Biografie dei più grandi filosofi dell'età preclassica greca

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Testo

Biografie dei più grandi filosofi dell'età preclassica greca
Aristòtele,
Demòcrito ,
Eraclito,
Esiodo,
Prmenide,
Platone,
Socrate,
Talete,
Anassimandro,
Anassimene di Mileto
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Aristòtele

Aristòtele, in greco Aristotéles, filosofo greco (Stagira, Macedonia, 384 - Calcide, Eubea, 322 a.C.). Dopo la morte del padre Nicomaco, che era medico e amico del re di Macedonia Aminta II, Aristotele si stabilì ad Atene e frequentò per vent'anni l'Accademia di Platone. Alla morte del maestro (347), si allontanò da Atene, dove i partigiani della Macedonia erano malvisti, e si recò ad Asso nella Troade, ove già fioriva un centro di studi platonico sotto la protezione di Ermia, tiranno di Atarneo, cui Aristotele era legato da vincoli di amicizia e del quale sposò la nipote e figlia adottiva, Pizia. Ad Asso insegnò per tre anni; ma la fine tragica di Ermia, consegnato ai Persiani, lo costrinse a rifugiarsi a Mitilene, nell'isola di Lesbo; compose allora, in onore dell'amico, l'Inno alla virtù. Nel 343-342 fu chiamato alla corte macedone da Filippo II come precettore del figlio Alessandro. Poco tempo dopo l'ascesa al trono del suo discepolo, si stabilì ad Atene (335) e vi fondò la scuola del Liceo, chiamata anche peripatetica, perché il maestro vi teneva le lezioni passeggiando con gli allievi. Ad Atene compose o portò a termine gran parte delle sue opere. Quando morì Alessandro (323), essendo prevalso in Atene il partito antimacedonico, Aristotele fu accusato di empietà e, temendo gli toccasse la stessa sorte di Socrate, decise di abbandonare nuovamente Atene, perché, come disse egli stesso, “non voleva dare occasione agli Ateniesi di peccare una seconda volta contro la filosofia”, e si rifugiò a Calcide, nell'Eubea, dove morì l'anno dopo, in agosto, all'età di sessantadue anni.
Gli scritti di Aristotele si distinguono in due categorie: opere essoteriche, destinate alla pubblicazione, e opere acroamatiche, destinate esclusivamente alla scuola. Delle prime ci rimane ben poco, alcuni titoli di dialoghi e scarsi frammenti di un discorso esortatorio alla filosofia (Protrettico) e dei dialoghi Eudemo o dell'anima e Sulla filosofia: sono scritti che appartengono in genere a una prima fase del pensiero aristotelico, al periodo della sua permanenza alla scuola di Platone o del suo primo insegnamento ad Asso e a Mitilene. Invece ci è rimasto quasi per intero il corpo degli scritti destinati alla scuola, che comprende: un gruppo di sei scritti di logica (Categorie Dell'interpretazione, Analitici primi, in due libri, Analitici secondi, in due libri, Topici, in otto libri, Elenchi sofistici), indicati a partire dal VIsec. d.C. con il titolo complessivo di Organon la Metafisica la maggiore delle opere filosofiche, in quattordici libri; opere di scienze della natura (la Fisica, in otto libri, Sul cielo, in quattro libri, Sulla generazione e la corruzione, in due libri, Sulle meteore, in quattro libri); un gruppo di scritti sugli animali (Storia degli animali, in dieci libri, Le parti degli animali, in quattro libri, Sulla generazione degli animali, in cinque libri, Sulle trasmigrazioni degli animali, Sul movimento degli animali); Dell'anima (De anima), in tre libri, cui si ricollega un gruppo di otto trattati minori, più tardi indicati con il titolo complessivo di Parva naturalia; opere morali e politiche (Etica Eudemea, in sette libri, Etica Nicomachea, in dieci libri, Grande etica, in due libri, Politica in otto libri, Costituzione degli Ateniesi); la Retorica, in tre libri; la Poetica (incompiuta). L'attività di Aristotele è stata prodigiosa: egli coltivò quasi ogni campo dello scibile e le sue opere hanno costituito per secoli l'enciclopedia del sapere umano. Non solo ci ha trasmesso la scienza positiva della sua epoca, dovuta sia alle ricerche dei precursori e dei contemporanei, sia alle sue osservazioni originali e alle indagini compiute personalmente o con l'aiuto dei discepoli, ma ha mirato a costruire un sistema universale dello scibile improntato a una visione organica dell'universo e fondato sulla più ampia conoscenza possibile dei fatti attinta dall'esperienza.
Aristotele è da considerare perciò come una delle menti più vaste che siano mai esistite: egli merita di essere ritenuto il vero creatore dell'anatomia e della fisiologia comparate, della logica, della storia della filosofia, ecc. In geologia per primo segnalò l'accrescimento del delta del Nilo rispetto all'epoca omerica, il deposito melmoso della palude Mareotide e la lentezza dei fenomeni geologici. Ma la filosofia, più che ogni altro aspetto della sua opera, porta l'impronta del suo genio creatore.
Partito dal “realismo delle idee” del suo maestro Platone, filosofia profondamente spiritualistica, metafisica e mistica, Aristotele, criticandolo, elabora una teoria della conoscenza interamente nuova, e una teoria del concetto che non è più metafisica, ma logica. Mentre per Platone le idee esistono in sé, eternamente, in un “mondo intelligibile” di cui il mondo sensibile non è che un riflesso imperfetto, Aristotele nega la separazione tra il mondo delle idee universali e il mondo degli oggetti individuali. Questa valorizzazione del concreto costituisce la nota dominante del suo sistema.
