Personaggi dei Promessi Sposi

Materie:Tema
Categoria:Italiano

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Testo

I personaggi dei promessi sposi
(Don) Abbondio:
Don Abbondio è un curato di un non precisato paesino di Lecco, in cui vivono Renzo e Lucia. Egli è un “uomo qualunque” che non si è mai sollevato all’altezza del suo ufficio di pastore d’anime, anzi, presenta una personalità passiva, difensiva e paurosa, tanto che l’autore lo definisce “non nobile, non ricco e coraggioso ancor meno” e sottolinea i suoi limiti umani e morali evidenziando la sua prepotenza contro i deboli e il suo asservimento ai potenti. I comportamenti del curato hanno sempre come obiettivo l’autodifesa dalla violenza del mondo e la salvaguardia della propria quiete, anche al prezzo di mancare ai suoi doveri verso i più deboli. I suoi gesti sono meccanici, consueti e rassicuranti e le sue reazioni alle peripezie, in cui tanto più lamentevolmente incappa quanto più si è impegnato ad evitarle, sono fin “troppo umane” per poter essere quelle di un uomo di fede, che dovrebbe rifiutare la terrestre gravezza della natura umana.
Il suo modus vivendi non può che essere oggetto dell’umorismo manzoniano che delinea questo personaggio come una figura comica, che richiama a sé un insieme di riprovazione e simpatia. Egli è un “vaso di terra cotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”, che ha innestato su un sacerdozio senza vocazione spirituale e pastorale un sistema di quieto vivere che segue con scrupolo convinto e totale: “scansar tutti i contrasti”. Da queste regole di vita derivano la sua aspra censura vero coloro che si espongono ai contrasti e, trascurando la prudenza per la giustizia, scelgono di difendere il più debole.
Agnese
Agnese è la madre di Lucia Mondella, l’unico genitore in vita dei due fidanzati. La sua presenza nell’opera è frequente e significativa, anche se non assurge mai a un ruolo di primo piano. Ella non è una figura psicologicamente complessa, piuttosto appare come un personaggio di “spalla”, che affianca sempre la figlia.
Il narratore la descrive come una donna sostanzialmente buona (“la buona Agnese”, cap.II), chiacchierona, combattiva, sempre pronta a prendere iniziative, a dare consigli e incoraggiare i due fidanzati. La sua funzione è quella di controcanto narrativo rispetto a Lucia: ai silenzi riflessi e alla profondità interiore della figlia si contrappone la loquacità un po’superficiale della madre. Questa antitesi si mostra già nel capitolo III, in cui Agnese appare contrariata perché Lucia ha rivelato il suo incontro con don Rodrigo a Padre Cristoforo.
La donna ha impostato la sua umile battaglia nel mondo sulla tenacia degli affetti familiari, dedicandosi con energia e coraggio al futuro della figlia e difendendo, nei momenti più difficili, persino Renzo, senza mai recedere dall’espressione che pronuncia nel capitolo VI: “se vi fidate di vostra madre”. Da lei, infatti, partono le iniziative, fallite, con cui i due fidanzati provano a superare la resistenza di Don Abbondio a celebrare il matrimonio: ella consiglia a Renzo di recarsi dall’Azzeccagarbugli (cap.III) e propone alla figlia e al giovane il “matrimonio a sorpresa” (cap.VI), prendendosi la briga di distrarre Perpetua per favorire l’ingresso dei due giovani in chiesa.
Dopo la fuga, il ricovero presso il convento di Monza è l’occasione in cui Agnese mostra la sua esperienza del mondo; tuttavia subisce i rimbrotti di Gertrude quando risponde al posto della figlia, imbarazzata e silenziosa di fronte alle domande della monaca (cap. IX).

Azzeccagarbugli:
L’Azzeccagarbugli è un avvocato di Lecco. Egli compare per la prima volta nel capitolo III per opera di Agnese, che propone a Renzo di consultarlo per ottenere un parere legale, dopo le minacce dei bravi di don Rodrigo che hanno trattenuto Don Abbondio dal celebrare il matrimonio fra i due protagonisti: “quello è una cima d’uomo!”, sentenzia Agnese.
Egli è in realtà un avvocato secentesco che usa ingannevolmente la legge al servizio dei potenti.
Ciò si nota già nello studio del dottore in cui campeggiano i ritratti dei dodici Cesari (gli imperatori romani da Giulio Cesare a Domiziano), simboli dell’assolutismo e anche dell’asservimento del dottore non alla legge ma al potere.
