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Testo
GIOVANNI BOCCACCIO
LA VITA
Nato tra il giugno e il luglio 1313 da una relazione extraconiugale probabilmente a Firenze o a Certaldo. Lui stesso costruì sulla sua nascita e sulla sua giovinezza storie inventate. Comunque Giovanni venne presto sottratto alla madre e legittimato dal padre. il padre voleva che seguisse le sue impronte e così gli fece fare l’apprendistato presso la banca dei Bardi, a Napoli presso la corte angioina, ove rimase fino al 1340-1341. ma subito fu rapito dall’eleganza della corte angioina, dove partecipò alla vita cortese e le donne ebbero un ruolo predominante. La sua cultura fu influenzata dalla letteratura romanzesca francese molto presente a Napoli, come anche dalla mitologia e da tutte le materie classiche. Decise di non fare il mercante e usufruì della florida situazione economica del padre e si dedicò alla scrittura di testi sia in latino che in volgare per la vita cortese. Mitizzò la sua vita e dichiarò un amore per una certa Fiammetta, che diceva fosse addirittura una figlia illegittima di Roberto d’Angiò, Maria d’Aquino.
Dovette tornare a Firenze, e per lui Napoli rimase la città della sua felice giovinezza. A Firenze il clima era confuso e c’era la crisi economica, infatti il banco dei Bardi falli nel 1345. non era ancora economicamente autonomo, continua a scrivere tenendo Dante per la cultura stilnovistica e fiorentina, ricordandosi però della cultura cortese di Napoli. Intanto approfondiva la sua cultura latina.
Avrebbe voluto tornare a Napoli, ma non poté mai coronare il suo sogno. Rimase a Firenze, andando via ogni tanto, dove si ritrovò anche nell’anno della peste nera (1348) per via della quale morirono i suoi genitori e lui ereditò tutto.
Subito dopo la peste scrisse il Decameron e gli vennero riconosciuti dei meriti da parte del comune di Firenze. Nel decennio tra il 1350 e il 1360 viaggiò molto e ricoprì incarichi datigli dal comune di Firenze, viaggiò in Tirolo, Foròì, Ravenna, Avignone e Lombardia.
Diventò, in quegli anni, il maggior rappresentate culturale di Firenze. La sua passione per i classici la si deve al Petrarca, che definì suo maestro, e al quale dedicò un’epistola e una breve biografia. Boccaccio conobbe il Petrarca nel 1350, mentre quest’ultimo si recava a Roma per il Giubileo. Da quel giorno diventarono molto amici e si frequentarono fino alla morte. Nonostante Petrarca avesse rifiutato molte delle proposte fatte dalla città di Firenze, Boccaccio rimase in contatto con lui.
Nel marzo 1359 Boccaccio andò da Petrarca presso Milano dove consultò la sua biblioteca e discusse con lui di dotte argomentazioni. Fece inoltre assumere il calabrese Leonzio Pilato come insegnante di greco.
Ebbe cinque fogli illegittimi di cui una, Violante, morì e questo fu per lui un grande dolore. Ma come Petrarca divenne anche lui chierico, e noi lo sappiamo grazie alla bolla di papa Innocenzo VI.
Nel 1360 fu sventata una congiura, e molti personaggi vicini al Boccaccio furono condannati. Questo cambiò la politica di Firenze e il prestigio del Boccaccio decadde. Così ebbe un periodo di smarrimento e il beato Pietro Petroni rimproverò Boccaccio e Petrarca per essersi dedicati a una cosa così mondana come la letteratura.
Dal luglio 1361 condusse una vita appartata a Certaldo, continuò a recarsi a Firenze con una certa frequenza e si recò anche a Ravenna, Napoli e Venezia presso Petrarca.nel 1365 si aprì a Firenze una nuova fase politica che portò al Boccaccio nuova fama, tra l’agosto e il novembre 1365 si recò ad Pignone presso Urbano V per fargli avere l’appoggio di Firenze se avesse voluto tornare a Roma, e nel 1367 andò a Roma per congratularsi col pontefice.
Nonostante la vecchiaia e l’obesità si recò a Venezia nel 1367, a Padova nel 1368 dove fu ospite per l’ultima volta del Petrarca. E tra il 1370 e il 1371 soggiornò a Napoli.
Nel 1373 Firenze gli chiese di svolgere nella chiesa di Santo Stefano di Badia una lettura pubblica con commento della Commedia di Dante. Il tutto sarebbe durato un anno con un compenso di cento fiorini. L’incarico durò solo qualche mese.