Considerare al modo di Platone le idee universali come sostanze separate per Aristotele è una inutile reduplicazione della realtà, né serve a spiegare la loro azione sulle cose, né il movimento e il divenire delle cose stesse. “Dire che le idee sono modelli, e che di esse partecipano tutte le altre cose, è un pronunziare frasi vuote e usare metafore poetiche.” Aristotele concorda con Platone nel principio che solo l'universale è oggetto di scienza; ma l'universale, in quanto termine comune a più cose, non “esprime un essere concretamente determinato, bensì una certa natura dell'essere”. L'essere concretamente determinato, la vera e unica realtà è l'individuo; tuttavia ciò che gli dà attualità, che ne fa una sostanza, è l'universale, inteso non come avente un'esistenza autonoma, ma come una forma immanente all'essere reale e concreto. “Le idee universali sono le sostanze stesse delle cose sensibili.” Perciò la scienza è scienza dell'universale concreto; essa è a un tempo scienza del reale e scienza dell'universale.
Se la forma è ciò che determina l'essere e ne costituisce l'essenza, la materia è ciò che viene determinato, ciò che serve da sostegno e sostrato. Ogni individuo è quindi costituito da una materia e da una forma. Il rapporto materia-forma serve a spiegare non solo la struttura della sostanza, ma anche quella del movimento e del divenire. Infatti la materia (hýle) è l'“essere in potenza”, che diviene “essere in atto” dopo aver ricevuto la forma. “L'atto (enérgeia) sta alla potenza come il costruire al saper costruire, l'esser desto al dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, come l'oggetto cavato dalla materia ed elaborato compiutamente sta alla materia grezza e all'oggetto non ancora finito.” Il divenire risulta dunque dall'unione di una forma e di una hýle atta a ricevere tale forma. In natura non esiste materia senza forma, assolutamente indeterminata; esiste soltanto l'indeterminato relativo, vale a dire ciò che è meno indeterminato di altro, e il divenire va dal meno al più determinato, senza cessare con questo di coincidere con l'essere. Pertanto quella che Aristotele chiama materia prima non è che un'astrazione, ossia il limite ideale inferiore della gerarchia degli esseri naturali. Nemmeno verso l'alto la gerarchia degli esseri naturali può andare all'infinito; essa mette capo a un essere, Dio, concepito come il motore e il fine ultimo dell'universo, ma che per sé è immobile, perché ogni movimento implica un passaggio dalla potenza all'atto, mentre Dio è pura forma e atto puro, in quanto non è mescolato con alcuna potenza, con alcuna possibilità di ulteriore determinazione. Egli quindi non può essere che pensiero, e l'oggetto del suo pensare non può essere altro che se stesso: Dio è pensiero di pensiero (nóesis noeseos). La dottrina di Dio, mentre conclude il sistema aristotelico del mondo, non interviene direttamente nella spiegazione del reale, inteso come costituito da individui concreti; rispetto a essa hanno completa autonomia le scienze della natura e dell'uomo.
Le nozioni fondamentali della metafisica e della “fisica”, la dottrina della materia e della forma, della potenza e dell'atto, sono anche i princìpi della biologia e della psicologia aristoteliche. Un corpo organico è soltanto la materia di un essere vivente; il principio della vita, la forma dell'essere vivente, è l'anima. “L'anima è l'atto perfetto primo di un corpo naturale organico che ha la vita in potenza.” Aristotele distingue diverse funzioni dell'anima (nutritiva, generativa, appetitiva, sensitiva, motrice, intellettiva) e pone una gerarchia di anime in relazione alle funzioni che a esse competono nei diversi esseri viventi, dai meno perfetti ai più perfetti (piante, animali, uomini). Ciò che occorre mettere in rilievo è la stretta connessione che Aristotele ha stabilito fra tutti gli esseri viventi e, in particolare, tra il mondo degli animali e quello dell'uomo.
Coerentemente a tutta la sua filosofia, Aristotele non pone alcun netto distacco tra le due fondamentali funzioni conoscitive dell'uomo, la sensazione e il pensiero, anzi afferma che tra esse esiste un'effettiva continuità. In opposizione all'innatismo platonico, Aristotele non ammette la presenza o traccia di immagini o di idee preesistenti nell'uomo al processo conoscitivo. Perciò pone nella sensazione l'origine di tutte le nostre conoscenze: “Chi non percepisce sensazioni non può apprendere né comprendere nulla”. La facoltà sensitiva è la capacità del soggetto senziente di accogliere in sé le forme delle cose senza la loro materia: “Il senso è il ricettacolo delle forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l'impronta dell'anello d'oro senza l'oro stesso”. Aristotele sostiene quindi che il conoscere è avvertimento d'una variazione psichica che accade in noi, cioè di un mutamento prodotto dalle qualità sensibili delle cose sui nostri organi di senso: “Il sentire è un patire”. Merito di Aristotele è stato quello di aver considerato la percezione e gli altri processi psichici come strettamente legati alle condizioni fisiologiche dell'organismo e di aver considerato la psicologia come una scienza naturale. Di conseguenza la funzione appetitiva e quella motrice che, insieme con la funzione sensitiva, caratterizzano la vita psichica animale, vengono considerate, nell'etica, nel loro rapporto con l'intelligenza. Tuttavia, anche se le funzioni sensitiva e immaginativa costituiscono le condizioni materiali e gli antecedenti necessari della funzione intellettiva, il processo di astrazione, mediante il quale dall'immagine sensibile (phántasma) viene isolata la forma intelligibile o essenza pura o concetto universale, che è l'oggetto della conoscenza scientifica, non può essere compiuto né da una funzione di un organo corporeo né da un intelletto che sia pura potenza e recettività. Di qui la necessità di postulare, al di sopra dell'intelletto che riceve le forme intelligibili, un altro intelletto, che è sempre in atto ed è produttivo di tali forme: l'“intelletto agente” (nús poietikós).
