La shoah

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Testo

TEMA: LA SHOAH

“Cercavano di cambiarci il colore degli occhi”.
Così parla Irene Zisblatt, riferendosi ai Tedeschi, dai quali fu fatta prigioniera nel 1944. La sua colpa? Essere ebrea. Una colpa tanto grave che “I nostri cosiddetti amici e i nostri vicini di casa erano in fila lungo la strada e urlavano: “Era ora! Fuori di qui!” e “Non abbiamo bisogno di ebrei nella nostra città!”, “Dobbiamo liberarci di tutti voi ebrei!” e io ero li, e non credevo ai miei occhi… Eravamo amici, avevamo cose in comune. Perché erano così ostili, perché ci odiavano così all’improvviso?”.
Se potessi parlarle, non saprei cosa risponderle. Non saprei se consigliarle di pensare a coloro che tanto l’avevano insultata, con pena o con rabbia: con pena per essersi comportati esattamente come il Führer e tutta la società di allora esigeva si comportassero; con rabbia, per essersi piegati, conigli paurosi, agli orrori che la mente malata di un solo uomo era stato in grado di creare. Proprio con la complicità della paura di tanti.
“Per ogni uomo che si buttava contro il filo spinato, prendevano cento prigionieri e li uccidevano davanti a tutti come esempio. Non ci lasciavano neanche morire quando volevamo noi”.
E così, come un dio onnipotente, il nazismo le portò via madre, padre e 5 fratelli, lasciandola unica superstite della sua famiglia. Salvata nel 1945 dagli americani, visse per due anni in un campo profughi; si trasferì negli Stati Uniti, dove si sposò, e con il marito ha avuto due figli e quattro nipoti.
Irene Zisblatt è diventata famosa, insieme agli altri sopravvissuti ungheresi, oggi cittadini americani, Tom Lanton, Alice Lok Cahana, Reneé Firestone e Bill Basch, grazie al film “Gli ultimi giorni”, il terzo documentario della Shoah Foundation.
Anche Primo Levi, chimico e scrittore italiano, è stato uno dei sopravvissuti famosi. Ma sopravvivere non è stato sufficiente a restituirgli la vita e la voglia di viverla, perché i ricordi e il senso di colpa per essere riuscito a scampare allo sterminio, mentre sei milioni di persone erano morte, lo hanno perseguitato per il resto della sua esistenza, spingendolo al suicidio, avvenuto nel 1987.
Sei vite profondamente segnate, sei nomi che si perdono fra quelli che, una volta, i responsabili dei campi di concentramento controllavano, per essere sicuri di non aver dimenticato nessuno. Sei nomi che mancano all’appello dei morti di Auschwitz-Birkenau e Buchenwald, insieme a quelli dei tanti sopravvissuti senza volto, che oggi vivono nell’anonimato insieme al peso del proprio passato.
Sopravvissuti che si domandano quotidianamente “Perché io?”, che durante la notte rivivono i giorni di angoscia e di dolore del proprio soggiorno nei campi di sterminio, e possono ancora sentire le grida e il pianto dei familiari, ma anche dei compagni di cella o di coloro che si è visti una sola volta, sul treno che li trasportava verso la morte.
Testimonianze come queste fanno capire cosa sia stata la Shoah, termine ebreo che significa catastrofe, distruzione, preferito ad Olocausto, come tale genocidio è più conosciuto, il cui significato, “sacrificio propiziatorio”, lo rende quasi un insulto al dramma a cui si riferisce.
Un dramma che abbraccia il periodo che va dal 30 Gennaio 1933, quando Hitler divenne Cancelliere della Germania, all'8 Maggio 1945, la fine della II Guerra Mondiale in Europa, durante il quale circa sei milioni di ebrei furono uccisi solo per essere nati tali e perchè non rispondevano ai requisiti della “razza superiore”, quella ariana.
Oggi è facile atteggiarsi a falsi moralisti, storcere il naso e domandarsi pubblicamente “Perché?”, quando in realtà le risposte ci sono già, ma sono scomode.
Hitler non è il capro espiatorio su cui riversare tutte le colpe: non c’è dubbio che sia stato un folle, carismatico, ma pur sempre un folle. Tuttavia, normalmente, i pazzi vengono internati. Il Fuhrer, invece, è stato libero di procedere nei suoi abominevoli piani. Perché? Perché gli ebrei sono sempre stati invisi a tutti, sia a causa della loro religione che della loro ricchezza.
La Chiesa cattolica, nel corso dei secoli, a partire già dal ‘300, li ha accusati di essere gli “assassini di Cristo” e di praticare riti demoniaci, mentre la propaganda nazista li ha dipinti come portatori di idee socialiste e fautori di oscuri complotti volti al dominio del mondo.
E, nonostante tutto ciò, nonostante le prove storiche, le testimonianze dei sopravvissuti e i campi di concentramento che ancora si ergono dal suolo a riprova di quanto accaduto, nonostante le camere a gas che ancora sono pervase dal tanfo della morte, qualcuno nega.
Qualcuno ha il coraggio di minimizzare l’accaduto, di riscrivere i libri di storia contemporanea, affermando, come fa Jean-Marie Le Pen in un'intervista radiofonica del 1987, che "Non dico che le camere a gas non siano esistite. Io non le ho viste. Non ho studiato la questione, ma penso che sia solo un dettaglio nella storia della seconda guerra mondiale".
Un dettaglio che avrebbe riempito sei milioni di tombe, se non si fosse trovata la più pratica soluzione dei forni crematori.
E Le Pen è uno dei più moderati: c’è addirittura chi sostiene che le camere a gas e lo sterminio in genere siano un'invenzione della propaganda alleata, sostenuta dall'internazionale ebraica. I “revisionisti” o “negazionisti”, come sono state definite queste menti a dir poco disturbate, sostengono che le camere a gas non siano mai esistite, ma che il gas servisse alla disinfestazione dai parassiti; i morti non sarebbero affatto circa sei milioni, ma meno di duecentomila, eliminando le morti naturali e quelle “dovute alle incursioni aeree degli alleati”; l’Endl sung, la “soluzione finale”, non sarebbe stata l’idea di uno sterminio totale degli ebrei, ma la loro espulsione verso est, dove sarebbero state previste riserve in cui potessero vivere le minoranze etniche.
Perché tanti sopravvissuti ai lager avrebbero mentito? I negazionisti rispondono immediatamente che sia tutto per motivi di denaro; la Germania, così calunniata, è costretta a pagare le riparazioni di guerra allo Stato di Israele. Anzi, c’è di più: i lager sono stati organizzati proprio dagli ebrei, come parte integrante del secolare complotto giudaico mirato alla conquista del mondo. Addirittura, le banche ebraiche avrebbero finanziato Hitler.
Di questo passo si arriverà a sostenere che siano stati gli ebrei a perseguitare ed uccidere i tedeschi, nonché a costringerli ai lavori forzati.