Il dialogo fra l’Azzeccagarbugli e Renzo è interamente costruito su un equivoco, in cui la parola non è altro che forma vuota e inganno: quando il giovane popolano racconta la vicenda del matrimonio impedito, il dottore crede di aver di fronte un bravo responsabile dell’intimidazione del curato e lo rassicura: “perché, vedete -dice- a saper maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente”; “purchè – precisa- non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci”. Sono parole che attuano un rovesciamento radicale di ogni principio di diritto e che esprimono una denuncia sottesa dell’autore a questo episodio: la giustizia degli uomini non difende gli umili da chi detiene il potere. Questo concetto viene evidenziato ancor di più dalla reazione del popolano il quale, resosi conto del sopruso, pensa ancora che l’ordine della verità possa essere ripristinato (“vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia”) e, invece, viene cacciato via in malo modo dal dottore.
Si comprende allora come, tornato in paese, egli cominci a chiamare giustizia quell’impulso vendicativo a cui la violenza (legale) del mondo l’ha costretto a ritornare: “saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente”.
(Fra) Cristoforo
Fra Cristoforo è il frate che aiuta i due protagonisti nella parte iniziale del romanzo.
Il narratore si sofferma molto sulla descrizione di questo personaggio, non solo della sua personalità e del suo aspetto fisico ma anche della sua vicenda e di alcuni cenni di quella del padre, perché i conflitti interiori del frate e tutti i suoi cambiamenti sono grandemente influenzati da anomalie educative e sociali, come ad esempio la gran vergogna che aveva il genitore verso la sua professione.
Fra Cristoforo è il difensore degli umili e degli oppressi, che porta nella sua ardente missione di carità lo spirito combattivo che aveva animato la sua giovinezza inquieta, ed il santo cappuccino che perennemente esorta a confidare in Dio ed opera coraggiosamente. L’autore evidenzia questa caratteristica del personaggio con una similitudine in cui gli occhi del frate, incavati e chinati a terra, che talvolta risplendono intensamente, vengono paragonati a due “cavalli bizzarri”. Sono i protagonisti dello sguardo di un uomo che vive una vita tormentata dal difficile rapporto con una realtà ostile al bene, ma appassionata dalla sua missione salvifica. Ciò è rivelato anche dal suo aspetto semplice, che trascura le apparenze: un capo rasato, salvo la piccola corona di capelli che vi gira intorno, secondo il rito cappucinesco; una barba bianca e lunga che copre le guance ed il mento e mette in risalto le forme accentuate del volto.
La scelta religiosa è la soluzione ai conflitti con la società e alle intime tensioni del personaggio, che dopo aver ricevuto un’educazione secondo i costumi nobiliari e dopo il tentativo fallito di entrare a far parte della classe signorile, istaura un rapporto di odio-attrazione con la nobiltà. È il drammatico episodio del duello in cui uccide un signorotto, quello che lo conduce alla scelta della monacazione a cui succederà l’umiliazione di fronte al fratello dell’ucciso. Fra Cristoforo da quel momento in poi sarà caratterizzato da una santità realizzata negli eccessi (la somma offesa dell’omicidio e la somma umiliazione), con cui incarna il divino mistero della contiguità del bene e del male del mondo, e la vocazione alla giustizia e alla difesa dei deboli.
Uno degli episodi in cui mostra la sua missione di carità è quella in cui, per aiutare Renzo e Lucia, si reca al castello di Don Rodrigo. Accetta anche di sedersi alla mensa dove banchettano e discettano questioni cavalleresche il conte Attilio, il dottor Azzeccagarbugli e alcune annuenti comparse: dopo di che, in privato colloquio, può finalmente avanzare, in tutta umiltà, la sua preghiera in favore dei promessi sposi, usando la sua cultura come fonte di fede religiosa e mezzo di apostolato. Di fronte alle insolenti ripulse di Don Rodrigo, che lo caccia addirittura dal castello, il cappuccino, deposta ogni prudenza e infiammato di sdegno, diventa un leone: punta un dito minaccioso addosso al prevaricatore e gli rammenta il giudizio di dio, perché la sua carità mai rassegnata vuole operare integralmente nel mondo e nello stesso tempo si situa al di là dei limiti della società e della storia.
