatto che da giovane fu piacevolissimo per Silla anziano, da vecchio per il giovane M. Bruto, ma con i suoi coetanei, Q. Ortensio e M. Cicerone, visse così, che è difficile giudicare, a quale età egli sia stato più adatto.
Benchè soprattutto Cicerone lo amasse, tanto che neppure il fratello Quinto gli fu più caro o più amico. Per tale cosa sono di testimonianza oltre quei libri, in cui fa menzione di lui, che sono stati editi per il pubblico, gli undici volumi di lettere dal suo consolato fino all’ultimo momento inviate ad Attico; e chi le legga, non rimpiangerebbe molto la storia organizzata di quei tempi. Così infatti tutto è stato descritto sulle passioni dei capi, sui difetti di comandanti, sui cambiamenti dello stato, tanto che nulla in questi non si evidenzia e si può facilmente giudicare che la saggezza sia in qualche modo profezia. Infatti Cicerone non solo predisse che sarebbero accadute le cose, che accaddero, (essendo) vivo lui, ma anche quelle che ora capitano nell’esperienza, le profetizzò come un profeta.
17. De Attici pietate.
17. L’affetto figliale di Attico.
De pietate autem Attici quid plura commemorem? Cum hoc ipsum vere gloriantem audierim in
funere matris suae, quam extulit annorum XC, cum esset VII et LX, se numquam cum matre in gratiam redisse, numquam cum sorore fuisse in simultate, quam prope aequalem habebat. 2 Quod est signum aut nullam umquam inter eos querimoniam intercessisse aut hunc ea fuisse in suos indulgentia, ut, quos amare deberet, irasci eis nefas duceret. 3 Neque id fecit natura solum, quamquam omnes ei pares, sed etiam doctrina. Nam principum philosophorum ita percepta habuit praecepta, ut his ad vitam agendam, non ad
ostentationem uteretur.
Ma sull’affetto di Attico cosa potrei ricordare di più? Avendolo io sentito che si vantava durante il funerale di sua madre, che seppellì a novant’anni, avendone lui sessanta sette, che mai si era riconciliato con la madre, che mai era stato in contrasto con la sorella, che aveva quasi coetanea. E questo è segno che mai tra di loro intercorse lamentela o che costui fosse stato verso i suoi di tale benevolenza da considerare sacrilegio adirarsi con quelli che doveva amare.
E questo non lo fece solo per natura, benché tutti le siamo uguali, ma anche per cultura. Infatti tenne gli insegnamenti dei migliori filosofi così inculcati, da servirsene per guidare la vita, non per ostentazione.
18. De Attico moris maiorum imitatore.
18. Attico cultoredella tradzione degli antenati.
Moris etiam maiorum summus imitator fuit antiquitatisque amator; quam adeo diligenter habuit cognitam, ut eam totam in eo volumine exposuerit, quo magistratus ordinavit. 2 Nulla enim lex neque pax neque bellum neque res illustris est populi Romani, quae non in eo suo tempore sit notata, et, quod difficillimum fuit, sic familiarum originem subtexuit, ut ex eo clarorum virorum propagines possimus cognoscere. 3 Fecit hoc idem separatim in aliis libris, ut M. Bruti rogatu Iuniam familiam a stirpe ad hanc aetatem ordine enumeraverit, notans, qui a quoque ortus quos honores quibusque temporibus cepisset; 4
pari modo Marcelli Claudii de Marcellorum, Scipionis Cornelii et Fabii Maximi Fabiorum et Aemiliorum. Quibus libris nihil potest esse dulcius iis, qui aliquam cupiditatem habent notitiae clarorum virorum. 5 Attigit quoque poeticen, credimus, ne eius expers esset suavitatis. Namque versibus, qui honore rerumque gestarum amplitudine ceteros Romani populi praestiterunt, 6 exposuit ita, ut sub singulorum imaginibus facta magistratusque eorum non amplius quaternis quinisque versibus descripserit: quod vix credendum sit, tantas res tam breviter potuisse declarari. Est etiam unus liber Graece confectus, de consulatu Ciceronis.
Fu pure sommo cultore della tradizione degli antenati e amante dell’antichità; e la ebbe così attentamente conosciuta, che la espose tutta in quel volume, con cui ordinò le magistrature. Infatti non c’è nessuna legge né pace né guerra né cosa famosa del popolo romano, che non sia stato annotata in esso nella sua epoca, e, cosa che fu difficilissima, inserì l’origine delle famiglie così, che da esso possiamo conoscere le discendenze degli uomini illustri. Questa stessa cosa fece separatamente in altri libri, così da enumerare per ordine, su richiesta di M. Bruto, la famiglia Giunia dall’inizio a questa epoca, annotando, da chi ciascuno fosse nato, quali cariche avesse ottenuto ed in quali epoche; in ugual modo (su richiesta di ) Marcello Claudio sulla (famiglia) dei Marcelli, di Scipione Cornelio e Fabio Massimo sulla (famiglia) dei Fabi e degli Emili. Di tali libri nulla può essere più dolce per coloro che hanno qualche desiderio di notizia di uomini famosi. Toccò anche la poesia, per non essere privo di quella dolcezza, crediamo. Infatti espose in versi coloro che per gloria ed importanza di imprese superarono gli altri del popolo romano, così che descrisse sotto i ritratti di ciascuno i fatti e le magistrature loro con non più di quattro o cinque versi per ognuno: e questo sarebbe a stento credibile, che si fossero potuto esporre cose così grandi tanto brevemente. E’ stato anche composto un unico libro in greco, sul consolato di Cicerone.
19. De Attici meritis fortunaque.
19. Meriti e fortuna di Attico.
Hactenus Attico vivo edita a nobis sunt. Nunc, quoniam fortuna nos superstites ei esse voluit, reliqua persequemur et, quantum potuerimus, rerum exemplis lectores docebimus, sicut supra significavimus, suos cuique mores plerumque conciliare fortunam. 2 Namque hic contentus ordine equestri, quo erat ortus, in affinitatem pervenit imperatoris, divi filii; cum iam ante familiaritatem eius esset consecutus nulla alia re quam elegantia vitae qua ceteros ceperat principes civitatis dignitate pari, fortuna humiliores. 3 Tanta enim prosperitas Caesarem est consecuta, ut nihil ei non tribuerit fortuna, quod cuiquam ante
detulerit, et conciliarit, quod nemo adhuc civis Romanus quivit consequi. 4 Nata est autem Attico neptis ex Agrippa, cui virginem filiam collocarat. Hanc Caesar vix anniculam Ti. Claudio Neroni, Drusilla nato, privigno suo, despondit; quae coniunctio necessitudinem eorum sanxit, familiaritatem reddidit frequentiorem.
Fino a qui le cose furono pubblicate da noi, essendo vivo Attico. Ora poiché la sorte volle che noi gli fossimo superstiti, esporremo le cose restanti e per quanto avremo potuto, insegneremo ai lettori con gli esempi delle cose, come sopra abbiamo mostrato, che i propri comportamenti determinano la sorte per ciascuno. Infatti costui contento dell’ordine equestre, da cui era nato, giunse alla parentela del generale, figlio del divino (Giulio); avendo già prima ottenuto la sua amicizia con nessuna altra cosa che la raffinatezza della vita, con cui aveva catturato gli altri primi della città di pari grado, inferiori per sorte. Infatti una così grande prosperità ha raggiunto Cesare, che nulla non gli ha attribuito la sorte, che prima ha concesso a ciascuno, e gli ha offerto ciò che ancora nessun cittadino romano ha potuto raggiungere. Nacque poi ad Attico una nipote da Agrippa, a cui aveva dato la figlia. Cesare promise costei di un anno appena a Ti. Claudio Nerone, nato da Drusilla; e tale unione sancì la loro parentela e rese l’amicizia più salda.
20. De Attici usu benevolentiaque cum Caesare et Antonio.
20. Famigliarità e benevolenza di Attico con Cesare ed Antonio.
Quamvis ante haec sponsalia non solum, cum ab urbe abesset, numquam ad suorum quemquam