Il 21 dicembre 1375 Boccaccio moriva a Certaldo.
Caratteri della cultura del Boccaccio
Boccaccio amava la letteratura, e voleva che i suoi scritti fossero diretti a un pubblico che poteva rivedere nel suo mondo quotidiano. Si confrontò con molti tipi di letteratura, tirando fuori da ognuno di questi il meglio per le sue invenzioni. Riassunse in se le letterature romanza, medievale e latina. E grazie a questo divenne un’umanista. Come ogni mercante era orientato sulla letteratura narrativa e divulgativa, ma era anche attratto da Dante e la sua lirica amorosa, come anche dalla romanza e ai classici come Ovidio e Virgilio.
A Boccaccio piace provare stili e codici nuovi, un metodo diverso da quello del Petrarca. Nei momenti fondamentali della sua vita scrive opere come Filocolo, Filostrato, Commedia delle ninfe fiorentine, Ninfale fiesolano, Elegia di Madonna Fiammetta e il Decameron. Ma sono le Rime ad accompagnarlo lungo tutta la sua vita e che ci fanno capire che Boccaccio vuole descrivere la realtà e non ha problemi a passare da un tipo di linguaggio ad un altro.
La scrittura del Boccaccio presenta elementi autobiografici, ma non è come il Petrarca che non smette mai di definire il proprio io, al Boccaccio piacciono i risvolti romanzeschi.
Avendo vissuto alla corte angioina Boccaccio è cortese, ma non si frema davanti al mondo contemporaneo. Fu un grande mediatore culturale, non si risparmiò mai di diffondere gli scritti di Dante e di Petrarca. L’intelligenza del Boccaccio sta nel fatto che ha capito che la letteratura non affascina solo gli studiosi, bensì anche la gente comune che non sa leggere e scrivere. Restò sempre convinto che il volgare fosse la lingua migliore, che tutti così potessero capire, al contrario di quello che sosteneva Petrarca. Lui pensava di poter riuscire ad unire lo stile classico alla sua idea di comune, così Boccaccio diventa il punto di partenza per tutto l’umanesimo.
Il Decameron: composizione, pubblicazione, diffusione
Scritto tra il 1348 e il 1351. Il titolo vuol dire dieci giornate, e deriva dal greco. Probabilmente il lavoro ha preso anche anni precedenti al 1348, cioè prima della peste, poiché nell’introduzione alla quarta giornata il Boccaccio difende le sue novelle, quindi le prima tre giornate potrebbero essere state pubblicate prima.
L’opera riscosse subito grande successo e consacrò la fama del Boccaccio. Anche se lavorò sul Decameron per lungo tempo, come attesta il documento autografo ritrovato recentemente attestato al 1470. si diffuse soprattutto nei secoli XIV e XV, all’inizio i possessori erano solo i mercanti che avevano “edizioni tascabili” poi vennero fatte anche edizioni illustrate e tradotte in varie lingue.
Con la stampa il Decameron si diffuse ancor di più, e dopo che il Bembo lo fissò come modello perfetto della prosa volgare vennero fatte copie purgate (1559) poiché in versione integrale era stato proibito. Fu una grande edizione quella del 1582.
Gli interventi dell’autore
Parla in prima persone solo tre volte:
1. nell’introduzione generale e alla prima giornata: si rivolge alle donne, dicendo che loro sono le destinatarie predilette poiché l’hanno molto aiutato nei momenti difficili e che per un caso sfortunato sono costrette e tenere nascosti i loro amori e a stare tutto il giorno in casa. A loro dedica il Decameron in quanto a loro sono negate distrazioni ampiamente concesse agli uomini.
2. nell’introduzione alla quarta giornata: si difende da quello che dicono contro di lui: di essere troppo dedito alle donne, e spiega loro attraverso la novella di Filippo Balducci che è impossibile e dannoso resistere all’amore delle donne.
3. nella breve conclusione: si congeda alle donne e si prepara alle critiche moraliste contro le sue novelle, spiegando che tutto nel mondo cambia.
Per il resto del Decameron non parla in prima persona, ma cerca di essere oggettivo tralasciando l’autobiografia; non vuole mostrarsi bravo nella letterarietà, vuole essere reale.
La cornice connette il tutto e contiene il tutto.
