I Più Grandi Poeti Che Cantarono L'amore

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Testo

I più grandi poeti che cantarono l’amore
L’amore è uno dei sentimenti fondamentali dell’animo umano e da sempre ha ispirato l’espressione artistica e letteraria. Ecco alcuni poeti che hanno saputo ben rendere omaggio a questo sentimento senza età.
Dante alighieri - Nato a Firenze da Alighiero di Bellincione e dalla sua prima moglie Bella (forse degli Abati), sotto il segno astronomico dei Gemelli (cfr. Par. XXIII 112-117) fra il 21 maggio e il 21 giugno del 1265, Dante morì a Ravenna, dopo un esilio quadrilustre, la notte fra il 13 e il 14 settembre 1321. Visse dunque 56 anni e quattro mesi; età non breve, ma di fronte alla quale la sua multiforme operosità poetica, letteraria, civile, per ampiezza e profondità di interessi, per i raggiunti vertici dell'arte, appare senz'altro prodigiosa, se si pensi che per la maggior parte essa va sicuramente collocata negli anni fortunosi e travagliati dell'esilio, e se ne consideri la complessa ricchezza di motivi ed esperienze diverse, retoriche, cortesi, etico-politiche, nutrite di accese speculazioni dottrinali. Per non parlare poi del capolavoro - quella Comedìa saldamente maturata in una mirabile reductio ad unum di una vita sofferta e vissuta - ch'è già di per sé stessa espressione summatica e ineguagliabile della civiltà medievale, ma insieme per certi aspetti partecipa di quel profondo rinnovamento culturale che col Petrarca e col Boccaccio fonderà il nuovo Umanesimo e aprirà le porte alla civiltà moderna. Con i suoi primi biografi e i pochi documenti non invidiati dal tempo, Dante stesso è fonte delle notizie sulle origini della sua stirpe (cfr. Par. XV-XVI). Il suo trisavolo, Cacciaguida figlio di Adamo, era nato alla fine del secolo XI nella Firenze della "cerchia antica " (Par. XV 97): testimonia, con suo padre, in atti del 28 aprile 1131. Due suoi fratelli, Moronto ed Eliseo, dettero origine a nobili casate fiorentine; prese in moglie una donna nata presso il delta del Po ("val di Pado"), forse degli Aldighieri di Ferrara, che gli dette due figli, Preitenitto e Alighiero (vivo ancora nel 1201). Lasciata la casa paterna presso l'odierna via degli Speziali, essi si trasferirono nel popolo di San Martino del Vescovo (presso l'odierna via Dante Alighieri). E lì da Bellincione, figlio (con Bello) di Alighiero, nacque, insieme a cinque fratelli, Alighiero II, padre del poeta. L'antica nobiltà di sangue è attestata da Dante medesimo (Cacciaguida, armato cavaliere da Corrado II, morì in Terrasanta nella Crociata del 1147), e confermata dalla consorteria con gli Elisei, i Ravegnani, i Donati; il poeta si compiacque di farla risalire ben in alto, leggendariamente legandola alle origini romane della sua città. Antica nobiltà cittadina, non ricca di terre e castelli nel contado (pochi e modesti i possessi nei dintorni immediati di Firenze), ma inserita piuttosto nella vita economica del Comune mercantile e artigianale. Bellincione, avo di Dante, prestò denaro in Firenze e in Prato; Alighiero II continuò fino alla morte (avvenuta prima del 1283) l'attività paterna. Questa attività di prestatore (che offrirà il destro al "rinfaccio" di Forese Donati nella sua tenzone con Dante) non indorava certo il blasone familiare; e ci spiega come il poeta, in tutte le sue opere, accenni rarissimamente ai congiunti. Non rilevante l'importanza del casato anche entro la vita politica della Firenze guelfa; se Bellincione e Brunetto presero parte ai Consigli del Comune, il loro scarso peso politico è provato (almeno per Bellincione e Alighiero II, che a noi soprattutto interessa) dal mancato esilio dopo la sconfitta di Montaperti. Mancano infatti i loro nomi nelle liste dei danneggiati dai Ghibellini fra il 1260 e il 1266; e solo Geri del Bello, cugino del poeta, ebbe a dolersi al ritorno da Bologna d'un danno parziale alla sua casa. Dante nacque così "sovra '1 bel fiume d'Arno a la gran villa" (Inf. XXIII 95): in quella Firenze ormai lontana dal quieto vivere cittadinesco rievocato nostalgicamente, qual mito generatore di poesia, per bocca di Cacciaguida, e tutta protesa verso una espansione territoriale ed economica considerata dal poeta causa profonda e primaria delle discordie intestine che la travagliarono (Par. XVI 49-78). L'inserirsi della nobiltà feudale nella vita economica e politica cittadina (man mano che la vivace espansione comunale piegava e costringeva ad inurbarsi i feudatari finitimi) aveva infatti portato a forti contrasti di interessi; nel 1216, dopo l'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti da parte degli Amidei (Par. XVI 136-147) le famiglie magnatizie si divisero così in due opposte fazioni, schierate l'una coi Guelfi e l'altra coi Ghibellini, mentre il popolo, grasso e minuto, rimaneva all'inizio fuori della lotta. L'appoggio di Federico II condusse i Ghibellini (capeggiati dagli Uberti) al potere nel 1248; ma la sua morte, cui seguì il crollo della parte imperiale in Italia, consentì al Popolo grasso, nell'ottobre 1250, di insorgere (mentre i Guelfi erano ancora in esilio) e di impadronirsi del Comune. È il cosiddetto "primo Popolo" o "Popolo vecchio", che dura per dieci anni, fino alla sconfitta delle forze comunali a Montaperti (4 settembre 1260), ad opera dei fuorusciti Ghibellini, dei Senesi, dei cavalieri teutonici di Manfredi: "'1 grande scempio Che fece l'Arbia colorata in rosso" (Inf. X 85-6). Fu posta allora in gioco l'esistenza stessa della città, non rasa al suolo dai vincitori solo per l'opposizione generosa, nella dieta d'Empoli, di Farinata degli Uberti, "colui che la difese a viso aperto" (Inf. X 93), ma che vide annullati i nuovi ordinamenti e le conquiste di parte democratica. Il sangue versato a Montaperti e le rappresaglie ghibelline segnarono d'altronde il definitivo orientamento guelfo del popolo e del Comune. Dopo la battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) ove Carlo d'Angiò sgominava Manfredi e il partito ghibellino, Firenze gravitò così sempre maggiormente entro la sfera d'influenza angioina e papale, non senza fieri contrasti sociali dovuti alla politica decisamente antimagnatizia del Comune guelfo (soprattutto dopo il Priorato delle Arti, 1282, e il "secondo Popolo") e conflitti esterni, dovuti al proseguire di una vigorosa azione di conquista. Questi gli avvenimenti, gravidi degli sviluppi che alcuni anni più tardi lo vedranno non più giovane spettatore ma deciso attore, entro i quali Dante visse puerizia e giovinezza; e ne trasse avvìo alle future meditazioni. Mortagli prestissimo la madre, e risposatosi Alighiero con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, ebbe l'infanzia almeno allietata dalla compagnia d'una sorella maggiore, presto sposa a Leone Poggi, e poi da Francesco e Tana (Gaetana), fratelli di secondo letto. Dopo i primi precoci studi (come allora usava) di grammatica e retorica, ecco i contatti, però non ancora determinanti, con gli auctores latini, e i frequenti incontri con l'ambiente culturale fiorentino che grandemente favorì nel giovinetto una naturale, spontanea inclinazione alla poesia. In ordine di tempo e di importanza, primo l'incontro con Brunetto Latini, rientrato in Firenze dall'esilio di Francia nel 1266 e ivi morto nel 1294 dopo aver ricoperto cariche importanti (fra cui quella di Cancelliere del Comune e, nel 1287, di Priore) e aver "digrossato" i fiorentini avviandoli e spronandoli con documenti di sapienza retorica e di viver civile. Oggi più non si crede ch'egli sia stato, in senso proprio, il "maestro" di Dante: certo però che, per ammissione dello stesso poeta, gli insegnò ad ogni modo "come l'uom s'etterna" (Inf. XV 85): cioè come