Gertrude
Gertrude, ovvero la Monaca di Monza, è il personaggio protagonista dei capitolo IX e X dei Promessi Sposi. Essa rappresenta un’immagine opposta del mondo degli ordini religiosi, rispetto a quella offerta da Padre Cristoforo, perché da ospite e aiutante di Lucia si trasforma in aiutante dei suoi rapitori: appartenente alla più alta nobiltà, essa vive, fin dalla sua monacazione forzata tutte le contraddizioni e i malefici effetti dell’intreccio tra sistema ecclesiastico e prepotenza sociale.
È uno dei personaggi storici dell’opera: si tratta, in realtà, di Marianna de Leyva, di nobili natali, diventata nel 1951 suor Virginia Maria nel convento di Monza. Il narratore, rifacendosi alla vita della donna, si sofferma sulla ricostruzione della relazione di Gertrude ed Egidio, sulla sua seduzione agli intrighi di monastero, sull’uccisione della conversa e persino sul pentimento della “signora”e delle sue complici e sull’uccisione efferata di Egidio, colpito dalla giustizia pubblica.
L’autore usa queste pagine per mostrare l’orrore del peccato da cui il lettore deve prendere le distanze. Ciò viene sottolineato dal contrasto tra il fascino dell’innocenza di Lucia e l’astuzia malvagia di Gertrude, poi giustificata nel capitolo X dalla violenza subita dalla monaca da piccola, soprattutto in famiglia.
Quando Lucia, all’inizio del IX capitolo, giunge al convento di Monza per cercarvi ospitalità e ricovero, l’apparizione dietro la grata del parlatoio della “signora”, colei che non è badessa ma ha gran potere per i suoi nobili natali, suscita nel lettore una sospensione di curiosità e attesa. L’accurato ritratto fisico della donna, sottolinea i segni esterni di un segreto tormentoso, che presto appariranno come le tracce di una doppia vita. Sugli elementi puramente descrittivi prevalgono le interpretazioni psicologico-morali: “bellezza sbattuta, sfiorita e direi, quasi scomposta; contrazione dolorosa” della fronte; “investigazione superba, odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e feroce, svogliatezza orgogliosa” e “travaglio d’un pensiero nascosto” negli occhi; “abbandono del portamento; mosse repentine, irregolari e troppo risolute; qualcosa di studiato e di negletto” nell’abbigliamento.
Il flashback che spiega attraverso il racconto l’esistenza di quella che appare come una monaca singolare non scaturisce dall’impressione di altri personaggi, ma dai rilievi del narratore, che predispone il lettore alla digressione biografica.
La vicenda di Gertrude si distingue in due tempi: quello in cui essa è, sin dalla culla, vittima predestinata di un padre luciferino, padrone, egoista e crudele, che predestina la figlia alla monacazione; ed un secondo momento in cui ella stessa diventa strumento del male “responsabile del capriccio, del disordine e del peccato”. Evidente è la sproporzione delle due parti: il narratore si dedica soprattutto alla prima, riducendo la seconda ad una breve sequenza .
Nel racconto dell’infanzia e della giovinezza, il rapporto con il padre mette a nudo la fragilità del carattere della fanciulla, contrapposta alla crudeltà del nobiluomo: l’imprigionamento morale di Gertrude avviene sin dalla nascita, attraverso i giochi, i discorsi familiari, i ricatti affettivi. Una sistematica, ingannevole deformazione investe gli eventi: a una figlia bisognosa del perdono, per aver intrattenuto una corrispondenza con un paggio, il padre è capace di dimostrare che ogni possibilità di matrimonio è per lei ormai tramontata dopo una simile colpa. Quando Gertrude lascia sfuggire un assenso a una sua considerazione sui pericoli di cui il mondo è pieno, egli mostra di intendere quell’assenso come un’accettazione implicita del velo, e la travolge con una serie intramontabile di gesti e di discorsi, tutti volti ad esprimere un conforto e una felicità ormai certa, che l’intera famiglia è pronta a condividere.