Un : la peste a Firenze
Il testo comincia con la peste di Firenze e con la descrizione di come ogni buon costume, l’autorità delle leggi sono sopraffatti dalla paura e dall’immaginazione dei sopravvissuti. Non ci sono più ritegni né classi sociali.
La descrizione fatta dal Boccaccio è molto viva e ben fatta, ma con questa non voleva dar sfoggio della sua bravura, ma dare un’idea vivida dell’orrore che c’era a Firenze: la massima disgregazione raggiunta dalla società contemporanea.
La brigata dei narratori
Mentre a Firenze regna il caos, sette ragazze e tre ragazzi s’incontrano nella Chiesa di Santa Maria Novella e decidono di andare in campagna in mezzo a prati, giardini e luoghi ameni. Per decidere come si svolgeranno le giornate decidono che ogni giorni dovranno eleggere un re o una regina. La prima regina è Pampineia che decide di raccontare una novella ciascuno in mezzo a un prato. Tranne il venerdì e il sabato questo accadrà tutti i giorni, e tutti i giorni ci sarà un tema da seguire, solo Dioneo sarà infine esonerato e gli sarà concesso di raccontare sempre l’ultima novella. Boccaccio con l’introduzione e la conclusione spiega dove si sono svolte le giornate e chi è il re. Alla fine di ogni giornata una ragazza canta una ballata per interrompere la densità fisica e intellettuale della materia narrativa.
La coesistenza è felice e tra ragazzi e ragazze c’è un distaccato decoro nonostante il tema erotico sia presente nelle novelle. Il loro è un mondo alla rovescia piacevolmente stilizzato e ben composto.
Non si escludono tensioni sotterranee, ma tutto resta ipotetico, anche i desideri d’amore. I tre personaggi maschili sono tre immagini di Boccaccio. Per questo non hanno spessore psicologico le persone. Restano solo abbozzate e si confondono tra loro, legati all’eleganza e al decoro. Dioneo, essendo esonerato dai temi giornalieri, è quello che più di tutti si spinge sul piano comico ed erotico.
Ma le diverse persone servono al Boccaccio per far vedere al lettore i diversi punti di vista, e con sottile artificio anche il punto di vista dell’autore.
La coerenza della struttura
Il tutto è tenuto insieme dalla cornice che ha sottili collegamenti con le novelle. La stessa cosa accade in oriente, vediamo ad esempio le Mille e una notte. Questo quindi è un riallacciamento alla cultura medievale.
La narrazione è varia e mutevole come nel mondo reale, i percorsi non sono immediatamente visibili, si alternano i personaggi senza personalità dei narratori e quelli più corporei dei personaggi delle novelle. Il mondo del Decameron è organizzato dall’interno, tenuto insieme dai rapporti narrativi, relativamente libero e aperto alla varietà del reale.
I temi delle novelle
In alcune novelle viene sottolineata l’esemplarità di alcuni personaggi. Nella VI giornata per esempio, ci sono i motti di spirito, cioè quelle frasi intelligenti che tolgono il protagonista da situazioni difficili o pericolose. Sono manifestazioni di civiltà. Nella X giornata vengono sottolineati la generosità e la cortesia. Nell’introduzione alla VI giornata si possono leggere molti doppi sensi osceni tra i servi Licisca e Tindaro che insieme alla prima novella costituiscono la contrapposizione tra l’eleganza del Decameron e il resto.
La religione è comunque presente nell’opera senza che diventi un libro troppo spirituale. Riattacca un po’ alla tradizione antifratesca del XIII secolo e non si risparmia alcune frecciate all’ipocrisia del clero.
Siccome tutto ha principio in Dio anche le prime giornate iniziano con la religione, prendiamo la prima novella della prima giornata, quella di ser Ciappelletto: è così malvagio che anche in punto di morte si fa beffe della religione. Nel Decameron alcune cose sono dette al contrario o con doppi sensi, in modo da ricevere il consenso del lettore o per fuorviare il lettore.
Il rapporto amoroso è alla base di tutto, a partire da quello fisico al fine della soddisfazione dei sensi fino a quello più nobile. L’amore può portare alla gioia ma anche ala distruzione, e quindi diventa tragico, come quello delle novelle della quarta giornata. L’amore però esalta sempre la giovinezza, deridendo i desideri dei vecchi, degli ingiusti e degli indegni.