In questo clima di indifferenza e scetticismo, l’Italia, dal 27 gennaio 2001, celebra in questa data il “Giorno della Memoria”, per commemorare l’omonima data del 1945, quando furono abbattuti i cancelli del campo di Auschwitz. Il rischio è che, come avviene per tutte le celebrazioni, ci si limiti a mere ed ipocrite manifestazioni di dolore e di cordoglio, salvo poi dimenticare tutto per gli altri 364 giorni dell’anno. Il rischio è di dimenticare le 7579 vittime della Shoah solo in Italia, le normative antiebraiche emanate nel nostro Paese da quegli stessi organi che il 31 luglio 2000 hanno stabilito di celebrare una giornata in memoria delle vittime dell’antisemitismo nazista.
Ma il rischio più grande è ricadere nello stesso errore.
Viene da domandarsi in che modo agire, di cosa servirsi nel caso un simile dramma rischiasse di consumarsi di nuovo. E, a mio avviso, non è nelle religioni che sta la soluzione.
Non credo che questa mia posizione derivi dal rapporto che ho, o meglio, che non ho, con la fede. Un’attenta analisi della storia può rivelare facilmente come gli uomini, in nome della propria religione, abbiano sterminato tanti dei propri simili.
Partendo dalla Chiesa cattolica, come non andare subito col pensiero alle Crociate? Quelle guerre combattute solo in apparenza per riappropriarsi della Terra Santa, che, teoricamente, sarebbe rimasta tale sotto il governo di qualunque credo, volendo ammettere che effettivamente abbia dato i natali a Gesù Cristo, ma che in realtà nascondevano sotto questo “nobile” scopo, quelli ben più pratici di tutti i partecipanti. Grandi e piccoli feudatari, interessati, i primi, ad estendere i propri possedimenti, i secondi, a sfuggire al proprio destino di figli cadetti con la conquista di nuovi territori; i commercianti più ricchi, che cercavano nuovi mercati di sbocco; la chiesa stessa, nel suo eterno progetto di sottomettere la chiesa ortodossa e di cacciare gli islamici; infine, la massa di proletari, spinti unicamente dalla fame costituivano un ricco esercito di “illuminati”.
Non c’è quindi da meravigliarsi se, una volta ottenuto il controllo delle vie commerciali e del mercato mediterraneo, oltre all’introduzione di nuove industrie e manifatture, nessuno si sia lamentato più di tanto per il fallimento di quello che doveva essere lo scopo principale delle crociate.
Sorvolando sulla vendita delle indulgenze, spia rossa della corruzione ecclesiastica, come non citare in causa l’Islam e la Jihâd?
Nonostante il Corano consigli al fedele "Se qualcuno degli idolatri ti chiede asilo, accordaglielo affinché possa udire la parola di Dio e conducilo in un luogo per lui sicuro", ciò non ha impedito ai califfi di condurre le proprie “guerre sante”, che, di santo, non avevano proprio nulla. Anch’essi accecati dalla prospettiva del potere e del dominio su altre terre ed altri uomini, non hanno esitato a stravolgere il significato stesso del termine Jihâd, che, in realtà, significa “sforzo”, inteso come sforzo interiore e materiale per rimuove il male, ma, certamente, non mediante azioni terroristiche.
Travisare i messaggi dei libri sacri, siano essi la Bibbia, il Corano o i Veda, non è tanto difficile, quando si vuole farlo. Ormai si assiste ad una situazione in cui, contemporaneamente, la religione è serva dell’uomo e l’uomo è servo della religione, a seconda dei casi.
Nulla a che vedere con quella che dovrebbe essere la vera concezione di fede, intesa come dimensione spirituale dell’individuo, sinonimo di coscienza e morale.
Basandosi unicamente sulle verità storiche a noi pervenute, è naturale lasciarsi pervadere da una sensazione di sconforto: la natura umana stessa è fallace, e la religione è professata, decisa, diffusa da uomini, che, quindi, possono sbagliare e sbagliano di continuo. Il primitivo bisogno di affidarsi ad un’entità superiore nel momento in cui si sentono venir meno le certezze ha ormai lasciato spazio ad una visione corrotta e bigotta della religione; tuttavia, le eccezioni non mancano.
