I grandi della filosofia

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Testo

Immanuel Kant (1724-1804)
Nato in Prussia nel 1724 da una modesta famiglia di artigiani, Kant ricevette un’educazione rigidamente ispirata ai principi etico religiosi del pietosismo (movimento di riforma religiosa in seno al protestantesimo, sorto come reazione al rigido dogmatismo della teologia luterana, cui contrappose un senso mistico della vita interiore). Iscritto all’università nel 1740, studia scienze e filosofia. Nel 1755, dopo aver fatto per qualche tempo l’istitutore privato, comincia la sua faticosa carriera universitaria. Proprio in quell’anno pubblica la sua prima opera di particolare rilievo: “nuova delucidazione del 1° principio della conoscenza metafisica”, opera in cui qualche studioso ha riconosciuto la prima formulazione del dominante problema kantiano: la fondazione della metafisica come scienza. Dello steso anno è la “storia universale della natura, e teoria del cielo”, che contiene un’ipotesi sull’origine del sistema solare. Partendo dalla pura materia e applicando le leggi di Newton, Kant cerca di spiegare come da una indefinita materia si sono generati i corpi celesti.
Ma, se Kant nelle sue prime opere sembra avvicinarsi alle dottrine tradizionali, nel saggio sui “sogni di un visionario, chiariti coi sogni della metafisica” prende una netta distanza contro le pretese della metafisica: da questo punto in poi egli svilupperà in una direzione sempre più critica il proprio pensiero.
Nel 1770 approfondisce la propria riflessione conoscitiva (la conoscenza gnoseologica) in quello che è il suo principale testo precritico: “sulla forma e i principi della conoscenza sensibile ed intelligibile” che gli valse la cattedra universitaria di logica e metafisica. Dopo il 1770 Kant si concentro completamente su quello che si dimostrerà la sua opera più importante “la critica alla ragion pura” che pubblicò nel1781. Nel 1788 pubblicò la “critica alla ragion pratica”, l’altra opera centrale del suo pensiero, e nel 1791 la “critica del giudizio”, dedicata sia a questione di estetica, che ad un nuovo approfondimento dei problemi teorici.
Nel 1793 Kant si cimenta in un campo per lui probabilmente nuovo, con l’opera “la religione nei limiti della sua ragione”. Quest’opera gli procurò qualche problema di natura pratica: gli fu proibito di esporre le sue teorie teologico religiose di ispirazione profondamente ateista. Il clima liberale, venutosi a creare dopo la morte di Federico Guglielmo II 1797, consentì a Kant di occuparsi nuovamente di morale e religione. Ma l’opera più importante della vecchiaia del filosofo è quel complesso di studi intitolato “opus postuuti”, nel quale Kant affronta i problemi teocratici che riteneva di non aver sufficientemente risolto nelle opere precedenti. La morte interromperà nel 1804 una vita interamente dedicata agli studi. Il pensiero kantiano suole essere diviso in due fasi: la 1° è quella che abbraccia gli scritti del periodo cosiddetto precritico, la 2° comprende i capolavori della maturità, il periodo critico.
Il pensiero precritico
Nella 1° parte, Kant appare come un filosofo che cerca e che saggia le dottrine più note del suo tempo. Cartesio, Leibniz, Newton, Woff e più tardi Lock e Hume sono i pensatori che ha approfondito di più, ma senza mai avvicinarsi troppo ad un indirizzo filosofico reciso. Indubbiamente è stato vicino alla scuola Woffiana. Era questa scuola, infatti, che poneva la questione di una fondazione rigorosa del sapere filosofico scientifico. Kant si è posto il problema, la sua massima aspirazione era quella di conferire alla filosofia il rigore fisico matematico.
L’opera più importante del periodo precritico è la “dissertazione” 1770. Essa contiene almeno due delle principali teorie che saranno in seguito la colonna della “critica alla ragion pura”. La 1° riguarda la concezione della conoscenza sensibile, e la conseguenza relativa alla natura dell’oggetto da conoscere. Analizzando questo tipo di conoscenza, Kant rivela che la sua caratteristica principale è la passività. L’uomo conosce sensibilmente, e solo in questo viene modificato dalle cose esterne. Nelle sensazioni bisogna distinguere una materia (ossia una percezione da parte dell’organo sensitivo che ci attesta l’esistenza della cosa responsabile della sensazione), e una forma (ossia una regola, uno schema ordinatore soggettivo proprio del nostro senso). La conseguenza di tutto ciò è che le sensazioni non sono in grado di la natura, l’essenza propria delle cose: esse possono solo comunicarci come le cose appaiono nella loro relazione con il soggetto. Da qui la conclusione che è una delle più note di Kant dal punto di vista gnoseologico. Bisogna distinguere due cose: il fenomeno (l’apparire), e il noumeno (l’intellegibile, o ciò che può essere compreso con l’intelletto). Il fenomeno è ciò che la conoscenza sensibile coglie intellettivamente degli oggetti, il noumeno invece è qualcosa che sta al di là di tale conoscenza.
La seconda teoria contenuta nella “dissertazione” riguarda la natura dello spazio e del tempo. Riflettendo su questo classico problema dell’800-900 Kant rifiuta la posizione di Newton e Leibniz al riguardo: spazio e tempo non possono né essere una realtà oggettiva assoluta (N), né una caratteristica propria degli oggetti stessi (L). tale impossibilità e confutata dalla teoria della sensibilità di cui si è detto prima. Infatti lo spazio ed il tempo, che accompagnano ogni nostra conoscenza sensibile si configurano come forma della nostra sensibilità, schemi elementari che condizionano il nostro contatto con la cose (fenomeni). Questa tesi può apparire in un primo momento vicina alla teoria empirica, invece Kant si spinge oltre, fino ad affermare che il tempo e lo spazio, che pure accompagnano ogni nostra percezione sensoriale, sono inderivabili dalla sensibilità intesa come dato empirico: sono cioè due forme pure (in quanto indipendenti dalle esperienze empiriche) ed universali (in quanto indipendenti da singole manifestazioni concrete di sensibilità). In una parola essi sono trascendentali.
Questo concetto è ciò che più tardi Kant la dimensione trascendentale dell’esperienza: l’ipotesi cioè che vi siano delle forme collegate sia ai dati empirici, ma nello stesso tempo autonome e a priori rispetto ad esse.
La scoperta della forma spaziale e temporale come forme pure ed universali che modellano tutti i fenomeni sensibili in modo determinato perfettamente chiaro ed evidente ad ogni oggetto, consentì a Kant di affermare che lo studio delle relazioni spaziali, cioè la geometria, è fondato su principi universali e trasparenti, e quindi è una scienza rigorosa. Per Kant infatti, per essere rigorosa, la scienza deve basarsi su fondamenta universali.
Il pensiero critico
Il metodo con cui la filosofia debba procedere è il problema che Kant affronta e cerca di risolvere nelle sue opere mature. Per Kant la soluzione non va ricercata nell’uso dogmatico della ragione come indicato dai razionalisti né del fiducioso abbandono all’esperienza degli empiristi, culminato, non a caso, nello scetticismo totale di Hume. Occorreva trovare un’altra via.
Hume era pervenuto al suo scetticismo, poiché, conoscendo solo i fenomeni dell’esperienza, (espressioni che derivano dai sensi), non potremo mai sapere se essi corrispondono o meno alle cose, così come sono in sé stesse. Così impostato il problema è oggettivamente irrisolvibile, e tutta la conoscenza umana risulta contraddittoria e limitata.
Tutto ciò secondo Kant accade perché fin dall’inizio la filosofia ha preteso di modellare la conoscenza sull’oggetto, e non si è invece, riflettuto sull’altra possibilità, e cioè che siano gli oggetti dell’esperienza a doversi modellare sul soggetto, vale a dire sul modo di conoscere.
Questa inversione dei poli della conoscenza (soggetto-oggetto) è quella che viene chiamata la Rivoluzione Copernicana di Kant. Questo capovolgimento è alla base del pensiero che Kant si propone di sviluppare nella sua opera principale, la “Critica della ragion pura”.
Le forme a priori della conoscenza
Il primo passo dell’analisi kantiana parte dalla scoperta di alcune forma che appartengono al soggetto conoscente indipendentemente dall’oggetto conosciuto, queste forme sono perciò a priori (non derivano dall’esperienza dell’oggetto) e trascendentali (sono costituite dalla forma dell’esperienza), esse si distinguono in forme del conoscere sensibile (intuizioni) e forme del conoscere intellettivo (concetti e giudizi).
Le forme del conoscere sensibile sono lo spazio ed il tempo. Spazio e tempo non appartengono agli oggetti, ma sono nostri modi di ordinare ed unificare le impressioni materiali che ci derivano dai sensi. Le impressioni sensibili, unificate nello spazio e nel tempo, danno luogo ai fenomeni della nostra esperienza. I fenomeni non sono delle cose a se stanti, ovvero la loro esistenza dipende dal soggetto che intuisce e dalle forme dell’intuizione sensibile.
La conoscenza sensibile, o intuizione, ci fornisce i fenomeni, ma non ancora la vera essenza delle cose,. L’intuizione, di per sé, è cieca. Tuttavia essa è indispensabile al conoscere, perché il pensiero, senza l’apparato dell’intuizione, è vuoto. Intuire e pensare sono in altre parole modi diversi di conoscere: la sensibilità non può pensare e l’intelletto non può intuire: essi devono agire insieme. L’intelletto interviene sui fenomeni dell’intuizione ordinandoli ed unificandoli in giudizi. Secondo Kant le forme a priori e trascendentali di ogni possibile giudizio si riducono a 12, divisi in 4 gruppi. Queste forme costituiscono per Kant le categorie dell’intelletto. Prime di procedere, però, all’inventario delle forme a priori della conoscenza (le categorie) Kant vuole accertarsi se esiste una forma di giudizio in grado di comprendere concetti ed esperienza, di unificare, cioè, l’aspetto formale rigoroso del conoscere con l’aspetto concreto arricchente del conoscere stesso. A questo scopo Kant esamina i principali tipi di giudizi offerti dalla tradizione logica:
* Vi sono innanzi tutto i giudizi analitici. Questi tipi di giudizi sono quelli nei quali il predicato è già compreso analiticamente nel soggetto. Ad esempio “tutti i corpi sono estesi” il concetto di estensione è già contenuto nella parola corpo. Si tratta quindi di giudizi puramente esplicativi (chiariscono natura e carattere del soggetto) i quali sono certo rigorosi e a priori (nel senso che il loro contenuto è universale e necessario e non derivano dall’esperienza empirica) ma non aggiungono al contenuto della conoscenza niente di nuovo e non esprimono nel predicato niente di più di ciò che era già realmente contenuto nel soggetto.
* Vi sono poi i giudizi sintetici. Sono quei giudizi nei quali il predicato offre un contenuto, empirico informativo nuovo intorno al soggetto. Ad esempio “tutti i corpi sono pesanti” allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che peno nel semplice concetto di corpo in generale (il quale infatti potrebbe in teoria non essere pesante). Si tratta quindi di giudizi che collegano (sintetizzano) due concetti diversi ed in questo modo ampliano la conoscenza. Tuttavia questi giudizi dipendono totalmente dall’esperienza, nel senso che solo essa può dirci a posteriori se quanto abbiamo affermato nel giudizio è vero.
Kant però non è del tutto soddisfatto né dai giudizi analitici a priori, né dai giudizi sintetici a posteriori. Egli vorrebbe un terzo tipo di giudizio che avesse da un lato la capacità degli ultimi di ampliare la conoscenza, e dall’altro la prerogativa dei primi di essere universali e necessari. Ebbene, questi giudizi sono i giudizi sintetici a priori. Esempio “tutto ciò che accade ha una sua causa” ciò che è indicato nel predicato (la causa) non è contenuto analiticamente nel soggetto: infatti nel concetto di accadere non è inclusa la casualità, che è cosa diversa dall’accadere. D’altra parte tale giudizio contiene una sua evidente universalità e necessità che non proveniendo dall’esperienza non può che provenire che da una sfera meta empirica fatta di condizioni pure a priori.
Vediamo ora quali sono secondo Kant le forme a priori della conoscenza intellettiva: le categorie.
• QUANTITÀ: unità, pluralità, totalità
• QUALITÀ: realtà, negazione, limitazione
• MODALITÀ: possibilità, esistenza, necessità
• RELAZIONE: sostanza, causalità, comunanza
Spazio tempo e categorie costituiscono quindi le forme a priori e trascendentali della conoscenza: lo spazio ed il tempo sono le forme del conoscere sensibile (intuizione) mentre le categorie sono le forme del conoscere intellettivo (giudizi). Questa distinzione viene affrontata da Kant in due ampie sezioni della critica della ragion pura e precisamente nell’estetica trascendentale (conoscenza sensibile) e nella analitica trascendentale conoscenza intellettiva). Il termine trascendentale indica che si tratta di una ricerca le cui forme della conoscenza sono senz’altro a priori, non appartengono cioè all’esperienza, ma non per questo trascendenti, cioè prive di agganci con la realtà.
L’esatta comprensione di questo concetto è fondamentale per non confondere Kant con i filosofi innatisti: le forme a priori della conoscenza non sono delle idee innate (del tutto indipendenti all’esperienza)ma sono funzioni del soggetto, che esistono solo in quanto svolgono una funzione (organizzare ed unificare i fenomeni concreti) rendendo possibile l’esperienza. Esse costituiscono le forme trascendentali del conoscere, cioè le forme dell’unificazione (sensibile e giudicativa) dell’esperienza fenomenica. A compiere questa unificazione non sono però le forme prese da sole, ma la concreta attività sintetica del pensiero, ciò che Kant chiama “io penso” o “appercezione trascendentale”.
In sostanza è l’autocoscienza (appercezione) che unifica in sé tutti i fenomeni dell’esperienza secondo le forme dell’intuizione sensibile (spazio e tempo) e dell’intelletto (categorie o concetti puri). L’io penso deve accompagnare ogni contenuto dell’esperienza affinché tale contenuto divenga una esperienza, ma nello stesso tempo deve restare identico a se stesso, pur nel mutare dell’esperienza. L’io penso manifesta perciò un duplice aspetto unificante: è unità analitica (accompagna uno per uno tutti i contenuti dell’esperienza) ed è unirà sintetica (si unifica con se stesso come autocoscienza).
È questa unità trascendentale del pensiero il vero perno della rivoluzione copernicana di Kant. Attraverso questa unità trascendentale del pensiero (l’io penso) i contenuti o stati dell’esperienza si manifestano come fenomeni, soggetti alle forme dello spazio, del tempo e delle categorie.
Un altro problema affrontato da Kant è quello dell’applicazione concreta delle categorie (che sono forme universali) al molteplice fenomenico della sensibilità. Per esempio: come fa l’io penso a passare dalla pura e universale categoria della sostanza al particolare (questo quaderno, questa penna, questo uomo, che sono così differenti tra di loro, pur essendo, dal punto di vista delle categorie, tutte sostanze) ? Kant introduce allora fra le categorie e le intuizioni, gli schemi, cioè delle determinazioni, intermedie e particolari che sono prodotte dalla immaginazione produttiva, facoltà che è una via di mezzo fra l’intuire e il giudicare. Per esempio: fra la categoria della quantità e una molteplicità concreta di oggetti empirici (i banchi di un’aula, per esempio) si inserisce lo schema del numero, cioè una determinazione della forma del tempo (nel ns.caso: 1+1+1…), che è la conduzione del porsi dei fenomeni alla coscienza o “io penso”. Tuttavia Kant dovette riconoscere l’impossibilità di chiarire in modo sufficiente come in realtà operi questa supposta immaginazione produttiva degli schemi: un’arte, egli dice, nascosta nel più profondo della natura umana
Universalità del conoscere e dalla scienza
Abbiamo visto che le forme a priori della conoscenza (spazio, tempo e categorie) ci garantiscono l’universalità della conoscenza. Esse, in quanto condizioni del porsi di ogni oggetto, ci assicurano a priori che, qualunque sia l’oggetto della nostra conoscenza concreta, esso dovrà avere una collocazione spazio-temporale precisa e fungere da punto di riferimento a un giudizio di quantità, di qualità, di relazione o di modalità. In altre parole, l’oggetto dovrà assumere la forma del conoscere del soggetto conoscente, essendo questa la sola conoscenza del suo poter essere conosciuto. Solo così gli oggetti dell’esperienza comune e quotidiana ci si manifestano. Ora, quando Hume osservava che noi conosciamo solo dei fenomeni soggettivi, basandoci sullo stato dell’esperienza, impostava erroneamente la questione. Egli pretendeva che la conoscenza, per potersi definire oggettiva e necessaria, cogliesse le cose su di sé. Ma le cose in sé non fanno parte della nostra esperienza, esse sono puri enti di ragione (noumeno), cioè sono il prodotto di una nostra supposizione mentale. Non solo non possiamo sapere se alla nostra supposizione corrisponde un qualunque oggetto, ma per di più, ciò non riguarda la conoscenza. Conoscere vuol dire infatti ordinare la materia dell’intuizione nelle forme a priori dello spazio e del tempo e poi nei giudizi dell’intelletto. Il conoscere, cioè, ha necessariamente con i fenomeni e solo con essi.
Hume definiva questa “soggettivizzazione” dell’oggetto da conoscere un fatto psicologico e perciò privo di validità universale. E poi commetteva un secondo errore: le forme del conoscere non sono mai fatto psichico, ma condizioni a priori e trascendentali dell’esperienza. Così, per esempio, la relazione di causa non è un nostro modo arbitrario di collegare le esperienze, ma uno dei presupposti di cui l’esperienza ha bisogno; la causalità è infatti una delle dodici categorie dell’intelletto.