lascia durevole traccia di sé con le proprie opere letterarie (ibid. 119-120). Tirocinio retorico e letterario, insomma, provato da numerosi imprestiti da testi brunettiani presenti nel Dante maggiore e minore, latino e italiano, e nell'ambito del quale vanno collocati quegli esercizi, condotti con piglio quanto mai franco e sicuro, e a non grande distanza l'uno dall'altro, che sono il Detto d'Amore e il Fiore (riduzioni in versi italiani del Roman de la Rose): che appunto si muovono nell'ambito della tecnica retorica e della cultura di volgarizzatore cara al Latini (e sia pure con una vivissima e schietta apertura verso la res iocosa) e la cui attribuzione all'Alighieri, ancor oggi non condivisa in maniera concorde dalla critica, può essere saldamente documentata attraverso una rigorosa indagine di ordine stilistico, che misuri le qualità concrete di quell'arte in rapporto agli altri rimatori, e che insieme riproponga su nuove basi sia il problema cronologico sia la caratterizzazione stessa di quei componimenti entro la biografia intellettuale dell'Alighieri e la sua disponibilità, di volta in volta, a nuovi sperimentalismi (rifusi poi tutti nel crogiolo del poema maggiore). Accanto alla "imagine paterna" di Brunetto, si collocano i rimatori fiorentini che operavano nella scia della scuola siciliana e di Guittone, cerchia la cui produzione poetica è raccolta nel codice Vaticano 3793 (del sec. XIII), fratello gemello del Canzoniere prestilnovista ove Dante compié i suoi giovanili esercizi di lettura. Ma su tutti, per l'importanza degli influssi e quindi degli sviluppi concreti dell'arte dantesca, la poesia e l'amicizia di Guido Cavalcanti: il "primo amico" cui Dante, raggiunta la maggiore età (per lui orfano di padre rappresentata dai 18 anni) e prossimo a prendere in moglie, attorno il 1285, Gemma Donati (destinatagli già nel 1277) inviò il sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, dopo quasi due lustri collocato in apertura alla Vita Nuova, appunto a lui dedicata. La prima esperienza poetica dell'Alighieri si venne in tal modo svolgendo entro schemi sicilianeggianti e guittoniani (corrispondenza con Dante da Maiano) e poi subito cavalcantiani (e alla graziosa levità di alcune ballate si affiancheranno allora accenti di doloroso turbamento e di amore tormentoso, in nuove e più drammatiche forme stilistiche); ma acquisterà poi uno spiccato carattere di individualità, quando con le cosiddette "rime di loda" per Beatrice, il poeta, con un colpo d'ala, saprà e vorrà staccarsi dai moduli della poesia amorosa tradizionale, sviluppando appieno la lezione del Guinizzelli e trascendendola, con la canzone Donne,ch'avete intelletto d'amore, vero e proprio manifesto poetico delle "nove rime" (cfr. Purg. XXIV 50-51). Con esse davvero il poeta esce fuori "de la volgare schiera" (Inf. II 105), distinguendosi per nobiltà di ispirazione e magistero di stile dagli altri rimatori in volgare. Sotto la spinta di nuove conquiste ideologiche e pragmatiche, con le "rime di loda" Dante si fa adesso assertore di una poesia amorosa tutta legata alla scoperta del valore analogico della bellezza di Beatrice donna quale mezzo di conoscenza metafisica del divino (posizione culturale che nutrirà di sé plenariamente le linee maestre del Paradiso) e insieme pienamente conscia della necessità di rinunciare (entro la nozione letteraria e teologico filosofica dell'amore "gratuito", mediata da Cicerone e dai trattatisti dell'amore dei secoli XII-XIII) ad ogni speranza e desiderio di concreta remunerazione: un terreno sul quale avverrà lo scontro, prima ideologico che letterario, con Guido Cavalcanti, l'amico di un tempo (e ne conseguirà il distacco sottolineato a Inf. X 58-63). Tali nuove conquiste, indubbio frutto di nuove letture (alla morte di Beatrice Portinari avvenuta l'8 giugno 1290 seguì, come il poeta stesso ci dice, un periodo di studi severi) particolarmente da Boezio, Cicerone, Agostino, Aristotele ed altri testi filosofici, sono dal poeta cristallizzate paradigmaticamente nella sua Vita Nuova che, attorno al 1293, raccoglie in una cornice prosastica (dunque un prosimetrum sull'esempio del De Consolatione di Boezio ma anche della originaria concezione del Tesoretto del Latini e di alcune razos provenzali) 31 componimenti composti fra il 1283 e il 1291, organizzati in una trama fantastica e concettuale che vuol essere ripensamento, sul filo ideale del "libro della memoria", degli avvenimenti e dei momenti fondamentali dell'amore per Beatrice, dal primo incontro (avvenuto all'età di nove anni) alla "mirabile visione" (seguita alla sua morte) di quell'angiola giovanissima contemplata in gloria; probabile primo germe, sia pure embrionale, di quella che sarà, al tempo della Commedia, la glorificazione di Beatrice "nel trono che i suoi merti le sortiro" (Par. XXXI 69). Come si è già accennato, alla morte di Beatrice seguì un periodo di studi severi. Dante getta ora le basi di tutto il suo mondo speculativo e pratico; accanto al poeta si plasma il robusto (anche se eclettico) pensatore, quale apparirà nelle opere più complesse dell'età matura. Boezio e Cicerone gli aprono un mondo nuovo; egli frequenta presso i Francescani e i Domenicani "le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti" (Convivio II xii 7). Da questo arricchimento di pensiero e dall'incontro con testi e autori classici e medievali basilari per la sua formazione (Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, le opere d'Aristotele - particolarmente l'Etica e la Politica - commentate da San Tommaso, Alberto Magno, San Bonaventura, Averroè) nascono le rime allegoriche in lode della Filosofia come scienza (Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente mi ragiona) e quelle dottrinali, a celebrazione di due virtù morali, Nobiltà e Leggiadria. Quest'ultime (Le dolci rime e Poscia ch'Amor) per il reciso giudicare su idee e modi di vivere correnti, mostrano non solo (come le precedenti) il dilatarsi d'una cultura e di una problematica, riflessa in temi nuovi (con la rinuncia a poetare unicamente d'amore); ma sono il chiaro frutto della quotidiana, risentita esperienza (vòlta in meditazione) di come i pregiudizi di casta fossero alla base delle violenze magnatizie (un tema che affiorerà, con Filippo Argenti, nel canto VIII dell'Inferno); e ci dicono l'avvenuta concreta adesione agli ideali democratici del Comune guelfo, alla cui vita Dante veniva sempre più partecipando. Dopo la giovanile, guerresca veglia d'armi della battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), a cui Dante prese parte quale "feditore" a cavallo, e le operazioni militari di due mesi più tarde contro il castello pisano di Caprona (cfr. Inf. XXI 95; XXII 4-6; Purg. V 92), la riforma degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (6 luglio 1295) e la concessione ai nobili di partecipare alle cariche pubbliche purché aderissero, anche nominalmente, ad una delle Arti e non fossero Cavalieri, consentirono infatti a Dante, iscrittosi all'Arte dei Medici e degli Speziali (per gli studi filosofici che seguiva) di iniziar la sua vita politica: lo troviamo nel Consiglio speciale del Capitano del Popolo a partire dal semestre novembre 1295 - aprile 1296. In questo primo incontro con la vita pubblica egli non fu però molto attivo: non prese mai la parola. Altri, in quel torno di tempo, i suoi problemi, e d'ordine squisitamente letterario: del dicembre 1296 è la prima delle quattro "petrose" (Io son venuto al punto de la rota) scritte per una donna, "Pietra", che duramente si nega all'amore del poeta, rime che non vanno più considerate (come un tempo) testimonianza d'una ardente passione dei sensi, ma come il consapevole inizio d'una