litteras misit, quin Attico mitteret, quid ageret, in primis, quid legeret quibusque in locis et quamdiu esset moraturus, 2 sed etiam, cum esset in urbe et propter infinitas suas occupationes minus saepe quam vellet, Attico frueretur, nullus dies temere intercessit, quo non ad eum scriberet, cum modo aliquid de antiquitate ab eo requireret, modo aliquam quaestionem poeticam ei proponeret, interdum iocans eius verbosiores eliceret epistulas. 3 Ex quo accidit, cum aedis Iovis Feretrii in Capitolio, ab Romulo constituta, vetustate atque incuria detecta prolaberetur, ut Attici admonitu Caesar eam reficiendam curaret. 4 Neque vero a M. Antonio minus absens litteris colebatur, adeo ut accurate ille ex ultumis terris, quid ageret, curae sibi haberet certiorem facere Atticum. 5 Hoc quale sit, facilius existimabit is, qui iudicare poterit, quantae sit sapientiae eorum retinere usum benevolentiamque, inter quos maximarum rerum non solum aemulatio, sed obtrectatio tanta intercedebat, quantam fuit [incidere] necesse inter Caesarem atque Antonium, cum se uterque principem non solum urbis Romae, sed orbis terrarum esse cuperet.
Benché non solo prima di questo fidanzamento, essendo lontano dalla città, mai inviò lettere a nessuno dei suoi, senza inviarne ad Attico, su cosa facesse, anzitutto cosa leggesse, in quali luoghi e fino a quando si fosse fermato, ma anche, essendo in città e per le sue infinite occupazioni godeva di Attico meno spesso di quanto volesse, nessun giorno passò avventatamente, che non scrivesse a lui, ora chiedendogli qualcosa dalla antichità, ora proponendogli qualche quesito di poesia, talvolta scherzando strappandogli lettere piuttosto verbose.
Da ciò accadde che, stando per crollare il tempio di Giove Feretrio sul Campidoglio, fondato da Romolo, scoperto per vetustà ed incuria, Cesare su avvertimento di Attico curò di ricostruirlo.
Ma non era meno onorato, lontano, da M. Antonio, tanto che accuratamente quello dalle terre più lontane, aveva a cuore di informare Attico, cosa facesse.
Cosa sia ciò, più facilmente lo giudicherà colui, che potrà valutare di quanta saggezza sia mantenere la famigliarità e la benevolenza di coloro, tra i quali non solo intercorreva non solo la rivalità di cose importantissime, ma un così grande astio, quanto fu necessario capitasse tra Cesare ed Antonio, desiderando l’uno e l’altro non solo di essere il primo della città di Roma, ma del mondo.
21. De Attici estremo morbo.
21. Ultima malattia di Attico.
Tali modo cum VII et LXX annos complesset atque ad extremam senectutem non minus dignitate quam gratia fortunaque crevisset - multas enim hereditates nulla alia re quam bonitate consecutus est - tantaque prosperitate usus esset valetudinis, ut annis XXX medicina non indiguisset, 2 nactus est morbum, quem initio et ipse et medici contempserunt. Nam putarunt esse tenesmon, cui remedia celeria faciliaque proponebantur. 3 In hoc cum tres menses sine ullis doloribus, praeterquam quos ex curatione capiebat, consumpsisset, subito tanta vis morbi in imum intestinum prorupit, ut extremo tempore per lumbos fistulae puris eruperint. 4 Atque hoc priusquam ei accideret, postquam in dies dolores accrescere febresque accessisse sensit, Agrippam generum ad se accersi iussit et cum eo L. Cornelium Balbum Sextumque Peducaeum. 5 Hos ut venisse vidit, in cubitum innixus ”Quantam, inquit, curam diligentiamque
in valetudine mea tuenda hoc tempore adhibuerim, cum vos testes habeam, nihil necesse est pluribus
verbis commemorare. Quibus quoniam, ut spero, satisfeci, me nihil reliqui fecisse, quod ad sanandum me pertineret, reliquum est, ut egomet mihi consulam. 6 Id vos ignorare nolui. Nam mihi stat alere morbum desinere. Namque his diebus quidquid cibi sumpsi, ita produxi vitam, ut auxerim dolores sine spe salutis.
Quare a vobis peto, primum, ut consilium probetis meum, deinde, ne frustra dehortando impedire
conemini”.
In tal modo avendo compiuto settanta sette anni ed essendo cresciuto fino alla estrema vecchiaia non meno in prestigio che rispetto e fortuna – infatti ottenne molte eredità con nessuna altra cosa che con la bontà – ed avendo goduto di così grande prosperità di salute, da non aver avuto bisogno di medicina per trent’anni, incontrò una malattia, che all’inizio sia lui che i medici trascurarono. Infatti pensarono fosse (malattia intestinale di ) tenesmo, per la quale erano proposti rimedi celeri e facili. In questa avendo passato tre mesi senza alcun dolore, improvvisamente una così grande violenza della malattia scoppiò nel basso intestino, che nell’ultimo periodo lungo le cosce comparvero fistole di pus. Ma prima che gli accadesse questo, dopo che giorno per giorno capì che i dolori crescevano e si aggiungevano le febbri, ordinò che gli fosse chiamato il genero Agrippa e con lui L. Cornelio Balbo e Sesto Peduceo. Come vide che questi erano giunti, appoggiatosi sul gomito “Quanta, disse, cura ed attenzione io abbia usato in questo tempo nel salvaguardare la mia salute, avendo voi come testimoni, per nulla è necessario ricordarlo con troppe parole. Poiché, come spero, a voi ho dato soddisfazione, che io non ho fatto nulla di altro, che mirasse a guarirmi, resta che io stesso provveda per me. Non ho voluto che voi ignoraste ciò. Infatti sta a me smettere di nutrire la malattia. Infatti in questi giorni quanto ho preso di cibo, così ho protratto la vita, che ho aumentato i dolori senza speranza di salvezza. Perciò vi chiedo, anzitutto, che approviate la mia decisione, poi, che non tentiate esortando invano di distogliermi.”
22. De Attici morte.
22. Morte di Attico.
Hac oratione habita tanta constantia vocis atque vultus, ut non ex vita, sed ex domo in domum
videretur migrare, 2 cum quidem Agrippa eum flens atque osculans oraret atque obsecraret, ne id, quod natura cogeret, ipse quoque sibi acceleraret, et quoniam tum quoque posset temporibus superesse, se sibi suisque reservaret, preces eius taciturna sua obstinatione depressit. 3 Sic cum biduum cibo se abstinuisset, subito febris decessit leviorque morbus esse coepit. Tamen propositum nihilo setius peregit. Itaque die quinto, postquam id consilium inierat, pridie Kalendas Aprilis Cn. Domitio C. Sosio consulibus, decessit. 4 Elatus est in lecticula, ut ipse praescripserat, sine ulla pompa funeris, comitantibus omnibus bonis, maxima vulgi frequentia. Sepultus est iuxta viam Appiam ad quintum lapidem in monumento Q. Caecilii,
avunculi sui.
Tenuto questo discorso con così grande sicurezza di voce e di aspetto, da sembrare che migrasse non dalla vita, ma da casa a casa, poiché proprio Agrippa piangendo e baciandolo lo pregava e scongiurava, che ciò che la natura esigeva, lui stesso l’accelerasse proprio per sé, e poiché anche allora poteva sopravvivere alle situazioni, e si conservasse per sé ed i suoi, spense le sue preghiere con la sua taciturna ostinazione. Così essendosi astenuto dal cibo per due giorni, improvvisamente la febbre scomparve e la malattia cominciò ad esser più lieve. Tuttavia non di meno completò il suo proposito. E così al quinto giorno, dopo che aveva iniziato quella decisione, morì il 31 marzo sotto il consolato di Gn. Domizio e C. Sosio. Fu portato sulla lettiga, come lui stesso aveva prescritto, senza alcuna pompa funebre, accompagnandolo tutti i buon, con grandissima folla di popolo. Fu sepolto presso la via Appia alla quinta (pietra miliare) nel monumento di Q. Cecilio, suo zio materno.