In Aristotele, con la teoria dell'essere è connessa anche la logica, la quale, pur configurandosi come disciplina in modo autonomo, rientra nel sistema unitario della sua filosofia. Tuttavia tale constatazione non ci deve far concludere che il pensiero di Aristotele sia un dogmatico sostanzialismo; al contrario, tutta la sua metafisica non è altro che una continua incessante ricerca sulla natura e sul significato dell'essere e della sostanza, di cui comprende tutta la complessa problematica, affrontandola col suo caratteristico procedimento analitico e dubitativo, prospettando tutte le soluzioni possibili, sviluppando e discutendo ognuna di esse e facendo così rampollare un problema dall'altro. Proprio per questi motivi la dialettica per Aristotele non si identifica, come per Platone, con il metodo stesso del filosofare e del sapere; essa invece “esercita un potere critico rispetto alle cose di cui la filosofia dà conoscenza”. La dialettica verte quindi intorno alle opinioni che gli uomini hanno delle cose; in essa è dunque implicito il dialogo pur quando non ne è l'espressione. Proprio perché occorre tener conto della dimensione umana del dialogare, della discussione intesa in certo qual modo come fatto sociale, nasce la necessità di una disciplina del dibattito, di precisare in modo rigoroso i termini che si usano nelle discussioni, di stabilire regole formali di validità dei discorsi, ecc. Di qui il configurarsi della logica come disciplina formale, che in Aristotele raggiunge un alto grado di perfezione e di rigore, per cui non solo egli può dirsi a buon diritto l'inventore della logica formale, ma, nell'ambito dei problemi che ha trattato, rimane insuperato, e la sua opera può considerarsi definitiva.
Anche la logica quindi, come ogni altra disciplina trattata da Aristotele, finisce per avere uno svolgimento autonomo, pur inserendosi in un orizzonte teoretico unitario. È questo uno dei tratti più salienti del sistema aristotelico: ogni campo di ricerca viene sì considerato in connessione con l'insieme del sapere, ma viene anche visto nella sua particolarità, nei suoi elementi e sviluppi, nelle sue strutture. Così pure avviene nelle scienze dell'espressione come la poetica e la retorica, e nelle scienze della prassi: etica, politica, economia. Nelle opere dedicate a queste ricerche assistiamo a una strana coesistenza di pregiudizi, comuni agli uomini del suo tempo (come la necessità della schiavitù), e di idee innovatrici e moderne (l'importanza dell'esercizio [áskesis] nella morale, l'influenza dell'ambiente geografico, economico e sociale, la considerazione della virtù come energia o capacità attiva propria dell'essere, la funzione esercitata dall'abitudine e dalla ragione, l'idea di una scienza politica fondata sull'esperienza e sullo studio delle diverse “costituzioni” delle città).

Demòcrito

Demòcrito , in greco Demókritos, filosofo greco (Abdera, Tracia, 460 circa a.C. - † 370 circa a.C.). Discepolo di Leucippo, del quale sviluppò la dottrina, secondo le fonti antiche compì lunghi viaggi in Asia e in Egitto, dove avrebbe frequentato studiosi di geometria. Le notizie riguardanti la sua vita sono però scarsamente attendibili, e la stessa sua amicizia con Ippocrate di Coo non è certa. Pare che l'idea di costruire un sistema basato su una concezione atomistica gli sia stata offerta dal filosofo Anassagora, che aveva concepito la realtà materiale come divisibile all'infinito in particelle diverse tra loro per qualità, chiamate poi da Aristotele omeomerie. Secondo una tradizione sarebbe anche vissuto ad Atene, ma da Platone, suo contemporaneo, non è mai nominato. Tornato in patria, si consacrò interamente alla filosofia e fondò la scuola di Abdera verso il 420 a.C.
Dei numerosi scritti di Democrito ci sono rimasti solo frammenti che trattano del problema morale, ma conosciamo il suo pensiero, almeno nelle linee generali, attraverso l'esposizione di Aristotele e dei dossografi dell'antichità.
Democrito, d'accordo con il pitagorismo, concepisce la realtà come un discontinuo; mentre infatti ammette che in sede puramente logico-matematica si possa pensare la realtà come divisibile all'infinito, in sede fisica pensa che la realtà sia costituita da atomi indivisibili dotati di moto spontaneo i quali, nel vuoto, danno luogo a formazioni diverse. Gli atomi, qualitativamente uguali tra loro, differiscono solo per la forma e per le dimensioni; le differenze che noi cogliamo tra le cose nella nostra esperienza sensibile derivano esclusivamente dal modo in cui gli atomi si raggruppano tra loro e dalla loro differente forma. Gli atomi non sono stati creati da nessun artefice, ma sono eterni come è eterno il movimento che li agita. Anche l'anima umana è costituita di atomi di natura ignea; essa è diffusa in tutto il corpo, con il quale si dissolve al momento della morte.