L’analisi della ragione consentì a Kant di conseguire un altro risultato, questa volta però in senso negativo: l’impossibilità per la metafisica di diventare una scienza. La metafisica, infatti, pretende di stabilire no le leggi dei fenomeni ma che cosa e come siano i noumeni. In sostanza, la metafisica vuol sapere se vi sia un’anima, e se essa sia immortale, se il mondo sia finito o infinito e, infine, e Dio esiste e come posiamo dimostrarlo o pensarlo. Ora, l’anima, il mondo e Dio, secondo Kant, sono idee della ragione; esse esprimono la insopprimibile esigenza dell’animo umano di unificare e regolare tutti i fenomeni della nostra esperienza. Esse sono dunque degli ideali a cui non corrisponde nessuna materia dell’esperienza. Noi non abbiamo alcuna esperienza dell’anima; possiamo solo osservare il nostro “io penso” impegnato nell’attività di pensarlo. Ma che cosa sia l’io penso, indipendentemente dai fenomeni, non possiamo saperlo.
Allo stesso modo, noi conosciamo alcune parti del mondo, ma il mondo nella sua totalità, l’universo, non potremo mai conoscerlo; esso non potrà mai entrare nella nostra esperienza, condizionata dalla forma di spazio e tempo.
Infine, tutte le dimostrazioni dell’esistenza di Dio sono illusorie, poiché l’esistenza non è un predicato logica che si possa aggiungere a un soggetto mediante ragionamento. L’esistenza si mostra (nello spazio e nel tempo), non si dimostra. Ma ciò che si mostra nell’esperienza è appunto un fenomeno, un ente contingente, ma non un essere necessario quale noi pensiamo debba essere Dio. In conclusione, la metafisica tratta le idee della ragione come se fossero categorie dell’intelletto. Ma a differenza delle categorie, le idee non danno luogo a conoscenze, poiché non sono forme che ordinano la materia dell’intuizione. Più in generale, il puro pensiero non può giungere a conoscenza. L’uomo non possiede un pensiero intuitivo, capace di darsi da sé i propri oggetti; il pensiero può solo ordinare i dati dell’esperienza attraverso le categorie dell’intelletto; ma dove non ci sono dati non c’è nulla da ordinare.
Per principio, dunque, la metafisica è una scienza impossibile. Essa, tuttavia, risorge sempre come “tentazione” del pensiero, poiché il bisogno di conoscere il noumeno e di dare un senso all’esperienza è radicato nel cuore dell’uomo, nella natura del suo sentimento.
Il Romanticismo
il termine deriva da “romantic”, che alla fine del ‘600 designava in Inghilterra il carattere romanzesco o avventuroso del romanzo cavalleresco medioevale. Nel ’70 il termine si applicò al gotico e al medievale in genere, opposto all’antichità classica.
La prima scuola romantica si formò a Jena attorno alla rivista Athenaeum. Di questa furono protagonisti i fratelli Schlegel, Tiek e Schelling. Quasi contemporaneamente il pensiero romantico si sviluppò anche a Berlinocn Fichte e Schleienmchen. In seguito il gruppo di Jena si sciolse, ma le idee romantiche si diffusero rapidamente in Germania e poi in Europa. I temi indicati come tipicamente romantici sono la rivalutazione del sentimento della fede, l’amore per la storia, con particolare attenzione per il medioevo, l’esaltazione degli aspetti magici e mistici della vita, la libera espressione della creatività. Dal punto di vista filosofico, si caratterizza per il tema Fichtiano della dialettica come evoluzione del pensiero Kantiano, che intende liberare lo spirito da ogni limitazione esteriore (è lo stesso io che pone i suoi contenuti come non-io). Caratteristica generale dei diversi romanticismi filosofici è l’abbandono dello spirito rivoluzionario del primo romanticismo con le sue accezioni critiche, in favore di una tendenza restauratrice. il romanticismo si caratterizza anche per la polemica contro la meccanica e artificiale logica del progresso moderno, infatti il romanticismo diventa specchio di una coscienza storica di un divenire complesso e problematico.
Questo spiega la molteplicità degli aspetti, a volte perfino contraddittori, da esso assunti e quindi l’impossibilità a darne una definizione sintetica ed unitaria, tuttavia possiamo indicare linee portanti come la visione spiritualistica della realtà. Se l’illuminismo basava la visione del mondo sulla ragione, il romanticismo, è pervaso da un’ansia religiosa, e si fonda su valori spirituali, arrivando a identificare Dio con il mondo e a vedere la sua presenza nella natura e nella storia. Senza sminuire la ragione il romanticismo esalta i sentimenti e la fantasia. Nasce così il concetto dello spirito, fondato sulla libera associazione di tutte le facoltà, fra le quali il sentimento che si pone in contatto con l’assoluto in modo più profondo ed immediato. L’assoluto è l’ultima realtà della vita spirituale, è la religione romantica, ed è avvertito nella grandiosità della natura, e nell’animo umano. L’esaltazione della libertà individuale, il genio romantico, una propria tensione all’infinito, ed una propria originalità.
L’individuo romantico appare malinconico e solo per l’impossibilità di congiunsi con l’infinito. Incapace di agire sul mondo si rifugiano nell’immaginario, essi rappresentano la guida nelle lotte di liberazione nazionali: all’astratto cosmopolitismo illuministico si contrappone l’idea di nazione, costruita sul passato, sulla propria storia e tradizione. Nasce con queste basi lo storicismo dove nel passato si ritrovano i germi del futuro, la storia dell’umanità e dell’assoluto nel suo svolgersi progressivo, il romanticismo, mentre rivendica l’individualità tende a risolverla nell’assoluto.
Johann Gottlieb Fichte (1762-
Vita e opere
Nacque in Lusazia nel 1762, di famiglia poverissima studiò grazie ad un mecenate e diventò dottore in teologia; dedicò gli anni giovanili alla professione di precettore che lo portò in varie località svizzere e tedesche. Sin dal principio l’attività scientifica di Fichte è ispirata al tema dell’autoliberazione dell’uomo, dell’uscita dallo stato di minorità, che significa abbandono dei vincoli esteriore della società e della cultura e approfondimento del rapporto tra l’uomo, la sua natura di essere razionale, i suoi simili e la sua storia. Nel 1794 fu pubblicata la sua opera più famosa: I fondamenti dell’intera dottrina della scienza.
Il processo dialettico dell’io
è il processo attraverso il quale l’io afferma se stesso e la sua libertà si attiva in tre momenti:
TESI l’io pone se stesso è l’io infinito, o puro, perché non è limitato da nulla e si pone come libera attività rappresentetrice
ANTITESI l’io pone il non io l’io in quanto attività infinita acquista coscienza di se e perciò in quanto soggetto pone di fronte a se l’oggetto. Il soggetto è tale solo di fronte ad un oggetto e viceversa. Tale oggetto è il non-io opposto in modo inconscio in virtù dell’attivià spontanea dell’io.
SINTESI l’io oppone nell’io un non-io divisibile all’io l’io trova contrapposto a se stesso il il non-io, che rappresenta un ostacolo e un limite alla sua attività assoluta, il contrasto avviene tra l’io che si sente limitato ed il non-io, tale io limitato è detto da Fichte io empirico, che corrisponde alla singola individualità di ogni uomo, a lui si contrappone il non-io, cioè tutto ciò che non è lui stesso.
Praticamente l’io infinito si pone come frantumandosi nella molteplicità degli io empirici, e del non-io. Con la riflessione l’io acquista coscienza di se supera l’ostacolo rappresentato dal non-io considerando quel limite come un prodotto della sua autolimitazione.
Dalla coscienza teoretica a quella pratica
Fichte sancisce il primato della ragion pratica sulla ragion teoretica
l’attività teoretica fa conoscere all’uomo un ostacolo che lo limita e gli mostra il compito che lo attende vincere l’opposizione. Il fine è l’attività pratica che è attività morale per affermare la libertà, il trionfo della virtù l’azione sul vizio.
Con l’attività l’io supera ogni limite, vince ogni ostacolo, se rinunciasse e si adeguasse al non-io sarebbe limitato dalla natura dalle cose.
Il primato ontologico dell’uomo
l’unica realtà e lo spirito, il soggetto, l’io che pensandosi tutto crea. La cosa in se (natura) è oggetto dell’attività dello spirito pensante ed è quindi conoscibile. Il processo di autocoscienza dell’ioè simile a qullo di Hegel
La scelta filosofica tra relismo ed idealismo
l’idealismo etico soggettivo di Fichte fa derivare da un principio originario tutta la realtà, questo principio è l’io infinito, considerato come attività pura e assoluta. Questo io infinito non è una realtà già costituita, e non è perciò una sostanza, è invece attività infinita con la quale, l’io pensa e si fa. L’io si attiva quindi pensandosi in modo spontaneo e inconscio. Il realismo non è filosofia, nega la libertà.
La dottrina dei tre principi
Nella dottrina della scienza del 1794 è esposta la cosiddetta dottrina dei tre principi che rappresenta il tentativo di realizzare una teoria filosofica capace di fondare l’aspetto teoretico e quello pratico della ragione unitamente. I tre principi fondamentali sono:

1) L’IO PONE SE’ STESSO ASSOLUTAMENTE
2) L’IO ASSOLUTO OPPONE A SE’ STESSO UN NON-IO ALTRETTANTO ASSOLUTO
3) NELL’IO ASSOLUTO, L’IO DIVISIBILE SI OPPONE AD UN NON-IO ALTRETTANTO DIVISIBILE

Secondo Fichte il nuovo sistema della filosofia deve dare conto ai priori non solo del fatto dell’esistenza concreta e empirica della sintesi (la rappresentazione), ma anche delle condizioni trascendentali della sua genesi, passive o attive che siano (recettive o spontanee). I principi sono quindi 3: uno per la spontaneità, uno per la passività e uno per la loro sintesi concreta. Fichte li denomina Tesi, antitesi e sintesi.
Tesi e antitesi
La tesi riprende i temi della libertà e spontaneità dell’io (Kant): IO indica la ragione pura in generale nei suoi aspetti teoretici e pratici. Questo principio esprime la spontaneità della ragione, che ne è fondamento essenziale: prerogativa basilare della ragione è la sua libertà intesa come tendenza all’autorealizzazione (porre sè stessa assolutamente). Il secondo principio enuncia la finitezza e la contingenza della ragione, il suo rapporto con il dato sensibile e con una realtà altrettanto assoluta; è quindi assoluto anche questo rapporto con la realtà. Per chiarire l’opposizione di io e non-io Fichte usa una metafora: l’attività libera dell’io è come una retta che procede all’infinito, il non-io è come un ostacolo inatteso che interrompe il corso della retta. L’attività dell’io batte con un urto contro questo ostacolo e viene riflessa e torna verso l’io. Questa metafora spiega come l’io possa avvertire una realtà diversa da sè e sperimentare la resistenza del non-io.
Sintesi
Il terzo principio descrive la condizione della coscienza reale alla luce delle due condizioni trascendentali della ragione ( spontaneità attiva, rapporto con il dato sensibile e concretezza immotivata del suo essere ora e qui). La coscienza umana è individuata con il termine divisibilità equivalente a limitatezza; la ragione esiste sempre in rapporto a contenuti reali che ne sono l’oggetto (il non-io) , ma questa relazione avviene nell’io assoluto, quindi l’io umano reale è portatore dell’esigenza di libertà e autodeterminazione che è il carattere distintivo della ragione pura.
L’intuizione interna e l’immaginazione
l’analisi di questi principi è condotta tramite due facoltà trascendentali definite INTUIZIONE INTERNA e IMMAGINAZIONE: l’intuizione interna consiste nella capacità della ragione di percepire immediatamente i propri principi e di saperli descrivere. Con immaginazione invece Fichte designa la capacità della ragione di considerare sè stessa e il proprio posto nel mondo in modo problematico e libero da posizioni precostituite; l’immaginazione permette alla ragione di elaborare un sistema di principi da cui il complesso dell’esperienza possa essere interpretato e giustificato.
La dialettica del terzo principio
Secondo Fichte non si può dedurre con ragionamenti a priori il modo in cui la libertà e la finitezza si rapportano tra di loro: La connessione dei primi due principi nel terzo risulta dall’applicazione da una nuova forma di argomentazione filosofica: la DIALETTICA, che è anche movimento reale che informa di sè la realtà e il pensiero. La contraddizione tra finitezza e libertà si può risolvere solo con un ordine perentorio della ragione da cui scaturisce la sintesi “incondizionatamente e assolutamente”:
- spetta alla ragione filosofica trovare un’ipotesi che riesca a conciliare i due elementi antitetici.
- a ogni singola coscienza umana spetta di scegliere, nella sua condizione reale, come e quanto vuole affermare la sua libertà nei confronti del mondo.
L’esito di questa decisione dà luogo al terzo principio, che introduce un nuovo modo di considerare l’io e il non-io; la soluzione dell’antitesi risiede nella divisibilità o limitazione di entrambi. Questa però può essere considerata in due sensi: come azione limitatrice dell’io sul non-io, e viceversa.
Dalla coscienza teoretica alla coscienza pratica
Fichte mostra come lo sviluppo della coscienza teoretica conduca progressivamente l’io alla trasformazione del dato empirico in fatto scientifico, comprensibile mediante leggi razionali. In questo processo la ragione conquista l’indipendenza rispetto al mondo naturale, oggettivo.
Il primato ontologico dell’uomo
Fichte mette in luce l’assoluta realtà e la condizionatezza della ragione umana: la realtà si manifesta solo in relazione all’io, ma l’io diviene reale e concreto solo in rapporto all’esistenza in cui viene a trovarsi. L’identità e l’uguaglianza con se stessi non è un dato immediato, ma un processo di crescita e di conquista del proprio io; lo sforzo dell’uomo di riconoscersi e recuperare la propria identità è la ragione del manifestarsi di tutta la realtà. L’essere si manifesta in ragione dell’uomo che lo pensa e lo trasforma: è materia inerte senza la ragione che lo vivifica; l’uomo è l’assoluto nel senso che pone esso in essere con il pensiero e con l’azione.
Scelta filosofica tra idealismo e realismo
Il realismo pretende che la filosofia abbia un carattere di certezza pubblica e oggettiva, tipico del sapere ordinario; l’idealismo ammette invece che essa sia frutto della libertà. Secondo Fichte l’oggettività a cui mira il realismo è la conseguenza di un autoinganno che nasconde il fatto che il realista non abbia a cuore la propria libertà; l’idealista invece accoglie la filosofia come frutto di un atto spontaneo e la concepisce come libera speculazione. Il realismo non viene considerato da Fichte una vera filosofia poiché non soddisfa le condizioni definitorie che essa si pone; solo l’idealismo può evolvere in sistema coerente.
Il pensiero politico
L’evoluzione del pensiero politico di Fichte è stata interpretata come una parabola che conduce dall’adesione agli ideali dell’illuminismo politico, alla finale posizione romantica. Si possono individuare tre fasi di questo percorso: la prima è rappresentata dalle opere degli anni 93/94 che ruotavano attorno alla dottrina della scienza, Fichte abbraccia una posizione GIUSNATURALISTICA (il punto d’avvio della teoria politica è costituito dall’individuo, portatore di diritti naturali inalienabili). Lo stato politico è visto quindi sorgere a seguito di un contratto liberamente stipulato tra gli individui, e esso si regge finche l’individuo vi si riconosce e non decide di sciogliere il patto con gli altri.
Lo stato liberale
Lo stato si presenta come un mezzo rivolto alla costruzione della società perfetta; lo stato è quindi una forma di organizzazione contingente e temporanea legata al periodo in cui gli uomini risultano bisognosi di un sistema che organizzi la loro esistenza. Lo stato dovrà lavorare all’infinito per il proprio autosuperamento dato che la totale perfezione morale non sarà mai compiutamente raggiunta.
Dal giusnaturalismo all’organicismo politico
La seconda fase ruota attorno alla FONDAZIONE DEL DIRITTO NATURALE del 1796/97: la riflessione di Fichte si concentra sempre di più sulla fase intermedia tra l’epoca presente e quella terminale. Lo stato appare sempre generato da un contratto, ma viene abbandonata la prospettiva giusnaturalistica: di diritti dell’individuo si può parlare solo all’interno della comunità statale perché l’individuo per essere tale deve essere riconosciuto dagli altri. Al modello meccanicistico viene sostituito uno organicistico che permette di pensare il rapporto che sussiste tra l’individuo e la comunità statale in analogia al rapporto che lega la parte e il tutto nella natura vivente.
La compiuta teorizzazione dello statalismo
L’abbandono della prospettiva giusnaturalistica determina un forte spostamento di accentuazione dall’individuo allo stato; viene sorpassato l’iniziale modello liberale e i diritti sociali vengono teorizzati e visti come compimento e garanzia dei diritti civili. Nella terza fase questa prospettiva statalistica si rafforzerà ancora di più: lo stato si carica anche di funzioni economiche; al liberalismo della 1^ fase si è sostituito un apparato politico interventista che ha fatto parlare di un socialismo di Fichte in questo periodo.
Il cammino dialettico della storia
Un’altra tappa importante nella formazione del nazionalismo di F: è il corso della storia tenuto a Berlino nel 1804 in cui si vede che un processo dialettico trionfa progressivamente sulle barbarie. Siccome l’autoconservazione del singolo stato si inscrive nel progresso generale dell’umanità, allora risultano compatibili patriottismo e cosmopolitismo. La vera antitesi risulta tra il godimento cui tende il singolo e la cultura come finalità propria dello stato.