più matura stagione di poesia, d'una nuova esperienza stilistica e metrica (modulata su le difficili orme di Arnaut Daniel), lontana ormai dalla giovanile poetica dello Stil Nuovo e aperta, nel forte vocabolario e nell'ampiezza e robustezza dell'invenzione, verso le ardue virtuosità stilistiche del poema maggiore. Ma gli eventi storici che dal 1295 (anno dell'elezione di Bonifacio VIII al pontificato) condizionarono sempre più la vita fiorentina, tolsero ben presto Dante alla poesia per farne uno dei maggiori responsabili delle vicende cittadine. Riaffermate le istanze integraliste e teocratiche del papato, Bonifacio si inserì abilmente nel giuoco di accese rivalità della politica interna di Firenze, sfociata in aperta lotta tra le fazioni cittadine, dei Guelfi Neri (capeggiati dai Donati, di ascendenza magnatizia) e dei Guelfi Bianchi, più moderati (capeggiati dai Cerchi, famiglia di banchieri e mercanti). Quando il Popolo volle richiamare in Firenze Giano della Bella, i Grandi ricorsero al papa, che a tale richiamo si oppose con la bolla del 23 gennaio 1296. L'ingerenza papale si fece poi sempre più pesante, sia in occasione della "Crociata" contro i Colonna (1298) sia in occasione dell'arbitrato tra Bologna e Ferrara. L'appoggiarsi dei Donati al pontefice tramutò quella ch'era fino a quel momento lotta intestina di parti in un conflitto di poteri tra il Comune e il papato, ben presto drammatico quando fu palese che i Neri si erano accordati segretamente con la corte di Roma. La Signoria di parte Bianca colpì allora duramente i traditori, esiliandoli nonostante la fiera opposizione del papa. Il quale per suo conto, forte della vacanza imperiale e della dottrina della plenitudo potestatis, mirava al predominio sull'Italia centrale. La posizione dantesca in questi avvenimenti è chiarissima, pur in mancanza di documenti ufficiali esaurienti: egli sostiene una politica di assoluta indipendenza e autonomia comunale, come appare dagli incarichi sempre più importanti che adesso consegue. Ambasciatore il 7 maggio 1300 a San Gimignano per consolidare i legami degli associati alla Taglia Guelfa, fu eletto tra i Priori dal 15 giugno al 14 agosto 1300: evidente coronamento, d'una precisa visione politica. Anche nel Consiglio dei Cento (in previsione dello scontro diretto) egli si adoperò il 14 aprile, il 19 giugno e il 13 settembre 1301 perché fossero richiamate le truppe messe in precedenza a disposizione del pontefice. Dopo la sua elezione a Priore, egli divenne il capo riconosciuto dei, Bianchi più decisi ad opporsi a Bonifacio VIII e agli Angioini; ma le sue proposte di resistenza non piacquero alla maggioranza, che ancora sperava nel compromesso. Quando Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, era alle porte di Firenze (inviato da Bonifacio quale paciere, ma con lo scopo segreto di favorire i Donati), e il 4 ottobre 1301, giunto a Castel della Pieve, si univa ai Neri là confinati, la Signoria preferì mandare ambasciatori al papa. Tra essi fu l'Alighieri, che pure aveva propugnato ben diversa politica. Partito nella seconda metà d'ottobre, non doveva più rientrare in Firenze. Entrato il 1° novembre Carlo di Valois, il 4, alla spicciolata, tornarono i più facinorosi fra i Neri; e iniziarono così i processi contro i Bianchi, accusati di ghibellinismo e di frodi nell'amministrazione della cosa pubblica. Il 27 gennaio 1302 Cante Gabrielli da Gubbio, podestà nominato dai Neri, condannava Dante (solo colpevole d'essersi opposto alle mire del pontefice) a pagare 5000 fiorini e a restare due anni fuori di Toscana; il 10 marzo, non essendosi egli presentato a pagare, fu pronunciata la sua condanna a morte. Dante era in quel mentre sulla via del ritorno da Roma. Si unì allora agli altri esuli (Bianchi e Ghibellini) che, muovendo dalle terre mugellane di Ugolino Ubaldini, tentavano di rientrare in città con le armi. L'8 giugno 1302, è tra i firmatari, a San Godenzo, di un impegno a risarcire gli ospiti per i danni derivanti dalla guerra. Nel 1303, per procacciare alleati, si reca a Forlì presso gli Ordelaffi e a Verona presso Bartolomeo della Scala. Morto nell'ottobre di quell'anno Bonifacio, nel cuore degli esuli, concentrati nell'Aretino, risorge la speranza. Benedetto XI manda nel marzo 1304 a Firenze, quale paciaro, il Cardinale Niccolò da Prato. Ma le trattative (documentate anche da una Epistola dantesca al Cardinale) naufragarono per l'intransigenza dei Neri. Si venne ancora alle armi; e dopo la infausta giornata della Lastra (20 luglio 1304) naufragarono definitivamente i sogni di una imminente rivincita. In quei giorni Dante aveva però già "fatta parte per se stesso" (Par. XVII 69), dopo forti contrasti (ibid. 64-6) sulla politica da adottare. L'amor di patria era in lui più forte che l'amor di parte: sono i sentimenti che emergono sia dalla già citata Epistola I, sia dal Congedo della grande Canzone dell'esilio, Tre donne intorno al cor (1304), ispirata tutta all'amore per la Giustizia e al desiderio di conciliazione; e che animeranno la poesia dell'episodio di Farinata (Inf. X). Staccatosi dalla "parte selvaggia", Dante è veramente esule e solo, costretto ad andare povero e ramingo per quasi tutte le parti d'Italia (Convivio I III). Poche le notizie certe delle sue peregrinazioni. Fra il 1304 e il 1306 lo accolse Bologna, città propizia agli studi e che già gli aveva offerto in gioventù materia al poetare; lì furono probabilmente disegnate e in parte composte due opere dense di dottrina, che mostrano una fervida ripresa di studi filosofici e retorici e un ulteriore allargarsi di prospettive letterarie, culturali, civili e politiche: il Convivio e il De vulgari Eloquentia. Dante vuole con esse innalzare la sua fama di studioso, al fine di ottenere la revoca della condanna: un'altra delle sue illusioni di poeta. La nostalgia della patria lontana, la speranza del ritorno, animano infatti con accenti commossi entrambi i trattati, anche se Dante si proclama con nobili accenti cittadino del mondo. Rimaste interrotte le due opere sia per l'espulsione degli esuli da Bologna (1306) sia per l'incalzare d'un nuovo e più vasto disegno che in effetti le trascendeva, quello del poema maggiore, Dante riprende il suo peregrinare. Poche le notizie certe: il 6 ottobre 1306 stipula a Sarzana la pace tra Franceschino Malaspina e il Vescovo di Luni; nel 1308 è probabilmente a Lucca; indi, dal Casentino, invia a Moroello Malaspina la Canzone Amor, da che convien, con una Epistola dichiarativa (IV). Lì dovette giungergli notizia dell'elezione di Arrigo VII al trono imperiale (1308): fatto capitale, per chi s'era ormai convinto (cfr. il trattato IV del Convivio) che solo la vacanza dell'Impero aveva consentito il prevalere dell'integralismo pontificio e provocato quindi la catastrofe di parte Bianca e il tragico disordine sociale e civile di quegli anni. Esulta pertanto il cuore dell'Esule (Epistola V, del 1310) quando Clemente V accetta di incoronare in Roma il Cesare eletto; e le due successive epistole politiche, del 1311 (VI, ai Fiorentini di dentro; VII all'Imperatore) sono chiaro documento dell'animo di chi anela a rimuovere ogni ostacolo a la discesa d'Arrigo e ad affrettare i tempi d'una desiderata, necessaria pacificazione. Per aver fiancheggiato la parte imperiale, Dante sarà così escluso dall'amnistia concessa da Firenze (nella imminenza dell'assedio d'Arrigo) ai fuorusciti: ma per suprema reverenza verso la patria che pur gli era stata noverca, egli non partecipò direttamente alle operazioni militari: manca, infatti, il suo nome nella rinnovata sentenza di condanna emanata dal Comune nel marzo 1313. La sua azione si era invece, e assai più validamente, svolta sul piano teorico, nel