Dalla teoria dell'uniforme qualità degli atomi, Democrito è indotto a giustificare le differenze delle qualità quali appaiono a noi; pertanto egli afferma che i colori, i sapori e i suoni altro non sono che il nostro modo di interpretare determinati raggruppamenti di atomi. Sono queste le qualità secondarie, contrapposte alle qualità primarie che riguardano realmente la forma e la durezza degli atomi.
Democrito in tal modo ha concepito per primo, e per via puramente logica, la struttura atomistica della realtà; ma il suo merito maggiore sta proprio nell'aver cercato di costruire un sistema materialistico-meccanicistico capace di giustificare tutta quanta la realtà senza far ricorso a forze extranaturali.
Eràclito

Eràclito, in greco Herákleitos, filosofo greco (Efeso 540 circa - † 480 circa a.C.). Nacque da una famiglia i cui antenati avevano regnato su Efeso e dalla quale ereditò funzioni sacerdotali; alla dea Artemide infatti dedicò l'opera in cui espose la sua dottrina filosofica. Secondo una tradizione, avrebbe avuto diretti rapporti politici con il re Dario e questa sarebbe stata la causa della mancata partecipazione di Efeso alla ribellione contro i Persiani delle città greche dell'Asia Minore nel 499 a.C. La poetica profondità delle sue immagini gli procurò il soprannome di SKOTEINÓS (“oscuro”, “tenebroso”). Il suo stile potente e ispirato è stato paragonato a quello dei testi religiosi orientali, che egli può aver conosciuto, date le sue cariche sacerdotali; possediamo alcuni frammenti del poema Sulla natura (Perì phýseos), scritto in dialetto ionico. Rifacendosi ai filosofi ionici, Eraclito simboleggia tutta quanta la realtà nell'immagine del fuoco, da lui concepito come il fatto originario. “Il mondo è unico”, egli afferma, “e non è stato creato da nessun dio né da alcun uomo, ma è stato, è e sarà sempre un fuoco eternamente vivente che si accende e si spegne secondo una legge che gli è propria”. Questo elemento originario assume dinamicisticamente le forme più diverse seguendo la “via in giù” e la “via in su”; da una parte del fuoco originario che si condensa deriva il mare, e una parte del mare, morendo, genera la terra; compiuta la via in giù, attraverso il percorso opposto, la via in su, i vapori che salgono dal mare e dalla terra diventano nuvole e si incendiano e ritornano al fuoco. In tal modo tutto cambia continuamente e ogni cosa si trasforma in un'altra; tutto scorre (pánta rhêi), tutto è continuo divenire. Ogni cosa tende a trasformarsi nel contrario: il freddo nel caldo; il giorno si fa notte, la vita si fa morte. Alla base di ogni cosa stanno il contrasto e la lotta tra gli opposti e la loro sostanziale unità di fondo. Da questo punto di vista Eraclito è stato considerato il padre della dialettica: “Tutto quanto”, egli afferma, “si realizza necessariamente attraverso un contrasto”.
La filosofia di Eraclito si contrappone a quella di Parmenide, che sosteneva la teoria dell'unità e dell'immutabilità dell'Essere e negava che il concetto di non-essere potesse avere una realtà. Con Eraclito il non-essere e il molteplice sono presenti in ogni dove e permettono lo svolgimento e il divenire. In questo senso la sua filosofia influenzò in modo preciso i sofisti, Platone, Aristotele, gli stoici e successivamente tutti i sistemi dialettici.
Esìodo,

Esìodo, in greco Hesíodos, la prima personalità poetica storicamente accertata della letteratura greca. Nacque probabilmente verso la metà dell' VIII sec. a.C. ad Ascra, in Beozia, dove suo padre, originario di Cuma eolica, si era stabilito. Sulla sua vita si hanno scarse notizie. L'avvenimento principale sembra essere stato il litigio che ebbe con il fratello Perse a causa dell'eredità paterna e che costituisce il substrato psicologico del poema Le opere e i giorni (Érga kài hemérai). Da lui stesso si sa che fece un unico viaggio a Calcide nell'Eubea, per partecipare, secondo una tradizione posteriore, a una gara di aedi, in cui avrebbe battuto Omero. È quasi certo d'altronde che morì ad Ascra, donde le sue ceneri, quando la città fu distrutta dai Tespiesi, vennero portate a Orcomeno e quivi conservate con onori simili a quelli resi a un fondatore di città. Delle opere attribuite a Esiodo dagli antichi, un gran numero (Le Grandi Opere, Le Grandi Eee, Gli ammaestramenti di Chirone; alcuni poemi sull'arte divinatoria come L'ornitomanzia, La melampodia, I versi mantici e Le spiegazioni di prodigi) non sono autentiche. Le sole sicuramente di Esiodo sono: 1. La teogonia (Theogonía), che canta la nascita dell'universo e la genealogia degli dei; 2. Le opere e i giorni, poema didascalico e morale, che esalta la fatica umana e descrive i lavori dei campi. Quanto allo Scudo di Eracle(Aspís), solo i primi 56 versi sono autentici, mentre l'attribuzione delle Eee è incerta. La poesia di Esiodo, aspra e virile, spesso amara e appassionata, unisce, nei punti migliori, la profondità del sentimento e del pensiero a una grazia viva e pittoresca. Motivi prediletti e meditati del suo canto sono i problemi pratici del ristretto ambiente in cui visse, e che sono poi quelli di ogni tempo: il lavoro, la giustizia, i rapporti con gli dei, con gli uomini e con il mondo della natura.