Il progetto pedagogico dei “discorsi alla nazione tedesca”
Con questi discorsi (1807) che si ricollegano all’ultima fase del pensiero politico di Fichte egli cercava di risvegliare la coscienza nazionale dei compatrioti, dopo l’occupazione napoleonica. La sconfitta e l’umiliazione da parte francese sono messi in conto all’egoismo che aveva caratterizzato l’età contemporanea e aveva reso impossibile ogni difesa della patria. Il mezzo per giungere ad una trasformazione interiore del popolo tedesco è una nuova educazione nazionale capace di formare un sentimento patriottico. L’educazione nazionale consiste nell’idea di una educazione pubblica rivolta indiscriminatamente a tutte le classi sociali; essa dovrebbe essere pratica, basata sul lavoro e finalizzata alla formazione morale e religiosa.
Il patriottismo come forma di “eternità’ terrena”
Le generazioni così educate sarebbero caratterizzate da un alto sentimento patriottico e religioso. Il patriottismo di Fichte appare come il sentimento che solleva l’uomo dalla sua chiusura individualistica e gli garantisce una forma di “eternità terrena”. E’ importante tenere conto che anche dove la superiorità tedesca è annunciata con più convinzione, non assume mai in Fichte le connotazioni razziali del culto ariano nel 900: essa appare sempre esclusivamente culturale e spirituale, fondata non sul sangue, ma sulla lingua.
Lingue vive, lingue morte e cultura nazionale
Fichte fonda l’idea di popolo e di nazione sulla comunanza linguistica e pone la distinzione tra il popolo tedesco e gli altri popoli di stirpe germanica nella differenza tra lingua viva del primo e lingue morte dei secondi. Il popolo tedesco parla una lingua viva, naturale e non convenzionale, che esprime perfettamente il carattere nazionale; nelle lingue morte il carattere originario è stato soffocato dalle sovrapposizioni di una lingua straniera.
La lingua viva come strumento di coesione sociale
Il progetto di educazione nazionale, essendo caratterizzato da una lingua viva, non può presentare al suo interno significative fratture tra i vari ceti sociali. La rivendicazione del tedesco come lingua viva spinge Fichte ad una violenta critica all’esterofilia presente in Germania.
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854)
Nacque nel 1775 a Leonberg. Inizialmente si dedica a studi teologici e pubblica delle opere sulla filosofia di Fichte. Il seguito dopo il periodo della “filosofia dell’identità” dirige un giornale su cui polemizza sui temi dell’idealismo trascendentale. Insegna filosofia e da allora non lascerà più nulla di scritto fino alla morte, avvenuta nel 1854.
L’idealismo di Schelling viene definito estetico e soggettivo, estetico perché l’arte diventa uno strumento della filosofia, cioè è l’attività che ci fa cogliere l’unità e l’identità dell’assoluto(identità di natura e spirito), oggettivo perché alla natura viene riconosciuto un valore particolare è realtà autonomainferiore allo spirito solo per grado (è inferiore per grado poiché inconscia).
Il punto di partenza il principio del sapere,è l’io più precisamente l’autocoscienza (l’io è spiegato da se stesso). Nel sapere vi è certezza solo se gli oggetti sono considerati originariamente prodotti dallìio. La costruzione è un processo grazie al quale l’io da senso alla realtà. Il principio della realtà è assoluto, cioè non ha bisogno di niente per esistere, definito come identità di natura e spirito, cioè che può essere pensato indifferentemente come oggetto e come soggetto, come natura (non io per Fichte) e spirito. Non sono realtà diverse come per Fichte, ma costituiscono lo stesso processo visto sotto un duplice aspetto. Nature e spirito sono 2 termini paralleli, due facce dello stesso principio, l’assoluto, che conserva sempre il carattere di identità tra natura e spirito, perché non può essere pensato come soggetto senza oggetto e viceversa. Nell’arte per Schelling si raggiunge l’identità tra natura e spirito La natura è la prima manifestazione dell’assoluto, attraverso una serie di passaggi per gradi si attiva in forme sempre più perfette da quelle inorganiche a quelle viventi.
Da realtà inconscia la natura diventa autocoscienza, spirito (non è un ostacolo, un non-io
Il progetto di un sistema dell’idealismo trascendentale
Secondo Schelling, Fichte ha posto per la prima volta le condizioni per realizzare quel sistema filosofico cui Kant aveva dato inizio; ma egli non è stato in grado di dare dei nuovi contenuti alla sua filosofia, ma ne ha dato solo una determinazione formale, individuando i principi fondamentali. La dottrina della scienza appare a Schelling come una riflessione formale sul problema della scientificità e rappresenta il superamento di ogni dubbio scettico. Fichte ha trasformato lo scetticismo in senso positivo e secondo Schelling questa intuizione ha un vantaggio su quella razionalista: l’io è produzione e costruzione di se stesso.
Il doppio accesso all’assoluto e la costruzione originaria
Secondo Schelling criticismo e dogmatismo sono sistemi filosofici con un importante tratto in comune: basano la propria scientificità sull’intuizione di un essere assoluto (l’io e Dio), ma essi si differenziano nel fatto che il criticismo concepisce questo essere assoluto come autonomia, il dogmatismo lo concepisce come necessità eterna. La novità dell’impostazione di Schelling sta nel postulare un doppio acceso, sia dalla parte del soggetto che da quella dell’oggetto, al principio primo dell’essere assoluto caratterizzato dall’autonomia e dalla spontaneità. Il metodo adottato per chiarificare questo principio è la COSTRUZIONE ORIGINARIA: ci può essere certezza scientifica nel sapere solo se i suoi oggetti sono concepiti come originariamente prodotti dall’io stesso. Ciò che alla coscienza appare reale e distinto da sè, non ha senso al di fuori delle sue forme conoscitive a priori. La costruzione è quindi il processo con il quale l’io conferisce senso alla realtà, e un metodo filosofico che deve comprendere ogni aspetto dell’essere. Il principio assoluto dell’autonomia e della libertà che connota tutte le dimensione dell’essere conserva anche in Schelling il nome di Io, tanto soggettivo quanto oggettivo, tanto spirituale quanto materiale.
La sintesi di soggetto e oggetto come fondamento originario
Schelling fa osservare che la sintesi di soggetto e oggetto non è un momento successivo alla loro distinzione. Soggetto e oggetto sono reali solo nella sintesi. Il processo di costruzione è duplice, in quanto va dal soggetto all’oggetto (Fichte-Kant) e dall’oggetto al soggetto, dall’unità della natura alla sua presa di coscienza nell’uomo.
Filosofia della natura e filosofia trascendente
Secondo Schelling l’intuizione dell’io con cui inizia la filosofia non coincide con l’intuizione dell’io di ciascuno, ma coglie a priori un’unità trascendentale di soggetto e oggetto. Due filosofie parallele promanano da un centro unico che è il punto di identità tra soggetto e oggetto; fisica speculativa e filosofia trascendentale dovrebbero confluire nell’IDEALISMO TRASCENDENTALE, visione superiore che le connette in una scienza unica.
Filosofia della natura
Il problema principale è quello di estendere la fondazione della filosofia dal mondo della ragione a quello della natura; ogni fenomeno naturale è un’espressione dell’assoluto. Schelling ricorre al concetto di natura come tutto organico, tutti i gradi della natura sono attraversati da una contrapposizione tra elemento ideale (attivo) e uno reale (passivo).
L’esposizione della natura nell’assoluto
L’assoluto è un’unità organica comprendente spirito e natura, è vita che si esprime nella natura e nello spirito e principio di organicità e finalità di tutto l’essere. La natura va esposta nell’assoluto va interpretato come: di ogni fenomeno naturale deve essere evidenziato il fatto che è espressione e manifestazione dell’assoluto.
Interpretazione organicistica della natura
Schelling non intende la filosofia naturale come astratta speculazione, in contrasto con i risultati scientifici. La filosofia naturale (fisica speculativa) ha il compito di fornire un nuovo fondamento alla ricerca in campo naturalistico. Schelling fu anche incitato da alcuni sviluppi della scienza contemporanea (studi sull’elettricità animale). Queste teorie biologiche e fisiologiche non erano inseribili nel campo del meccanicismo, all’epoca dominante. Quindi, Schelling si rese conto di tale difficoltà e creò un proprio sistema di interpretazione trascendentale della natura, ricorrendo al contetto di natura come un tutto organico. Questa organicità non è solo intesa come interdipendenza di tutti i livelli della natura ma anche come schema dinamico che sta alla base della graduale crescita della complessità dei gradi della natura stessa. Il passaggio da un grado della natura al superiore è definito coem un processo dialettico (metamorfosi). Tutti i gradi della natura sono attraversati da una contrapposizione tra elemento ideale e un elemento reale.
Concetti fondamentali della filosofia della natura e suoi livelli di organizzazione
-POLARITA’: ogni grado della natura è formato da una coppia di elementi antitetici e complementari;
-COESIONE: tutte le forze naturali reagiscono in un reciproco equilibrarsi;
-METAMORFOSI: di derivazione chimica (trasformabilità degli elementi, gli uni negli altri);
-POTENZA: ogni grado della natura è una trasformazione del precedente;
-ANALOGIA: i fenomeni dei vari gradi presentano delle affinità.
Ogni grado della natura riprende la struttura del grado antecedente, quindi ne deriva che la natura è una tendenza all’organizzarsi e al disorganizzarsi. Ad esempio, la vita animale rappresenta il maximum di organizzazione delle leggi naturali ma anche un massimo di disorganizzazione in quanto ogni essere è imperfetto. La natura è quinfi un concetto immanente e la vita è espressione di uno squilibrio tra le varie componenti della natura.
La filosofia trascendentale
Studia il processo dei vai passaggi per mezzo dei quali l’attività conscia giunge alla libera produzione dell’oggetto nell’attività pratica partendo dalle prime intuizioni. Come già da Fichte, coscienza teoretica e pratica sono messe in continuità.
-SENSAZIONE: La coscienza è perduta nell’oggetto;
-INTUIZIONE: L’io avverte sè stesso come soggetto;
-RIFLESSIONE: L’io assume sè stesso come oggetto del conoscere;
-VOLONTA’: L’io si conosce come libera spontaneità.
La filosofia pratica
Nella sfera pratica l’affermazione dell’elemento soggettivo sull’oggettività si verifica sotto forme più compiute di quelle dell’attività teoretica. Nella parte pratica, però, Schelling incontra un limite: la vita dell’uomo si manifest come opposizione tra libertà e necessità; la prima vuole produrre il mondo secondo il proprio disegno, per la seconda vale il principio secondo cui il suo agire produce qualcosa che l’operante non avrebbe mai prodotto senza il suo volere.
La storia: libertà, necessità, disegno provvidenziale
La storia ha il compito di conciliare l’antitesi tra libertà e necessità, ed essa è il luogo in cui il libero agire dell’uomo cerca la rivelazione dell’assoluto. Avviene progressivamente e si presenta prima come necessità (destino), in seguito come legge meccanica. è possibile pensare ad una terza fase di questo sviluppo, in cui la sotria si manifesti come acacdimento per un disegno provvidenziale. Proprio perché non sappiamo quando quet’epoca verrà, Schelling assegna all’arte il compito di rivelare l’assoluto.
La filosofia dell’arte
A schelling si deve la riflessione più compiuta in ambito romanrico sull’arte. Egli pone la sua attenzione sui nessi tra l’arte e le altre forme di conoscenza, giungendo alla definizione di “arte come organo strumentale della metafisica”. Già dalle Lettere sul dogmatismo e il criticismo (1795) Schelling pone la sua attenzione sull’arte, con l’analisi della tragedia greca. In essa, Schelling indica una soluzione estetica dell’antinomia tra criticismo e dogmatismo. Il primo ci propone l’imperativo di una libertà incondizionata e di un’attività illimitata; il secondo pone l’assoluto al di fuori dell’io e conduce all’annientamento di ogni libera casualità e alla passività. C’è forse però una terza possibilità, quella dell’eroe tragico: sapere che c’è una forza oggettiva che minaccia la nostra libertà e lottare contro di essa.
Il paradosso della libertà umana nello spirito tragico
Questa possibilità vive nella consapevolezza estetica dell’arte. La tragedia greca, secondo Schelling, rendeva onore alla libertà umana, facendo lottare l’eroe contro lo strapotere del destino. Il senso edl tragico è quindi dimostrare la perdità della propria libertà nel proclamare il proprio libero volere.
L’arte come immediata rivelazione dell’assoluto
Abbiamo visto che l’arte diviene rivelazione dell’assoluto inteso come realtà che si realizza originariamente; tale assoluto diviene in seguito intuizione estetica tramite l’arte. L’arte è produzione geniale, attività in cui vengono a coincidere il lato inconscio e quello cosciente della manifestazione dell’io come natura e quello cosciente della sua attività morale. La filosofia perviene a cogliere questa coincidenza nell’assoluto ma non è in grado di elevare la coscienza comune a questo grado. L’arte trasforma invece questa consapevolezza e la rende universale → organo della filosofia.
L’arte come simbolo dell’infinito nel finito
L’accostamento tra arte e flosofia conferisce al prodotto artistico un valore metafisico. Infatti l’opera d’arteha come suo carattere fondamentale un’infinità inconscia. Inoltre, poiché ogni produzione estetica muove da una scissione tra attività conscia e inconscia, il prodotto artistico sarà inseparabile dalla bellezza, che è l’infinito espresso in modo finito.
Il parallelismo tra arte e filosofia
L’arte ha il compito di mostrare sensibilmente l’unità del tutto → tende a perdere importanza filosofica ma acquisisce maggiore autonomia. Appare quindi un parallelismo tra arte e filosofia: la filosofia conosce l’assoluto così come esso è in sé e ne coglie teoricamente la verità, l’arte è una riproduzione dell’assoluto nel mondo sensibile di cui esprime la bellezza. Il compito della costruzione filosofica è mostrare come l’infinito produce il finito. Così la filosofia legittima l’esistenza di distinti campi di indagine. La filosofia dell’arte non ha il compito di distinguere le forme del fenomeno artistico ma di mostrare il carattere formale delle distinzioni.
Georg Wilhelm Friederich Hegel (1770-1831)
Vita e opere
Nato a Stoccarda nel 1770, Georg Wilhelm Friederich Hegel ricevette un’educazione di tipo umanistico e ottenne una buona conoscienza dei classici latini e greci; fin dalla giovane età intraprese estese letture nel campo filosofico e scientifico. Compì i suoi studi universitari in un seminario per la formazione del clero protestante dove studiò due anni filosofia e tre teologia. in questi anni conobbe Holderlin e Schelling e studiò Kant e Rousseau. Conclusi gli studi teologi Hegel si recò da una famiglia di Berna dove approfondì il significato della figura di Cristo e il ruolo anche storico e sociale della religione. L’eredità del padre, morto nel 1799, permette a Hegel di intraprendere la carriera accademica all’università di Jena, dove ritrova Schelling con il quale sviluppa un’intensa collaborazione, criticando le prospettive filosofiche di Kant e Fichte. Nel 1807 Hegel si trasferisce a Norimberga dove dirige il locale ginnasio. Qui si sposò e passò molti anni dividendosi tra l’attività legata alla funzione di direttore del ginnasio e la ricerca filosofica. Nel 1816 Hegel ricomincia ad insegnare e viene chiamato a Berlino dove trascorre gli ultimi anni della sua vita: morì proprio a Berlino nel 1831.
La ricerca dell’assoluto nel giovane Hegel
Nei suoi primi scritti Hegel richiamò con nostalgia alle POLEIS greche, la cui coesione era effetto della religione in quanto le divinità erano ben integrate nella vita civile. Solo nella religione che coglie l’assoluto (unità di umano e divino) è possibile l’elevazione della vita finita alla vita infinita. Nel periodo dell’università di Jena (1800-1806) la ricerca dell’assoluto è assegnata definitivamente alla filosofia: secondo Hegel le filosofie di Kant e Fichte erano contrassegnate dal vizio e quindi sono chiamate filosofie del formalismo (tendenza a scomporre l’aspetto materiale da quello formale). Solo l’approccio di Schelling è considerato autenticamente filosofico.
Fenomenologia dello spirito
L’opera risale al 1807 ed è l’ultima del periodo Jenese; essa è una risposta al bisogno di filosofia, che si specifica in rapporto ai caratteri dell’epoca. Ora Hegel critica anche Schelling in quanto afferma che l’assoluto non è concepibile come sostanza, ma rimane identico a sè stesso in tutte le molteplici manifestazioni nelle quali si oggettiva. Esso è inteso come processo articolato in diversi momenti. Lo spirito viene paragonato ad uno scritto che si sviluppa in tre momenti: A) lo scritto è solo un pensiero; B) lo scritto è sulla carta: si è manifestato; C) capiamo che lo scritto su carta è esattamente ciò che abbiamo pensato. L’assoluto è quindi il vero che si sviluppa in tre momenti:
1- L’assoluto pone se stesso come puro pensiero, è essenza;
2- L’essenza pone se stessa in altro, si oggettiva;
3- L’essere altro viene ricompreso come un momento dell’assoluto.
Questa concezione dell’assoluto permette di superare il formalismo: dall’assoluto non resta fuori più nulla che gli si contrapponga. Il motivo più caratteristico della fenomenologia è però il percorso che la coscienza deve percorrere per giungere al SAPERE ASSOLUTO. Essa è condotta per gradi a superare la sua costitutiva duplicità (opposizione tra io e non-io) , essa dubita di ciò di cui prima era certa solo con un percorso di esperienze negative. Le tappe in cui viene a trovarsi durante la sua formazione costituiscono altrettanti momenti in cui l’assoluto si manifesta. Le stazioni del percorso formativo sono tappe di un itinerario obbligato, ma l’ordine e il fine del processo sono ignoti alla coscienza e chiari al filosofo che guarda il percorso dal punto di vista del sapere assoluto. Ora Hegel denomina “spirito” non solo l’assoluto ma anche la coscienza e l’agire collettivi di una comunità, quindi la coscienza singola non si forma in una condizione di isolamento,ma si svolge sulla base della cultura dell’epoca. La coscienza individuale deve perciò ripercorrere i passaggi attraverso i quali si sono venuti a formare nel corso del tempo i valori e gli ideali checontraddistinguono l’età presente.