FRAGMENTA EX LIBRIS DE VIRIS ILLUSTRIBUS CORNELI NEPOTIS
1.
1.
Verba ex epistula Corneliae Gracchorum matris ex eodem libro Cornelii Nepotis excerpta.
Dices pulchrum esse inimicos ulcisci. Id neque maius neque pulchrius cuiquam atque mihi esse videtur, sed si liceat re publica salva ea persequi. Sed quatenus id fieri non potest, multo tempore multisque partibus inimici nostri non peribunt atque, uti nunc sunt, erunt potius quam res publica profligetur atque pereat.
Eadem alio loco
Verbis conceptis deierare ausim, praeterquam qui Tiberium Gracchum necarunt, neminem inimicum
tantum molestiae tantumque laboris, quantum te ob has res, mihi tradidisse: quem oportebat omnium eorum, quos antehac habui liberos, partis eorum tolerare atque curare, ut quam minimum sollicitudinis in senecta haberem, utique, quaecumque ageres, ea velles maxime mihi placere, atque uti nefas haberes rerum maiorum adversum meam sententiam quicquam facere, praesertim mihi, cui parva pars vitae superest. Ne id quidem tam breve spatium potest opitulari, quin et mihi adversere et rem publicam profliges? Denique quae pausa erit? Ecquando desinet familia nostra insanire? Ecquando modus ei rei
haberi poterit? Ecquando desinemus et habentes et praebentes molestiis insistere? Ecquando perpudescet miscenda atque perturbanda re publica? Sed si omnino id fieri non potest, ubi ego mortua ero, petito tribunatum: per me facito quod lubebit, cum ego non sentiam. Ubi mortua ero, parentabis mihi et invocabis deum parentem. In eo tempore non pudet te eorum deum preces expetere, quos vivos atque praesentes relictos atque desertos habueris? Ne ille sirit Iuppiter te ea perseverare nec tibi tantam dementiam venire in animum! Et si perseveras, vereor, ne in omnem vitam tantum laboris culpa tua recipias, uti in nullo tempore tute tibi placere possis.
Parole da una lettera di Cornelia, madre dei Gracchi, estratte dallo stesso libro di Cornelio Nepote.
Dirai che è bello vendicare i nemici. Ciò sembra essere né più grande né più bello a nessuno (più che a me), ma se sia possibile per seguire quelle cose, lo stato (però) salvo. Ma fino a che ciò non può esser fatto, per molto tempo ed in molte parti i nostri nemici non periranno e, come ora sono, saranno piuttosto che lo stato sia sconfitto e perisca.
Stesse cose in altro passo.
Con parole solenni oserei giurare, oltre quelli che uccisero Tiberio Gracco, che nessun nemico mi ha dato così tanto di disgusto e così tanto di sofferenza quanto te per queste cose: ( a te) che era opportuno tollerare e curare di tutti coloro, che ebbi prima d’ora come figli, i loro ruoli, perché io avessi in vecchiaia il minimo di preoccupazione, così che, qualunque cosa tu facessi, volessi che mi piacesse particolarmente e considerassi come sacrilegio fare nulla delle cose maggiori contro il mio parere, soprattutto a me, cui resta una piccola parte di vita. Neppure quel così breve spazio può aiutare, senza che tu mi contrasti e combatta lo stato? Infine quale sarà la fine? Quando mai la nostra famiglia smetterà di impazzire? Quando mai potrà essere considerata la misura per quella cosa? Quando mai smetteremo di insistere sulle offese sia ricevendole sia porgendole? Quando mai ci si vergognerà molto di sconvolgere e turbare lo stato ? Ma se proprio ciò non si può fare, quando io sarò morta, aspirerai al tribunato: per me farai quel che piacerà, quando io non sentirò. Quando io sarò morta, celebrerai per me il rito funebre ed invocherai come divinità il genitore. In quel tempo non ti vergogni chiedere le preghiere di quelle divinità, che da vivi e presenti avrai considerato lasciati ed abbandonati ? Non ti permetta Giove di perseverare in quelle cose né che ti giunga nell’animo tanta pazzia!
E se perseveri, temo che per tutta la vita tu riceva per colpa tua tanto di sofferenza, che in nessun momento tu proprio ti possa piacere.