Parmènide di Elea

Parmènide di Elea, in greco Parmenídes, filosofo greco (Elea [od. Velia], Magna Grecia, 520 a.C. circa - † 440 circa). Della sua vita si sa pochissimo. Platone, che lo chiama omericamente “terribile e venerando”, parla nel dialogo intitolato col suo nome di un viaggio di Parmenide ad Atene in compagnia di Zenone e di un incontro con Socrate giovanissimo. Della sua opera Sulla natura (Perì phýseos) rimangono circa 160 versi. La tesi fondamentale di Parmenide: “l'essere è, il non essere non è” presuppone la scelta della via del pensiero, che persuade e svela la vera natura del reale, e l'abbandono di quella dei sensi, che è ingannevole e contraddittoria. La via del pensiero ci svela che l'essere è finito, cioè compiuto; che è unico, perché la duplicità implicherebbe assurdamente la realtà del non essere; che è immobile, perché mutando non potrebbe che farsi non essere. Nella sua compattezza e determinatezza esso è definito dalla forma geometrica più perfetta, cioè dalla sfera. Le tesi di Parmenide, difese da Zenone di Elea con alcuni celebri argomenti (paradossi), esercitarono una grande influenza sull'ulteriore evoluzione del pensiero greco.
Platone

Platóne, in gr. Pláton, filosofo greco (Atene 427-347 a.C.). Nato da una famiglia aristocratica, durante gli anni della giovinezza desiderò dedicarsi attivamente alla politica; ma le tristi vicende della sua città in quel periodo lo colmarono di sdegno ed egli si trasse ben presto in disparte. Verso i vent'anni divenne discepolo di Socrate, di cui ammirava la concezione di una politica secondo giustizia. Deluso del governo oligarchico dei Trenta tiranni, affermatosi nel 404, benché tra i maggiori esponenti di esso ci fossero suoi familiari (Crizia e Carmide), nutrì dapprima qualche fiducia nella restaurazione democratica; il governo democratico si rivelò invece il peggiore di tutti, rendendosi responsabile della condanna e della morte di Socrate (399). Scomparso Socrate, Platone si recò per qualche tempo a Megara e quindi, rientrato in Atene, diede forse inizio alla sua attività letteraria. Compì poi parecchi viaggi: in Egitto, a Cirene, a Taranto (dove visitò la comunità pitagorica guidata dall'amico Archita) e nel 388 a Siracusa, governata da Dionigi il Vecchio: qui strinse amicizia con Dione, cognato del tiranno. Ritornato ad Atene, fondò (nel 387 circa) l'Accademia, comunità religiosa modellata su quelle pitagoriche conosciute nell'Italia meridionale e scuola filosofica erede della tradizione socratica. Ebbe così inizio il periodo più fecondo della carriera speculativa di Platone, interrotto nel 367, quando, dopo la morte di Dionigi il Vecchio, il figlio e successore Dionigi il Giovane fu persuaso da Dione a richiamare Platone a Siracusa. Mosso dalla speranza di sperimentare la costituzione politica elaborata nell'ambito dell'Accademia, il filosofo ripartì per la Sicilia. Ben presto, tuttavia, i rapporti fra Dionigi e Dione si guastarono e Platone, che era nel frattempo ritornato ad Atene (365), fu costretto a intraprendere un terzo viaggio (361) per tentare di far togliere il bando all'amico, esiliato dal sospettoso nipote. Il fallimento dei suoi piani politici e la morte di Dione (354) rattristarono la vecchiaia di Platone, il quale tuttavia continuò la sua intensa attività, affidando all'ultima opera, Le leggi, e all'insegnamento orale (a noi noto indirettamente, soprattutto attraverso la testimonianza di Aristotele) gli ultimi sviluppi del suo pensiero. Morì a ottant'anni, lasciando la guida dell'Accademia al nipote Speusippo.
Di Platone ci sono pervenuti 35 Dialoghi e 13 Epistole, ma della loro autenticità si è molto discusso fin dai tempi antichi; attualmente si riconoscono in genere come autentici 28 dialoghi e 4 epistole (tra cui la settima, l'unica filosoficamente interessante). Di capitale importanza è stabilire la successione cronologica dei dialoghi, ma a questo riguardo la critica non è ancora arrivata a conclusioni definitive. Tuttavia, integrando i diversi criteri tra loro, si è giunti a un certo accordo nel dividere i dialoghi in tre gruppi, che corrisponderebbero approssimativamente alle diverse tappe dell'evoluzione del pensiero di Platone.