Coscienza, autocoscienza, ragione
Schema della fenomenologia:
-Prefazione
-Introduzione
-Coscienza
a) certezza sensibile
b) percezione
c) intelletto
-Autocoscienza
-Ragione
-Spirito
-Religione
-Sapere assoluto
Dialettica della coscienza
Nella sezione iniziale della fenomenologia coscienza assume un significato più specifico e circoscritto. Essa designa una certezza che accompagna la coscienza nelle prime tappe del suo percorso formativo: la certezza che la verità sia tutta nell’oggetto e quindi fuori dalla coscienza. La prima figura in cui quest’ultima si trova è la certezza sensibile: l’oggetto è il dato immediato dei sensi. Nella successiva figura della percezione la coscienza è certa che la verità stia nella cosa percepita. La terza figura della coscienza è l’intelletto, che non pone la verità nella cosa, ma nella causa.
L’autocoscienza
Tuttavia la coscienza non costruisce la propria identità solo su conoscenze teoriche, quindi la parte della autocoscienza è dedicata alla ricostruzione delle tappe attraverso le quali la coscienza acquista certezza di sè: l’appettito e il desiderio; lo scontro con un altro uomo; la definizione delle gerarchie di potere; l’esperienza del lavoro. Poi passa a esperienza contrassegnate da un maggiore grado di consapevolezza, la più importante delle quali è la libertà.
La dialettica della ragione
Nella sezione sulla ragione la coscienza assume il punto di vista tipico della filosofia moderna: la coscienza singola si sa come universale e coglie se stessa come essenza della realtà. La ragione rappresenta un parziale superamento dell’opposizione tra coscienza e autocoscienza.
Dalla ragione allo spirito
L’ultimo passo della formazione della coscienza è l’acquisizione della nuova prospettiva filosofica proposta da Hegel: al tempo presente si addice solo una filosofia che pensa al vero come intero. Questo passo è però reso possibile solo dal fatto che ora esso è già stato compiuto dallo spirito del tempo, dalla cultura dell’epoca. Le figure che si incontrano nella sezione dello spirito non sono forme della coscienza individuale, ma “figure di mondi”, effettive realtà; a ciascuna di esse corrisponde una cultura e la successione di questi mondi delinea una storia ideale dell’umanità. Durante questo percorso storico, l’aspetto della soggettività assume sempre più rilievo rispetto all’elemento della sostanzialità.
La libera soggettività
All’inizio del suo percorso storico, lo spirito si presenta come semplice sostanza: la soggettività libera non vi ha rilievo e l’individuo si trova assorbito dalla dimensione collettiva, come nella polis greca. Al contrario nella modernità l’individualità assume la massima importanza e afferma, nella rivoluzione francese, la propria libertà assoluta. Ma con la rivoluzione francese non si è compiuta la dialettica dello spirito, che mira alla costruzione di una società guidata da una soggettività libera, la sua realizzazione è quindi compito dell’epoca presente.
La religione e il sapere assoluto
Nella sezione della religione Hegel ripercorre di nuovo la storia umana ricercando i modi in cui essa si espresse. Dal piano storico-politico, passiamo a considerare le forme più alte (arte, religione e filosofia) nelle quali i diversi popoli concepirono se stessi. La religione è una forma di autocoscienza basata sulla dimensione mitico-narrativa definita da Hegel rappresentativa; introducendo la sezione del sapere assoluto egli ricorda che tale figura è necessaria per superare definitivamente la contrapposizione tra soggetto e oggeto. A questo fine lo spirito deve conoscere se stesso nella forma adeguata, quella del concetto e non quella della rappresentazione. Dal punto di vista del sapere assoluto, sapere e oggetto, soggetto e sostanza sono ormai identici.
Logica e filosofia della natura
La filosofia come conoscenza concettuale del pensiero
Il pensiero non opera solo nella filosofia, ma anche nelle altre scienze e in tutte le attività umane; il pensiero costituisce quindi lo specifico oggetto o contenuto della filosofia, ma ciò non è sufficiente per definire lo stato della filosofia rispetto agli altri saperi. ciò che contraddistingue la filosofia è il fatto che essa pensa il proprio contenuto in forma concettuale, in conclusione essa è conoscenza concettuale e pura.
Caratteri e limiti delle scienze empiriche
Le scienze empiriche sono quelle che muovono dall’esperienza e cercano di spiegarla; esse mirano a riformulare in forma di pensiero i dati empirici, quindi le spiegazioni da esse elaborate consistono in pernsieri. Le scienze empiriche non possono però essere assunte a modello di scientificità in quanto ci sono contenuti che non si presentano ad una trattazione scientifica di questo tipo; inoltre anche la forma delle scienze empiriche non soddisfa il requisito della necessità e quindi non si può parlare di scienza.
La fondazione filosofica delle scienze empiriche
Molti, prima di Hegel, avevano dovuto convenire sulla natura ipotetica della fisica. Nessuna teoria fisica, infatti, potrà mai dare una spiegazione assolutamente necessaria. Il requisito della necessità deve essere soddisfatto dalla filosofia, che deve mettere alla prova concetti, leggi e modelli saggiandone la coerenza con le proprie categorie. Questo esame vuole superare tutto ciò di immediato e di arbitrario che c’è nelle scienze empiriche. Hegel nega ogni rilievo all’esperienza e vuole dedurre la realtà dall’idea astratta. Il criterio che distingue le discipline scientifiche dalle altre è la conformità dei principi delle singole scienze con quanto esige lo sviluppo del concetto o dell’idea, ossia del pensiero. Quindi, cronologicamente lo sviluppo delle scienze viene prima della filosofia, ma logicamente la filosofia pone la validità delle scienze, in termini di legittimazione e di fondamento.
La tripartizione del sistema hegeliano
Il sistema hegeliano si articola in 3 sezioni:
1. La logica, scienza dell’idea in sé e per sé, dell’idea pura. Studia il pensiero in quanto tale.
2. La filosofia della natura, scienza dell’idea nel suo alienarsi da sé, si propone la fondazione speculativa delle scienze moderne della natura.
3. La filosofia dello spirito, scienza dell’idea che torna in sé, discute i fondamenti delle discipline che riguardano l’uomo.
La logica dialettica
Il compito della logica è quello di esporre l’automovimento del concetto, il pensiero in quanto tale.. il pensiero, in questa fase, è in forma pura, indipendentemente dai compi del reale dove si esplica come ragione immanente. Il pensare è un’attività complessa, in cui non si distinguono i vari momenti. Hegel mira a dar conto di tutti questi atti, riconducendoli al loro fondamento comune, al pensare stesso. Si insiste quindi sulla necessità che i diversi momenti della logica sono concepiti come momenti ordinati di una totalità sistematica. Il pensiero è visto come un continuo scorrere dinamico, e pertanto la prima categoria contemplata da Hegel è quella del divenire.
La coincidenza tra pensiero e realtà
L’ambito della scienza è quello dell’identità tra sapere e oggetto, cui mette capo il percorso fenomenologico. La scienza della ragione (dell’idea pura) corrisponde al’esposizioen dello svolgimento del pensiero, che è a tempo stesso norma essenziale e immanente allo sviluppo della realtà, pensata in termini statici e non dinamici. Hegel sostiene che è necessario intendere l’assoluto non come sostanza ma come soggetto, come movimento del pensiero.
Il movimento del pensiero: la dialettica triadica
I tre lati del processo dialettico sono:
1. In ogni suo momento, il processo logico prende avvio da una determinazione immediata, astratta, che esclude tutte le altre (es. concetti universali ottenuti per astrazione).
2. Mostra del movimento tramite il quale tale determinazione passa nel suo opposto e viene dunque negata.
3. La ragione, in virtù della “potenza del negativo” produce un risultato positivo: la contraddizione tra i due termini opposti non si dissolve in uno zero, ma nella negazione del suo contenuto particolare. Viene cioè negata la sussistenza dei termini opposti.
Il percorso della scienza dall’astratto al concreto
La logica deve quindi muovere da categorie astratte, perché isolate, e, passando attraverso la negazione, dovrà mostrare l’inconsistenza di ciascuna se è concepita solo in opposizione alle altre; infine, portare alla luce l’unità profonda che accumuna le determinazioni del pensiero. Il termine dialettica va riferito all’importanza che assume la negazione e anche al dividersi dell’unità originaria.
La negazione come superamento
La negazione dialettica non comporta che le determinazioni via via negate vengano sostituite, ma riguarda solo la loro sussistenza separata e l’opposizione con altre. Il movimento attraverso cui una determinazione è tolta nella sua opposizione con altre ma conservata è definito come superamento.
Essere, essenza, concetto
Dal punto di vista del contenuto, la filosofia di Hegel si sviluppa attraverso 3 grandi momenti, essere (dottrina del pensiero nella sua immediatezza, del concetto in quanto appare), essenza (studia il pensiero nella sua riflessione ovvero il concetto in quanto è per sé e si manifesta), concetto (studia il concetto nel suo essere tornato in sé, in altre parole il concetto in sé e per sé).
La dottrina dell’essere e le nozioni di essere e di nulla
I caratteri logici che distinguono la dottrina dell’essere da quelle dell’essenza sono l’immediatezza e la smplicità. La nozione di essere, d’altra parte, coincide con quella di nulla, in quanto senza determinazioni; il nulla si rivela quindi identico all’essere.
Il divenire come identità di essere e nulla
Il divenire rappresenta un presupposto dell’essere e del nulla e, come tale, costituisce la prima categoria effettiva della logica.
La filosofia dello spirito
Lo spirito soggettivo
Lo studio dello spirito soggettivo si articola nelle scienza filosofiche dell’antropologia, della fenomenologia e della psicologia. L’antropologia ha come tema l’emergere dello spirito dall’esteriorità della natura e studia l’anima, intesa come originaria unità di psiche e corpo. Si vuole dimostrare che la coscienza è il risultato di un precedente movimento dialettico, quello dell’anima (in essa, tra l’altro non vi è ancora la distinzione tra soggetto e oggetto). Quest’ultima si divide in un io e in un mondo oggettivo, dando luogo alla struttura bipolare caratteristica della coscienza. La fenomenologia studia il percorso che porta la coscienza a superare l’opposizione soggetto-oggetto.
La psicologia e il soggetto individuale
La psicologia tratta del soggetto individuale, unità di anima (studiata dall’antropologia) e coscienza (fenomenologia).
Il passaggio dallo spirito soggettivo a quello oggettivo
La libertà soggettiva resta una pura astrazione, se non si concretizza oggettivandosi e realizzandosi in garanzie politiche e giuridiche. Lo spirito oggettivo rappresenta la realizzazione dell’idea di libertà in una dimensione esterna. L’eticità è il fondamento unitario, l’intero che dividendosi dà luogo agli altri momenti. A Hegel appare ovvio che senza società e senza stato non esisterebbero diritto, morale, le quali, al di fuori di un certo contesto concreto, sono astrazioni. D’altra parte, una società organizzata in uno stato non sarebbe razionale se i suoi cittadini non fossero moralmente responsabili e i loro rapporti non fossero regolati dal diritto.
Lo spirito oggettivo: diritto e moralità
Il primo ambito di realizzazione della volontà libera è quello del diritto astratto, ma questa realizzazione è ancora precaria, in cui la libertà è in sé, sotto forma di potenza. Hegel considera fondamentale l’habeas corpus, la proprietà del corpo, per cui viene condannata la schiavitù. Nel contratto, si vede un momento di unità, determinato dal convenire di volontà differenti, un’unità però precaria e accidentale, perché basata sull’arbitrio dei contraenti. Hegel pertanto si schiera contro quelle dottrine che pretendono di fondare sul contratto le istituzioni (famiglia, stato) che appartengono alla sfera dell’eticità. Chi compie un illecito viola le regole del diritto di tutti, opponendovi il suo diritto individuale.
Il concetto della pena e la critica delle tesi di Beccaria
L’azione illecita deve esser tolta dalla pena; a quest’ultima spetta il compito di reintegrare la libertà che ne costituisce la sostanza. La pena è quindi un diritto di chi ha commesso l’illecito e non deve essere intesa come una vendetta e deve emanare da una volontà che si propone la difesa dell’universalità della libertà. In questa prospettiva Hegel difende la pena di morte contro le tesi di Beccaria.
Il principio moderno della moralità
La coscienza morale è inviolabile. La modernità, infatti, si distingue dalle epoche precedenti per il ruolo che viene a svolgere la libertà soggettiva; quindi, un moderno sistema dello spirito oggettivo è tenuto ad assumere la moralità come momento necessario ed ineliminabile.
L’eticità: la famiglia
L’essenza dello spirito oggettivo, la volontà libera, esiste concretamente in famiglia, società civile e stato. Qui si perviene alla concretezza, fine ultimo di ogni processo.
La famiglia come moderna espressione dello spirito stoico
La famiglia è concepita da Hegel come organismo unitario, i cui membri, nel loro rapporto con l’esterno costituiscono un tutt’uno (la famiglia rimane con tracce della compattezza etica attribuita alle società antiche. La modernità della concezione hegeliana della famiglia è nella centralità del matrimonio, come rapporto d’amore etico tra i sessi. Gli altri momenti della famiglia sono il patrimonio e l’educazione: questi due momenti sono concepiti come oggettivazione del rapporto d’amore coniugale, che si configura come fiducia. Inoltre, la famiglia moderna si distingue da quella antica perché a fondamento c’è un atto libero. Non si identifica con la famiglia d’origine, ma è simile alla famiglia borghese , che è un semplice rapporto tra genitori e figli.
La critica della concezione romantica dell’amore
La relazione sessuale viene trasfigurata in un rapporto spirituale. Necessario alla formazione della famiglia è il consenso di entrambe le persone a formare un tutt’uno, sacrificando la loro personalità naturale nell’unità della famiglia. Nella concezione romantica dell’amore, il significato etico si dissolve nella particolarità soggettiva.
L’eticità: la società civile
L’”insocievole socievolezza” della società civile
Il rapporto tra singolo e totalità nella società civile si indebolisce fino a scomparire dalla vista. La totalità dello spirito etico si presenta come dissolta in una totalità di atomi (gli individui o i nuclei famigliari), cioè i soggetti economici privati, il cui agire è determinato solo dalla volontà particolare, senza dimensione collettiva.
L’interdipendenza economica, le classi, la natura
La divisione del lavoro permette la soddisfazione di bisogni sempre più sofisticati, ma così ciascuno dipende da altri e l’egoismo del singolo, convinto di lavorare solo per se stesso, finisce per favorire anche gli altri. Inoltre, la cultura e l’aggregarsi intorno alle funzioni produttive di stati e classi (sostanziale-agricoltura; industria; universale-burocrazia) contribuiscono a mettere in comunicazione gli individui tra i loro.
L’amministrazione della giustizia come tutela dell’intera società
Nell’ambito della società civile, Hegel tratta anche l’amministrazione della giustizia. Il legame etico tra singolo e totalità si manifesta con maggior forza nella sfera dell’amministrazione; infatti, essa tutela i beni e i diritti del singolo e con programmi educativi e politiche economiche si fa carico del benessere dei membri della siocietà.
La corporazione come momento di riunificazione etica
Nelle associazioni di mestiere, Hegel individua il momento più alto di composizione organica tra singolo e società. La corporazione rappresenta il momento in cui lo spirito etico ritorna all’unità, quella arricchita dall’oggettivazione della società civile.
L’eticità: lo stato
La libertà, essenza dell’eticità, si attua compiutamente nello stato, di cui famiglia e società civile si rivelano sfere finite. Lo stato, quindi, rappresenta il fondamento ontologico della famiglia e della società civile. Questa concezione dello stato è in antitesi con le tesi del giusnaturalismo moderno , che vede l’individuo come fondamento e lo stato concepito come “ente artificiale”. La critica hegeliana si fonda sul seguente ragionamento: lo stato è compiuta realizzazione della libertà, che è volontà razionale; quest’ultima, proprio per la sua razionalità, è universale. La volontà del singolo , in quanto volontà razionale, vuole il bene comune ed è quindi volontà universale. È quindi sbagliato far derivare la volontà universale da una convergenza di volontà particolare, derivate da interessi privatistici.
La realizzazione oggettiva della razionalità nello stato
Lo stato moderno è la volontà libera, razionale/universale realizzata; nello stato, la libertà si incarna in istituzioni oggettive. Lo stato è realizzazione della libertà, anche se le istituzioni spesso hanno imperfezioni, queste ultime considerate comunque accidentali, insufficienti a mettere in crisi un intero sistema. Il detto hegeliano “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale” si applica anche alle istituzioni politiche. Lo stato è razionale in quanto la soggettività prende il controllo dell’ordine oggettivo, conformandolo ai propri fini etici, ma comunque nell’interesse comune.
La monarchia costituzionale, culmine dell’organismo statale
La monarchia per diritto divino viene rifiutata da Hegel. La monarchia esprime, con la sua capacità di prendere decisioni, l’affermarsi più compiuto della soggettività e delle istituzioni oggettive dell’eticità.
Le relazioni tra gli stati: lo scontro di individualità indipendenti
La costituzione è il primo dei 3 momenti in cui si articola la dialettica di questa sfera dell’eticità. Il secondo momento è il diritto statale esterno. Il rapporto tra gli stati ha come principio la sovranità di ciascuno. Gli stati stanno tra di loro come uomini nello stato di natura, con solo la volontà particolare a stabilire i rapporti giuridici. L’assenza di una volontà generale superiore alle volontà particolari porta Hegel a prendere le distanze dalla pace perpetua di Kant, garantita da un organismo federale da tutti riconosciuto e in grado di risolvere ogni controversia. Questo ordinamento si reggerebbe solo sulla concordia tra gli stati. È quindi inevitabile, secondo Hegel, il ricorso alla guerra per risolvere ogni controversia.