trattato latino in tre libri intitolato alla Monarchia: probabilmente composto all'atto della discesa di Arrigo e vòlto a mostrare la necessità della monarchia pel benessere del mondo nonché l'indipendenza dell'Imperatore dal Pontefice. Morto Arrigo a Buonconvento (24 agosto 1313), tramontarono definitivamente i sogni e le speranze del poeta, che dopo aver soggiornato qualche tempo in Toscana (forse presso Uguccione della Faggiuola, signore di Lucca) tornò verso il 1316 nell'Italia del Nord, a Verona, ove Cangrande, vigoroso e impetuoso Vicario imperiale, veniva realizzando il suo audace disegno di un potente stato ghibellino. A questi anni risalgono le tre ultime Epistole a noi note, la XI (ai Cardinali italiani raccolti in Conclave dopo la morte di Clemente: giugno 1314), la XII (a un Amico fiorentino, per rifiutare una amnistia a condizioni umilianti: maggio 1315) e la XIII, con la quale, nel 1316, egli dedica a Cangrande la cantica del Paradiso, appena iniziata, e ne offre un saggio di commento, assieme a un importantissimo inquadramento generale dei significati e del fine della Commedia. Lasciata Verona verso il 1318, Dante trascorre a Ravenna, attorniato dai figli Pietro, Jacopo e Antonia e da pochi, fedeli amici, l'ultimo periodo della sua vita. La calda ospitalità di Guido da Polenta allevia le cure familiari; e lì egli conduce a compimento l'opera sua maggiore, la Divina Commedia, iniziata attorno al 1308 come un vasto e possente affresco che traducesse e rappresentasse in immagini poetiche le avventure più segrete dell'animo suo, i suoi dolori e le sue speranze, gli odi violenti e tenaci ma anche le amorose e fiduciose, anzi incrollabili certezze di poeta e di credente, e insieme riaffermasse in modo esemplarmente valido per ogni tempo, attraverso un continuo giudicare sugli uomini e sulle cose umane di quegli anni, una ben precisa concezione morale e politica del mondo, dei fini e dei doveri dell'umanità tutta, entro e in rapporto al duplice ordine della Natura e della Grazia. Le prime due cantiche del poema erano già compiute entro il 1316, il Paradiso sarà invece pubblicato dai figlioli, Pietro e Jacopo, nel 1322. Una breve ulteriore permanenza a Verona è testimoniata dalla Questio de Aqua et Terra, del gennaio 1320, disputa scolastica su un argomento caro alla cultura accademica (se l'acqua in qualche sua parte possa essere più alta della terra emersa: tema risolto negativamente), ma anche chiaramente legato alla concezione cosmologica e figurativa dell'universo tolemaico ch'è alla base del poema. A Ravenna furono composte due Egloghe responsive (in latino) a Giovanni del Virgilio, che lo aveva esortato a comporre un poema in versi latini di materia storica, e lo invitava a Bologna promettendogli l'alloro poetico. Inviato da Guido da Polenta ambasciatore a Venezia, per dirimere una pericolosa controversia con la potente vicina, e còlto sulla via del ritorno da febbri malariche, il poeta, che aveva da poco terminato la cantica del Paradiso, moriva la notte fra il 13-14 settembre 1321.
Francesco petrarca - nato ad Arezzo nel 1304, figlio di un notaio fiorentino esiliato per motivi politici, fin da piccolo Francesco Petrarca fu costretto a seguire i lunghi spostamenti del padre, che lo portarono prima in altre città toscane e poi ad Avignone, in Francia, dove all’epoca si era trasferito il Papato. Il suo primo maestro fu il dotto Convenevole di Prato, al cui magistero seguirono gli studi giuridici, presto oscurati dalla passione per i classici greci e latini. Dopo la morte della madre, Eletta Cangiani, Francesco ritorna ad Avignone, dove decide di prendere gli ordini minori, a differenza di suo fratello Gherardo che voterà invece la sua esistenza al sacerdozio, nel monastero di Montrieux. Nel 1330, il poeta entra al servizio del Cardinale Giovanni Colonna, ma risulta che già fosse stato stipendiato da Giacomo, fratello del porporato. I rapporti con il Cardinale non furono facili, nonostante Petrarca godesse nella casa di prestigio e libertà. Giovanni volle sempre mantenere un ruolo di dominus, atteggiamento ben diverso da quello mostrato da Giacomo, coetaneo, compagno di studi ed intimo amico del poeta. La situazione precipitò quando Francesco non nascose il suo sostegno nei confronti della rivoluzione antinobiliare di Cola di Rienzo, indirizzata anche contro la famiglia Colonna; perciò quando da Parma alla fine del luglio del 1348 giunse notizia della morte del Cardinale, fu solo il triste epilogo di un rapporto nei fatti già compromesso, vivo solo sotto un aspetto formale.
Il periodo 1347-1348 fu in realtà un periodo costellato di eventi funesti. Dopo la scomparsa di Giovanni Colonna lo raggiunse la morte di Laura, stroncata dalla peste ad Avignone nel luglio del 1348. Quando ne ebbe notizia Petrarca si trovava a Verona. Di ritorno dalla Provenza in autunno aveva scelto come dimora la casa di Parma, città dalla quale di sovente si spostava per recarsi in Veneto e in Emilia. Il tempo aveva quasi completamente cancellato la sua passione per Laura, una figura ormai viva solo in metaforizzazioni simboliche, estranea al desiderio ma già presenza immortale nelle sue rime giovanili. L’erotismo, giunto all’immaginario poetico, riempiva l’universo ideologico e concettuale del poeta. È difficile stabilire quanto questi eventi abbiano inciso sull’animo di Francesco, ma essi ebbero una forte valenza simbolica, di frattura e di passaggio da una stagione all’altra della vita, che lo indussero a comprendere di essere giunto a un momento esistenziale decisivo.
Viaggi ed esperienze non erano certamente mancati in una vita in alcuni casi dispersiva, con fughe, ribellioni e prese di posizione sostenute, però, con poca convinzione, visto il perdurare di due punti di riferimento: Avignone e la famiglia Colonna.
Nei confronti della città francese, Petrarca nutriva una assoluta indifferenza, trasformatasi successivamente in odio, per il luogo ed per il tipo di vita al quale lo costringeva il potere politico espresso dalla curia papale. Avignone, però, e di questo Francesco era consapevole, aveva influito fortemente sulla sua formazione come luogo di scambio politico e culturale, in un secolo denso di eventi. L’arrivo, presso il papato di scrittori e dotti provenienti da tutta Europa favoriva il confronto e il dibattito, unitamente alla conoscenza che si accumulava nelle numerose biblioteche private e al fiorente mercato letterario. Tutti elementi fondamentali per la formazione di Francesco, intellettuale lontano dalla scuola e dalle università, orientato a un apprendimento basato sull’interscambio personale, all’interno di circoli selezionati, e nel contatto fisico con i libri.
I Colonna, nonostante essere al loro servizio gli fosse pesato, furono per Francesco ugualmente importanti, dato che solo per loro tramite gli si aprirono diverse possibilità. L’influenza della famiglia in Francia ed in Italia era fondata su una una fitta rete di relazioni che permisero al poeta di accedere ai luoghi dove la ricerca storica e filologica prosperava, spalancandogli le porte di biblioteche e ambienti altrimenti inaccessibili, per venire in possesso di volumi rari e costosi. La stessa incoronazione sul Campidoglio di Roma nell’aprile del 1341 fu promossa dai Colonna, con un'azione prima sotterranea e poi di palese supporto. Fu quello il momento decisivo per la consacrazione di Francesco Petrarca nell’olimpo dei letterati più importanti e famosi d’Europa. Anche la scoperta della città eterna si lega ai Colonna: l’essere stato accolto sotto l’ala protettrice della famiglia gli permise di vivere a fondo l'esperienza romana, conoscere la città, sentirsi cittadino di quella patria ideale vagheggiata in gioventù.