2.
2.
Cornelius Nepos in libro de historicis Latinis de laude Ciceronis.
Cornelio Nepote nel libro sugli storici latini : L’elogio di Cicerone.
Praefatio - AGESILAUS - ALCIBIADES - ARISTIDES - CHABRIAS – CIMON - CONON - DATAMES -EPAMINONDAS - EPAMINONDAS DION - EUMENES - HAMILCAR - HANNIBAL - IPHICRATES - LYSANDER - MILTHIADES - PAUSANIAS - PELOPIDAS - PHOCION - REGES - THEMISTOCLES -THRASYBULUS -TIMOLEON - TIMOTHEUS -
FRAGMENTA
DE HISTORICIS –
ATTICUS - CATO
Ablativo in –i (- iori) in priori consulatu quaestor fuerat (Cato 2) - in quo oppugnando superiori bello Athenienses mille et CC talenta consumpserant (Timot.2)
Ablativo assoluto : Namque illo duce Mardonius, satrapes regius, natione Medus, regis gener, in primis omnium
Persarum et manu fortis et consilii plenus, cum CC milibus peditum, quos viritim legerat, et XX
equitum haud ita magna manu Graeciae fugatus est, eoque ipse dux cecidit proelio. (Paus. 1)
-Aggettivi particolari: Fuit etiam extremo Peloponnesio bello praetor, cum apud Aegos flumen copiae Atheniensium a Lysandro sunt devictae (Con.1)
Perifrastica attiva: Classe paucis diebus erant decreturi (Hann. 10)
Concordanza dell’apposizione: Colonas, qui locus in agro Troade est se contulerat (Paus. 3)
- Congiuntivo esortativo: Sed satis de hoc; reliquos ordiamur. (Alc.11)
Ne ille sirit Iuppiter te ea perseverare nec tibi tantam dementiam venire in animum! (Fragm. 2)
- Consecutive in periodo obliquo: Namque ea, quae supra scripsimus, de eo praedicarunt atque hoc amplius: cum Athenis, splendidissima civitate, natus esset, omnes splendore ac dignitate superasse vitae; 3 postquam inde expulsus Thebas venerit, adeo studiis eorum inservisse, ut nemo eum labore corporisque viribus posset aequiperare - omnes enim Boeotii magis firmitati corporis quam ingenii acumini inserviunt -; 4 eundem apud Lacedaemonios, quorum moribus summa virtus in patientia ponebatur, sic duritiae se dedisse, ut parsimonia victus atque cultus omnes Lacedaemonios vinceret; fuisse apud Thracas, homines vinolentos rebusque veneriis deditos; hos quoque in his rebus antecessisse; 5 venisse ad Persas, apud quos summa laus esset fortiter venari, luxuriose vivere: horum sic imitatum consuetudinem, ut illi ipsi eum in his maxime admirarentur. 6 Quibus rebus effecisse, ut, apud quoscumque esset, princeps poneretur habereturque carissimus. (Alcib. 11)
DATIVO DI DIREZIONE - Hic enim ventus ab septentrionibus oriens adversum tenet Athenis proficiscentibus.(Milth. 1)
Doppio dativo: Thras. 2: Quae quidem res et illis contemnentibus pernicii et huic despecto saluti fuit.
GENITIVO: Ea mille misit militum (5)
- STIMA: Conon Atheniensis Peloponnesio bello accessit ad rem publicam, in eoque eius opera magni fuit. (Con. 1)
Genitivo di condanna: dixit nunc demum se voti esse damnatum (Timol. 5)
INFINITIVA OGGETTIVA: Nam quod multi voluerunt paucique potuerunt ab uno
tyranno patriam liberare, huic contigit, ut a XXX oppressam tyrannis e servitute in libertatem
vindicaret.(Thras. 1)
Nomi greci: Salamina Troezene (acc. Sing)
PARTITIVO: Hic enim cum Phylen confugisset, quod est castellum in Attica munitissimum, non plus
habuit secum XXX de suis.(Thras. 2)
PRONOME: ILLE, ILLA, ILLUD= FAMOSO: Quamquam enim adeo excellebat Aristides abstinentia, ut unus post hominum memoriam, quem quidem nos audierimus, cognomine Iustus sit appellatus, tamen a Themistocle collabefactus, testula illa exsilio decem annorum multatus est. (Arist. 1)
Pronome personale: Lysander Lacedaemonius magnam reliquit sui famam, magis felicitate quam virtute partam. (Lys. 1)
Stato in luogo: in morbum implicitus in oppido Citio est mortuus. (Cimon 3)
Supino: cum Lacedaemonii Atheniensibus devictis in societate non manerent, quam cum Artaxerxe fecerant, Agesilaumque bellatum misissent in Asiam (Con. 2)
CONFRONTO Grecia- Roma:
-Diversità di culture: Prefazione
- Scadenza morale: Cuius victoriae non alienum videtur quale praemium Miltiadi sit tributum, docere, quo
facilius intellegi possit eandem omnium civitatum esse naturam. 2 Ut enim populi Romani honores quondam fuerunt rari et tenues ob eamque causam gloriosi, nunc autem effusi atque obsoleti, sic olim apud Athenienses fuisse reperimus. (6)
Costruzione di CELO: 2 Id Alcibiades diutius celari non potuit. (Alc. 5)
Passivo di persuadeo: Sic
enim populo erat persuasum, et adversas superiores et praesentes secundas res accidisse eius opera. (6)
- DONO: coronis aureis aeneisque vulgo donabatur (6)
Ille lacrumans talem benevolentiam civium suorum accipiebat reminiscens pristini temporis acerbitatem.(Alc. 6)
RELATIVISMO MORALE: IN Coern Nep.:
1. Ogni cultura ha i suoi usi e costumi: (Pref.) Quae omnia apud nos partim infamia, partim humilia atque ab honestate remota ponuntur. 6 Contra ea pleraque nostris moribus sunt decora, quae apud illos turpia putantur.
2. (Scherza sul guadagno materiale per il tradimento di Temistocle) (Them. 10) Hic cum multa regi esset pollicitus gratissimumque illud, si suis uti consiliis vellet, illum Graeciam bello oppressurum, magnis muneribus ab Artaxerxe donatus in Asiam rediit domiciliumque Magnesiae sibi constituit. 3 Namque hanc urbem ei rex donarat, his quidem verbis: quae ei panem praeberet - ex qua regione quinquaginta talenta quotannis redibant -; Lampsacum autem, unde vinum sumeret; Myunta, ex qua opsonium haberet.
ESAGERAZIONE a favore dei Greci: cum CC milibus peditum, quos viritim legerat (Paus. 1)
Uso abbondante di HIC, HAEC, HOC: prolettico (coinvolgente)(ES.: hos clam Xerxi remisit, simulans ex vinclis publicis effugisse, et cum his Gongylum Eretriensem, qui litteras regi redderet, in quibus haec fuisse scripta Thucydides memoriae prodidit (Paus.2 )
In Trasibulo: Hoc (1 –2-3-4)!!!!
ROMANZO GIALLO IN PAUSANIA: vita esterofila, lusso, trame ad alto livello (la figlia del re…), Arglio-giovane amante tradito e condannato, murato vivo,( la mdre vecchia porta una pietra. Disputa sul corpo e resposo di Apollo sulla sua pace eterna