La concezione della storia
IL terzo momento della dialettica dello Stato è la storia del mondo. Hegel nega l’esistenza di un diritto sovranazionale e ritiene che la funzione di giudice sia svolta da ciò che lui chiama lo spirito del mondo, che si sviluppa nel tempo, incarnandosi successivamente in popoli diversi, a cui spetta il ruolo di popolo dominante. Di fronte a questo popolo gli spiriti degli altri popoli sono senza diritti.
La finalità immanente alla storia del mondo
La filosofia deve mettere in luce la razionalità immanente che ne guida lo sviluppo, verso la realizzazione della libertà, lo scopo universale del divenire storico. La libertà coincide con l’affermarsi maturo dei concetti dell’eticità. Uomini e popoli agiscono inconsapevolmente come strumenti della realizzazione dello scopo universale della ragione.
Lo sviluppo dialettico della storia del mondo
Hegel scandisce in 4 momenti il processo con il quale la vicenda umana aiuta lo scopo universale; questi 4 momenti si identificano con i domini di 4 popoli e durante questo processo si ha un progressivo spostamento da est a ovest. Abbiamo il regno orientale, che coincide con il dispotismo (libertà di uno solo); il regno greco, in cui si afferma la bella eticità come libertà di pochi; il regno romano, in cui l’individuo, sottraendosi al potere assoluto viene riconosciuta astratta persona giuridica; infine il regno germanico, che comprende il periodo dall’era cristiana fino all’età moderna che ha come principio spirituale quello che Hegel definisce l’assoluto orgoglio della soggettività.
Lo spirito assoluto: arte e religione
L’arte come intuizione sensibile dell’assoluto
L’arte coglie l’assoluto in forma immediata, l’opera d’arte è unità di concetto e di materiali percepibili con i sensi e, essendo prodotta dallo spirito, ha una natura spirituale. La scienza dell’estetica deve cogliere l’universalità del pensiero nella particolarità in cui il concetto si incarna concretamente.
La religione come rappresentazione dello spirito assoluto
La religione è la sfera in cui il contenuto concettuale si dà in forma di rappresentazione. La religione racconta Dio, ossia la verità stessa.
Dizionario
Assoluto: è l’Infinito, il Soggetto, l’Idea, la Ragione, lo Spirito, cioè Dio, idealisticamente e panteisticamente, inteso come realtà immanente nel mondo, come un Infinito che si fa mediante il finito
Infinito: è l’Assoluto, in quanto totalità autosufficiente, in cui si risolve ogni realtà finita
Soggetto: è l’Assoluto, concepito come realtà in divenire che produce se stessa e che soltanto alla fine si rivela come ciò che è veramente, ossia come spirito
Idea: in generale, Hegel intende l’Assoluto (“l’Assoluto è l’Idea”) concepito come ragione in atto, ovvero come unità dialettica di pensiero ed esser, concetto e cosa, ragione e realtà, soggetto e oggetto, infinito e finito
Ragione: Hegel intende non la ragione finita dell’individuo ma la realtà stessa in quanto idea, in quanto unità tra pensiero ed essere: “CIO CHE È RAZIONALE È REALE, CIÒ CHE È REALE È RAZIONALE”. Con questa formula Hegel intende dire che la realtà non è materia caotica ma il dispiegarsi di una struttura razionale (IDEA) che si manifesta in modo inconsapevole nela natura e consapevole nell’uomo, che la razionalità non è pura astrazione ma la sostanza stessa di ciò che esiste
Panlogismo: dal greco PAN – tutto – e LOGOS – ragione – è un termine coniato dal filosofo tedesco Erdmann per indicare la dottrina hegeliana dell’identità tra reale e razionale, dottrina che fa dell’hegelismo una forma di ottimismo metafisico
Giustificazionismo: termine usato dai critici per indicare l’atteggiamento generale di Hegel di fronte alla realtà e, in particolare, di fronte la sua dottrina della filosofia come giustificazione della razionalità del mondo
Idea pura o idea in sé e per sé: è l’Assoluto considerato come in se stesso, cioè a prescindere dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito
Natura (NATUR): l’idea nella forma di essere altro, ossia l’estrinsecazione alienata dell’idea nelle realtà spazio-temporali del mondo (GEIST): l’idea ceh dopo essersi alienata nella natura torna presso di sé nell’uomo
In sé e per sé: con il 1° Hegel intende ciò che che è astratto, immediato, inconsapevole, privo di sviluppo e di ______. Al contrario, con “per sé” vede ciò che è concreto, mediato, relazionato. “In sé” viene fatto corrispondere al primo momento della dialettica (TESI) il “per sé” al secondo momento (ANTITESI), l’”in sé e per sé” al terzo momento (SINTESI)
Dialettica: legge di sviluppo della realtà e legge di comprensione della medesima. Nella sintesi si conferma la riaffermazione potenziata dell’affermazione iniziale ottenuta tramite la negazione
Superamento (Aufhebung): termine tecnico che indica il procedimento della dialettica che abolisce e nello stesso tempo conserva ciascuno dei suoi momenti
Figure: non sono entità immanenti, ma entità ideali e storiche al tempo stesso, in quanto esprimono le tappe dello spirito che hanno trovato una loro esemplificazione tipica nel corso della storia. Nella fenomenologia Hegel ha voluto delineare una filosofia della coscienza e simultaneamente una storia complessa dello sviluppo culturale dell’umanità
Logica: nello studio dell’idea è considerata nel suo essere infinito e nel suo graduale esplicarsi, ma a prescindere dalla sua concreta realizzazione nella natura e nello spirito
Arte: momento in cui lo spirito acquista coscienza di sé nella forma dell’intuizione sensibile (figure, parole, musica) vivendo in modo immediato e intuitivo quella fusione tra soggetto e oggetto, spirito e natura. Di fronte all’esperienza del bello artistico, ad esempio una statua greca, spirito e natura sono recepiti come un tutt’uno in quanto nella statua l’oggetto (il marmo) è già natura spiritualizzata, cioè manifestazione sensibile di un messaggio spirituale, e il soggetto (idea artistica) è già spirito naturalizzato, ovvero concetto reso visibile
Religione: momento in cui lo spirito acquista coscienza di sé nella forma della rappresentazione intendendo per quest’ultima un moo di pensare:
1. Che sta a metà strada tra intuizione sensibile e concetto (le rappresentazioni in genere possono essere considerate_____________
2. Procede in modo adialettico, giustapponendo le proprie determinazioni come fossero indipendenti le une dalle altre; ad esempio DIO PADRE che crea il mondo è la rappresentazione (frutto di immagini giustapposte) del fatto che la natura costituiscaun momento dialettico della vita dello spirito. Lo sviluppo della coscienza religiosa comincia con la religione della natura e culmina con il cristianesimo, religione assoluta in cui Dio appare finalmente come primo spirito
Arthur Schopenauer (1788-1860)
Vita e opere
Nasce a Danzica nel 1788, da una ricca famiglia di commercianti. Compiuti gli studi classici a Weimar, si iscrive a medicina, per poi passare a quella di filosofia. Si dedica allo studio di Kant e di Platone e rimane deluso da Fichte. Nel 1813 si laurea a Jena, con una tesi sulla quadruplice radice. Collabora con Goethe allo studio della teoria dei colori, poi si trasferisce a Dresda. Nel 1818 termina Il mondo come volontà e rappresentazione, va in Italia e torna in Germania, dove tiene delle lezioni a Berlino. Nel 1836 pubblica Sulla volontà nella natura. Tutte le sue opere non riescono a dargli molto successo e la sua fama si è aumentata molto dopo la morte, avvenuta nel 1860.
La quadruplice radice nel principio di ragione suff.
Secndo schopenauer, dopo Kant non si può più affermare il principio che nulla esiste senza una ragione come principio di verità assoluta, ma lo si può riferire al modo in cui i fenomeni si ripetono regolarmente. Bisogna comunque limitarsi al modo in cui il soggetto si rapporta all’oggetto. Le forme di ragione sufficiente sono i modi mediante i quali il soggetto conferisce validità razionale ai fenomeni.
Il principio di ragione
La prima classe di oggetti per il soggetto è quella delle rappresentazioni intuitive, attraverso cui si forma l’esperienza. Il principio di ragione sufficiente si applica al mutamento casuale e coincide con la legge di casualità, che per essere applicata richiede la cooperazione di sensibilità e intelletto. Con i sensi conosciamo le affezioni soggettive del nostro corpo, con l’intelletto riferiamo tale azione ad una causa oggettiva, al di fuori di noi, la materia. Spazio, tempo e causa sono le forme dell’intuizione che presiedono alla costituzione del mondo come rappresentazione del soggetto.
Conoscenza intuitiva e astratta
La seconda classe è quella delle rappresentazioni astratte o concetti, che formano il contenuto totale della ragione e sono regolati dal principio di ragione sufficiente. Il nesso premessa-conseguenza è quello in cui si esplica la razionalità. La terza classe è quella di spazio e tempo, considerate separatamente dalla materia.
Dalla conoscenza all’azione
La quarta classe è quella delle azioni, regolate dalla legge di motivazione, dal principio di r.s. dell’agire (ratio agendi). Al nesso causa-effetto si sostituisce quello motivo-azione, che spiega l’atto libero e volontario del soggetto. L’uomo è libero nella scelta del proprio destino, ma è condizionato in rapporto al modo in cui si esplica nei singoli atti del volere.
La metafisica nell’esperienza di Schopenauer
Le 4 forme del principio di ragione sufficiente forniscono la spiegazione di ciò che è il mondo in quanto rappresentazione, ma non danno accesso alla cosa in sé. L’esigenza metafisica di una spiegazione totale della realtà non può essere tuttavia soddisfatta da questa risposta.
Il mondo come volontà e rappresentazione
Componendo Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenauer vuole elaborare una metafisica che sappia fornire una risposta. Le dottrine del principio della quadruplice radice sono considerate indispensabili per formare questo sistema, che comunque non è della trascendenza, ma dell’immanenza, e in questo senso Schopenauer prosegue nella direzione di Kant. Egli vuole creare una metafisica che non va al di là dell’esperienza, non una scienza di meri concetti, tratti da deduzioni a priori, ma un sapere concreto, attinto dal’intuizione. Il principale merito di Kant sta nella distinzione tra fenomeno e cosa in sé, che ha posto una barriera tra il conoscere oggettivo e quello soggettivo. Il suo errore, invece, è stato di ritenere che la conoscenza della cosa in sé fosse impossibile. Schopenauer, invece, ha trovato una via di accesso alla cosa in sé, che egli identifica con la volontà. Opera quindi una distinzione tra il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà: finché il soggetto vuole conoscere obiettivamente il mondo esterno, può dire “il mondo è la mia rappresentazione”.
Il carattere illusorio del mondo fenomenico
Viene accettato il principio dell’antico idealismo, secondo cui il mondo che cade sotto i sensi non è il mondo vero, ma un’immagine ingannevole. È maya, il velo dell’illusione, che ottenebra le pupille dei mortali e fa loro vedere un mondo di cui non si può dire né che esista né che non esista. Se noi però volgiamo lo sguardo non all’esterno, ma al nostro interno, all’autocoscienza, si rivela un’altra dimensione, che suona: “il mondo è la mia volontà”
La funzione mediatrice del corpo proprio
Il corpo getta un ponte tra il mondo come rappresentazione e il mondo come volontà. Come oggetto tra oggetti, non è altro che fenomeno. Rispetto agli altri corpi, che vengono conosciuti in maniera mediata, è per il soggetto l’oggetto primo e immediato, ma è sempre una rappresentazione. È però conosciuto in maniera diversa nell’autocoscienza: è sufficiente dire “io voglio” e questa nostra volontà si traduce in movimento, che coincide, non segue, la volontà. Il conoscere che cosa sia la volontà equivale quindi a conoscere che cosa sia in sé il soggetto, conoscendolo in quanto oggetto.
La volontà nella natura
Il mondo è studiato dalla scienza della natura in maniera eziologica, ricercando cioè le cause del mutamento. La spiegazione scientifica deve però aprirsi alla considerazione filosofica, essendoci alcuni eventi senza apparente spiegazione logica. Infatti, una metafisica della natura (a partire dall’identificazione della cosa in sé con la volontà) può integrare razionalmente i risultati della scienza. Una simile metafisica empirica assume come ipotesi che le forze presenti in natura siano nella loro essenza identiche alla volontà.
I gradi di oggettivazione della volontà
Considerata nella sua essenza metafisica, la natura in un unico e complesso fenomeno della volontà. Non essendo in grado di conoscerla nella sua totalità, supponiamo che sia unica e identica nei suoi fenomeni. A mediare tra l’assoluta e inconoscibile unità della volontà e la molteplicità delle sue manifestazioni (i corpi) stanno le idee.
Le idee: i modelli del mondo fenomenico
Nell’accezione platonica, sono i modelli cui la volontà si ispira nel suo manifestarsi e la legge naturale è la mediazione tra l’idea e il fenomeno. I gradi di oggettivazione della volontà sono: la natura inorganica, quella organica, il mondo vegetale, quello animale e l’uomo. La natura perde quindi il suo apparente determinismo per rivelare un più profondo teleologismo. Schopenauer, comunque è lontano dall’ipotesi di un’armonia metafisica.
La sofferenza universale
Nel modo di manifestarsi, la volontà si presenta come lacerata da conflittualità: le forze naturali lottano tra di loro per la sopravvivenza, e quindi è come se la volontà fosse perennemente in lotta con se stessa. Sollevato il velo della maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguardo è una volontà cieca e irrazionale, che si propone come scopo la propria affermazione: la volontà vuole se stessa e sfrutta ogni occasione per affermarsi. È questo per Schopenauer il volto vero e demoniaco del mondo
La filosofia pratica di Schopenauer
Schopenauer vuole contrapporsi al tradizionale dualismo tra filosofia pratica e teoretica e intende edificare una filosofia che sia etica e metafisica in uno. L’etica di Schopenauer è un tutt’uno con la teoretica e si concentra sul problema della libertà del volere.
Dalla metafisica alla morale
La volontà è concepita come un’essenza metafisica, unica e identica in tutte le sue manifestazioni fenomeniche, al di là della nostra comprensione e quindi irrazionale. La sua oggettivazione necessaria sono i singoli modi in cui si applica nella spazio e nel tempo. Nell’uomo si presenta la coscienza, legata al cervello, che è quindi un fenomeno della volontà e comprende l’intelletto (capacità di intuire causa-effetto) e la ragione (capacità del pensiero astratto).
L’arte come conoscenza intuitiva della volontà
L’estetica di Schopenauer è un ampliamento della gnoseologia. L’arte è infatti una forma di conoscenza, che si riassume nella nozione di genio. La conoscenza si serve di nozioni intuitive e astratte e si muove nei limiti del fenomeno, a servizio della volontà: è una conoscenza utilitaria. Al contrario, quella del genio e dell’artista è una conosenza rivolta all’idea: è una forma superiore di intuizione, che oltrepassa i limiti del fenomeno. All’arte, Schopenauer assegna una funzione metafisica: esprime l’aspetto profondo della realtà come volontà e nelle sue diverse forme l’arte esprime un unico contenuto, la volontà.
Il problema della libertà
Il concetto di libertà è un concetto negativo, in quanto significa negazione della necessità. Schopenauer opera una distinzione tra il piano empirico o fenomenico dell’azione determinata e quello noumenico della volontà libera. Se in Kant la volontà è libera perché coincide con la ragione, Schopenauer concepisce la volontà come qualcosa di irrazionale. L’uomo non è libero, ma si libera, superando via via i condizionamenti del mondo fenomenico. Solo la moralità rende definitiva questa conquista, superando la sporadicità dell’esperienza estetica.
Affermare o negare la vita ?
L’azione morale coincide con la scelta libera del proprio carattere intelligibile, nella scelta etica fondamentale, quella tra affermazione o negazione della volontà di vivere. A questa scelta se ne contrappone un’altra, quella dell’asceta, che nega in se stesso la volontà e ha orrore della realtà di dolore e pur continuando a vivere - il suicidio non è una soluzione perché la volontà di vivere è immortale e non è annullata da un gesto che ne tocca il fenomeno - sospende liberamente il suo assenso alla volontà
Il pessimismo di Schopenauer
LA volontà si presenta in perenne lotta con se stessa. Le sofferenze del mondo animale e vegetale giungono nell’uomo alla presa di coscienza della verità fondamentale, che “ogni vivere è per essenza un soffrire”. L’uomo tende naturalmente al piacere, ma questo bisogno provoca in realtà dolore. La vita si rivela quindi come una perpetua oscillazione tra i due estremi del dolore e della noia e si conclude con la catastrofe finale della morte.
Ascesi e compassione: le forme della noluntas
L’individuo può trovare la soluzione dell’ascetismo, che si traduce in una morale della compassione. Consiste nell’abolire ogni distinzione tra l’io e l’altro, respingendo l’egoismo. Vi sono diversi gradi dell’ascesi, dalla castità, alla povertà volontaria, all’autoabnegazione, al sacrificio eroico di sé. La castità è il primo gradino verso l’ascesi, in quanto rappresenta la scelta di liberarsi dalla subordinazione alla volontà della specie che utilizza le lusinghe dell’amore per uno scopo interessato.