Un primo gruppo di dialoghi (detti “della giovinezza” o, più propr., “socratici”) è quello che Platone scrisse non molto tempo dopo la morte di Socrate e che perciò sembra rispecchiare maggiormente il pensiero del maestro. La prima opera è quasi sicuramente l'Apologia di Socrate, scritta intorno al 396 e consistente in un discorso di autodifesa tenuto dal maestro davanti ai giudici; nel CritoneSocrate, lungi dal disprezzare le leggi della sua città, preferisce la morte a un'agevole evasione dal carcere, proprio per ossequio alla legge. I temi affrontati in questo primo gruppo di dialoghi sono quelli della virtù e della vera sapienza: per Socrate, che in essi inizia e conduce la discussione, la virtù si risolve nella scienza del bene e del male, e quindi nella ricerca razionale; i suoi interlocutori, che sono in genere personaggi della cultura e della vita politica di quei tempi, soprattutto “sofisti” (da essi prendono nome i dialoghi: Carmide Lachete Liside Protagora Gorgia Eutifrone Menone Eutidemo), sono inizialmente sicuri di sé, delle proprie convinzioni: di fronte a essi Socrate finge invece di non sapere e, attraverso una serie di domande serrate, mette in crisi tale sicurezza, mostrando l'unilateralità e l'interiore contraddittorietà delle loro tesi, e perciò suscita il dubbio e il desiderio di approfondire la ricerca. In tale procedimento consiste l'“ironia” socratica; ma, oltre a questa parte negativa, Socrate ne svolge anche una positiva, mostrando come ciascuno sia in grado di “partorire” da se stesso la verità (ossia definizioni e conoscenze universalmente valide), con l'aiuto della sua arte “maieutica”, che egli dice di aver ereditato dalla madre levatrice. Però l'esigenza della ricerca e l'affermazione del valore di una conoscenza universale e necessaria non bastano a Platone, il quale tende a dare un fondamento oggettivo a tale conoscenza, radicato in una più profonda realtà. E già nell'Eutifrone e nel Menone egli abbozza quella teoria delle idee, che segna il suo distacco dal pensiero socratico e intorno alla quale si verrà in seguito svolgendo tutta la sua riflessione.
I dialoghi della piena maturità del pensiero platonico, probabilmente posteriori al primo viaggio in Sicilia (388) e alla fondazione dell'Accademia (387 circa), sono quelli in cui egli costruisce il suo sistema, ricavandone tutte le possibili conseguenze anche di carattere etico-politico: il Cratilo(sul linguaggio), Il convito(sull'amore), il Fedone(sull'immortalità dell'anima) e soprattutto La repubblica (in dieci libri), che è il più ampio degli scritti di Platone e la cui composizione deve aver occupato un periodo di parecchi anni. Il fondamento dell'universalità e della necessità dei nostri concetti è costituito dalle “idee”, ossia da modelli eterni e immutabili, concepiti come essenze incorporee, aventi una propria realtà oggettiva, puramente intelligibile, in un mondo (iperuranio) diverso da quello sensibile, il quale è anzi soltanto la copia e la pallida immagine della vera realtà, che appunto si identifica con il mondo delle idee. Quando noi cerchiamo di stabilire in modo rigorosamente scientifico che cosa sia il bello o che cosa sia il giusto, non possiamo riferirci alle singole cose del nostro mondo sensibile, che è sempre mutevole, né ci bastano opinioni approssimative, ma occorre guardare al bello in sé e al giusto in sé, cioè a qualcosa che è sempre identico a se stesso, ed è tale in quanto è l'essenza ideale del bello o del giusto: solo per partecipazione a tale essenza le singole cose belle sono belle, e le azioni giuste sono giuste. Oggetto della filosofia, intesa come scienza suprema, è proprio la contemplazione di tali essenze ideali, che sono stabili, non mutano con il divenire dell'esperienza.
Socrate

Socrate, in greco Sokrátes, filosofo greco (Atene 469-399 a.C.). Nacque nel demo di Alopece da Sofronisco scultore e da Fenarete levatrice. Poiché non scrisse nulla, il suo pensiero è ricostruito sulla base di testimonianze, peraltro non sempre omogenee e concordi. La più antica di esse è costituita da una commedia di Aristofane, Le nuvole (423), nella quale il filosofo compare in scena grottescamente sospeso in aria in un pensatoio. La fonte di gran lunga più importante sono i Dialoghi di Platone, per i quali tuttavia sussiste la difficoltà di determinare la linea di separazione fra la genuina eredità socratica e l'elaborazione platonica. Vengono considerati più attendibili i dialoghi scritti da Platone negli anni immediatamente successivi alla morte del maestro, e cioè, oltre all'Apologia, il Critone, il Lachete, l'Ippia Minore, il Carmide, lo Ione, l'Eutifrone, il Protagora, l'Alcibiade Primo e l'Eutidemo. Va tuttavia tenuto presente che la datazione e la stessa autenticità di alcuni di questi dialoghi sono controverse. Poco invece servono alla ricostruzione del pensiero di Socrate gli scritti di Senofonte, e cioè, oltre ai Memorabili, l'Apologia, l'Economico e il Convito. Di Socrate parla anche Aristotele nella Metafisica e nell'Etica Nicomachea: il Socrate “scopritore del concetto”, infatti, è una costruzione aristotelica ed è con ogni probabilità il risultato di una forzatura interpretativa. Testimonianze marginali sono infine fornite da frammenti di opere di Eschine, di Fedone, di Antistene e di altri socratici minori. Come maestri del filosofo ateniese le fonti citano Anassagora, Archelao, Prodico e altri.