La presenza femminile è sempre alta: splendide immagini del desiderio, che nascondono in sé qualcosa di segreto e indefinibile, anche quando si mostrano sempre più disponibili e sensuali. Ma ci sono anche figure femminili materne o con un grande amore materno, come quello di Griselda, nella quale Boccaccio ricorda sua madre, perduta tanto presto.
Alcune novelle sono piene di peripezie, che spesso sono di effetto benefico per i personaggi, che in tal modo si mettono a confronto. Così mette l’uomo in rapporto con le cose mistiche e sotterranee.
Anche se nel Decameron sono presenti il funebre e l’occulto, il Boccaccio mette comunque al centro l’intelligenza dell’uomo che sa resistere alla fortuna e usando l’astuzia costruisce inganni ai danni di altri uomini.
Le giornate VII e VIII sono dedicate alla beffa. Servono a mettere in atto eccezionali serie di meccanismi del riso. Obbediscono al piacere di inseguire le diverse vie dell’aggressività, in modo da avere equivoci e situazioni divertenti.
I beffati sono indotti a scambiare la realtà con la finzione. Alle volte si giunge al trionfo della menzogna verbale e la crudeltà tocca il suo apice.
I modi della rappresentazione
La maggior parte delle novelle sono ambientate a Firenze o nella Toscana contemporanea, però alcune sono ambientate in tutt’Italia e in particolare a Napoli, altre nell’Europa, altre nell’Oriente islamico e poche nel periodo classico.
Il viaggio è sempre presente, poiché unisce il fantastico al reale.
Usando la storia, la geografia e la cronaca contemporanea Boccaccio crea un mondo reale. Ma sappiamo che quello è un mondo finto, reso reale da particolari che lo fanno ricordare come tale, ma nella realtà un mondo così non esiste.
I personaggi non sono precisi, ma sono precise le situazioni che li vedono protagonisti. Boccaccio non scende in particolari ma ne fa vedere alcuni scorci. Alcuni oggetti s’impongono nella narrazione solo per la loro presenza, ma alle volte è lo stesso autore a caricarli di valore con gioco stilistico e linguistico.
La prosa del Decameron
Boccaccio vuole adattare il suo volgare ai ritmi e alle pause che caratterizzavano la prosa latina. Boccaccio vuole legare la razionalità con la capacità di aderire alle situazioni.
La sua prosa è costituita da ampi periodi che tendono a specificare ogni piccolo dettaglio; questo fa diventare la prosa molto lenta e tortuosa ed è una caratteristica che rimarrà nella prosa italiana, specie nel ‘500. Inoltre può parlare di qualunque materia mantenendo il decoro e la superiorità.
Ma questa prosa è capace di arrivare alla lingua sublime per parlare di argomenti tragici, e arrivare alla lingua più bassa per parlare di cose di poco conto.
La lingua usata è quella di Firenze che non ammette dialettalismi, ma se le novelle necessitano si usano modi di dire tipicamente popolari. La lingua, in certi casi, giunge a parodiare se stessa e quindi a creare parole vuote di senso che stanno sulla bocca degli sciocchi così come sulla bocca dei beffatori.
Significato storico del Decameron
Il Decameron diventerà la prosa base di ogni narrativa amena. L’inglese Geoffrey Chaucer scriverà i “Canterbury Tales” proprio sulla falsa riga del Decameron.
Boccaccio introduce l’ironia, diversa da quella medievale, attaccata a schemi, la nuova ironia di Boccaccio è lontana da quella ariostesca e da quella complicata dei romantici, pur avendo degli schemi. Questa crea il distacco tra la voce narrante e i fatti e i personaggi che sono narrati nella novella. Ma la vera caratteristica resta sempre il realismo del Boccaccio: sa che la vita dell’uomo è guidata da “appetiti” che giocano un ruolo importante nella vita di ognuno di noi. Infatti nelle sue novelle esalta la laboriosità e l’ingegno delle persone e condanna gli stupidi.
Boccaccio viene anche definito primo autore rinascimentale, perché si stacca dal medioevo e cerca di usare la ragione e la razionalità. Nega il mondo medioevale e apre le porte alla nuova borghesia italiana che è pronta ad affermarsi (De Sanctis). Ma c’è una tesi opposta, e cioè che il Boccaccio sia medioevale, poiché ancora attaccato alla religiosità e dalla sua descrizione della società contemporanea si vedono ancora schemi del medioevo. La società da lui descritta è quella dei mercanti del ‘300, tanto da venire chiamata “epopea dei mercatanti” (Branca).