Una tra tutte, Papa Giovanni Paolo II.
Nonostante io non riconosca ciò che ha rappresentato, nonostante io mi professi distante dalla religione cattolica così come da tutte le altre, non posso non dichiarare tutta la mia ammirazione per colui che, prima di essere un Papa, è stato un grande uomo.
Non è da tutti riuscire a far tacere tutte le armi del mondo per un’intera giornata. Anzi, non era da nessuno, prima del Papa, così come non era da nessuno riuscire a riunire 50 rappresentanti di chiese cristiane e 60 di altre religioni mondiali, impresa nella quale Karol Wojtyla, invece, è riuscito, il 27 ottobre 1986. Non è da tutti chiedere scusa per peccati non commessi in prima persona, addossarsi la responsabilità di tanto odio passato; eppure, Karol Wojtyla l’ha fatto. Ha chiesto scusa proprio a tutti: agli ebrei, che ha definito “fratelli maggiori”; agli islamici, per le guerre mosse contro di loro dai cristiani; agli stessi cristiani, per gli orrori dell’inquisizione. Cinicamente, potrei dire che chiedere scusa adesso, dopo che i morti di allora non saranno più nemmeno polvere, non serve a nulla; e, in effetti, non serve a riportarli indietro. Ma, forse, nell’atto di ammissione da parte di un leader religioso, che, per dogma, dovrebbe essere infallibile, si può leggere l’inizio di un cambiamento. Quando un Papa cristiano visita le sinagoghe, infila la propria lettera in una crepa del Muro del Pianto, come un qualunque ebreo; quando si inginocchia in preghiera insieme all’Arcivescovo di Canterbury; quando riceve per ben 8 volte il Dalai Lama; quando la sua morte viene seguita addirittura nei paesi musulmani e nella laicissima Cina, significa che qualcosa stava cambiando.
I pilastri sui quali costruire un solido ponte sono stati eretti, perché, come dice Simon Wiesentahal, ebreo laico sfuggito alla morte durante il periodo nazista e dedito alla cattura dei responsabili dello sterminio “Non esistono popoli buoni e popoli cattivi, ma uomini buoni e uomini cattivi”, e sta proprio a quegli uomini buoni continuare l’opera.
Papa Giovanni Paolo II ora non c’è più, ma restano i suoi insegnamenti. Resta la consapevolezza che egli non si chiese mai quale fosse la fede di un uomo giusto, ma che cercò quelle basi umane e morali che possono costituire il punto d’incontro per gli uomini di qualunque razza e credo religioso. Resta il suo esempio, resta la sua visione della religione, i suoi ideali di fratellanza e di uguaglianza.
Resta sulla terra l’uomo, ogni uomo, che, in cuor suo, dovrebbe conoscere la risposta alla domanda: “Come smettere di odiare?”. Restano tutte le religioni, nessuna più importante delle altre, ma nemmeno indispensabile, a fare da semplice guida a coloro che vorranno farsi guidare.
Restano coloro la cui fede è ancora pura, libera dalle implicazioni utilitaristiche dell’interpretazione umana; restano i missionari, quelli veri, che portano nelle zone dove davvero c’è bisogno di credere per andare avanti, aiuti concreti e spirituali. Ci sono, insomma, uomini che, nel loro piccolo, sono tanti Wojtyla; osservando la loro opera, le loro azioni, indipendentemente dal mio scetticismo, posso constatare come la religione non sia solo sinonimo di distruzione e di divisione. È naturale che molto dipende dagli uomini, dal loro modo di interpretare la fede e di viverla; tuttavia, osservare realtà in cui essa diviene davvero un faro al quale andare incontro, mi aiuta a comprendere le motivazioni di quanti vi si affidano. La speranza nell’esistenza di un essere superiore può aiutare quanti non trovano in sé la forza di affrontare la vita da soli; io ritengo di potercela fare da sola, ma ciò non toglie che qualunque cosa possa spingere gli uomini alla coesione e alla pace sia ben accetta. Anche il più sconosciuto dei credo.
Ma, forse, la strada più giusta, sarebbe quella di ascoltare la religione che viene da dentro. Una religione diversa da tutte, ma per certi versi uguale a quella di altri 7 miliardi di cuori.

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