A quanto si sa Socrate, dopo avere per qualche tempo esercitato il mestiere paterno, si dette alla “vita filosofica”, realizzando la sua vocazione di risvegliatore di coscienze non nel chiuso di una scuola, ma nelle botteghe, nelle vie e nelle piazze della città. Sposò Santippe ed ebbe da lei tre figli. Dell'immagine proverbialmente negativa di questa figura di moglie è responsabile con ogni probabilità la misoginia della scuola cinica. Quanto alla figura fisica di Socrate, le testimonianze descrivono il filosofo come un uomo robusto, dalla faccia larga e dal naso camuso, abitualmente scalzo e trasandato nel vestire. Combatté nella guerra di Potidea (432-429), a Delio (424) e ad Anfipoli (422), dando prova di resistenza fisica, di coraggio e di generosità, come quando salvò Alcibiade ferito e rinunciò alla ricompensa in favore dell'amico. Fece scarsissima esperienza di attività politica, come membro della bulè e come pritano nel processo delle Arginuse (405). Quando, dopo l'infelice guerra del Peloponneso e la tirannia dei Trenta, nella Atene dominata dai seguaci di Trasibulo, si vollero restaurare i valori e gli ordinamenti tradizionali, si fecero risalire la sconfitta militare e la decadenza politica alla disgregazione operata nella coscienza dei cittadini dalla nuova cultura, spregiudicata e dissacratrice, di cui Socrate era l'esponente col suo spirito critico. Il processo e la condanna di Socrate dovevano forse per i moderati al potere avere la funzione di un atto esemplare, rivolto con intenti intimidatori a tutti gli ostinati e gli irriducibili. Tre cittadini, Meleto, Licone e Anito, molto legati ai maggiorenti della città, accusarono il filosofo di “non ritenere dèi quelli che tali considera lo Stato” e di “corrompere i giovani”. All'esecuzione della condanna a morte si arrivò probabilmente contro la volontà di coloro che avevano montato il processo politico, per l'atteggiamento intransigente di Socrate, convinto del vantaggio arrecato alla città dalla sua azione educatrice. Della fermezza e della dignità con cui Socrate ricusò l'evasione dal carcere e si diede la morte bevendo la cicuta sono altissima testimonianza l'Apologia, il Critone e il Fedone.
L'identificazione di filosofia e vita realizzata esemplarmente da Socrate e la mancanza di fonti dirette relative al suo pensiero hanno reso legittimo l'uso di molteplici chiavi per la decifrazione del suo “messaggio”. Già fra i suoi discepoli diretti, da Platone ai fondatori delle cosiddette scuole socratiche minori, si manifestarono profonde divergenze. Nel medioevo Socrate fu visto come un anticipatore dei grandi testimoni del cristianesimo; nel Rinascimento, come un modello di classico equilibrio; nel Settecento, come un precursore del razionalismo illuministico. Hegel, traducendo in termini dialettici l'interpretazione aristotelica, trovò incarnato in Socrate un momento cruciale della fenomenologia dello spirito, quello cioè in cui la soggettività si nega come particolarità e prende coscienza del suo valore universale. Kierkegaard insistette sul tema dell'ironia, considerando Socrate soprattutto come un distruttore di verità ricevute e un pensatore problematico. Nietzsche infine disprezzò in Socrate l'iniziatore della depravazione intellettualistica, che avrebbe umiliato e immiserito l'uomo occidentale. Le indagini specialistiche hanno oscillato fra la negazione della realtà storica di Socrate, ridotto così a finzione letteraria, e l'accentuazione o dell'aspetto pratico-educativo o di quello problematico-critico della sua personalità. Anche sulla questione dei rapporti con Platone esiste una ricca gamma di posizioni, comprese fra i due estremi di un Socrate che avrebbe solo posto problemi (H. Maier) e di un Socrate al quale dovrebbero essere fatte risalire tutte le dottrine ritenute tipicamente platoniche (A. E. Taylor).
In tanta varietà di opinioni conviene tenersi fermi a quel poco che può essere affermato senza grandi forzature interpretative. Socrate iniziò la “vita filosofica” per dimostrare che l'oracolo di Delfi si era sbagliato, quando aveva risposto al suo amico Cherefonte che il più sapiente dei Greci era Socrate. E tuttavia nel corso del suo tentativo di smentita dovette convincersi che l'oracolo aveva avuto ragione: egli era l'unico a “sapere di non sapere”, a essere consapevole del proprio limite (il “conosci te stesso” va inteso come un invito a prendere coscienza del limite). Da qui la polemica contro i sofisti e le loro tesi contraddittorie. Di fronte a essi Socrate finge di non sapere, e attraverso le domande che pone mette in crisi le loro certezze. Ma seminando dubbi nei suoi avversari egli non intende soltanto distruggere delle opinioni; suo fine invece è scoprire la verità, o meglio aiutare gli uomini a trovare da se stessi la verità. In questo senso egli può affermare di aver ereditato dalla madre levatrice l'arte maieutica, in quanto non ha verità da partorire, ma possiede solo la facoltà di assistere gli altri nel dare alla luce quelle che sono in grado di scoprire in se stessi. L'ironia è una manifestazione conseguente di tale atteggiamento antidogmatico, così come lo è la pratica del dialogo aperto, in quanto mezzo per arrivare alla verità. Socrate si propone di educare gli uomini ad acquistare una consapevolezza sempre più profonda del significato del loro operare. Attraverso la riflessione l'uomo diviene virtuoso, cioè acquisisce la padronanza consapevole delle proprie capacità. In questo senso la virtù è fatta coincidere col sapere (intellettualismo etico) e, contro il relativismo dei sofisti, è presentata come unica (riducendosi sempre ad autoconsapevolezza) e insegnabile. Il male deriva solo da ignoranza o da insufficiente conoscenza del bene: “nessuno sbaglia di sua propria volontà”. Questo approfondimento delle ragioni del nostro operare implica d'altra parte la realizzazione della vera natura dell'uomo, ed ecco perché all'esercizio della virtù così intesa si accompagna necessariamente la felicità. Educando in tal senso i suoi concittadini il filosofo promuove il vero benessere della città e consolida le istituzioni: la missione socratica ha un senso tutto pratico e politico e non ha bisogno di una giustificazione trascendente. Anche il demone che parla dentro Socrate e gli vieta di compiere in momenti decisivi determinate scelte va inteso come la personificazione della chiarezza che consegue all'indagine ben condotta, personificazione realizzatasi come sintesi spontanea di tradizione religiosa e di nuova coscienza del valore e della dignità della ricerca.