Ludwig Feuerbach (1804-1872)
Vita e opere
Feuerbach nasce in Baviera nel 1804 e studia filosofia e teologia negli anni 20. a partire dal 29 tiene corsi presso l’Università di Erlangen, senza però riuscire ad ottenere la nomina a professore straordinario. Pubblicò nel 1830la sua prima opera Pensieri sulla morte e l’immortalità, che però non gli assicurò grande fama Pubblicò altri scritti, nessuno dei quali considerato importante, fino al 1841, quando pubblicò l’opera L’essenza del cristianesimo. Da quel momento si dedicò esclusivamente allo studio delle varie religioni, e in particolare del cristianesimo. Morì nel 1872 e fu sepolto a Norimberga.
L’antropologia, essenza della teologia
Nell’Essenza del cristianesimo (1841) Feuerbach formula la sua prima interpretazione della frase “il mistero della teologia è l’antropologia” : il discorso dell’uomo su Dio non è altro che un discorso dell’uomo su se stesso e, proprio per questo, la religione è, insieme, vera e falsa. Essa è vera perché è una prima forma di autocoscienza dell’uomo, una forma di conoscenza di sé, e falsa perché nella religione l’uomo proietta se stesso al di fuori di sé, nella figura illusoria di un Dio personale. Feuerbach si prefigge di analizzare la religione per scoprirne la vera essenza, il suo carattere di produzione interamente umana. Riportando Dio al proprio reale fondamento, l’uomo, è possibile dissolvere la religione nell’antropologia, riuscendo a costruire il vero sapere dell’uomo sull’uomo : compito critico e compito costruttivo procedono di pari passo.
Modalità e significato della disalienazione
La dissoluzione della teologia e la costruzione dell’antropologia contribuiscono ad un’emancipazione dell’uomo a livello pratico e infatti Feuerbach stesso presenta il suo lavoro come rivolto a un fine terapeutico nei confronti di quella “patologia psichica” che è la religione. La liberazione da Dio non è altro che la liberazione dell’uomo e l’inizio di una nuova era nella storia del mondo. Utilizzando una serie di relazioni concettuali di impronta hegeliana, Feuerbach presenta l’uomo come ente articolato in due momenti : è da un lato finito, sensibile e corporeo e dall’altro infinito, portatore di un’essenza divina. Quest’ultima, a sua volta, si compone di 3 forze distinte : la ragione, la volontà e il sentimento.
L’alienazione dell’uomo in Dio
Nella religione, l’uomo prende coscienza della propria essenza infinita e, quindi, la religione nasce dallo squilibrio all'interno dell’uomo tra l’individuo finito e l’essenza infinita. È al consapevolezza della propria finitezza che spinge l’uomo a liberarsi dai vincoli della corporeità e della mortalità e a porre dinanzi a sé la propria essenza infinita, in cui non si può riconoscere (perché la concepisce come entità distinta e indipendente) e che identifica con Dio.
Il Dio d’amore cristiano
Il Dio cristiano non è solo l’irraggiungibile e severo essere razionale dell’Antico Testamento, che domina l’uomo abbandonato alla propria finitezza, ma è il Dio d’amore che ha misericordia dell’uomo. Questa forma, che nasce dall’alienazione del sentimento è la più importante e configura il cristianesimo come la religione assoluta.
La fede come antitesi dell’amore
Nella religione cristiana, Feuerbach vede una seconda forza, negativa, che porta a radicalizzare la scissione tra uomo e Dio : la fede. Essa si pone in contrasto con le esigenze riconciliatrici dell’amore e del cuore che aspirano a riunificare l’individuo alla propria essenza : la fede è l’antitesi dell’amore. (l’amore identifica l’uomo con Dio e viceversa, la fede separa Dio dall’uomo e viceversa. Nella fede, infatti, l’aspirazione alla felicità si configura come un egoistico desiderio di vita eterna individuale che spinge l’uomo a vivere in vista della propria salvezza personale. Essa porta alla distruzione dei vincoli familiari e sociali e, in generale, a un isolamento della società.
La religione dell’umanità
Feuerbach ha quindi l’obiettivo di liberare l’amore dalla fede per indirizzarlo di nuovo verso l’uomo stesso. Al posto della religione trascendente va edificata una nuova religiosità laica, nella quale l’agape cristiano è sostituito dall’amore sensuale. Homo homini deus est è il nuovo principio che deve regolare la vita umana, che non viene desacralizzata ma ricoperta del suo valore intrinseco. Eliminata la fede, considerata l’unica fonte di debolezza e perversione, l’uomo potrà manifestarsi nella sua intrinseca e originaria bontà.
Il rapporto uomo-natura
Nell’opera L’essenza della religione (1845), questa è vista scaturire dall’originaria dipendenza dell’uomo dalla natura → al precedente rapporto individuo essenza viene sostituito dal rapporto uomo-natura. Ora, Dio non è più la proiezione alienata delle forze esistenziali dell’uomo ma la proiezione alienata di una natura estranea ed indipendente dall’uomo e la religione non si origina dalla finitezza dell’uomo, dal suo squilibrio ontologico, ma da una finitezza che si risolve nella dipendenza dalla natura e che è destinata ad essere limitata dallo sviluppo scientifico.
La nuova antropologia di Feuerbach
Nelle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1842-3), Feuerbach delinea una nuova antropologia. Feuerbach rivendica ora la necessità che la filosofia prenda le mosse dal finito, dal concreto e non dall’astratto. Punto di partenza deve essere l’intuizione sensibile, e non il pensiero puro. È un’impostazione empirista che assegna però alla sensazione un valore ontologico, ritenendola capace di rivelare l’essenza dell’oggetto. I sensi analizzano quindi non solo le cose esteriori, ma anche l’oggetto nella sua interiorità. “L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo, unità che si fonda soltanto sulla realtà della differenza tra uomini”. Feuerbach delinea quindi il progetto di un umanesimo naturalistico lontano dal materialismo. Feuerbach trasforma lo spirito e l’astratta autocoscienza hegeliana in una nuova figura di un individuo umano riscoperto nella sua corporeità, sensibilità e finitezza. Viene uindi conferità nuova dignità alla corporeità e alla sensibilità dell’uomo.
Soren Kierkegaard (1813-1855)
Vita e opere
Kierkegaard descrive la sua infanzia come un’età infelice: si manifesta subito quel “non essere come gli altri” che costituisce la cifra della sua intera esistenza; ma nascose la sua sofferenza al mondo e al padre, l’uomo più amato che lo ha reso infelice sottoponendolo ad un’educazione cristiana, definita da lui pazza. Nel 1830 si iscrive alla facoltà di teologia e in questo periodo di dieci anni egli interpreta la morte di sua madre e di tre fratelli come la punizione divina per una colpa commessa forse dal padre, con una bestemmia o con una relazione con la cameriera. Questo provocò in Kierkegaard una crisi di sfiducia religiosa e l’allontanamento dal padre. Dal suo “Diario”, sterminata raccolta di appunti e riflessioni, possiamo ricavare i suoi interessi e la sua formazione intellettuale: egli era interessato dallo scandagliare e risolvere gli enigmi della vita anteriore e al centro dei suoi studi vi sono la letteratura romantica, i grandi mistici e la filosofia dell’idealismo tedesco. Ritorna però costantemente a socrate, al suo “conosci te stesso” e al suo modo ironico di filosofare. Nel 1838, dopo la morte del padre, Kierkegaard si laurea e si fidanza, ma poi distrugge la prospettiva che si creò di una riconciliazione con le regole di un’ordinata moralità sociale, rompendo il fidanzamento nonostante il suo amore per il timore di essere inadeguato ai compiti della vita matrimoniale, per l’oppressione della colpa del padre e sua e per il senso di avere un destino diverso dagli altri. Dopo la rottura del fidanzamento, Kierkegaard avvia un’esistenza del tutto dedita alla scrittura e pubblica tutte le sue più grandi opere a partire da “aut aut”. Egli intende la sua opera come un servizio di testimonianza reso all’idea, al cristianesimo; nelle sue uscite politiche si professa difensore della monarchia e attacca l’esaltazione del suffragio universale e il rivoluzionarismo quarantottesco. Il suo orientamento e di sfiducia nella politica stessa, che gli sembra incapace di cogliere il vero problema dell’uomo di natura etico-religiosa. Ma la battaglia più violenta è condotta da Kierkegaard contro la chiesa luterana danese: alla morte del vescovo, il suo successore lo elogia come testimone della verità; Kierkegaard attacca quest’ultimo perché il vescovo non era testimone della verità perché la sua vita non era stata un’imitazione di cristo. Kierkegaard alimenta la polemica, redige una rivista in cui si lancia sempre più violentemente contro la burocratizzazione della chiesa ufficiale che tradisce lo spirito cristiano. Nel 1855 Kierkegaard è colpito da paralisi e muore.
L’uso degli pseudonimi
L’artificio letterario tipicamente romantico della pseudonimia diventa per Kierkegaard un vero teatro delle maschere che il filosofo mette in scena: per gli pseudonimi scieglie nomi bizzarri, ma anche allusivi; fa dialogare le maschere fra loro da un’opera all’altra e le incastra in un complicato intreccio con lo scopo di realizzare quella comunicazione indiretta che egli ritiene l’unica in grado di parlare della verità. Si tratta di realizzare una comunicazione dell’esistenza che ha di mira l’attivazione nell’interlocutore di un poter fare.
Il dialogo fra molteplici possibilità d’esistenza
Lo schermo degli pseudonimi serve a Kierkegaard per distanziare sé, il suo punto di vista, da quelli espressi dalle sue maschere in modo che ogni pseudonimo assuma l’autonomia di rappresentare un modo di esistenza. Tutte queste possibilità sono in lui presenti, ma egli non si identifica con nessuna di esse.
Contro la comunicazione sociale
L’obiettivo è polemico verso una situazione comunicativa giudicata falsa per il rapporto tra emittente e ricevente che si istituisce nella comunicazione sociale. La cosa più importante è come e chi comunica, non cosa comunica. Secondo Kierkegaard, i grandi maestri della comunicazione sono Socrate e Cristo, Socrate in quanto non ha dimenticato ciò che è l’esistere, e Cristo perché in lui troviamo quella verità stessa che si fa esistenza. Il pubblico è un astratto che non esiste, esso corrisponde all’essere come gli altri in cui è persa ogni individualità.
La comunicazione d’esistenza e l’appropriazione della verità
Per attuare una comunicazione d’esistenza in un tempo che adora l’oggettività e ha dimenticato che cosa significano esistere e interiorità, non si può usare la forma diretta, ma occorre ridurre l’estensione a favore della comunicazione e lo scrivere deve essere un’azione e quindi un esistere personale, senza rivolgersi ad un pubblico, ma al Singolo. Si tratta di costringere gli uomini a diventare attenti alla verità che non è approssimazione dell’oggetto, ma attività dell’appropriazione.
La finalita’ religiosa della comunicazione esistenziale
La cristianità ha bisogno di un Socrate che comunichi in tal modo, poiche tutti sono cristiani, ma poi conducono la vita in tutt’altro modo. Per lo scrittore religioso che Kierkegaard dichiara di essere, il compito e di lavorare per rompere questa illusione del cristianesimo.
Le figure dell’estetico
Kierkegaard rappresenta l’estetico in modelli puri: i due miti di Don Giovanni e di Faust e il seduttore che crea Kierkegaard, Johannes. Don Giovanni rappresenta il potere e il piacere della seduzione immediata: è la pura forza dell’eros il cui medio espressivo è la musica di Mozart. Faust incarna il gioco della conoscenza: il patto demoniaco lo costringe alla ricerca inesausta della conoscenza assoluta e quindi a dubitare di tutto.
La vita estetica come possibilita’ infinita
Johannes si colloca al polo opposto rispetto a Don Giovanni: il suo diario racconta la trama in cui avvolge Cordelia per conquistarla e abbandonarla. La seduzione diviene forma letteraria; egli evita il possesso perché la riuscita della conquista mette fine al piacere e implica l’impegnarsi con la realtà, mentre ciò che interessa è l’idea. Johannes rappresenta la vita estetica nel suo grado più raffinato; l’esteta è privo di un contenuto reale della propria soggettività: egli è qualcosa solo nell’immaginazione perché non ha mai scelto se stesso nella realtà, egli vive nell’orizonte della possibilità infinità senza mai compiere il movimento della realizzazione. Egli rimane quindi sempre ciò che già è, senza mai poter divenire.
La disperazione dell’esteta
Appare anche un’altra categoria costitutiva dell’estetico oltre a quella dell’interessante (in essa il soggetto non guarda ai contenuti, ma ai modi): quella della disperazione, che nasce dal fatto che l’esteta rimane sempre nel vertice delle infinite possibilità, può essere tutto e in realtà non è niente. La disperazione è un movimento che coinvolge l’intera personalità e può esssere combattuta o assunta, cioè scelta nella sua radicale pienezza. L’atto della scelta è ciò che caratterizza l’etica.
La vita etica
La scelta è il movimento che istituisce la personalità morale poiché in essa non viene scelto un oggetto, buono o cattivo, ma la persona stessa nel suo valore assoluto. La scelta caratterizza l’etico, non si può dire scelta estetica perché l’estetico consiste nel non scegliere. L’etica, in quano si fonda sulla scelta, assume la disgiunzione, l’aut aut come l’atto che fonda la personalità e che deve essere continuamente rinnovato. Nella scelta e solo in essa è possibile l’esperienza della libertà; chi si è scelto, è ciò che è divenuto e quindi si conosce nella concretezza dell’azione. Ciò che infine caratterizza l’etico rispetto all’estetico è un diverso rapporto con il tempo: la vita etica ha durata e consistenza temporale; solo nell’etica vi è storia perché la scelta ha fissato il punto che dà senso al passato, al presente e al futuro. L’esteta non ha memoria poiché ripete se stesso in istanti sempre uguali senza mai potersi riprendere nella profondità del proprio sé.
Il matrimonio
L’esteta cerca ogni volta disperatamente il primo amore senza mai accorgersi della vanità di tale tentativo perché il primo non può essere ripetuto, mentre chi ha compiuto la scelta del matrimonio rinverdisce il primo amore nella continuità. Esso sostituisce al mistero l’intesa e alla conquista il possesso; è sintesi dell’immediatezza sensuale del primo amore, della speranza e del ricordo, rappresenta la serietà della vita, che ricomprende l’estetico in una bellezza superiore in cui l’individuo ha in se stesso il suo fine.
Realizzazione sociale dell’etica
Attraverso il giudice Wilhelm (aut aut), Kierkegaard parla di un apossibilità di esistenza che egli ha già rifiutato; l’etica ha fondamento individuale perché si istituisce nella libera scelta del singolo, ma poi trova attuazione nel quadro di una moralità sociale molto vicina all’eticità di Hegel. L’isolamento del mistico va rifiutato perché egli sceglie se steso, ma astrattamente, non nel modo giusto: la scelta deve concretizzarsi e rinnovarsi negli istituti del quotidiano, come il matrimonio, il lavoro, l’amicizia.
Il peccato e l’angoscia
Da un lato la scelta dà vita al Sé poiché senza di essa il Singolo rimane un puro io immediato; dall’altro lato ciò che è scelto già esiste altrimenti non sarebbe una scelta. L’etica addita l’idealità come scopo e presuppone che l’uomo sia in grado di raggiungerlo, ma ciò non è possibile perché l’uomo è gravato dal peccato che lo riguarda come singolo e come specie, quindi l’etica è destinata a naufragare contro lo scoglio della peccaminosità dell’individuo. Ecco che la scelta etica di sé deve passare attraverso il pentimento, l’accettazione dolorosa della propria colpa e di quella della specie. Quindi il limite superiore dell’etica è segnato dal rapporto con Dio.
L’assurdo e il paradosso imposti dalla fede
Questa critica all’eticità è impostata da Kierkegaard in due opere: “Timore e tremore” e “Il concetto dell’angoscia”. Il timore e tremore è quello di Abramo a cui Dio chiede di sacrificare il proprio figlio. Egli è posto di fronte alla contraddizione fra i comandi della morale del suo popolo e la volontà di Dio. Il dramma della sua scelta avviene nel silenzio poiché non è condivisibile con nessuno. Nulla assicura che uccidendo suo figlio Abramo compirà un gesto di fede, tranne l’angoscia della scelta.
Il peccato e l’angoscia come costitutivi dell’essenza dell’uomo
Il Concetto dell’angoscia esplora la dimensione dell’angoscia come costitutiva dell’esistenza dell’uomo. Il Peccato originale presuppone il peccato come possibilità che che si è attualizzata in Adamo e poi rivive in ogni uomo esso è una rottura rispetto ad una condizione di innocenza, che è ignoranza; la condizione di naturalità in cui l’uomo non è determinato come spirito, non è ancora consapevole del bene e del male: il primo peccato di ogni uomo non è quindi opera del male, poiché il male e il bene sono posti solo con il peccato. L’angoscia è la condizione del passaggio da innocenza a peccato: essa è la realtà dell’innocenza che nello stesso tempo è anche angoscia. L’angoscia non ha come oggetto qualcosa di determinato, ma il nulla: essa si fonda in ciò che l’uomo stesso è, una sintesi sempre dinamica tra anima e corpo, finito e infinito, sintesi che Kierkegaard designa con il termine Spirito.
Karl Marx (1818-1883)
Marx nasce nel 1818 in Renania. Nel 1835 si iscrive a giurisprudenza, prima a Bonn e poi a Berlino. Fra il 39 e il 42 stringe legami con i giovani hegeliani assume posizioni tipiche della sx hegeliana, che forma anche un movimento. Agli interessi filosofico-religiosi subentrano quelli economico-politico. Nel 41 si laurea in filosofia a Jena, con una tesi su Epicuro e Democrito; vorrebbe intraprendere la carriera accademica ma il combio di governo glielo impedisce. Nel 43 pubblica il suo primo grande confronto con la filosofia di Hegel. Va a Parigi dal 43 al 45 e compie importanti esperienze politiche e intellettuali, entrando anche in contatto con il socialismo francese e il rapporto con Engels. Espulso da Parigi, va a Bruxelles e scrive con Engels varie opere continuando i suoi studi. Dopo un viaggio a Londra in cui conosce Weitling, si impegna a mantenere in contatto socialisti di varie nazioni. Nel 48 a Londra viene pubblicato il Manifesto del Partito Comunista, scritto con Engels. Rimararrà sa Londra fino alla morte, pubblicando nel frattempo opere sulla rivoluzione francese, sul colpo di stato di Napoleone, Il capitale.
