Canto XI del Paradiso

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Testo

CANTO XI
I canti XI e XII del Paradiso sono concepiti unitariamente, e costituiscono uno dei centri propulsori della pensiero filosofico – religioso di Dante.
Siamo insomma al centro della meditazione dantesca.
Già l’incipit di questo canto è particolarmente elevato:
O insensata cura dei mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad amorfismi
Sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare, e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Beatrice m’era suso in cielo
contanto gloriosamente accolto.
O vano affanno dei mortali,
Quanto sono errati i ragionamenti
Che ti fanno volare in basso!
Chi se ne andava dietro ai principi giuridici,
alla medicina, chi seguendo i privilegi ecclesiastici,
e chi si affaticava a regnare con la forza o coi l’inganno
chi a rubare, chi ad ottenere cariche politiche
chi adagiatosi nel piacere della carne (s’affaticava)
e chi si dava all’ozio,
quando io, svincolato da tutto ciò
me n’ero salito in cielo per intercessione di Beatrice
ed ero stato accolto tanto gloriosamente.
Dunque l’incipit è costituito da un’invettiva contro la vanità delle cose terrene, contrapposta alla felicità della condizione celeste che Dante sta avendo modo di sperimentare.
La contrapposizione della due condizioni è resa ancora più evidente dalla loro giustapposizione. Anche se questa considerazione è implicita nello stesso significato della Commedia, questa invettiva si carica di grande significato drammatico, con un pathos che avanza mano a mano con un forte climax corrispondente ad un ritmo che si fa via via più spedito. Le prime tre terzine, con questo incedere continuo, danno l’idea di un affanno, di irrequietezza, che si contrappone alla quarta terzina, che invece, anche a livello formale, da l’idea della calma, della tranquillità.
Infatti la dieresi sulle parole Beatrice e gloriosamente impone al lettore di fermarsi nella lettura, dando un tono di solenne serenità.
Questo espediente retorico è particolarmente d’effetto perché pone l’accento sulla “deificazione” del personaggio poeta, a cui viene concesso di librarsi in volo, grazie all’intercessione della donna – angelo.
La diversità delle due condizione corrisponde alla forte contrapposizione semantica tra “involto” e “sciolto”, tra libertà di servire Dio e schiavitù del demonio.
Un aspetto interessante di queste terzine è che Dante condanna tra le attività terrene anche quelle più rispettabili e nobili, come i medici, i giuristi e i religiosi, che sono comunque vane se portate avanti per fini utilitaristici.
Questa tematica, con i suoi rimandi alla questione della lupa e della condanna del denaro, è sicuramente un’introduzione molto d’effetto per una figura che con la sua vita ha costituito il simbolo stesso dell’istanza pauperista.
La figura di San Francesco è presentata parallelamente a quella di San Domenico.
Questo parallelo non è certo una novità: i due ordini francescano e dominicano erano sempre stati giustapposti, in quanto ordini maggiori, e, diciamolo anche, in concorrenza tra di loro in diverse occasioni.
Per citare un esempio, nella Firenze dei tempi di Dante, c’era un certamen a livello “architettonico” tra i due ordini, che avevano fatto costruire l’uno la chiesa di Santa Croce, l’altro di Santa Maria Novella.
Comunque al di là di questo aneddoto, in questo canto vediamo un elogio a San Francesco espresso dal dominicano san Tommaso e poi vedremo il francescano san Bonaventura che loda san Domenico; in contrapposizione a queste due figure di perfezione, vediamo che i due santi evidenziano la corruzione del proprio ordine.
Insomma, san Francesco e san Domenico sono portati da Dante come proposta contro la corruzione dei tempi attuali; corruzione che dipende sempre dalla lupa e dall’interesse al potere politico, come evidenziato anche nell’incipit del canto, il che comporta la perdita di vista dei veri valori spirituali; corruzione che quindi colpisce anche quelli stessi ordini che si caratterizzano perché dovrebbero disdegnare le cose terrene.