I FILOSOFI NATURALISTI
Talète

Talète , in greco Thalês, filosofo greco, nato a Mileto. Poiché le testimonianze antiche attribuiscono a Talete al vertice della maturità la predizione di un'eclisse, che si presume debba essere quella del 585 a.C., la vita di Talete dovette svolgersi dal 624 a.C. circa al 546 circa, se è vero che il filosofo morì a 78 anni. Della sua fama è una riprova il fatto che il suo nome compaia fra quelli dei Sette sapienti fin dagli elenchi più antichi. Aristotele lo chiama “fisiologo” e “filosofo”, in quanto indagatore della natura (physis) e primo consapevole ricercatore del principio di tutte le cose. Sempre secondo Aristotele, Talete sosteneva che l'acqua, o “l'umido”, è la sostanza primordiale, richiamandosi al mito di Oceano e Teti, ad antiche credenze egizie e anche a osservazioni empiriche (il nutrimento di tutte le cose è umido, ogni germe ha natura umida e “perfino il caldo si genera dall'acqua e si nutre di essa”). La scoperta della forza magnetica presente in alcuni minerali di ferro della Lidia avrebbe confermato Talete nell'intuizione che la natura è animata e vivente (“tutto è pieno di dei”). La tradizione attribuisce a Talete, che avrebbe trasportato in Grecia il patrimonio di conoscenze accumulato dai Mesopotamici e dagli Egiziani, vaste conoscenze anche nel campo dell'astronomia e della geometria. In particolare egli avrebbe risolto il problema dell'iscrizione del triangolo in una circonferenza, scoperto il metodo per determinare l'altezza di una piramide partendo dalla misura della sua ombra e quello per calcolare la distanza di una nave dalla costa, individuato alcune fondamentali relazioni fra gli angoli. L'entità dei suoi apporti in questo campo resta peraltro molto incerta e gli storici della matematica antica concordano nell'affermare che in ogni caso il teorema che va sotto il nome di Talete è stato correttamente formulato e dimostrato almeno un secolo dopo la sua morte.
Anassimandro

Anassimandro , in greco Anaxímandros, filosofo greco della scuola ionica (Mileto 610 circa - † 546 a.C.). Visse a Mileto, dove fu probabilmente discepolo di Talete, e fondò una colonia ad Apollonia, sul Ponto Eusino. Gli viene attribuita l'invenzione, o piuttosto l'introduzione nella Ionia, dello gnomone o orologio solare, il cui uso lo avrebbe condotto a scoprire l'obliquità dello zodiaco. Pare anche che per primo abbia tracciato una carta del mondo allora conosciuto; condusse inoltre ricerche sulla distanza e la grandezza relativa degli astri. Scrisse un'opera intitolata Sulla natura, di cui ci è giunto solo un breve frammento. Anassimandro si pose il problema del principio di tutte le cose e lo risolse nell'apeiron (infinito), una materia indeterminata e indifferenziata che racchiude in sé tutti i contrari (come il caldo e il freddo, il secco e l'umido), i quali si manifestano quando si separano l'uno dall'altro. Ogni nascita è l'esito della separazione dei contrari, ogni morte è la loro unificazione nell'apeiron; queste sue considerazioni preannunciano quelle di Eraclito. Poiché pose inoltre l'origine della vita nel fango marino, e più particolarmente quella dell'uomo nel pesce, la sua dottrina sembra precorrere di lontano le teorie evoluzionistiche.
Anassimene di Mileto

Anassimene di Mileto, filosofo ionico (586 circa - 528 a.C.). Fu discepolo di Anassimandro e l'ultimo rappresentante della scuola di Mileto. Sappiamo che scrisse un'opera Sulla natura, di cui non ci resta che un breve frammento; pertanto conosciamo il suo pensiero sulla base di testimonianze indirette, soprattutto attraverso Diogene Laerzio, che a sua volta dovette ispirarsi a un saggio monografico di Teofrasto. Come già Talete e Anassimandro, anche Anassimene si pose il problema del principio di tutte le cose: per lui tale principio era l'aria, che è un elemento osservabile e determinato come l'acqua, posta come principio da Talete, ma è più sottile, si regge senza supporto ed è dotata di un potere d'illimitata diffusione. D'altra parte, l'aria, in quanto soffio e respiro, è principio di vita e di animazione di tutti gli esseri: “proprio come l'anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l'aria circondano il mondo intero”. Anassimene rifiutò quindi il principio astratto e indeterminato posto da Anassimandro a fondamento di tutte le cose, forse perché nella dottrina anassimandrea il processo di derivazione delle cose dal primo principio (in quanto processo di differenziazione qualitativa dell'indeterminato) finiva per compromettere l'unità del principio; invece Anassimene precisò che l'aria dà luogo alle varie sostanze per via di condensazione e di rarefazione, a seconda che essa si contragga o si dilati (dalla rarefazione dell'aria ha origine il fuoco; dalla sua condensazione l'acqua, e poi la terra): basta dunque una sola causa, in virtù dell'azione uniforme delle sue proprietà specifiche, a render conto della varietà dei fenomeni. Proprio per la sua semplicità e chiarezza, la dottrina di Anassimene ebbe maggior seguito.

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