Ma il tutto va ricercato nella sua novità dello stile letterario. Boccaccio era attratto sia dal mondo cortese, del quale aveva fatto parte durante il periodo napoletano, sia da quello comunale che c’era a Firenze. Quindi possiamo dire che Boccaccio è tardo-gotico, poiché risente di entrambi i mondi e cerca equilibri che sono stati perduti dall’antichità.
La brigata decreta regole che servono solo a fare in modo che ci sia una convivenza e che la narrazione proceda fluidamente.
Viene a mancare ogni cordialità nelle novelle quando si giunge davanti alla fortuna, davanti alla quale si è soli e si deve dar prova di se stessi semplicemente per conquistare qualcosa o solo per il fine medesimo di dare prova di se stessi.
Questo è l’atteggiamento della classe mercantile durante la depressione, quando si diffonde il cinismo e il motto è: ognuno per sé, Dio per tutti.
Il capolavoro serve a far capire la complessità me le contraddizioni dell’universo, di quegli amori non corrisposti o perduti che per Boccaccio sono rivissuti in alcune novelle. Dietro alla sua ironia c’è il desiderio di amore che nessun modello potrà mai soddisfare.
Boccaccio umanista
Conoscendo sempre meglio Petrarca, anche Boccaccio si dedica molto alla cultura classica. Può dedicarsi non avendo problemi di lavoro, poiché anche lui era chierico. Negli ultimi anni è dibattuto sul fatto di chiudersi nel suo studio e coltivare poche amicizie o cercare di comporre qualcosa per dare un modello di umanità alla società contemporanea.
Oltre a dedicarsi ai latini si vuole dedicare al greco, anche se non ha delle forti basi su cui contare, vuole comunque riscoprire la poesia omerica che è rimasta sconosciuta al mondo medioevale.
Poesie e trattati latini
Le composizioni di Boccaccio in latino risalgano al suo noviziato, ma da ricordare è il Buccolicum (16 egloghe) composto prima del 1349.
I trattati latini sono più che altro cataloghi, il più importante resta Genealogie deorum gentilium (Genealogia degli dèi pagani). È in 15 libri ed è una raccolta di miti e leggende che tendono ad avere tre significati: storico, naturale e morale. È importante il nuovo uso simbolico sconuscioto al medioevo, gli ultimi due libri di “favole” sono dedicati alla difesa della poesia contro i suoi detrattori.
Il culto di Dante
Boccaccio fu un grade ammiratore di Dante, in suo onore scrisse un trattato: De origine, vita, studiis et moribus viri carissimi Dantis Aligerii fiorentini (Trattatelo in laude di Dabte). Ne furono fatte due copie, una più ampia scritta tra il 1351 e il 1355 e una più piccola scritta negli ultimi anni. Si vede l’opera di Dante come facoltà superiore che si connette allo studio e si contrappone all’impegno politico e civile.
Così il messaggio dantesco viene privato della sua polemica.
Il Corbaccio
Probabilmente scritto nel 1356, il titolo forse è in onore del corvo che è un simbolo funebre e di malaugurio.
Probabilmente fu fatto dopo uno sfortunato amore senile, ma va oltre a questo occasionale motivo. Se prima Boccaccio innalza le donne, adesso si dice completamente estraneo al “porcile di Venere”.
Questo lavoro del Boccaccio ha una forte violenza, specialmente nella parte descrittiva, in cui indugia sugli aspetti repellenti del corpo delle donne e di come riescano a mascherarli. L’autore finisce con questo capolavoro per deturpare le donne e fonda un altro modello della tradizione italiana che andrà a finire nella satira crudele contro il mondo femminile.
OPERE
Ser Ciappelletto
La novella vera e propria inizia solo al paragrafo 7, poiché Panfilo fa un’introduzione su quanto è importante iniziare le cose in nome di Dio. Il tema principale è la santità: il santo avendo vissuto sulla terra fa da mediatore tra gli uomini e Dio. Ma alle volte gli uomini sono tratti in inganno da chi santo non è e in verità è dannato. Come Ser Ciappelleto, notaio vizioso e corrotto che sul letto di morte si confessa facendosi credere santo. Quindi la novella crea un rovesciamento. L’intenzione morale di Panfilo è di far capire come il disegno di Dio sia difficile da capire. Ma la furfanteria del notaio è all’estremo in punto di morte, facendo una provocazione a Dio prendendo in giro il confessore, provocazione prolungata per via della sua santità benvoluta dalla popolazione che lo acclama. Il notaio è quindi un genio della recitazione e nell’uso delle parole e dei gesti. In questo caso l’intreccio tra male e bene è all’estremo: il notaio si fa vedere santo, e parlando di bene compie il male.