Attenzione al pubblico dei lettori: Cuius
de crudelitate ac perfidia satis est unam rem exempli gratia proferre, ne de eodem plura
enumerando defatigemus lectores. (Lys. 2)
- Il piacere della chiacchiera e pettegolezzo : Posteaquam robustior est factus, non minus multos amavit; in quorum amore, quoad licitum est odiosa, multa delicate iocoseque fecit, quae referremus, nisi maiora potiora haberemus. (Alc. 2)
PARTECIPAZIONE ED INTERVENTO DELL’AUTORE: At Alcibiades, victis Atheniensibus non satis tuta eadem loca sibi arbitrans, penitus in Thraeciam se supra Propontidem abdidit, sperans ibi facillime suam fortunam occuli posse. Falso. (Alc.9)
- VIRTUTES : neminem huic praefero fide, constantia, magnitudine animi, in patriam amore.(Thras.1)
aequitas, abstinentia,
Virtù: Liberalitas: in pauperes, in offensos fortuna,
NEPOTE MODELLO PER GLI AUTORI CRISTIANI (agiografia): Hunc Athenienses non solum in bello, sed etiam in pace diu desideraverunt. Fuit enim tanta
liberalitate, cum compluribus locis praedia hortosque haberet, ut numquam in eis custodem
imposuerit fructus servandi gratia, ne quis impediretur, quo minus eius rebus, quibus quisque
vellet, frueretur. 2 Semper eum pedissequi cum nummis sunt secuti ut, si quis opis eius indigeret, haberet, quod statim daret, ne differendo videretur negare. Saepe, cum aliquem offensum fortuna videret minus bene vestitum, suum amiculum dedit. 3 Cotidie sic cena ei coquebatur, ut, quos invocatos vidisset in foro, omnis devocaret; quod facere nullo die praetermittebat. Nulli fides eius, nulli opera, nulli res familiaris defuit; multos locupletavit; complures pauperes mortuos, qui unde efferrentur, non reliquissent, suo sumptu extulit. 4 Sic se gerendo, minime est mirandum, si et vita eius fuit secura et mors acerba. (Cimon 4)
Stupidità leggendaria dei Beoti: omnes enim Boeotii magis firmitati corporis quam ingenii acumini inserviunt (Alc.11)
VERSIONE SU COMPOSTI DI SUM
Conon Atheniensis Peloponnesio bello accessit ad rem publicam, in eoque eius opera magni fuit. Nam et praetor pedestribus exercitibus praefuit et praefectus classis magnas mari victorias gessit. Quas ob causas praecipuus ei honos habitus est. Namque omnibus unus insulis praefuit; in qua potestate Pheras cepit, coloniam Lacedaemoniorum. 2 Fuit etiam extremo Peloponnesio bello praetor, cum apud Aegos flumen copiae Atheniensium a Lysandro
sunt devictae. Sed tum afuit, eoque peius res administrata est. Nam et prudens rei militaris et
diligens erat imperator. 3 Itaque nemini erat his temporibus dubium, si adfuisset, illam Atheniensis calamitatem accepturos non fuisse. (Con. 1)
PERIODO IPOTETICO—URUM FUISSE
Itaque nemini erat his temporibus dubium, si adfuisset, illam Atheniensis calamitatem accepturos non fuisse. (Con. 1)
Hic multum ducem summum Agesilaum impedivit saepeque eius consiliis obstitit; neque vero non fuit apertum, si ille non fuisset, Agesilaum Asiam Tauro tenus regi fuisse erepturum. (Con.2)
Nomi greci: astu
- neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis appellatur (Praef.)
- quod proskynesin illi vocant (Con. 3)
- ille e contrario peltam pro parma fecit - a quo postea peltastae pedites appellantur (Iph. 1)
quod illi ‘ostrakismon' vocant (Cim. 3)
Itaque suae domi sacellum Automatias constituerat idque
sanctissime colebat (Timol.4)
Nemo in convivio eius aliud acroama audivit quam anagnosten (Att. 14)
Attigit quoque poeticen (Att.18)
- (Accusativo III declin.) Idem, cum quidam Laphystii similis, nomine Demaenetus, in contione populi de rebus gestis eius detrahere coepisset ac nonnulla inveheretur in Timoleonta, 3 dixit nunc demum se voti esse damnatum (Tim. 5)
- Erat eo tempore Thuys, dynastes Paphlagoniae antiquo genere Dat. 2)Ablativo assoluto: namque illo usus erat Alexandro vivo familiariter (Eum. 4)
Accusativo predicativo: Nam qui vivum eum tyrannum vocitarant, eidem liberatorem patriae tyrannique expulsorem praedicabant. (Dion 10)
COMPARATIO COMP.: Neque tamen ea non pia et probanda fuerunt, quod potius patriae opes augeri quam regis maluit. (Con 5)
CONCORDANZA: Qua victoria non solum Athenae, sed etiam cuncta Graecia, quae sub Lacedaemoniorum fuerat imperio, liberata est. (Con. 4)
Genitivo di stima: Namque hic multis milibus regiorum interfectis magni fuit eius opera. (Datames 1)
PARAGONE UGUAGLIANZA: Defecerat a rege Tissaphernes, neque id tam Artaxerxi quam ceteris erat apertum. (Con.3)
PRO + abl.(in cambio di..): Namque orbis terrarum divitias accipere nolo pro patriae caritate (Epam. 4)
Prop. Consecutive: Quibus cognitis rex tantum auctoritate eius motus est, ut et Tissaphernem hostem iudicarit et Lacedaemonios bello persequi iusserit et ei permiserit, quem vellet, eligere ad dispensandam
pecuniam. (Con 4)
Moto a luogo: Hic cum maximo studio compararet exercitum Aegyptumque proficisci pararet, subito a
rege litterae sunt ei missae (Dat. 4)
Gerundivo e participio congiunto: Hunc Datames vinctum ad regem ducendum tradit Mithridati. (Dat. 4)
Stato in Luogo (Eccez.): Itaque Conon plurimum Cypri vixit, Iphicrates in Thraecia, Timotheus Lesbo, Chares Sigeo; dissimilis quidem Chares horum et factis et moribus, sed tamen Athenis et honoratus et potens. (Chabr. 3)
Horum alter Babylone morbo consumptus est: Philippus Aegiis a Pausania, cum spectatum ludos iret, iuxta theatrum occisus est. 2 Unus Epirotes, Pyrrhus, qui cum populo Romano bellavit. Is cum Argos oppidum oppugnaret in Peloponneso, lapide ictus interiit. (Reges 2) - Cum hoc
eodem Clastidi apud Padum decernit sauciumque inde ac fugatum dimittit. (Hann. 3) - Hadrumeti reliquos e fuga collegit; novis dilectibus paucis diebus multos contraxit. (Hann. 6)
Romā legati Carthaginem venerunt. (Hann. 7)
Superlativo con PER: Hic peradulescentulus ad amicitiam accessit Philippi, Amyntae filii, brevique tempore in intimam pervenit familiaritatem (Eum. 1)