Alla morte del Cardinale, nulla più lo tratteneva ad Avignone, così non aveva impedimento alcuno a trasferirsi in Italia, ma una scelta di quel tipo avrebbe comportato profondi rivolgimenti con l’assunzione di nuovi punti di riferimento, ambientali, sociali e politici. In Italia molti avevano espresso il desiderio di ospitarlo, cosicché qualsiasi scelta doveva, per forza di cose, essere accuratamente motivata, con la conseguenza di una nuova empasse che durò alcuni anni.
Il mito poetico di Laura aveva oramai esaurito le sue espansioni e metaforizzazioni simboliche, riducendosi alla riproduzione, tra revisioni ed accorgimenti, di racconti ed immagini. Solo un evento esterno avrebbe potuto imprimere una svolta rivitalizzante; così la scomparsa di Laura, forse dolorosa per l’amante, stimolò invece forti suggestioni simboliche per il poeta, costretto ora a cercare nuove vie o, perlomeno, a ripercorrere, in altro modo, quelle già conosciute. Francesco aveva perduto il suo universo ed ora, angosciato, cercava il futuro della propria poesia, sospesa tra la volontà di un ritorno ad un rassicurante passato ed un’incerta prospettiva ventura. La scelta fu di natura intimistica: il poeta decise di raccogliere la sua produzione, ordinarla e ad essa affidare l’immagine di sé.
Viaggiatore irrequieto, Petrarca sarà protagonista di numerosi spostamenti tra il 1347 ed il 1351, che toccheranno città come Parma, Verona, Padova, Mantova, piccoli centri come Carpi e Ferrara. Grande rilevanza avrà il suo viaggio a Roma nel 1350 in occasione del Giubileo. Durante questo viaggio, il poeta fece tappa a Firenze ed anche ad Arezzo, circostanze che potrebbero collegarsi ad un desiderio di ritornare alle proprie radici. Né la città dei suoi avi né quella natale suscitarono tuttavia in lui particolari emozioni. Gli unici avvenimenti interessanti furono l’incontro con Lapo di Castiglionchio il Vecchio e la conoscenza di Giovanni Boccaccio, il quale diventerà il suo più importante amico. Il vero ritorno alle origini fu il viaggio a Roma, città sempre in grado di suscitargli grandi entusiasmi, ma assolutamente cambiata rispetto agli anni della gloriosa incoronazione in Campidoglio, tanto da indurre Francesco ad accettare nel 1351 l’invito di Clemente VI a tornare ad Avignone.
La Provenza ospitò Petrarca per altri due anni, un periodo di intenso lavoro, nei quali trovò una nuova vena artistica, ma proprio allora, improvvisa, maturò la decisione di rientrare in Italia. Lasciata la terra di Francia nel 1353, dove non avrebbe mai più fatto ritorno, obbedendo al suo spirito irrequieto e curioso, scelse come dimora Milano, una città sconosciuta, dove la sua natura di uomo senza radici poteva ritrovare nuovo vigore.
Fu però a Valchiusa che nacque in Petrarca l’idea di raccogliere, con un criterio ordinatore e di ampliamento, le rime sparse, sottoposte fino agli ultimi anni di vita a un'intensa attività di edizione e di riorganizzazione, che testimonia il suo genuino interesse per la poesia in volgare.
Il cambiamento introdotto da Petrarca si basa fondamentalmente sull'imposizione di regole, disciplina, ordine alla poetica contemporanea, come avveniva nel Duecento, tesaurizzando e ampliando le potenzialità della lingua poetica toscana che Dante aveva messo in evidenza. Saranno una serie di esclusioni a caratterizzare questo nuovo modello che tanto influenzerà i rimatori a venire; generi, temi e lingua non dovranno mai andare oltre uno specifico canone letterario, duttile, armonico e scevro dalle accidentalità del parlato. La produzione originale sarebbe andata negli anni man mano scemando, lasciando il posto ad un certosino lavoro di cesura e ordinamento, foriero anche su questo terreno di epocali novità in quanto la frammentarietà, tipica fino ad allora del componimento poetico, veniva abbandonata per creare, attraverso le singole liriche, momenti intimi tra loro collegati in un disegno complessivo morale, introspettivo e personale, a testimonianza della propria esperienza di uomo, amante e poeta. Francesco, però, avrà sempre presente l’originaria frammentarietà delle rime, definendole sparse o fragmenta, pur consapevole dell’organicità del proprio lavoro.
Nella redazione definitiva il Canzoniere sarà formato da 366 rime, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. L’innamoramento e la morte di Laura giustificano la divisione dell’opera in due parti, in vita e in morte di Madonna Laura. La prima parte è segnata da un grande numero di rime legate alla vicenda d’amore e si conclude con un elogio di Laura, simbolicamente raffigurata attraverso l’alloro, Arbor Victoriosa, triumfale, 263, esaltata anche per virtù e castità. La seconda è aperta da una canzone che osserva l’errore dell’infatuazione, I’vo pensando et nel penser m’assale, 264, a causa della quale Francesco ha creduto, sbagliando, in un bene fatuo. È il senso voluto imprimere da Francesco all’ordine delle sue rime a caratterizzarne la specificità come risultato di una complessa elaborazione, con spostamenti di collocazione dettati dagli scopi senza tenere conto della data di composizione, ma rispondenti all’ideale sviluppo che quei frammenti dovevano delineare, anche, se necessario, attraverso la composizione, di rime atte a colmare i vuoti di quel disegno. La costruzione di una sorta di romanzo della propria vita e del proprio amore, nel quale gli avvenimenti risiedessero nelle sfumate allusioni, nascoste o visibili nelle sue rime, sempre seguendo quel disegno specifico maturato negli anni della riflessione, il periodo compreso tra il 1332 e il 1348: questa è l’intenzione sottesa alla creazione da parte di Francesco Petrarca del Canzoniere.
Un medesimo criterio organico lo ritroveremo anche nelle opere in latino che il poeta stava componendo in quello stesso periodo, opere erudite, ispirate dalla conoscenza di testi storici e morali degli antichi, una sorta di riproposizione del modello cristiano e letterario delle raccolte di exempla, risalenti esse stesse a Valerio Massimo e Svetonio autori di raccolte e biografie di personaggi illustri. Il De viris illustribus, destinato a delineare il profilo di uomini politici e guerrieri, come Romolo e Catone, e di personaggi biblici, quali Abramo, Mosé ed Ercole, è l’opera nella quale il segno della nuova tendenza di Petrarca è più forte, imprimendo nel suo percorso culturale lo spostamento dai temi giuridici e teologici ad argomenti storici e morali atti a scandagliare la storia e la conoscenza dell’uomo. I Rerum memorandum libri, raccolta di aneddoti, vicina al modello di Valerio Massimo, va anch’essa in questa direzione con una particolare attenzione all’esempio morale come guida indispensabile per l’uomo. L’interesse storico si esprime invece nel poema in esametri Africa, voluto per celebrare la grandezza e la gloria di Roma, ma interrotto al IX libro. L’opera doveva avvicinarsi al modello classico della poesia, mescolando, memore dell’insegnamento virgiliano, motivi epici e sentimentali, intrecciando le gesta di Scipione, liberatore della città eterna, con la tragica vicenda amorosa di Massinissa e Sofonisba.