Struttura:
7-29: racconta l’antefatto, la vota del notaio e della sua malattia che lo porta alla decisione di confessarsi.
30-80: corpo centrale della novella, entra in scena il frate. Parte dialogica tra Ciappelletto e il frate. Ciappelletto capovolge ogni sua azione, facendo ridere gli usurai per i quali lavora.
81-fine: parla di come Ciappelletto viene fatto santo, e a sua volta viene beffato: lui che ha passato una vita viziosa è costretto a rimanere nella memoria per essere stato un santo.
Melchisedech e le tre anella
Filomena con questa novella fa capire l’utilità dell’ingegno nelle situazioni complicate.
Saladino ha bisogno di soldi e così chiede ad un usuraio ebreo quale delle tre fedi monoteistiche è la migliore. Sapendo che qualunque risposta l’avrebbe fatto cadere in errore risponde con una novelletta: c’è un anello che viene passato di padre in figlio, di generazione in generazione, e dà a chi lo detiene il primato sulla famiglia. Ma un padre non sa a chi dei tre figli dare l’anello, così ne fa costruire altri due uguali. La stessa cosa è fatta da Dio per le fedi degli uomini. Con questa risposta il giudeo si guadagna la benevolenza di Saladino e nasce una gara di offerte e di liberalità tra i due. Quindi i due, pur essendo diversi, capiscono col loro ingegno che le differenze servono ad ampliare gli orizzonti.
In pratica: la ragione ha superato la forza, infatti Saladino non ha estorto i soldi a Melchisedech.
C’è anche il racconto nel racconto, che fa capire l’importanza del saper raccontare in una società civile e l’importanza che aveva per i ragazzi del Decameron.
Andreuccio da Perugina
Raccontata da Fiammetta. Ricordando la vita di Boccaccio a Napoli, essa racconta la novella d’Andreuccio, un mercante napoletano la cui storia sventurata finisce bene: egli si reca a Napoli per acquistare dei cavalli. Viene raggirato dalla cortigiana Fiordaliso, che facendo credergli di essere sua sorella lo vuole derubare, in una notte Andreuccio diventa molto furbo e attraverso le fognature arriva alla tomba di un arcivescovo e gli ruba l’anello, diventando ricco e tornando sano e salvo a Perugia. Con le peripezie d’Andreuccio si scopre la vita nascosta di Napoli. La città viene descritta minuziosamente da Boccaccio e la colloca in un periodo estivo. Il percorso fatto da Andreuccio è una specie di percorso d’iniziazione, all’inizio è deluso dalla mancata passione con la cortigiana, ma poi la notte di peripezie lo rende più furbo e lo risarcisce di tutto quello che ha perduto.
La novella è un susseguirsi di colpi di scena.
Struttura:
3-14: prologo. Si capisce che Andreuccio è molto ingenuo e viene adescato da una vecchietta e da una fanciulla per conto di Fiordaliso.
15-54: sequenza iniziale vera e propria. Si svolge dentro e fuori la casa di Fiordaliso, prima questa fa un monologo altamente retorico, poi c’è un dialogo con Andreuccio e poi lo stesso che parla con coloro che sono affacciati alla finestra nel buio della notte.
55-69: seconda sequenza. Incontro con i ladri e Andreuccio scende e sale dal pozzo.
70-fine: terza e ultima sequenza. Si svolge nel Duomo di Napoli, ove discende e risale dalla tomba dell’arcivescovo con l’anello.
Le tre sequenze sono divise da tre cadute che rendono tutto laico e comico.
I^ caduta: nella latrina, che rende Andreuccio comicamente puzzolente.
II^ caduta: nel pozzo, spaventando la polizia che lo stava aiutando.
III^ caduta: nella tomba, ove viene rinchiuso dai ladri e fatto riuscire da un secondo gruppo di ladri che lo crede un fantasma.
La novella è comica e fa capire come il mondo sia dominato dalla furbizia e dall’inganno, e che per denaro tutti sono disposti a tutto. Fa inoltre conoscere ai lettori i bassifondi, senza però mettere nessuno in pericolo.