Supino attivo : Nam Nectenebin adiutum profectus regnum ei constituit (Chabr. 2)
Primo non accredidit: itaque Pharnabazum misit exploratum. (Dat. 3) - Quaerit, quibus locis sit
Aspis; cognoscit haud longe abesse profectumque eum venatum. (Dat. 4)
Magna praeda militibus locupletatis Ephesum hiematum exercitum reduxit (Ages. 2)
ipse Aegyptum oppugnatum adversus Ptolemaeum erat profectus (Eumen. 3)
Hic in Paraetacis cum Antigono conflixit, non acie instructa, sed in itinere, eumque male acceptum in Mediam hiematum coegit redire. (Eum. 8) - Cepit etiam Mamercum, Italicum ducem, hominem bellicosum et potentem, qui tyrannos adiutum in Siciliam venerat. (Timol 2)
Hinc invictus patriam defensum revocatus bellum gessit adversus P. Scipionem, filium eius, quem ipse primo apud Rhodanum, iterum apud Padum, tertio apud Trebiam fugarat. (Hann. 6)
Supino passivo : Hic autem, sicut ante saepe dictum est, quam invisa sit singularis potentia et miseranda vita, qui se metui quam amari malunt, cuivis facile intellectu fuit. (ion 9)
FRASI SEMPLICI
USO DEL PARTICIPIO:
Cuius de virtutibus vitaque satis erit dictum, si hoc unum adiunxero, quod nemo ibit infitias, Thebas et
ante Epaminondam natum et post eiusdem interitum perpetuo alieno paruisse imperio (Epam. 10)
Nam post Peloponnesium bellum Athenasque devictas cum Thebanis sibi rem esse existimabant et eos esse solos, qui adversus resistere auderent. (Pel.1)
- Gerundivo: praesidium Lacedaemoniorum ex arce pepulerunt, patriam obsidione liberarunt, auctores Cadmeae occupandae partim occiderunt, partim in exsilium eiecerunt. (Pel. 3)
- FORMA IMPERSONALE: Hoc tam turbido tempore, sicut supra docuimus, Epaminondas quoad cum civibus dimicatum est, domi quietus fuit (Pel. 4)
- DONO costruzione : Accus e abl: omnes Thessaliae civitates interfectum Pelopidam
coronis aureis et statuis aeneis liberosque eius multo agro donarunt. (Pel. 5)
- Finali relative: Namque fama exierat Artaxerxen comparare classis pedestrisque exercitus, quos in Graeciam mitteret (Ages. 2)
INTERVENTO E COMMENTO APPASSIONATO DELL’AUTORE : Cuius
exemplum utinam imperatores nostri sequi voluissent! (Ages. 4)
Giudizio storico contro il malcostume dei VETERANI: Namque illa phalanx Alexandri Magni, quae Asiam peragrarat deviceratque Persas, inveterata cum gloria tum etiam licentia, non parere se ducibus, sed imperare postulabat, ut nunc veterani faciunt nostri. Itaque periculum est, ne faciant, quod illi fecerunt, sua intemperantia nimiaque licentia ut omnia perdant neque minus eos, cum quibus steterint, quam adversus quos fecerint. 3 Quod si quis illorum veteranorum legat facta, paria horum cognoscat neque rem ullam nisi tempus interesse iudicet. (Eum. 8)
Modi di dire: Quod ei usu venit (cosa che gli capitò)(Ages. 8)
gerere morem
morem ei gessit (fece a suo modo)(Dion 3)
La sepoltura ad Atene: In hoc tantum fecit odium multitudinis, ut nemo ausus sit eum liber sepelire. Itaque a servis sepultus est.
(Phoc. 4)
FRASI SEMPLICI : Erat praeterea cum eo adulescens illustris, formosus, Hasdrubal….Non enim maledici tanto viro deesse poterant. (Ham. 3)
Nam paritur pax bello. (Epam. 5)
Mnemon autem iustitiae famā floruit (Reg,1)
Sed multorum obtrectatio devicit unius virtutem. (Hann. 1)
Longum est omnia enumerare proelia. (Hann. 5)
De Magonis interitu duplex memoria prodita est. (Hann.8)
Secutum est bellum gestum apud Mutinam.... Hostis Antonius iudicatus Italia cesserat; spes restituendi nulla erat. (Att.9)
Elegans, non magnificus; splendidus, non sumptuosus: omnisque diligentia munditiam, non affluentiam affectabat.
(Att. 13)
VERSIONI FACILI CONSIGLIATE
4. De Hannibalis victoriis in Italia.
4. Le vittorie di Annibale in Italia.
Conflixerat apud Rhodanum cum P. Cornelio Scipione consule eumque pepulerat. Cum hoc
eodem Clastidi apud Padum decernit sauciumque inde ac fugatum dimittit. 2 Tertio idem Scipio
cum collega Tiberio Longo apud Trebiam adversus eum venit. Cum his manum conseruit,
utrosque profligavit. Inde per Ligures Appenninum transiit, petens Etruriam. 3 Hoc itinere adeo gravi morbo afficitur oculorum, ut postea numquam dextro aeque bene usus sit. Qua valetudine cum etiam tum premeretur lecticaque ferretur C. Flaminium consulem apud Trasumenum cum exercitu insidiis circumventum occidit neque multo post C. Centenium praetorem cum delecta manu saltus occupantem. Hinc in Apuliam pervenit. 4 Ibi obviam ei venerunt duo consules, C. Terentius et L. Aemilius. Utriusque exercitus uno proelio fugavit, Paulum consulem occidit et aliquot praeterea consulares, in his Cn. Servilium Geminum, qui superiore anno fuerat consul.
Si era scontrato presso il Rodano con il console P. Cornelio Scipione e lo aveva sconfitto. Con questo stesso a Casteggio presso il Po combatte e lo congeda di lì ferito e messo in fuga. Per la terza volta lo stesso Scipione col collega Tiberio Longo presso la Trebbia venne contro di lui. Con costoro venne alle mani, li sconfisse entrambi. Di lì attraverso i Liguri passò l’Appennino, dirigendosi in Etruria. Durante questa marcia è colpito da una grave malattia degli occhi al punto, che in seguito non usò ugualmente bene l’occhio destro. E pur essendo allora oppresso da questa indisposizione ed essendo trasportato in lettiga uccise presso il lago Trasimeno il console C. Flaminio circondato con l’esercito da un agguato e non molto dopo il pretore C. Centenio che occupava i passi con un manipolo scelto. Di qui giunse in Puglia. Qui gli vennero contro due consoli, C. Terenzio e L. Emilio. Con un solo scontro mise in fuga gli eserciti di entrambi, uccise il console Paolo ed inoltre alcuni ex consoli, tra questi Gn. Servilio Gemino, che l’anno precedente era stato console.
9. De Cretensium avaritia et Hannibalis calliditate.
9. Avidità dei Cretesi ed astuzia di Annibale.