Gli onori e la persistente passione amorosa diverranno per Francesco uno stimolo ad interrogarsi sulla sua esistenza terrena, minacciata dall’allontanarsi dalla prospettiva eterna, dettata dalla cristianità. Francesco indagò la contrapposizione tra la vita contemplativa e quella mondana, allora per lui prevalente, giungendo ad una profonda introspezione dell’esistenza, divisa tra la gioia e la paura della morte, temi analizzati nel Secretum, dialogo in tre libri sulla conflittualità dei suoi sentimenti, i cui interlocutori sono Sant’Agostino e Francesco, il poeta incapace di sradicare il male dalla sua anima, pur conoscendone l’origine. Il Secretum è un dialogo interiore alla presenza della verità, dove il ruolo di maestro e guida spirituale è riservato ad Agostino, il quale rappresenta anche la coscienza stessa del poeta che, appellandosi alle Sacre Scritture ed ai testi morali degli antichi, osserva la vera natura del male, insito nella volontà, ma dovuto, secondo Francesco, alla fragile natura umana sempre in balia della fatalità e del destino che le è riservato. Il primo libro osserva gli ostacoli frapposti inconsapevolmente dall’uomo stesso sulla strada della propria salvezza. Il secondo libro analizza, canonicamente, i vizi capitali, puntando l’attenzione sull’acedia-la latina aegritudo-, l’accidia, quella condizione angosciosa causata all’uomo dal terrore della morte. Nel terzo libro il significato di amore e gloria come beni eterni o tramiti verso la perfezione morale e l’immortalità viene confutata, sgombrando l’animo di Francesco dalla fede in questa effimera illusione. La contrapposizione tra la vita contemplativa ed il materialismo esistenziale diventa nelle ultime pagine del Secretum un problema di natura culturale e letteraria, con Francesco che si chiede se sia ancora possibile per lui occuparsi di scrittori pagani, o metterli da parte, intensificando il suo rivolgersi al Creatore. Petrarca confessa così la volontà di completare gli studi eruditi, sebbene consapevole del loro limite e del suo desiderio di santità. L’amore per i classici è per Francesco una scelta culturale ed esistenziale, universo cui è necessaria la contemplazione dovuta alla religione: la solitudine diventa l’impegno morale del laico che, dedito durante la giornata a nobili occupazioni, studia, conosce se stesso e quale ruolo gli è riservato nel mondo.
Il De vita solitaria, composto a Valchiusa nel 1346-1347, mostra questa vita ideale, affiancandosi, e non contrapponendosi, alla contemplazione dell’esistenza ascetica e monastica. Il De ocio religioso, un trattato sulla vita ascetica, scaturito da una visita al caro fratello Gherardo a Montrieux, è la consacrazione della felicità monastica, condizione privilegiata per la tradizione cristiana. Francesco pare anelarla quale risoluzione degli affanni, delle paure, dei dolori e delle insicurezze dell’umanità.
Durante la difficile e complessa rielaborazione delle rime sparse, Francesco concepì anche i Trionfi, un poema in volgare intriso della sua riflessione ideologica, presentata sotto forma di narrazione simbolica. Il titolo è ispirato dalle spettacolari e successive rappresentazioni, cui il poeta immagina di assistere come in una visione significativa sul vero senso della vita. Le parti del poema- composto di terzine come la Commedia dantesca- sono sei, derivanti dal modello del sommo poeta anche per l’alternarsi di personaggi e situazioni esemplari, illustrate da una guida che accompagna Francesco in questo viaggio immaginario. L’impianto è invece petrarchesco per quanto concerne la disposizione delle parti, risalenti ai temi della meditazione del poeta operata nei Rerum vulgarium Fragmenta e nel Secretum. Francesco protrarrà la composizione dei Trionfi fino agli ultimi anni della sua vita, conclusasi il 19 luglio del 1374 ad Arquà, sui Colli Euganei, dove si era trasferito dal 1370 dopo che Francesco di Carrara gli aveva donato un terreno.
Figura prestigiosa, già quando era in vita, Petrarca ha influenzato gli intellettuali di ogni epoca, diventando il primo fulgido esempio di una nuova, autonoma ed apprezzata professionalità, quella del dotto finalmente abile a districarsi tra le asprezze della politica e gli incanti del metro poetico, segnando quel passaggio epocale che ha donato all’uomo di lettere la giusta dignità, tante volte negatagli in passato a causa di pregiudizi antichi e senza fondamento.
Umberto saba - ran due razze di un’antica tenzone» i genitori di Umberto Saba, nato nella Trieste di Svevo e Slataper il 9 marzo 1883, da un matrimonio non felice tra la madre Felicita Rachele Cohen ed il padre, Ugo Edoardo Poli. Lei, appartenente ad una famiglia ebraica di piccoli commercianti e tradizionalmente legata agli affari e alle pratiche religiose; lui, giovane «gaio e leggero» discendente da una famiglia della nobiltà veneziana, abbandonò la vita coniugale prima ancora che il figlio nascesse. Grazie al padre tuttavia Saba ottenne la cittadinanza italiana (pur essendo nato nella Trieste che apparteneva allora all’impero austro-ungarico).
Ben presto il bambino venne messo a balia presso una contadina slovena di nome Peppa Sabaz, che, avendo perso il proprio figlio, riversa sul piccolo Umberto tutto il suo affetto e la sua tenerezza. A lei Saba resterà profondamente legato lungo tutto il corso della sua vita, tanto che, il rifiuto del cognome paterno si risolverà in un omaggio alla madre naturale ed alla nutrice slovena (che si chiamava Sabaz, mentre “saba” in ebraico significa pane).
Trascorre grave la sua infanzia non felice: privo della figura paterna e diviso nel suo amore tra la madre adottiva ed una madre naturale austera e severa; emozioni che risuoneranno presto nella preziosa malinconia della raccolta Il piccolo Berto.
Demotivato dagli scarsi profitti scolastici, abbandona gli studi e trova un impiego presso una ditta triestina, continuando a costruirsi una discreta formazione culturale e letteraria da autodidatta. Invano la madre tenterà di contrastare il suo amore per Leopardi, instradandolo verso la letteratura pariniana, ritenuta più costruttiva al fine di combattere la sua tendenza troppo pessimistica. Il poeta dell’Infinito resterà molto presente nella sua formazione, insieme a Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Foscolo e Manzoni ed i contemporanei Pascoli e D'Annunzio (di cui guarda con maggiore attenzione il testo intimistico e precrepuscolare del Poema paradisiaco).
Da questo momento in poi, ancor più che precedentemente la letteratura e la poesia saranno destinate a divenire la sua sola forma di compensazione e di sfogo (le Poesie dell’adolescenza e giovanili risalgono agli anni tra il 1900 e il 1907).
Fra il 1905 ed il 1906 frequenta la Firenze impegnata nella battaglia di rinnovamento avviata dai giovani intellettuali pur non restandone coinvolto.
Particolarmente difficili risulteranno i suoi rapporti con la «Voce» che rifiuterà di pubblicare il suo saggio Quel che resta da fare ai poeti e con Slataper che stronca la sua prima raccolta di versi.
E’ il prezzo da pagare per la sua collocazione di intellettuale periferico, aperto più ad una cultura mitteleuropea che verso quella nazionale talvolta troppo superficiale (stessa sorte aveva subito il concittadino Svevo).
Scarso interesse gli verrà riservato anche da parte della critica (tranne il numero unico di «Solaria» del 1928 dedicato a Saba con i saggi di Solmi, Montale e Debenedetti).
Nel frattempo l’esperienza militare del servizio di leva a Salerno (1907-1908) gli offre ulteriori spunti poetici che porteranno alla creazione di Versi militari, mentre il matrimonio con Carolina Woelfer (Lina) e la nascita della figlia Linuccia incideranno profondamente nella sua poesia successiva. Da Montebello, alla periferia di Trieste scrive le poesie di Casa e campagna (1909-1910) e Trieste e una donna (1910-1912). A queste seguiranno nell’1911 la prima raccolta delle Poesie e l’anno seguente Con i miei occhi.
Dopo la sua partecipazione al conflitto mondiale (di cui lascerà una testimonianza in Poesie scritte durante la guerra) Saba riesce a conciliare il suo amore per la letteratura e le tradizioni commerciali della sua famiglia integrandoli nella libreria antiquaria che apre a Trieste.