Le opere giovanili
Il confronto con Hegel
La sostanza della critica di Marx è: Hegel fallisce nello spiegare la natura dello stato, perché intende tale spiegazione come una deduzione delle realtà particolari dall’idea; trasforma l’idea in soggetto e fa dei soggetti reali momenti dell’Idea. Dà alla sua logica un corpo politico, non dà la logica del corpo politico. Inversione di soggetto e predicato.
Pubblico e privato nello Stato moderno
Critica teorica e dissenso politico si intrecciano, “Hegel spaccia ciò che è lo Stato moderno come l’essenza dello Stato”. Al centro della realtà dello Stato moderno sta la separazione tra l’individuo come portatore di interessi privati e l’individuo come membro della comunità politica; questa separazione è un prodotto del mondo moderno, con l’autonomizzarsi della sfera sociale e politica = opposizione tra società civile e totalità della sfera statuale.
Secondo Marx, il lavoro filosofico di comprensione della realtà deva partire dal soggetto reale, per studiarne le oggettivazioni
Emancipazione politica ed emancipazione umana
Questione ebraica: tema della separazione tra società civile e stato svolto con concezione che allontana Marx dalla concezione democratico-radicale precedente. A Bauer, che riteneva lo scontro cristiani-ebrei superabile con una laicizzazione dello stato, Marx obietta che il superamento della natura confessionale non comporta il superamento dell’alienazione religiosa; l’emancipazione politica non è la forma più completa dell’emancipazione umana e lostato può essere libero senza che l’uomo sia libero. In democrazia comanda l’uomo, ma l’uomo guastato, che siè perduto, alienato… nella ns. società.
L’emancipazione umana non può che essere uan ricomposizione della frattura tra esistenza empirica individuale e dimensione politica collettiva, emancipazione che non può avvenire nella sfera politica. Anche i diritti dell’uomo e del cittadino sono solo i diritti dell’uomo egoistico.
Dalla critica del Cielo alla critica della Terra
Annali franco-tedeschi secondo volume: ripresi concetti di proletariato e di rivoluzione. Marx dichiara esaurito in Germania il compito della critica della religione (Feuerbach). La filosofia deve rivolgere la sua critica al mondo → la critica del Cielo diventa della Terra. Se l’uomo è l’essere supremo x se stesso, devono essere rovesciati tutti i rapporti in cui l’uomo è umiliato e assoggettato (rivoluzione radicale definisce un nuovo compito della filosofia, che deve muoversi dall’uomo alla sua emancipazione.
Filosofia e rivoluzione proletaria
La situazione tedesca sembra favorevole alla rivoluzione proletaria: solo la filosofia è all’altezza del presente (→ grande significato alla lotta filosofica). L’arretratezza della borghesia rende impossibile una rivoluzione parziale come quella francese, mentre in Germania la rivoluzione dovrà essere universale. In quanto opera di una classe gravata di catene radicali, che rappresenta la perdita totale dell’uomo e solo riscattandosi potrà ritrovare l’uomo (proletariato – cuore dell’emancipazione; filosofia – cervello dell’emancipazione).
Lavoro, alienazione, riappropriazione
Il proletariato ora è più un concetto costruito filosoficamente che una individuata realtà economico-sociale, ma una volta dimostrata l’insufficienza dell’emancipazione, Marx deve iniziare un’analisi economico-sociale e comincia a confrontarsi con i socialisti francesi e gli economisti classici. Nel 1844 scrive Manoscritti economico-filosofici. Egli dichiara di voler partire dai presupposti dell’economia politica per mostrare come tali presupposti conducano a contraddizioni:
• l’aumento della ricchezza genera l’impoverimento dell’operaio
• la concorrenza induce al monopolio
• l’interesse del capitalista si mostra come in contrasto con quello della società
• il lavoratore è concepito come bestia da soma
• vizio dell’economia politica: suppone ciò che deve spiegare e parte dall’esistenza della proprietà privata come un dato naturale e ne fa valere le leggi come naturali
L’analisi del lavoro alienato nei Manoscritti
Lavoro alienato: concetto dell’alienzione fornisce la chiave per interpretare il rapporto tra uomo e natura. L’alienzione riguarda in primo luogo l’oggetto del lavoro, cioè il prodotto in cui il lavoro si oggettiva realizzandosi: poiché l’oggetto non appartiene al lavoratore, l’oggettivazione è in realtà alienazione, espropriazione → l’alienazione dall’attività lavorativa non è più realizzazione dell’uomo, ma perdita di esso, non più fine, ma mezzo; l’alienazione del genere umano; l’alienazione dell’uomo, perché l’oggetto diviene proprietà di un altro.
Il risultato è che la proprietà privata è solo in apparenza un presupposto, ma in realtà è il risultato del lavoro espropriato, e insieme il mezzo tramite cui l’espropriazione si realizza.
Il recupero della totalità dell’uomo
L’emancipazione è il recupero di quanto è andato perduto con l’alienazione e l’emancipazione operaia significa la generale emancipazione umana perché l’intera umanità è coinvolta. Il vero comunismo è negazione della negazione, soppressione dell’alienazione in vista della riappropriazione di se stesso da parte dell’uomo, è recupero della totalità dell’individuo, che comprende anch ciò che l’uomo ha costruito.
La dialettica di Hegel e la storia reale
Feuerbach ha il merito di aver mostrato che la vecchia filosofia non è che una forma dell’alienazione
Hegel: processo dialettico è solo espressione astratta, speculativa del movimento della storia. Marx riconosce ad Hegel il merito di aver compreso l’uomo in un processo di oggettivazione e di aver individuato nel lavoro il momento fondamentale del processo di autoproduzione dell’uomo.
Marx intende costruire la sua dialettica a partire dall’uomo inteso come ente oggettivo, mentre la dialettica hegeliana attua una soppressione intellettuale.
Concezione materialistica della storia e socialismo
La critica a Feuerbach
La critica a Feuerbach è di grande importanza per capire il materialismo storico. Feuerbach è partito dall’uomo come oggetto sensibile, ma non lo ha inteso come attività sensibile, cioè come ente concreto che trasforma il mondo… → concezione statica e astratta → materialismo e storia sono separati.
La concezione di Marx sostituisce alla categoria di essenza dell’uomo gli uomini, intesi come individui determinati che operano in condizioni date.
La coscienza è un prodotto sociale
Il primo presupposto da cui bisogna partire è che gli uomini per vivere devono soddisfare i loro bisogni primari → produzione mezzi di sussistenza è l’attività fondamentale, la prima azione specificatamente umana. Sulla base di questo primo aspetto Marx ne individua altri 3: creazione e soddisfazione di nuovi bisogni, riproduzione e famiglia che da principio è l’unico rapporto sociale, cooperazione tra individui. Solo a questo punto si può parlare della coscienza, la quale sorge dalla necessità del rapporto con altri uomini ed è dunque un prodotto sociale che si sviluppa in relazione allao sviluppo dei mezzi di produzione, della popolazione, della produttività, della cooperazione, che Marx chiama forze produttive. Inizialmente la coscienza si presenta come coscienza dell’ambiente sensibile immediato. La formazione di nuovi bisogni, il lavoro, … conducono al perfezionamento della coscienza e alla divisione del lavoro. Solo con la divisione del lavoro manuale e mentale la coscienza può autonomizzarsi dal mondo.
La centralità della divisione del lavoro
La divisione del lavoro gioca un ruolo determinante nella produzione della vita materiale e delle forme di relazione a essa corrispondenti. Essa implica tra le altre cose anche la ripartizione ineguale dei prodotti e quindi la proprietà. Con la divisione emerge la contraddizione tra interessi particolari e interesse collettivo, che prende una conrfigurazione autonoma come Stato (comunità illusoria in cui si esprime a livello politico il conflitto reale tra le diverse classi, ma anche la forma concreta di organizzazione che la classe dominante usa in difesa dei propri interessi.
Ideologia e rapporti di produzione
La coscienza porta su di sé la “maledizione” di essere infetta dalla materia: negare questo è produrre ideologia. Ideologia è ogni forma inconsapevole di rappresentazione teorica della propria condizionatezza storico-materiale: l’ideologo lavora separando le idee dalle loro radici storiche e autonomizzandole. Questo atteggiamento teorico ha funzioni ben precise e corrisponde all’esigenza della classe in ogni epoca dominante di presentarsi come classe universale e presentare come universali i propri valori. La struttura è l’insieme dei rapporti di produzione esistenti nella società e tale struttura è la base sulla quale si formano rapporti giuridici…
Critica all’ideologia e teoria rivoluzionaria
La filosofia tedesca, l’economia politica e le rappresentazioni sociali che Marx studia sono classificabili come forme ideologiche funzionali a rapporti di dominio. Il materialismo storico si presenta quindi soprattutto come critica antideologica, il cui compito essenziale consiste in un’opera di smascheramento. Al tempo stesso si intende proporre una visione della realtà antideologica, consapevole della propria condizionatezza storica e orientata a ricercare il proprio nesso con la prassisociale. Il materialismo storico è una teoria rivoluzionaria perché comprende i fenomeni collocandosi al loro interno. La prospettiva del comunismo può essere immaginata come il risultato di un processo storico, in quanto presuppone una sempre maggiore universalizzazione della produzione e quindi una maggiore cooperazione → maggior attrito tra borghesia e proletariato. Il comunismo non è quindi uno stato di cose, un ideale, ma un movimento reale che abolisce lo stato presente delle cose.
Il Manifesto del Partito Comunista
Il Manifesto sviluppa una concezione dialettica della storia che ha al suo centro il concetto di lotta di classe, che nell’epoca presente si svolge tra borghesia e proletariato. Marx legge questa polarizzazione del conflitto sociale come risultato dell’azione della borghesia, della quale però riconosce l’insostituibile funzione storica, sommamente rivoluzionaria. Anche il piano dei costumi è risultato sconvolto dall’azione della borghesia, che ha avuto la funzione di laicizzazione, ha unificato il meracto mondiale, ha concentrato i mezzi di produzione, e quindi anche il potere politico.
Contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione
La borghesia è cresciuta nel seno della società feudale sino a ahc elo sviluppo non ha reso i rapporti feudali delle vere e proprie “catene” da spezzare per via rivoluzionaria. Un processo analogo secondo Marx è in atto nel presente: le crisi economiche indicano come troppo potenti le forze produttive della borghesia e gli strumenti per fronteggiare le crisi non possono che preparare crisi più grandi. Inoltre la borghesia ha creato essa stessa la propria classe antagonista, il proletariato. La dipendenza del proletariato dal capitale, lo sfruttamento, l’alienazione del lavoro… crescono con lo sviuppo stesso delle forze borghesi. Unificando il potere e i mercati la borghesia contribuisce essa stessa alla creazione di una classe pronta ad una rivoluzione su scala planetaria. Perciò Marx può dire che solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria e che i proletari possono impossessarsi delle forza e produttive e sociali solo abolendo il loro modo di appropriazione attuale.
Il materialismo storico consente ora a Marx di riproporre l’intuizione circa il proletariato come classe gravata da “catene radicali” e lo stesso si può dire della teoria sul proletariato destinato a schiacciare la borghesia.
Il programma comunista
Il manifesto delinea i compiti dei comunisti, che sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi. Il loro programma è centrato sull’abolizione della proprietà privata, della proprietà borghese, connessa al capitale come “potenza sociale”, cioè come forza in gradi di determinare l’intero modo di produzione. Il programma predvede la conquista del potere politico da parte del proletariato, seguita da una fase di accentramento (necessaria per giungere alla dittatura del proletariato) e di abolizione della distinzione in classi. Poiché il potere politico è organizzato da una classe per l’oppressione di un’altra, con l’abolizione della divisione in classi il potere pubblico perderà il suo carattere politico. Questo progetto si distingue da tutti quelli analoghi precedenti in quanto si fonda non su ideali etici, ma su un’analisi oggettiva della dialettica storico-sociale e si configura come autoemancipazione del proletariato rivoluzionario.
L’analisi della società capitalistica
Valore d’uso e valore di scambio
L’analisi del capitale comincia dalla merce in quanto forma elementare di quella raccolta di merci che il capitalismo mostra di essere. Se viene analizzata, rivela una complessità che è propria del modo di produzione capitalistico: costituisce la forma economica di cellula della società borghese e ne racchiude in sé l’essenza e le contraddizioni. Il suo carattere essenziale è la duplicità: ogni merce è contemporaneamente mezzo per la soddisfazione di un bisogno e oggetto che viene commerciato: ha un’esistenza naturale e un’esistenza sociale. Il valore d’uso della merce ha a che fare con le sue caratteristiche qualitative, il valore d’uso si realizza nel consumo. Il valore di scambio prescinde dalle differenze qualitative e ogni merce si rapporta ad un’altra solo in relazione alla quantità, ciò che conta è la proporzione. Lo scambio presuppone un’astrazione dalle caratteristiche fisiche della merce e dalla sua utilità.
Lavoro astratto e lavoro concreto
Marx osserva che lo scambio tra due merci presuppone il riferimento ad una terza cosa. Se si prescinde dal valore d’uso delle merci, rimane soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro, quindi il lavoro umano è in esse oggettivato. La stessa duplicità che c’è nelle merci c’è anche nel lavoro: dal punto di vista del valore d’uso il lavoro si presenta come concreto, dal punto di vista del valore di scambio come lavoro astratto, spogliato da ogni determinazione qualitativa.
Valore di scambio e lavoro astratto sono quindi coincidenti e il lavoro astratto si esprime come tempo di lavoro socialmente necessario. Il valore di scambio di una merce è dato dal lavoro in essa contenuto misurato con il tempo. Anche il tempo di lavoro è un’astrazione.
Il capitale è un rapporto sociale
Stesso discorso per il processo produttivo: da un lato è processo di lavorazione, finalizzato alla produione di valori d’uso per la soddisfazione di bisogni, e il lavoro è quindi condizione naturale della vita umana. Il processo di produzione è anche di valorizzazione, attraverso il quale il capitale si riproduce e si accresce. Il lavoro non è qui finalizzato alla produzione degli oggetti in cui si realizza, ma all’incremento del capitale. Lavorazione e valorizzazione sono assunte dall’economia politica borghese come una cosa sola, perché nel processo capitalistico di produzione si presentano come unite → il processo di valorizzazione viene presentato come altrettanto naturale ed eterno quanto il lavoro stesso.
Secondo Marx il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose: crae una situazione in cui il nesso sociale tra gli individui si realizza attraverso il mercato e i cui mezzi di produzione sono proprietà di una sola classe mentre l’altra classe non possiede altro che la forza-lavoro.
Il feticismo delle merci
Il processo si produzione come lavorazione-valorizzazione contiene in sé il rapporto del capitale con il lavoro, rapporto che è di subordinazione della lavorazione alla valorizzazione, del lavoro al capitale. Poiché tutto il valore proviene dal lavoro, il capitale è lavoro morto, oggettivato. La funzione del lavoro vivo è quella di valorizzare il capitale in quanto valore esistente. Ciò che sembra evidente all’apparenza, cioè che l’operaio utiizza i mezzi di produzione, , si rivela il contrario: sono i mezzi di produzione che utilizzano l’operaio, è il lavoro morto che comanda sul lavoro vivo. Il capitalismo è dunque dominato da una fondamentale inversione, da una sostanziale alienazione. Il dominio del capitalista è il dominio della cosa sull’uomo. Questo carattere rovescieto si esprime nel feticismo delle merci: esse appaiono alla coscienza come cose che hanno in se stesse un loro valore. Nella società capitalistica la coscienza umana si trova immersa in un contesto dove vige la personificazione della cosa e la reificazione della persona.
La valorizzazione del capitale
Valorizzazione significa che vengono prodotte merci che realizzano un valore di scambio maggiore del valore dei mezzi di produzione D’-M-D (il denaro ottenuto dalla merce è maggiore del capitale anticipato). Altra formula:M-D-M: il denaro fa da intermediario dello scambio. Nella prima formula gli estremi differiscono quantitativamente per il plusvalore: incremento, eccedenza sul valore originario. L’origine del plusvalore è nel capitale-merce valorizzato dal processo produttivo: il caèpitale iniziale compra sia i mezzi di produzione sia la forza lavoro.
Il plusvalore proviene dal valore non pagato
Il capitalista in realtà non acquista il lavoro dell’operaio, ma la sua forza-lavoro, per utilizzarla nel processo di produzione. Essa ha un valore d’uso e un valore di scambio, anche se il suo valore d’uso è differente da quello di tutte le altre merci: una volta consumata, è in grado di produrre un valore superiore a quello necessario a riprodurla → la forza lavoro viene utilizzata per un tempo superiore a quello necessario per riprodurne il valore-scambio. Supponendo che il tempo necessario per riprodurre il valore dei mezzi di sussistenza incorporati in un lavoratore sia di 6 ore, e che la giornata lavorativa sia di 10 ore, il capitalista estrae un pluslavoro di 4 ore e un corrispondente plusvalore.
La composizione organica del capitale e il profitto
Se si guarda il profitto si nota che non deriva tutto dal capitale, ma dallo sfruttamento della forza-lavoro. Marx chiama capitale costante quello investito in mezzi di produzione e capitale variabile quello investito nell’acquisto di forza-lavoro. Chiama composizione organica del capitale il rapporto tra queste due parti. Dal capitale variabile proviene il plusvalore, il cui saggio è dato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile. Questo rapporto (saggio di sfruttamento) dà la misura dello sfruttamento della manodopera. Il saggio di profitto è il rapporto tra il plusvalore e il capitale globale investito.