Lisabetta da Messina
Raccontata da Filomena. Viene raccontata nella quarta giornata, destinata agli amori con fine tragico. Questa novella racconta della dolcezza e della remissività di Lisabetta che silenziosamente si addolora per il suo amante barbaramente ucciso dai suoi fratelli.
Lisabetta s’innamora di Lorenzo, un lavorante, ma quando i fratelli mercanti scoprono la cosa lo uccidono. Lisabetta ne sogna il fantasma che gli dice dov’è sotterrato il corpo, lei lo dissotterra e porta via la testa che mette in un vaso nel quale farà crescere una pianta di basilico innaffiata dalle sue lacrime. I fratelli scoperto il fatto le portano via la pianta e lei si consuma per il dolore.
La novella è piena di sotterfugi: Lisabetta agisce senza che i fratelli lo sappiano, e viceversa i fratelli. Quindi i dialoghi sono scarsi.
I fratelli hanno funzione narrativa, ma anche d’antagonista dell’amore anticonvenzionale di Lisabetta, costringendola a rinchiudersi sempre più in se stessa. Con la chiusura caratteriale della donna si vede la chiusura della testa dell’amante nel vaso. È un primo esempio di racconto psicologico. La novella, probabilmente, è stata presa da una canzone meridionale che parla del furto di una pianta di basilico.
Federigo degli Alberighi
Narrata da Fiammetta. Narra la storia di un amore a lieto fine. Federigo ama invano la bella e onesta Giovanna. Sperpera tutti i suoi avere per amor di lei, e così si ritira in un podere con il suo falcone. Rimasta vedova Giovanna passa molto tempo nel podere vicino a quello di Federigo insieme al suo unico figlio. Il figlio si ammala e chiede a sa madre di procurargli il falcone di Federigo. Questo, per renderle onore, uccide il falcone e lo arrostisce prima di sapere il motivo della sua visita. Il figlio di Giovanna muore e questa viene spronata dai suoi fratelli a riprendere marito. Sceglie Federigo per la sua bontà d’animo. Attraverso le figure di Federigo e Giovanna abbiamo gli antitesi del mondo: borghesia/nobiltà; ricchezza/povertà; matrimonio/vedovanza;figlio/falcone etc. Alla fine c’è un compromesso tra tradizione e modernità.
Il finale è un felice coronamento di una storia d’amore mal cominciata. Il falcone arrostito esemplifica il crollo della società aristocratica non più al passo coi tempi. I sentimenti di Giovanna per Federigo corrispondono a un riconoscimento dei valori cortesi che anche la nuova società borghese può avere.
Ma c’è un’ombra in questa felicità: la morte del falcone e del bambino, che magari per ironia della sorte sono collegate, il falcone morto provoca la morte del bambino poiché quest’ultimo non poteva avere il falcone.
Cisti fornaio
Narrata da Pampineia. Spiega come la nobiltà d’animo non derivi dal lignaggio, bensì per natura e fortuna. Cisti è nobile d’animo, ma è nato fornaio, mestiere che gli dà una buona rendita. Cisti riesce a fare in modo che il nobile Geri Spina gli chieda di assaggiare del suo vino. Geri manda un servo da Cisti, il quale però non vuole riempire il fiasco perché troppo grande, allora dopo che il fiasco viene cambiato con uno più piccolo Cisti lo riempie di vino e il rimanente lo regala allo stesso Geri.
Cisti rispetta la gerarchia sociale non invitando in prima persona Geri e non andando al banchetto con gli onorevoli cittadini fiorentini. Però è molto intelligente e con il suo motto si eleva nella classe sociale e mostrando piena dignità della borghesia, alla quale appartiene. Facendosi vedere ogni mattina fuori dalla sua bottega che assapora il suo vino e ne è soddisfatto invoglia Geri a chiedergli di berne. Da questo però viene lasciato fuori il servo che è colui che fa il disastro: porta un fiasco adatto all’Arno, per il vino ne serve uno più piccolo, Geri se ne rende conto e lo fa cambiare.
Chichibìo cuoco
Raccontata da Neifele. Chichibìo è uno sciocco cuoco veneziano al servizio del banchiere fiorentino Currado Gianfigliazzi. Il tutto è reso comico per via della dialettica tra le classi e la battuta pronta di Chichibìo. Anche in Cisti c’era il motto di spirito, solo che il fornaio veniva messo intellettualmente alla pari del nobile Spina poiché intelligente. Invece tra Chichibìo e Gianfigliazzi resta un vuoto incolmabile. Il motto con cui Chichibìo si salva viene dal caso e per il padrone è motivo di comicità.