Il 1921 sarà l’anno in cui la sua precedente raccolta poetica verrà per la prima volta raccolta nell’ unico volume del Canzoniere (successivamente integrato con le poesie dei decenni successivi); risale invece al 1928 il suo incontro con la psicanalisi attraverso la quale Saba spera di riuscire a curare i suoi disturbi nervosi. Ad aiutarlo sarà un allievo di Freud, Edoardo Weiss, con il quale intraprenderà un percorso psicanalitico che gli offrirà strumenti più raffinati per smascherare “l’intimo vero” e per acquisire quella “chiarezza psicologica” che già caratterizzava la sua produzione poetica (alla quale infatti, in un primo momento avrebbe voluto dare il nome di Chiarezza).
Vittima della persecuzione razziale per via della sua origine ebraica, cerca rifugio prima a Parigi, poi a Roma sotto la protezione di Ungaretti ed infine a Firenze, ospite di Montale.
Nel 1945 viene pubblicata da Einaudi la seconda edizione del Canzoniere, quella definitiva uscirà postuma e notevolmente accresciuta nel 1961.
Le sezioni di cui risulterà composta l’opera oltre a quelle già indicate, sono: La serena disperazione (1913-1915), Tre poesie fuori luogo, Cose leggere e vaganti (1920), L’amorosa spina (1920), Preludio e canzonette (1922-1923), Autobiografia (1924), I prigioni (1924), Preludio e fughe (1928-1929), Parole (1933-1934), Ultime cose (1935-1943), Varie Mediterranee (1945-1946), Epigrafe (1947-1948), Quasi un racconto (1951) e Sei poesie della vecchiaia (1953-1954).
Il mancato riconoscimento della sua attività letteraria si traduce invece in un’opera in cui il poeta si farà interprete di se stesso: Storia e cronistoria del Canzoniere (1948).
Solo al periodo postbellico risalgono infatti le prime importanti attestazioni pubbliche; il Premio Viareggio (1946), il Premio dell’Accademia dei Lincei (1953) e la laurea Honoris causa conferitagli dall’Università di Roma.
Gli ultimi anni della sua vita sono resi difficili dalle continue e sempre più gravi crisi di depressione, di cui resterà vittima, e dalla malattia della moglie, che muore nel 1956. Appena nove mesi dopo (il 25 agosto del 1957) Saba la seguirà.
Postumo sarà quindi il volume complessivo delle Prose: Scorciatoie e raccontini (1946) e Ricordi-Racconti (1956), in cui una lucida, tagliente ironia traghetta la moralità racchiusa nella narrazione breve ed autobiografica.
Al 1957 risale invece la pubblicazione di Ernesto, romanzo incompiuto in cui l’atmosfera triestina, resa in un singolare impasto linguistico-dialettale fa da sfondo ai turbamenti erotici dell’adolescente protagonista
Cesare pavese - Narratore e poeta italiano (Santo Stefano Belbo, Cuneo, 1908-Torino 1950). Nato da una famiglia di origine contadina, presto orfano del padre, compì gli studi a Torino, in un periodo di transizione tra positivismo e idealismo, lotte operaie e fascismo. Pavese imparò la grande lezione dei classici e dei realisti dell'Ottocento e dei contemporanei, strinse amicizia con molti intellettuali torinesi e, dopo essersi laureato nel 1930 con una tesi su W. Whitman, insegnò inglese in scuole serali e private, collaborando intanto a La Cultura con saggi su Lewis, Twain, Lee Masters, Henry, Melville (del quale nel 1932 tradusse magistralmente Moby Dick). Nel 1935, dopo alcuni mesi di carcere scontati per aver servito da tramite fra alcuni militanti antifascisti, fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, ma dopo un anno poté tornare a Torino per un condono. Durante il confino, preparò la stesura di alcuni dei suoi romanzi brevi: Il carcere, che uscì nel 1949 nella raccolta Prima che il gallo canti, nacque proprio dall'esperienza di quel periodo. L'esordio di P. avvenne nel 1936 con le poesie di Lavorare stanca: un genere nuovo, di tipo narrativo, col quale P. passava dal crepuscolarismo gozzaniano di certe sue prime esperienze, al superamento della metrica tradizionale, convinto dalla lezione degli Americani che il verso possa divenire "strumento" del narrare. Dopo il confino intensificò la sua attività presso la casa editrice Einaudi; nel 1941 pubblicò Paesi tuoi, scritto due anni prima, anche questo accolto, come le poesie, distrattamente dalla critica. Continuava intanto a tradurre scrittori americani contemporanei e classici inglesi; l'armistizio lo sorprese a Roma, ma P. riuscì a tornare a Torino e si rifugiò presso la sorella, in campagna. Finita la guerra, si iscrisse al Partito comunista; scrisse saggi, articoli di politica, nuove opere di narrativa, sempre cercando una spinta per uscire dal suo isolamento e da una disposizione essenzialmente lirica: Feria d'agosto (1946), Il compagno (1947), La bella estate (1949, premio Strega); Dialoghi con Leucò (1947), in cui rielabora alcuni miti classici e certe interpretazioni moderne dell'umanità "primitiva", già apparsi in Feria d'agosto; La luna e i falò (1950), nel quale ricompaiono i motivi cari all'autore: le Langhe, le indimenticabili figure di amici, di donne, insieme all'incombente senso di tormentosa delusione per l'esistenza, che P. cercò di nobilitare con l'immagine e il racconto. Sono queste le due componenti essenziali della poetica di P., più stati d'animo, impressioni, momenti lirici che trame e personaggi, tanto sono trasfigurati in mito: prodotti di un alto decadentismo, non di un soltanto apparente neorealismo. Nel 1950 P. raccolse le sue poesie vecchie e nuove nel volume Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (postumo, 1951); poi, colmata la misura del suo disperato soffrire, si tolse la vita in una camera d'albergo della sua città, in piena estate, la stagione che è un altro dei suoi temi ricorrenti. Il suo diario, Il mestiere di vivere, pubblicato postumo nel 1952, racchiude la realtà che P. ha interpretato in una sua chiave unica: il senso della morte, del dolore, della solitudine concepita come una "gioia feroce" e anche come un tentativo di liberazione, un miraggio, infine, sterile e inutile per chi si sente fatto invece per gli altri. Considerato dalla critica uno dei rappresentanti più significativi nell'ambito della nuova letteratura, P. ha avuto anche il merito, insieme a pochi altri, di aver liberato la nostra narrativa e la nostra cultura da una certa tradizione di provincialismo che l'aveva immobilizzata fino al secondo dopoguerra
Emily dickinson - Emily Dickinson (Amherst, Massachusetts, 10 dicembre 1830 - 15 maggio 1886) fu una poetessa statunitense. È considerata tra i maggiori lirici del XIX secolo.
Nacque da una famiglia molto in vista, conosciuta per il sostegno fornito alle istituzioni scolastiche locali. Suo nonno, Samuel Fowler Dickinson, era uno dei fondatori dell'Amherst College, mentre il padre ricopriva la funzione di legale e tesoriere dell'Istituto; inoltre, ricopriva importanti incarichi presso il Tribunale Generale del Massachusetts, il Senato dello Stato e alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti.
Biografia
Dickinson scoprì la propria vocazione poetica durante il periodo di revival religioso che, nei decenni 1840-50, si diffuse rapidamente nella regione occidentale del Massachusetts. Uno dei suoi biografi ha affermato che concepì l'idea di diventare poetessa avendo come riferimento - in termini biblici - la lotta di Giacobbe con l'angelo.