Benché a livello teorico le due figure dovrebbero equivalersi, per quanto diverse tra di loro, tra i due il canto più riuscito è quello di San Francesco; questo probabilmente dipende da una maggiore simpatia di Dante per san Francesco.
Ma questa caratteristica è direttamente collegata alla natura delle due figure: san Francesco è il santo che si caratterizza per un fortissimo amore caritativo, un amore che travolge; san Domenico invece è un santo che è più convincente a livello filosofico, ma non presenta grande poeticità a livello biografico, comporta un minore slancio a livello emozionale e affettivo.
C’è poi da considerare un altro aspetto; le fonti di cui Dante fa uso per la vita di san Francesco e di san Domenico tenevano in grande considerazione le “profezie” che avevano previsto l’arrivo e la collaborazione dei due santi.
Ce n’è una ad opera di Gioacchino da Fiore che Dante esplicitamente accetta: “erunt duo viri, unus hinc, aliud inde” che avrebbero sostenuto la Chieda pericolante.
Infatti san Domenico sarebbe stato posto dalla Provvidenza contro i nemici esterni, gli eretici, mentre san Francesco contro i nemici interni, il clero avido di ricchezze.
Del resto le loro vicende biografiche risultano singolari: sono vissuti in contemporanea, l’uno nato ad Occidente, l’altro ad Oriente d’Europa. Da questa determinazione geografica deriva la constatazione che l’azione dei due santi abbraccia tutta l’Europa.
Inoltre un paragone su cui Dante insiste è l’identificazione san Francesco – Sole.
Il sole nasce ad Oriente ed è segno di Dio, e qui il sole diventa Cristo e poi san Francesco, che diventa quindi il nuovo –Cristo.
E come Cristo ha sposato la Chiesa e la Povertà, così anche san Francesco e san Domenico sono sposi l’uno della Povertà e l’altro della Fede.
Solo che, mentre il matrimonio di san Domenico risulta molto scarno (è il battesimo),il matrimonio di san Francesco si carica ancora una volta di grandissima drammaticità, quasi di epicità.
Ma questo perché l’amore tra Francesco e donna Povertà assume tutte le caratteristiche, a livello poetico, dell’amore cortese.
San Francesco è il cavaliere – asceta che erra per il mondo difendendo la donna che ama contro il padre e contro tutti, e alla fine ottiene il riconoscimento del Signore, che è prima il papa, poi Dio con le stimmate.
San Domenico invece è più simile ad un eroe del ciclo carolingio, al paladino Rolando.
Del resto in questi due canti sono disseminati numerosi termini di campo semantico guerresco: questo perché la santità non può essere vissuta nell’adagiarsi, ma nel combattere strenuamente per portare avanti i propri principi.
Del resto è stata la Provvidenza a mandarli per difendere un’istituzione dalla corruzione, e per fare questo hanno bisogno di un certo “armamento bellico”, che è costituito per l’appunto dai due ordini.
E Dante pone molto l’accento su questa dimensione eroica dei due santi
Parlando di San Francesco, Dante gli attribuisce, anche quando parla con il papa, si rivolge a lui con dignitosa regalità, contrariamente alle fonti sulla vita di san Francesco.
Con la rinuncia assoluta alla proprietà, san Francesco si pone come restauratore della vita pura, propria della Chiesa delle origini, lontana da qualsiasi influsso demoniaco del denaro.
La rinuncia alla ricchezza, l’importanza attribuita ai valori non economici, in una società che costituisce il preludio della nascente società capitalistica, sono i fondamenti su cui la chiesa deve basare la propria rinascita.
Rinascita, non riforma, perché questi sono i valori su cui si era basata anche la chiesa delle origini.
In questo scenario si comprende perché san Francesco viene presentato come nuovo Cristo: perché seguendo l’ideale francescano si realizzerebbe una nuova Chiesa, una nuova società basata sui valori promossi da Cristo ai tempi della sua venuta, in quanto Cristo volle morire in croce nudo, ergendosi ad estremo simbolo di povertà.