Antiocho fugato verens, ne dederetur, quod sine dubio accidisset, si sui fecisset potestatem, Cretam ad Gortynios venit, ut ibi, quo se conferret, consideraret. 2 Vidit autem vir omnium callidissimus in magno se fore periculo, nisi quid providisset, propter avaritiam Cretensium.
Magnam enim secum pecuniam portabat, de qua sciebat exisse famam. 3 Itaque capit tale consilium. Amphoras complures complet plumbo, summas operit auro et argento. Eas praesentibus principibus deponit in templo Dianae, simulans se suas fortunas illorum fidei credere. His in errorem inductis statuas aeneas, quas secum portabat, omni sua pecunia complet easque in propatulo domi abicit. 4 Gortynii templum magna cura custodiunt non tam a ceteris quam ab Hannibale, ne ille inscientibus iis tolleret secumque duceret.
Messo in fuga Antioco, temendo di essere consegnato, cosa che senza dubbio sarebbe accaduta, se avessero avuto il potere di lui (della sua persona), giunse a Creta presso i Gortini, per riflettere qui dove recarsi. Ma l’uomo più astuto di tutti vide che sarebbe stato in grande pericolo, se non avesse provveduto qualcosa, per l’avidità dei Cretesi. Infatti portava con sè molto denaro, di cui sapeva essere uscita la notorietà. E così prese tale decisione. Riempie di piombo parecchie anfore, copre le sommità d’oro e d’argento. Le depone, presenti i capi, nel tempio di Diana, simulando di affidare le se fortune alla loro lealtà. Indotti costoro in errore, riempie statue di bronzo, che portava con sé, con tutto il suo denaro e le butta nel cortile di casa.
I Gortini custodiscono il tempio con gran cura non tanto dagli altri quanto da Annibale, perché, a loro insaputa, lui non lo prendesse e lo portasse con sé.
3. De Catone litterarum cupidissimo.
3. Catone appassionatissimo di letteratura.
In omnibus rebus singulari fuit industria. Nam et agricola sollers et peritus iuris consultus et magnus imperator et probabilis orator et cupidissimus litterarum fuit. 2 Quarum studium etsi senior arripuerat, tamen tantum progressum fecit, ut non facile reperiri possit neque de Graecis neque de Italicis rebus, quod ei fuerit incognitum. Ab adulescentia confecit orationes. Senex historias scribere instituit. 3 Earum sunt libri VII. Primus continet res gestas regum populi Romani: secundus et tertius, unde quaeque civitas
orta sit Italica; ob quam rem omnes Origines videtur appellasse. In quarto autem bellum Poenicum est primum, in quinto secundum. 4 Atque haec omnia capitulatim sunt dicta. Reliquaque bella pari modo persecutus est usque ad praeturam Servii Galbae, qui diripuit Lusitanos; atque horum bellorum duces non
nominavit, sed sine nominibus res notavit. In eisdem exposuit, quae in Italia Hispaniisque aut fierent aut viderentur admiranda. In quibus multa industria et diligentia comparet, nulla doctrina. 5 Huius de vita et moribus plura in eo libro persecuti sumus, quem separatim de eo fecimus rogatu T. Pomponii Attici. Quare studiosos Catonis ad illud volumen delegamus.
In tutte le cose fu di singolare attività. Infatti fu sia agricoltore solerte, sia esperto giureconsulto, sia grande generale, sia gradito oratore, sia molto appassionato di letteratura. Il cui studia anche se l’aveva intrapreso da anziano, tuttavia fece un così grande progresso, che non facilmente può essere trovato né sulle cose greche né sulle italiche, cosa che gli sia stata sconosciuta.
Dalla giovinezza produsse discorsi. Da vecchio decise di scrivere le storie. Di esse ci sono sette libri. Il primo contiene le cose compiute del popolo romano: il secondo ed il terzo, da dove ogni città italica sia nata; per la qual cosa sembra le avesse chiamate Origini.
Nel quarto poi c’è la prima guerra punica, nel quarto la seconda.
E tutte queste cose sono state dette per sommi capi.
Continuò in ugual modo le altre guerre fino alla pretura di Servio Galba, che saccheggiò i Lusitani; ma di queste guerre non nominò i comandanti, ma annotò le cose senza i nomi. Negli stessi (libri) espose, le cose che o accadevano in Italia e nelle Spagne o sembravano da ammirare. Ed in essi appare molto impegno e diligenza, nessuna erudizione.
Sulla vita e sui costumi di costui parecchie cose abbiamo trattato in quel libro, che separatamente facemmo su di lui su richiesta di T. Pomponio Attico. Perciò rimandiamo gli appassionati di Catoni a quel volume.
13. De Attico bono patre familias.
13. Attico, buon padre di famiglia.
Neque vero ille vir minus bonus pater familias habitus est quam civis. Nam cum esset pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator. Neque tamen non in primis bene habitavit omnibusque optimis rebus usus est. 2 Nam domum habuit in colle Quirinali Tamphilianam, ab avunculo hereditate relictam; cuius amoenitas non aedificio, sed silva constabat. Ipsum enim tectum antiquitus constitutum plus salis quam sumptus habebat; in quo nihil commutavit, nisi si quid vetustate coactus est. 3 Usus est familia, si utilitate iudicandum est, optima; si forma, vix mediocri. Namque in ea erant pueri litteratissimi, anagnostae optimi et plurimi librarii, ut ne pedisequus quidem quisquam esset, qui non utrumque horum pulchre facere posset, pari modo artifices ceteri, quos cultus domesticus desiderat, apprime boni. 4 Neque tamen horum quemquam nisi domi natum domique factum habuit; quod est signum non solum continentiae, sed etiam diligentiae. Nam et non intemperanter concupiscere, quod a plurimis videas, continentis debet duci, et potius diligentia quam pretio parare non mediocris est industriae. 5 Elegans, non magnificus; splendidus, non sumptuosus: omnisque diligentia munditiam, non affluentiam affectabat.
Supellex modica, non multa, ut in neutram partem conspici posset. 6 Nec praeteribo, quamquam nonnullis leve visum iri putem: cum in primis lautus esset eques Romanus et non parum liberaliter domum suam omnium ordinum homines invitaret, scimus non amplius quam terna milia peraeque in singulos menses ex ephemeride eum expensum sumptui ferre solitum. 7 Atque hoc non auditum, sed cognitum praedicamus: saepe enim propter familiaritatem domesticis rebus interfuimus.