Negli unici momenti in cui la ragazza potrebbe sottrarsi alla morsa che la stringe, la sua debolezza di volontà le impedisce di affrontare la situazione: nel momento in cui chiede pubblicamente di essere accolta nella comunità monastica viene guidata a distanza da occhi paterni; nel colloquio con l’esaminatore che dovrebbe vagliare attentamente l’autenticità della sua vocazione, l’evidenza terribile di quanto dovrebbe confessare la scoraggia e la spinge a rifugiarsi nella finzione delle parole: “e fu monaca per sempre”. Dal rancore e dalla frustrazione della vittima nasce la malvagità della suora. Gertrude, così, diventa preda di un umore astioso e variabile, che si sfoga con le altre monache o con le allieve a lei affidate, fin quando la tresca con Egidio non le ripropone la sottomissione alla volontà perversa di un uomo. La digressione rende chiaro il senso delle domande morbose che ella rivolge a Lucia sul nobile di cui essa ha rifiutato le offerte, ma fa intuire al lettore che Lucia anziché trovarsi sotto la protezione della monaca, sicura come sull’altare, è caduta in trappola. A Lucia, dei suoi discorsi rimane in cuore un confuso spavento, mentre Agnese si limita ad un giudizio generale, ma non benevolo.
Lucia Mondella
Lucia Mondella è la protagonista femminile dei Promessi Sposi. Ella, nel romanzo, appare un’immagine di stilizzata femminilità cristiana: come dice il suo nome, Lucia è colei che illumina, quintessenza popolare della donna angelo, segno di bene e salvezza, ma radicato in un mondo contadino pieno di incombenze materiali, ripetitivo, appartato, pauroso verso la realtà esterna. È l’esaltazione delle virtù cristiane: la fede, la pudicizia, la mansuetudine e la capacità di persuadere attraverso la forza della bontà. L’autore ha una particolare predilezione per lei, tanto che la rende rivelatrice del senso profondo di una vicenda il cui lieto fine esiste solo nell’ambito ristretto di una famiglia devota e santificata dall’amore, mentre il mondo e la storia appaiono in tutta la loro carica irredimibile di male e di disordine, che Lucia inquadra con la semplice fermezza della sua fede. Ella è un personaggio statico, che mantiene una limpida coerenza in tutte le sue azioni, nonostante sia costretta ad affrontare innumerevoli prove, e ciò la porta a diventare modello di medietas in cui traluce la traccia di un sublime che ha nell’interiorità il suo nucleo più profondo.
Lucia appare per la prima volta nel capitolo II, nel quale viene descritta fisicamente. Aspetto esteriore ed aspetto morale vanno di pari passo, o meglio il primo non è che un veicolo per arrivare al secondo. Nessun particolare, anche minimo, è fuori posto: ciascuno aggiunge un elemento rivelatore del carattere del personaggio. Il tratto fondamentale è quello della modestia (la sua è una “modesta bellezza”), che corrisponde al valore dell’umiltà. Si tratta tuttavia di un atteggiamento non arrendevole ma solido e ben meditato. Il carattere è inoltre riservato, ma non chiuso, come dimostra l’antitesi tra il corrugamento dei “lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca si apriva in un sorriso”. Le prime parole di Lucia sono pronunciate solo nel terzo capitolo, quando Renzo narra ad Agnese delle minacce di Don Rodrigo a Don Abbondio. Lei era l’unica a sapere del bieco interesse del signorotto nei suoi confronti, ne aveva parlato solo a Padre Cristoforo in confessione, ma adesso rivela la verità anche alla madre e al fidanzato, provando a mitigare le reazioni di Renzo e mostrando la sua assennatezza.
La nobile morale della ragazza si palesa in numerosi eventi: l’elemosina a fra Galdino (cap. III); il sollievo di fronte alla promessa di evitare ogni decisione avventata fatta da Renzo a Padre Cristoforo (cap. V); l’accettare la proposta del “matrimonio a sorpresa” solo per sviare l’ira di Renzo contro Don Rodrigo (cap. VIII).
Lucia è la protagonista dell’ “Addio ai monti”, in cui il narratore rivela i suoi pensieri mentre attraversa sulla barca il lago di Como, per recarsi a Pescarenico: a far da padrone è la morsa del dolore provocato dalle ingiustizie, che la porta a riflettere sulla triste sorte di coloro che devono fuggire a causa della violenza altrui.
Nel capitolo IX, Lucia, giunge al convento di Monza, luogo in cui la purezza della giovane viene contrapposta all’animo arido e disincantato di Gertrude: ciò è reso evidente dal rossore pudico della ragazza e da quello manifestato dalla monaca, a seguito del rimprovero del padre guardiano per la sua curiosità morbosa riguardo le vicende di Lucia.