Il nucleo centrale del canto è la proposta pauperistica simboleggiata nel matrimonio. Tuttavia il matrimonio di Francesco e la Povertà altro non è che un’imitazione di quello di Cristo e della Chiesa.
E poiché la Povertà e la Chiesa coincidono, coincideranno anche Cristo e Francesco.
Infatti quando viene presentata donna Povertà, viene detto che ella è vedova da oltre mille anni del primo marito che fu lo stesso Cristo.
Poi la chiesa fu moglie infedele e ora, con il matrimonio di Francesco e della Povertà, si ristabilisce il matrimonio puro delle origini.
Tra l’altro la figura della Povertà viene quasi presentata, dice Auerbach, quasi come una prostituta: viene chiamata “tal donna”, è disprezzata da tutti, ignorata, “sanza invito”.
Per questo l’unione di Francesco e di questa donna suscita tanto scandalo, lui, figlio di un ricco mercante.
E’ una proposta di portata rivoluzionaria, che suscita scandalizzato stupore di tutti quei farisei ben pensanti, di tutti quelli ipocriti che sembrano tanto per bene all’apparenza e poi sono i più corrotti e opportunisti.
Cristo e Francesco con le loro proposte scuotono tutte le certezze.
Ed è per questo che non esiste figura più adatta di san Francesco a simboleggiare quello che è il condensato della concezione religiosa morale di Dante.
Del resto Dante erge san Francesco a simbolo della vita cristiana senza mitizzarlo, senza renderlo irraggiungibile.
Infatti se mettesse in evidenza il suo carattere sacro, la gente sarebbe indotta a credere che questa scelta deriva dalla sua santità, mentre invece è la santità che è conseguente alla scelta, che invece è prettamente umana. Dante non può mettere in evidenza i miracoli, le visioni, la parte santa della vita di Francesco, perché la proposta di Francesco ha significato solo se risulta viva e feconda, non imbalsamata dentro un’aureola.
Del resto è anche questo che rende il cristianesimo rivoluzionario rispetto alle altre religioni, il fatto che la divinità non rimanga esclusivamente trascendente, ma che si sia incarnato in un corpo umano per mostrare che anche da uomo è possibile sconfiggere il peccato, seguendo una certa scelta di vita.
Da questo punto di vista possiamo dire quindi che la vita di san Francesco risulta molto stilizzata, perché l’unico avvenimento su cui Dante si concentra è il suo essere campione della Povertà, quella povertà che, nel mondo del 1200, costituisce il banco di prova della fede.
Tuttavia, anche se Francesco risulta un personaggio fortemente umano, coesiste in lui anche la componente sacra e trascendente. Infatti Francesco non parla in prima persona e non viene mai nemmeno visto, se non di sfuggita, nella Commedia. Questi elementi concorrono a dargli un’aura di sacralità, come è giusto che sia per un nuovo Cristo.
Possiamo dire che San Francesco costituisce una sintesi di quello che Dante considera il “Medioevo buono”: c’è ascesi e pauperismo, cavalleria e fedeltà, amore e la certezza delle proprie scelte.
Viene rifiutato dunque il questa sintesi il nascente capitalismo, il culto del denaro, che noi sappiamo costituisce la radice di tutti i mali.
Come ultimo aspetto, collegato alla caratterizzazione di cavaliere errante, c’è la crociata di Francesco che porta la Parola agli infedeli, al sultano. Qui Dante deve forzare gli avvenimenti storici perché risulta che il sultano accolse Francesco, ma il parallelo con Cristo richiede che il sultano costituisca il nemico di Cristo.
E come premio per questo suo attivismo, in Oriente e Occidente, Dio concede a Francesco le stimmate, che portano Francesco a caratterizzarsi come un secondo Cristo anche nel fisico.
Dunque la biografia di San Francesco, così piegata, lo porta ad assumere il ruolo di figura Christi, non di figura statica ma di rinnovamento di Cristo e del suo messaggio.
Già la tradizione aveva individuato questo parallelo, ma solo la Commedia può raccogliere i tratti rivoluzionari e polemici di questa constatazione perché può inserirli in un discorso sistematico e articolato.

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