2-5: prologo
6-9: prima scena. Si svolge in cucina, ove Chichibìo si sente il padrone e può commettere l’imprudenza di togliere una zampa alla gru cacciata dal padrone per darla alla sua bella.
10-13: seconda scena. Si svolge al convito, ove viene scoperto il fatto e il padrone irato chiede spiegazioni a Chichibìo che gli spiega che le gru hanno una sola zampa.
14-20: terza scena. La prova. Si svolge di buon mattino e Chichibìo si sente meglio solo quando scopre che le gru dormono su una sola zampa. E anche dopo che il padrone grida Chichibìo riesce a salvarsi, e Gianfigliazzi da giudice diventa spettatore contento. Tutto ritorna al quadro sociale convenzionale.
Guido Cavalcanti
Narrata da Elissa. Narra di una brigata di giovani nobili, guidati da Brunelleschi che incontrano Guido Cavalcanti, ateo ma veramente cortese, al contrario dei giovani. Cavalcanti riesce una volta per tutte a cacciare quella brigata con un motto che Betto riconosce come un’offesa.
Il ritratto di Guido si rifà benissimo a come viene descritto nella Divina Commedia e come anche lo descrive Boccaccio stesso in Esposizioni sopra la Commedia. Era un uomo molto intelligente e costumato, e nonostante ateo, conduceva una vota esemplare, che le brigate non seguivano.
4-6: vita brigate cittadine.
7-9: Guido invitato dalla brigata.
10-12: motto di Guido che lo fa allontanare con un salto dalla brigata (tombe del Duomo).
13-15: spiegazione del motto di Guido da parte di Betto.
In questi momenti Guido fa sì che il distacco tra la sua intelligenza e la loro sia ancora più profonda in quanto lui è arguto e inventa il motto, Betto lo spiega e il resto della brigata non lo capisce.
Il balza sta a intendere la velocità d’intelletto di Cavalcanti. Ma nella novella rimane sempre qualcosa di enigmatico.
Calandrino e il porco imbolato
Filomena racconta una novella sul povero Calandrino che viene fatto ubriacare da Bruno e Buffalmacco con l’aiuto di un prete, poi gli rubano il porco e per beffarlo ancora di più lo vogliono aiutare a trovare l’autore del furto. Questi gli dicono di sottoporsi a un incantesimo: far mangiare gallette allo zenzero benedette a tutti, cosicché il ladro non le possa mangiare. Solo che i due ne preparano due amarissime proprio per Calandrino. L’incantesimo si compie come i due vogliono e Calandrino e costretto a scusarsi con tutti e a risarcire i due per la fatica dell’incantesimo, se non lo fa diranno tutto alla moglie.
Questa è la realtà campestre, una realtà che però viene camuffata dai due. Quindi a Calandrino spettano il danno e la beffa.
Nella scena della prova per capire chi è il ladro Calandrino è solo, solo nella mani dei due beffeggiatori. La novella si conclude con la vittoria dei beffatori e la paura di Calandrino di essere punito dalla moglie.
Ghino di Tacco e l’abate di Clignì
Elissa narra una novella di liberalità e magnificenza. Nella decima giornata tutti i ragazzi raccontano novella in cui si ecrca di essere sempre i migliori per magnificenza. In questa l’abate di Cluny deve andare a Siena per curarsi, ma Ghino di tacco, un nobile, lo rende prigioniero con tutto il suo seguito, ma Ghino rimane in incognito, fa guarire l’abate che per riconoscenza intercede per lui presso papa Bonifazio VIII che perdona Ghino.
In principio l’abate ha un atteggiamento sdegnoso verso Ghino che l’ha reso prigioniero, ma poi deve cambiare atteggiamento perché invece di una prigione quello è stato un soggiorno di cura. La cortesia e la liberalità di Ghino fanno tanta impressione all’abate che Ghino riceve il perdono papale. La liberalità ha la virtù di ridurre e neutralizzare i conflitti, di creare uno scambio civile e paritario tra personaggi lontani e nemici.
la novella torello e il saladino
RIASSUNTO BREVE DI BRUNO E BUFFALMACCO RUBANO UN PORCO A CALANDRINO