Emily Dickinson visse la maggior parte della propria vita nella casa dove era nata, ebbe modo di fare solo rare visite ai parenti di Boston, di Cambridge e nel Connecticut. Gran parte della sua produzione poetica riflette e coglie non solo i piccoli momenti di vita quotidiana, ma anche i temi e le battaglie più importanti che coinvolgevano il resto della società. Per esempio, più della metà delle sue poesie furono scritte durante gli anni della Guerra di secessione americana. Per citare alcuni tra i suoi versi più memorabili, le poesie della Dickinson dicono tutta la verità, ma la dicono indirettamente:
Di' tutta la verità ma dilla obliqua -
Il successo sta in un Circuito
Troppo brillante per la nostra malferma Delizia
La superba sorpresa della Verità
Come un Fulmine ai Bambini chiarito
Con tenere spiegazioni
La Verità deve abbagliare gradualmente
O tutti sarebbero ciechi -
Al momento della sua morte non erano state pubblicate che dieci sue poesie, ma il suo lascito di circa 1800 componimenti poetici fu prova evidente della vastità del suo lavoro, in seguito riconosciuta dal mondo intero. Oggi, Emily Dickinson viene considerata non solo una dei poeti più sensibili di tutti i tempi, ma anche una dei più rappresentativi. Alcune caratteristiche delle sue opere, all'epoca ritenute 'stranezze', sono considerate adesso aspetti particolari e inconfondibili del suo stile. Le digressioni enfatiche, l'uso poco convenzionale delle maiuscole, le lineette telegrafiche, i ritmi salmodianti, le rime asimmetriche, le voci multiple e le elaborate metafore sono diventati dei marchi di riconoscimento per i lettori, durante gli anni e nelle varie traduzioni del suo lavoro.
Emily Dickinson morì di nefrite nello stesso posto dove era nata, ad Amherst, nel Massachusetts.
Opere
Il linguaggio di Emily Dickinson era semplice e brillante. Non ebbe molti riconoscimenti durante la sua vita, perché i più prediligevano un linguaggio fiorito e le sue opere non risultavano conformi al gusto dell'epoca.
Il suo amore per la natura traspare da tutte le sue poesie. Scrisse anche numerose poesie sulla morte, per esempio Tie the Strings to my Life, My Lord (Annoda i lacci alla mia vita, Signore):
Annoda i Lacci alla mia Vita, Signore,
Poi, sarò pronta ad andare!
Solo un'occhiata ai Cavalli -
In fretta! Potrà bastare!
.....
Addio alla Vita che ho vissuto -
E al Mondo che ho conosciuto -
E Bacia le Colline, per me, basta una volta -
Ora - sono pronta ad andare
Nel 1890, la sorella di Emily, Lavinia, e Mabel Loomis Todd, amica del fratello Austin, riescono a ottenere la pubblicazione di un volume di poesie, primo di una lunga serie. Dal 1924 al 1935 vengono pubblicate altre 300 poesie di Emily Dickinson, trovate dalla nipote Martha dopo la morte della madre, cognata di Emily, a cui le aveva affidate in custodia quando era ancora in vita.
Nel 1955 Thomas H. Johnson cura la prima edizione critica in tre volumi di tutte le poesie di Emily Dickinson, in ordine cronologico e nella loro forma originale (1775 poesie). Del 1998 è una nuova edizione critica, a cura di Ralph W. Franklin e sempre in tre volumi, con una revisione della cronologia e una nuova numerazione delle poesie (1789 poesie più 8 in appendice).
Bibliografia
• Emily Dickinson - Giuditta ed Emilio Cecchi, Brescia, Morcelliana, 1939
• Poesie, Emily Dickinson - a cura di Margherita Guidacci, Firenze, Cya, 1947
• Poesie e Lettere, Emily Dickinson - a cura di Margherita Guidacci, Firenze, Sansoni, 1961 (rist. 1993)
• Poesie, Emily Dickinson - trad. di Barbara Lanati, introd. di Rossana Rossanda, Roma, Savelli, 1977
• Lettere, Emily Dickinson - a cura di Barbara Lanati, Torino, Einaudi, 1982
• Silenzi, Emily Dickinson - a cura di Barbara Lanati, Milano, Feltrinelli, 1986
• Le più belle poesie, Emily Dickinson - trad. di Silvio Raffo, Milano, Crocetti, 1993
• Poesie, Emily Dickinson - a cura di Massimo Bacigalupo, Milano, Mondadori, 1995 (nuova ediz. 2004)
• Tutte le poesie - a cura di Marisa Bulgheroni, con versioni d'autore, Milano. Mondadori, 1997
• L'alfabeto dell'estasi (Vita di Emily Dickinson) di Barbara Lanati, Milano, Feltrinelli, 1999
• Nei sobborghi di un segreto (Vita di Emily Dickinson) - di Marisa Bulgheroni, Milano, Mondadori, 2001
• Nel bianco respiro di Emily - Una lettura per entrare "nel cuore dell'enigma" - di Maria Giulia Baiocchi, Delta Editrice, Parma, 2005
• Nel giardino della mente - 24 liriche interpretate su CD - voce di Paola Della Pasqua, Delta Editrice, Parma, 2006
Pablo neruda - Pablo Neruda è lo pseudonimo che Neftalì Ricardo Reyes scelse in onore del poeta cecoslovacco Jan Neruda (1834-1891)cantore della povera gente. Egli nacque a Parral nel 1904, da famiglia modesta che trascorse l'infanzia scontrosa nel piovoso, malinconico e selvaggio sud del Cile; frequentò le scuole fino al liceo nella cittadina di Temuco e poi l'Università a Santiago.
Dal 1926 al 43 girò il mondo come rappresentante diplomatico del suo paese, nel'36-37 visse l'esperienza della guerra civile spagnola non soltanto da spettatore interessato. L'incontro o meglio la scoperta della Spagna fu per Pablo Neruda un fatto di estrema importanza. Come scrisse su di lui Dario Puccini: "Uno di quei salti dialettici grazie ai quali la storia esterna diviene storia personale, la vita degli altri vita propria, il dolore del mondo sentimento radicato" .Neruda, favorito dalle circostanze, mise un pur lieve scompiglio nella letteratura spagnola facendosi paladino della "poesia impura" opponendosi alla linea purista di Juan Ramon Ramirez. Allora la sua influenza non fu preponderante ma si fece sentire più tardi e ancora perdura in qualche modo presso le generazioni intermedie e recenti.
Dopo aver subito il fascino dell'incontro con la poesia spagnola, il poeta cileno venne travolto nell'appassionata vicenda della guerra civile: prese subito posizione a favore della Repubblica aggredita; fu scosso dalla tremenda fucilazione di Lorca e con Cesar Vallejo, un poeta peruviano, fondò il Gruppo ispano-americano d'aiuto alla Spagna. La guerra civile determinò un mutamento profondo nell'animo, nelle convinzioni, nella cultura, nella poesia del poeta. La sua fu una vera e propria conversione al prossimo e la sua poesia divenne quella dell'uomo con gli uomini cioè una poesia sociale e di lotta politica, di adesione e di repulsione rispetto al prossimo, di sostegno e di esacrazione, di speranza e di rabbia: d'azione"
E quando cessata la guerra civile e sconfitte le armi repubblicane tanti spagnoli furono costretti all'esilio o morirono fucilati o in carcere quel "legame materno" con la Spagna si fece per Pablo drammatico e fu come una goccia di sangue che rimase indelebile. Se uno dei sentimenti più forti dell'anima moderna è quello di un continuo e cocente esilio di una imprecisata perdita esistenziale, la Spagna è stata per Neruda quella perdita, quell'esilio:Un vuoto angoscioso e accorato che si ripercuote nel suo virile grido di poeta dal lontano '39 a oggi
Nel 1944 tornato in Cile s'iscrisse al partito comunista cileno e venne eletto senatore.
Dal '48 al 52 fu perseguitato e costretto all'esilio per la sua presa di posizione contro il neodittatore Gonzalez Videla; così tornò a viaggiare per il mondo.Nel 1971 guadagna il premio nobel per la letteratura, nel 1973 torna in Cile e in quello stesso anno muore a Santiago subito dopo il colpo di Stato del generale Pinochet.

avese - hieri - anno saputo ben rendere omaggio a questo sentimentosenza età.

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