Plusvalore assoluto e plusvalore relativo
Interesse promario è quello di aumentare il saggio di plusvalore: un primo modo è l’aumento della giornata lavorativa (plusvalore assoluto), caratteristico di una situazione in cui si suppone costante il tempo di lavoro necassario alla produzione dei mezzi di sussistenza; un secondo modo è velocizzando il processo produttivo (plusvalore relativo).
Le macchine e l’alienazione
Fasi che caratterizzano l’aumento della produttività del lavoro: cooperazione, divisione del lavoro, manufattura, grande industria. Il capitale, con il passare del tempo, ha sottomesso alle sue esigenze di valorizzazione anche la scienza e la tecnica e la macchina è l’espressione di questo sistema.
Genesi e destino del capitale
Ogni sittuazione storica ha visto il lavoratore costretto a cedere al padrone una quota del proprio tempo di lavoro, ma è solo nel sistema capitalistico che il bisogno illimitato di pluslavoro sorge dal carattere stesso della produzione. Il capitalismo è infatti una realtà economica qualitativamente diversa da quelle che l’hanno preceduta: il dominio della valorizzazione del capitale fondato sul plusvalore presuppone determinate condizioni storiche (separazione dei lavoratori da mezzi di produzione, libera disponibilità della forza-lavoro. Qui vige la scissione: il lavoro dal capitale, il lavoratore dai mezzi di produzione, dell’uomo dall’altro uomo.
L’accumulazione originaria del capitale
La genesi del capitalismo viene ricostruita come processo di dissoluzione delle condizioni operanti nei modi di produzione antichi e in quello feudale. La figura del lavoratore libero nasce proprio dal lungo processo storico che ha determinato la dissoluzione di quei rapporti. Nella formazione del capitale gioca un ruolo importante anche la provenienza di capitali da usura, … L’accumulazione originaria è però dovuta all’interazione delle condizioni economiche ma anche giuridiche, politiche e culturali che hanno condotto alla dissoluzione del modo di produzione feudale. Questo rapporto è circolare. Accumulazione ed espropriazione sono correlate: accumulazione significa che il capitale si valorizza incessantemente e impiega quote crescenti di plusvalore.
Le contraddizioni dell’accumulazione
Legge più importante trovata da Marx: caduta incessante del saggio medio di profitto. La necessità di aumentare la produttività conduce ad investimenti tecnologici sempre più massicci e quindi all’aumento della composizione organica del capitale → il saggio di profitto tende a calare. Ci sono però fenomeni che attenuano questa lege, come sfruttamento più intenso della forza lavoro…
Connesse all’accumulazione sono le crisi economiche periodiche, derivanti da un’offerta di beni superiore alla richiesta e dalla sovrabbondanza di capitali rispetto ai profitti.
Il capitalismo, una realtà destinata ad essere superata
Queste previsioni mostrano come Marx proponga un’interpretazione del capitalismo come realtà contradditoria, in quento fondata sullo sviluppo delle forze produttive in vista della realizzazione di plusvalore. In realtà la produzione è caratterizzata da una certa “anarchia” in quento nessuno provvede ad armonizzare gli interessi…,ma la ricchezza è sempre concentrata. Marx enfatizza la funzione sociale del capitalismo, ma riscontra un limite, poiché lo sviluppo universale delle forze produttive è in contraddizione con il poter privato del capitalista sulle condizioni della produzione → dissoluzione del capitalismo, che appare come un punto di transizione, verso una riorganizzazione economica e sociale.
A ognuno secondo i suoi bisogni
Marx non ha mai espressamente teorizzato le caratteristiche economiche e giuridiche della società futura, ma prospetta due fasi di realizzazione: la prima di trasformazione rivoluzionaria e dittatura del proletariato, con proprietà comune dei mezzi di produzione. Questa conserva carattristiche negative in quanto non si fonda da zero, ma a partire dal capitalismo: il diritto astrattamente uguale nella distribuzione, che riproduce le disuguaglianze tra gli individui. Nella seconda fase, gli individui non saranno più asserviti a un lavoro diviso e avranno potuto realizzare il loro sviluppo onnilaterale: ognuno secondo le sue capacità e i suoi bisogni.

Il Positivismo
Il termine positivismo descrive un orientamento filosofico che ebbe larga diffusione nell’Europa dell’800. Con il termine “positivo” viene associato a tutto ciò che è preciso, certo, reale, utile. Fu Comte, con il Corso di filosofia positiva, a porre le basi teoriche e a sistematizzare l’orientamento positivista, creando una vera e propria “scuola”. Il Positivismo dimostrò anche un’alta capacità di combinazione con teorie filosofiche e scientifiche diverse come il marxismo e l’evoluzionismo di Darwin.
Possiamo individuare alcuni caratteri fondamentali comuni alle filosofie positive, distinguendo 3 aspetti:
1. Come dottrina epistemologica e metodologica il Positivismo avanza soprattutto la pretesa di distinguere in affermazioniche l’uomo fa sul mondo in scientifiche e non scientifiche: sono scientifiche le affermazioni che rispondono a criteri come osservazione diretta dei fatti, formulazione di leggi, verifica delle leggi. Inoltre si sostiene l’unitarietà del metodo scientifico, ossia la possibilità di assoggettare tutti i fenomeni alle stesse regole
2. Destinazione sociale del sapere: capacità della scienza di produrre strumenti di trasformazione della natura e di direzione dei processi sociali
3. Considerazione della storia: distinzione tra metodologia storiografica e leggi dello sviluppo storico (Comte – legge dei 3 stadi)
Auguste Comte
La filosofia positiva
Comte spiega con chiarezza il significato che attribuisce al termine “positiva”: se “filosofia” identifica il sistema generale delle concezioni umane, “positiva” specifica immediatamente che si tratta della particolare maniera di filosofare consistente nell’indagine delle teorie di qualsiasi ordine di idee, avente per oggetto la coordinazione dei fatti osservati. Filosofia positiva è molto ampio e comprensivo e abbraccia lo studio dei fenomeni di ogni tipo e lo riduce ad un’unica maniera di ragionare. Il Corso si pone quindi come Enciclopedia, diversa da quella illuminista perché dà un quadr generale del sapere in cui ogni scienza viene considerata in rapporto all’intero sistema, ridotto ad un unico metodo.
La legge dei 3 stadi
La Legge dei 3 stadi è enunciata da Comte in apertura: egli sostiene che ogni scienza nel suo cammino evolutivo deve percorrere 3 stadi: teologico, metafisico, positivo: nello stadio teologico i fenomeni vengono spiegati tramite entità e potenze sovrannaturali, in quello metafisico tali potenze sono sostituite con entità concettuali ed astratte. Solo nello stadio positivo tale pretesa è abbandonata e non si ricercano più le cause ma le leggi e ci si avvale del metodo scientifico basato sull’esperienza e sul ragionamento.
La legge dei 3 stadi indivisua un modello di lettura non solo delle scienze, ma della storia dell’uomo nel suo complesso: fornisce un criterio storico di ordinamento del sapere.
Mentre matematica, astronomia, fisice, chimica e fisiologia hanno già raggiunto lo stadio positivo, la sociologia non ancora e tocca ai contemporanei compire questo passo
La fisica sociale
Sociologia è il termine equivalente a fisica sociale, che Comte indica come quella parte della filosofia positiva naturale che si riferisce allo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali dei fenomeni sociali. Comte si occupa in particolare del rapporto che la lega con la biologia, che la precede nella scala gerarchica. In linea di principio, Comte professa un netto rifiuto del riduzionismo, cioè del tentativo di ricondurre il modello teorico di una scienza a quello delle scienze che la precedono. Se la sociologia riceve indicazioni indispensabili dalla biologia e si trova strettamente collegata ad essa, è però una “aberrazione filosofica” volerne fare un corollario della biologia stessa.
Il metodo positivo: osservazione e teoria
L’elemento comune che caratterizza le scienze positive va ricercato nell’unità del metodo, cioè nella subordinazione necessaria e nell’omogeneità delle dottrine, cioè nella tendenza a rendere necassariamente relative tutte le nozioni. L’osservazione si articola in 3 momenti:
1. Osservazione in senso stretto
2. Esperimento in cui i fenomeni vengono osservati in condizioni sperimentali artificiali
3. Comparazione di diversi fenomeni
Secondo Comte, in nessuno di questi momenti si ha un’osservazione isolata e strettamente empirica, ma in tutti il buon metodo è sintesi di osservazione e ragionamento. Infatti, nessuna osservazione è possibili se non in quanto inizialmente diretta e interpretata da una teoria qualsiasi, caratteristica che distingue lo scienziato dall’osservatore comune. Ciò è ancora più vero nella biologia e nella sociologia, che studiando un essere estremamente complesso, muovono dalla totalità dei fenomeni alle loro singole manifestazioni e non viceversa → dalla società all’individuo
Statica e dinamica sociale
Il metodo storico diventa quindi la base fondamentale della sociologia, perché in essa l’osservazione del presente è insufficiente e non si impara a predire l’avvenire senza aver letto il passato. Sulla base di queste considerazioni si introducono la statica e la dinamica sociale: la statica sociale consiste nelle leggi di organizzazione della società, la dinamica in quelle del suo sviluppo. La statica dà quindi le leggi dell’ordine, la dinamica quelle del progresso.
Il principio del consensus come fondamento della società
Al centro della statica sociale c’è il concetto di consensus, l’armonia spontanea che deve regnare tra le varie parti del sistema sociale. Ogni società dimostra di essere costituita da parti solidali che attuano un concordo per l’attuazione di un ordine spontaneo. Infatti, la sociabilità è un dato originario dell’uomo e non il risultato di una razionale scelta in vista dell’utilità → lo stato sociale non è quindi il risultato artificiale di un contratto, ma un elemento invariabile. Riconoscere la necessità di un ordine non significa accettare un qualsiasi assetto politico, ma comprendere come un progetto politico può avere come obiettivo il perfezionamento di un ordine, non la creazione.
La dimostrazione storica della legge dei 3 stadi
Per quanto riguarda la dinamica, la trattazione consiste principalmente nella dimostrazione storica della legge fondamentale, la quale permetterà di usare la legge dei 3 stadi con razionale sicurezza, per collegare il futuro al passato. La filosofia della storia di Comte si delinea connettendo fatti intellettuali, morali, politici… in un disegno che mostra come ciascuna fase sia inevitabilmente soggetta ad essere superata.
La società industriale positiva
Entrando nello stadio positivo, l’umanità si trova nella condizione di conciliare ordine e progresso: secondo Comte, i due termini non sono incompatibili, bensì legati. Il principio che deve reggere la società industriale è quello della separazione dei poteri temporali e spirituali, divisione già imperfettamente adombrata nel cattolicesimo medievale. Alla classe speculativa spetta il potere di regolare opinioni e costumi. La società positiva si costruisce a partire da una riorganizzazione spirituale e si mantiene attraverso il sistema dell’educazione positiva, compito principale del potere spirituale.
Un criterio scientifico per la gerarchia sociale
Come il consensus implica una divisione e una gerarchizzazione, così il problema di una società positiva è quello di istituire vincoli gerarchici di subordinazione razionali. La gerarchia sociale non può avere come base la ricchezza ma si ispira alla gerarchia espressa nella classificazione delle scienze. Essa avrà quindi a capo i rappresentanti del potere spirituale, la cui preminenza è solo morale.
L’armonia tra le classi come obiettivo socio-politico
Il problema principale è quello delle “giuste rivendicazioni sociali delle classi inferiori”. Il potere spirituale deve quindi affrontare il problema delle rivendicazioni del proletariato e in questo lo chiama la sua affinità con il proletariato, dal momento che il potere spirituale sarà tenuto da uomini capaci i cui diritti legittimi sono quasi altrettanto misconosciuti quanto quelli dei proletari. Comte non crede alle rivendicazioni anarchiche e agli obiettivi comunistici dell’uguaglianza e dell’abolizione della proprietà e nemmeno all’idolatria della libertà professata dal liberismo, ma crede alla proprietà e all’iniziativa privata, in armonia con la collettività.
Charles Darwin
Darwin nasce nel 1809 in una famiglia benestante. Il nonno paterno Erasmus aveva già formulato una sua teoria sull’evoluzione delle specie, al tempo rifiutata. Fu iscritto per volere del padre a medicina, ma dimostrò propensione per le scienze naturali. Nel 31 si imbarca sulla nave Beagle, inviata a compiere rilevamenti di interesse nautico in America Latina. Le osservazioni che Darwin fece in questo viaggio furono di fondamentale importanza per la sua teoria evolutiva. Tornato in Inghilterra nel 36, cominciò a riflettere su quanto aveva raccolto nel corso del suo viaggio e due anni più tardi leggendo un’opera di Malthus, intuì che la lotta per la vita premia gli esseri più adatti all’ambiente. Nel 1856 cominciò a redigere L’origine delle specie, pubblicato nel 59. Morì nel 1882.
Lamarck: la prima teoria sull’evoluzione
Il botanico e zoologo francese Lamarck fu uno dei primi a proporre una teoria compiuta sull’evoluzione. Secondo lui, gli organismi in natura si adattano gradualmente alle condizioni ambientali e trasmettono alla progenie questi adattamenti (i caratteri acquisiti sono ereditari.
La variazione continua delle specie
Il modello iniziale di Darwin era quello di tipo creazionistico, con dei “centri di creazione” e successive “invasioni” attraverso le quali la specie si era diffusa. Durante il suo viaggio osservò come animali simili si sostituissero gli uni agli altri in ambienti contigui e che i resti degli animali preistorici somigliavano agli animali attuali. Queste due considerazioni suggerirono l’idea che le specie subissero una variazione continua nello spazio e nel tempo in corrispondenza del continuo variare dell’ambiente, variazioni incompatibile con la teoria creazionistica.
La selezione naturale
Altri fatti sorprendenti osservati alle Galapagos: isole con condizioni simili, ma flora e fauna nettamente diverse → Darwin comincia a raccogliere dati sulla variazione di piante coltivate e animali domestici e si accorge che il successo di determinate varianti è determinato dall’intervento dell’uomo nella creazione di varietà. Questa teoria fu applicata alla natura dopo la lettura delle opere di Malthus, dopo la quale concepì come le variazioni favorevoli tendessero ad essere conservate e quelle sfavorevoli distrutte.
La sopravvivenza dei più adatti nella lotta per la vita
Le specie sono popolazioni, o insiemi di individui, che interagiscono nella riproduzione, nella lotta per il cibo,… Questi individui presentano delle differenze a livello morfologico, fisiologico o comportamentale: principio di variazione. Tra questi, gli individui che più sono adatti agli ambienti hanno maggiori opportunità di sopravvivere e di riprodursi, trasmettendo così i loro caratteri alla progenie. Quelle variazioni individuali che risultano vantaggiose hanno maggiori probabilità di essere trasmesse ai discendenti → principio della selezione naturale.
L’origine dell’uomo
Nell’Origine delle specie era rimasto implicito che anche l’uomo dovesse derivare da un’altra specie. Questa conseguenza venne esplicitata da altri autori e poi da Darwin stesso, che, attraverso studi di anatomia ed embriologia, rivelò le affinità tra uomo e scimmia. Secondo Darwin, le qualità intellettuali dell’uomo non sono più differenti rispetto a quelle di una scimmia che quelle di un pesce. Per quanto riguarda le doti morali, si può trovarne l’origine nel fatto che molte specie formano dei gruppi sociali ampi.
Il dibattito sul metodo di Darwin
Gli elementi fondamentali della teoria dell’evoluzione erano già noti quando Darwin affrontò il problema, ma egli fu il primo a darne una sintesi coerente e confermata dai fatti. Il suo successo è dovuto anche all’utilizzo del metodo scientifico: osservazione scrupolosa-prudenti generalizzazioni-teoria definitiva, non pubblica perché ulteriori studi-pubblicazioni teoria. Si accusò Darwin di aver usato congetture indimostrabili e c’erano salti nell’evoluzione.
Osservazione ed ipotesi nella ricerca Darwiniana
Darwin, all’inizio, mancava di una teoria precedente, ma era guidato dai problemi della biogeografia. Questi lo spinsero a formulare un nuovo problema: la causa delle variazioni. Per rispondere agli interrogativi via via posti formulò nuove ipotesi. cErcò anche di organizzare gli elementi che riuscissero a fornire prove della sua teoria.
Le critiche all’evoluzionismo
La teoria fu all’inizio molto contestata: in primo luogo, dalla Chiesa che vide in essa un duro colpo inferto alla teologia naturale e al provvidenzialismo. Secondo, non sfuggiva ai critici conservatori che la teoria poteva essere estesa all’uomo.
Le obiezioni della scienza
Obiezioni di carattere scientifico: variazioni casuali ed impercettibili per avvenire hanno bisogno di mln di anni. Le scoperte della termodinamica danno alla Terra un’età molto inferiore (Lord Kelvin). Successivamente, però, con la scoperta della radioattività queste critiche vennero smentite.
Il rifiuto dell’estensione all’uomo
Un cospicuo gruppo di studiosi rifiutò l’estensione all’uomo della teoria. Wallace, ad esempio, era convinto che ogni cosa fosse frutto della selezione naturale (anche comportamenti,…) e osservò che l’uso del cervello da parte dell’uomo primitivo era molto più limitato rispetto a quello attuale → non poteva rappresentare un vantaggio adattativo. Le ns. capacità superiori non possono essere frutto della selezione naturale e deve esserci quelche potenza superiore.

Simone Dozio
1999

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