Né quell’uomo fu considerato meno buon padre di famiglia che cittadino. Essendo danaroso, nessuno fu meno smanioso di comprare di lui, meno amante di costruzioni. Né tuttavia anzitutto non abitò bene e si servì di tutte le cose migliori. Infatti ebbe la casa sul colle Quirinale, la Tanfiliana, lasciata in eredità dallo zio paterno; ma la sua bellezza consisteva non nell’edificio, ma nel parco. Infatti la stessa abitazione costruita anticamente aveva più di buon gusto che sontuosità; in essa non cambiò nulla se non qualcosa, spinto dalla vetustà. Si servì di una servitù, se si deve giudicare per dall’utilità, se dall’apparenza, appena modesta. Infatti in essa c’erano schiavi istruitissimi, ottimi lettori e moltissimi copisti, così che non c’era neppure uno accompagnatore, che non sapesse fare bene l’uno e l’altro di questi (compiti, in ugual modo gli altri artigiani, che la cura domestica richiede, (erano) estremamente bravi. Né tuttavia non ne ebbe nessuno se non nato in casa e istruito in casa; e ciò non è solo segno di moderazione, ma anche di avvedutezza. Infatti sia il desiderare non controllatamene, cosa che vedi da parte dei più, deve essere considerato (tipico) del moderato, sia è di non mediocre iniziativa procurarsi (le cose) piuttosto con attenzione che col denaro. Elegante, non sfarzoso; splendido, non prodigo: ogni attenzione esibiva decoro, non lusso.
La suppellettile semplice, non molta, tanto che non si poteva vedere (piegare) verso né una parte né l’altra. Né tralascerò, benché io pensi che da alcuni sarà visto come superfluo: essendo anzitutto un raffinato cavaliere romano e invitando non poco signorilmente in casa sua uomini di tutti gli ordini, sappiamo che non era solito registrare da spendere per la spesa più di tre migliaia ( di assi), secondo il registro dei conti, per ogni mese mediamente.
E questo lo affermiamo non come sentito, ma come conosciuto: spesso infatti per amicizia abbiamo partecipato alle cose domestiche.
INFINITIVE E LESSICO
Cuius flamma perterriti classiarii, cum manere non auderent et plurimi hortarentur, ut domos suas discederent
moenibusque se defenderent, Themistocles unus restitit et universos pares esse posse aiebat,
dispersos testabatur perituros idque Eurybiadi, regi Lacedaemoniorum, qui tum summae imperii
praeerat, fore affirmabat. (Them. 4)
La donna romana
Nata est autem Attico neptis ex Agrippa, cui virginem filiam collocarat. Hanc Caesar vix anniculam Ti. Claudio Neroni, Drusilla nato, privigno suo, despondit; quae coniunctio necessitudinem eorum sanxit, familiaritatem reddidit frequentiorem. (Att.19)
Le figlie povere
Quo factum est, ut filiae eius publice alerentur et de communi aerario dotibus datis collocarentur. (Arist. 3)
Matrimonio politico (su testimonianza di Tucidide, ateniese!!)
“Pausanias, dux Spartae, quos Byzantii ceperat, postquam propinquos tuos cognovit, tibi muneri misit seque tecum affinitate coniungi cupit. Quare, si tibi videtur, des ei filiam tuam nuptum. 4 Id si feceris, et Spartam et ceteram Graeciam sub tuam potestatem se adiuvante te redacturum pollicetur.
Matrimoni tra consanguinei
His de rebus si quid geri volueris, certum hominem ad eum mittas face, cum quo colloquatur. ” (Paus. 2)
Namque Atheniensibus licet eodem patre natas uxores ducere ( Cim 1)
UXOR
Quem enim Romanorum pudet uxorem ducere in convivium?
Aut cuius non mater familias primum locum tenet aedium atque in celebritate versatur? Quod multo fit aliter in Graecia. Nam neque in convivium adhibetur nisi propinquorum, neque sedet nisi in interiore parte aedium, quae gynaeconitis appellatur; quo nemo accedit nisi propinqua cognatione coniunctus. (Praef.)
Numerosa famiglia da tre mogli
(Dioniso primo) Maior enim annos LX natus decessit florente regno neque in tam multis annis cuiusquam ex sua stirpe funus vidit, cum ex tribus uxoribus liberos procreasset multique ei nati essent nepotes. (Reg.2)
Madre (Rinnega il figlio)
Dicitur eo tempore matrem Pausaniae vixisse eamque iam magno natu, postquam de scelere filii comperit, in primis
ad filium claudendum lapidem ad introitum aedis attutisse (Paus.5)
Proverbio
Quo magis praeceptum illud omnium in animis esse debet, nihil in bello oportere contemni, neque sine
causa dici matrem timidi flere non solere.
Sempre rispettata la madre.
Cum hoc ipsum vere gloriantem audierim in funere matris suae, quam extulit annorum XC, cum esset VII et LX, se numquam cum matre in gratiam redisse, numquam cum sorore fuisse in simultate, quam prope aequalem habebat. (Att.17)
Madre padrona e figlio succube.
Mnemon autem iustitiae famā floruit. Nam cum matris suae scelere amisisset uxorem, tantum indulsit dolori, ut eum pietas vinceret. (Reg.1)
Concubina premurosa.
At mulier, quae cum eo vivere consuerat, muliebri sua veste contectum aedificii incendio mortuum cremavit, quod ad vivum interimendum erat comparatum. Sic Alcibiades annos circiter XL natus diem obiit supremum. (Alci. 10)
Sorella
Neque enim Cimoni fuit turpe, Atheniensium summo viro, sororem germanam habere in matrimonio, quippe cum cives eius eodem uterentur instituto. At id quidem nostris moribus nefas habetur (Praef.)
Habebat autem matrimonio sororem germanam suam nomine Elpinicen, non magis amore quam more ductus. Namque Atheniensibus licet eodem patre natas uxores ducere. (Milth.1)

Esempio



  


  1. Laura

    Un concentramento di vizi e virtú: l'ateniese Alcibiade

  2. reto

    mi dispiace nn studio filosofia

  3. klà

    mi dispiace nn studio filosofia

  4. anto

    mi dispiace ma nn faccio filosofia

  5. traduzione dal latino

    marius agros quos hostibus ceperat inter suos divisit

  6. pep

    saiosaijodf opakofkgopmf naposgfa