Perpetua
Perpetua è la serva di Don Abbondio. È una donna “affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione”. Vive di luce riflessa del curato, costituendone un significativo antagonismo, sebbene non sia meno affetta del padrone da “fantasticaggini” sempre più frequenti nella sua quasi isteria di zitella.
Nonostante sia una donna di popolo, presenta sprazzi di saggezza e un seppur grossolano coraggio.
Manzoni non risparmia neanche lei dal suo umorismo.
Renzo Tramaglino
Renzo Tramaglino è il protagonista maschile dei Promessi Sposi.
Dal capitolo II si apprende che egli è un ragazzo ventenne, orfano dall’adolescenza, che lavora come filatore di seta per tradizione familiare, come molti attorno a Lecco, città nella quale è nato.
Egli è un personaggio fortemente dinamico, che nel corso del romanzo, grazie alle esperienze di cui è protagonista, subisce varie trasformazioni che lo rendono migliore. Nei primi capitoli, il narratore lo fa apparire un giovane schietto e coraggioso, preda di forti cambiamenti di stato d’animo, e caratterizzato da una forte sete di giustizia. Manzoni esprime attraverso questo personaggio uno degli aspetti del suo cristianesimo democratico: l’esigenza di giustizia, la quale si contempera con il messaggio religioso del romanzo, di cui il principale portatore è Lucia. Ella influenza il fidanzato, per il suo nobilissimo orizzonte morale, e si rende fautrice del perfezionamento e della definizione del carattere del ragazzo.
Nel capitolo II, si narra l’incontro tra Renzo e Don Abbondio, in cui il giovane fa di tutto per estorcergli il nome del prepotente e si sente impotente di fronte al “latinorum” del curato che egli non riesce a comprendere. Costretto a subire soprusi e torti, manifesta la sua rabbia immaginando agguati e vendette ai danni di Don Rodrigo. Supportato da Agnese, la madre di Lucia, Renzo non si perde d’animo e accetta di recarsi dal dottor Azzeccagarbugli: la sua ingenuità, però, lo espone a una delle tanta esperienze negative che vivrà nel corso del romanzo, come quella con quest’uomo di legge, che rappresenta il classico avvocato secentesco il quale usa ingannevolmente la legge al servizio dei potenti, riempiendo i suoi discorsi di parole vuote e intimidatorie (cap. III). Non basta l’intervento dell’aiutante, Fra Cristoforo, per consentirgli di pazientare e aspettare gli sviluppi della vicenda: infatti, egli organizza con Agnese il “matrimonio a sorpresa”, impegnandosi a cercare i testimoni. La sua ingenua ingegnosità è oggetto della comprensiva ironia del Manzoni: egli è solo un umile rappresentante di una società senza potere, costretta ad arrabattarsi per uscire fuori dalle maglie delle prepotenze.
(Don) Rodrigo:
Don Rodrigo è la figura di un malvagio aristocratico, che abita in un palazzotto isolato e tetro presso il paese dei due fidanzati Renzo e Lucia. Egli, nonostante la sua cattiveria e il violento rifiuto degli inviti alla conversione che gli giungono dall’esterno, appare insidiato da un sotterraneo senso di colpa e dalla paura del castigo divino. Le parole di cupa profezia e di minaccia, che Padre Cristoforo gli rivolge alla fine del dialogo (“Verrà un giorno…”) non solo provocano nel signorotto “un lontano e misterioso spavento”, ma sono anche l’incubo ossessionante che lo perseguita nel delirio della malattia, quando cioè si manifesta, nell’agitazione del sogno, la peste che lo condurrà al lazzaretto e alla morte.
Egli non è altro che un personaggio frutto della sua classe sociale e della sua epoca. Non è casuale, infatti, che le azioni del personaggio siano sempre concertate e realizzate insieme con qualcuno: il puntiglio d’onore che gli fa desiderare Lucia e lo spinge a mettere in moto il meccanismo di intimidazione di cui si vedono gli effetti nelle prime pagine del romanzo nasce una scommessa col cugino Attilio, mentre il colloquio con Padre Cristoforo è preceduto da quella sorta di intimidazione collettiva che è il banchetto con ospiti di riguardo a cui il religioso assiste. Il capitolo in cui la psicologia oscillante e insicura di don Rodrigo appare in piena luce è il VII, in cui il signorotto prepara il piano per rapire Lucia.

Esempio



  


  1. alemma

    se la badessa era daccordo col principe per far entrare gertrude in convento