Il mercato del lavoro

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Testo

1.La nascita di un mercato: l’industrializzazione italiana
le premesse
1.1.1 la Rivoluzione industriale inglese: industrie in Europa
L’Inghilterra visse la rivoluzione industriale per primo fra i Paesi europei: già alla fine del Settecento le industrie del Regno Unito si avvalevano dell’utilizzo di macchine che consentivano una maggiore produzione funzionanti con energia meccanica.
Le conseguenze sociali ed economiche per il Regno Unito furono molteplici: le masse contadine preferirono il lavoro salariato nelle fabbriche piuttosto che la vita contadina e si trasferirono nelle città compiendo un fenomeno di urbanizzazione.
Con la Rivoluzione industriale inglese, il mondo dell’industria approdò nel Vecchio Continente.
1.1.2 il protezionismo della Sinistra
Il protezionismo è una politica economico – commerciale che impone dei dazi doganali sulle importazioni dall’estero, in questo modo penalizzate in favore del mercato interno.
Il protezionismo della Sinistra colpì favorevolmente il progresso dei settori industriali, come, ad esempio, quello meccanico: l’industria meccanica visse la nascita della Fiat (Fabbrica italiana automobili Torino) nel 1899.
1.1.3 l’urbanizzazione
Le pessime condizioni di vita e di lavoro nelle campagne spinsero, nel periodo dell’industrializzazione, le masse contadine ad emigrare in città.
Il contadino che si trovava in una realtà nuova andava a fornire forza lavoro per le nuove industrie.
il lavoro durante l’industrializzazione
le condizioni di lavoro degli operai
E’ opportuno precisare che, nel periodo di riferimento, non esisteva un mercato del lavoro regolato e riformato come a metà del Novecento; le leggi al riguardo del lavoro erano tutte favorevoli alla causa capitalista.
Il lavoratore era costretto ad orari di lavoro massacranti e non aveva diritto al riposo settimanale.
La mancanza di assistenza infortunistica faceva sì che la forza lavoro delle aziende fosse in continua evoluzione; il lavoratore vittima di un incidente in fabbrica perdeva, nella maggior parte dei casi, l’impiego: nessun imprenditore poteva perdere della forza lavoro, con conseguente diminuzione della produzione. I capitalisti, quindi, assumevano nuova forza lavoro e, per il lavoratore infortunato, era la disoccupazione.
Non era tutelato nemmeno il lavoro di donne e bambini, che partecipavano ai processi produttivi esattamente come gli uomini adulti.
proletariato e sindacalizzazione
Le insostenibile condizioni in cui lavoravano gli operai spinsero gli stessi ad organizzarsi in assemblee formando sindacati per partecipare, con significativa rappresentanza, alla vita politica del Paese.
Lo scopo che si erano prefissati era di condurre una lotta per migliorare le condizioni di lavoro.
La nascita di più gruppi organizzati portò alla formazione di molte camere del lavoro e, nel 1906, di un movimento competente a livello nazionale, la Cgl (Confederazione Generale del Lavoro), antenata della moderna Cgil.
Le organizzazioni sindacali erano tutte ispirate dalla corrente politica socialista, antagonista del governo giolittiano.
Nel periodo dell’industrializzazione erano forti le tensioni sociali, che portavano, anche per mezzo dei sindacati, ad una lotta di classe capace anche di essere violenta (a questo proposito basti pensare all’eccidio milanese del 1898, nel corso della rivolta contro gli aumenti del prezzo del grano).
il riformismo giolittiano e il lavoro
Nonostante i sindacati fossero le organizzazioni addette alla tutela dei lavoratori e fossero ispirate al socialismo (antagonista di Giolitti); fu proprio lo schieramento liberale giolittiano a proporre una politica di riforme, a inizio secolo, atta anche al miglioramento delle condizioni di lavoro.
In particolare il riformismo prevedeva che venisse tutelato maggiormente il lavoro di donne e fanciulli, fosse predisposta un’adeguata assistenza infortunistica e pensionistica (vecchiaia ed invalidità).
La politica riformista si rivelò però estremamente settentrionalista e, di fatto, lasciò irrisolta la gravosa questione meridionale.
Il Governo di Giolitti però fu tollerante con gli sfoghi sindacali: invece della linea repressiva Giolitti attuò una politica tollerante, senza reprimere né favorire in parlamento i rappresentanti del proletariato.
2. un mercato in evoluzione: dalla dittatura del Ventennio alla nascita dello Statuto
il Ventennio fascista
premessa ideologica: lo Stato assolutista
Per discutere l’ideologia fascista sarebbe necessaria una quantità di spazio decisamente maggiore rispetto a quella che ho a disposizione; comunque alcuni aspetti caratteristici del fascismo vanno resi noti al fine di interpretare la politica economica che è stata attuata e si è ripercossa sul mercato del lavoro.
Quando con la Marcia su Roma Mussolini prese le redini del governo, l’Italia si affacciava ad un ventennio di politiche restrittive e di Stato assolutista.
Mussolini è stato un totalitarista (ognuno deve identificarsi nel capo): lo Stato assumeva quindi un carattere assoluto.
prima del fascismo: il “biennio rosso”
Due anni prima che Benito Mussolini e quadrunviri attuassero la Marcia su Roma nel 1922, tra il 1919 e il 1920, l’Italia visse un momento di aspre lotte sindacali denominato “biennio rosso”.
L’Italia stava attraversando un periodo di forte crisi economica: i sacrifici umani non valevano le conquiste territoriali e politiche, l’indebitamento pubblico era altissimo, l’inflazione portò ad una fortissima svalutazione della lira.
La disoccupazione era a livelli preoccupanti.
Le conseguenze di questa condizione venivano sopportate soprattutto dalle fasce sociali più deboli che, nel ’19, avviarono una fase di violente lotte sociali e sindacali.
Federterra, Cgl e Cil guidarono tumulti sia nelle campagne che nelle fabbriche, al Sud vennero occupate delle terre incolte. I lavoratori richiedevano soprattutto aumenti salariali.
Il governo Nitti reagì in maniera piuttosto tollerante e i sovversivi ottennero dei risultati importanti, tra cui aumenti salariali e diminuzione dell’orario di lavoro ad otto ore quotidiane per sei giorni settimanali.
Importanti conquiste nel mondo contadino furono l’imponibile di manodopera, che prevedeva un minimo di assunzioni proporzionalmente alle dimensioni dell’azienda, e il decreto Visocchi, con cui le terre incolte vennero ridistribuite.
1926 - 27: patto di palazzo Vidoni e Carta del lavoro
Nel 1926, con il patto di palazzo Vidoni, venne impedita per legge l’azione sindacale socialista: i sindacati fascisti, riunitosi con l’associazione di categoria degli industriali (già Confindustria trasformata in Confederazione nazionale fascista dell’industria) nel patto stabilirono che sarebbero stati riconosciuti soltanto i contratti stipulati dalle organizzazioni fasciste.
Il patto stabilì anche che a risolvere i conflitti in tema di lavoro dovesse essere un apposito organo, la magistratura del lavoro.
Lo sciopero venne proibito per legge.
Nel 1927 venne poi redatta la Carta del Lavoro, che gettò le basi per l’inizio dell’ordinamento corporativo, che però non fu mai pienamente realizzato.
La Carta del Lavoro non conteneva il concetto di minimo salariale e, soprattutto, limitò agli uffici statali la collocazione dei lavoratori: i disoccupati in cerca di un impiego iscritti al Pnf o ai sindacati fascisti erano favoriti rispetto agli altri.
crisi del ’29: le conseguenze italiane dal crollo all’Iri
Anche l’Italia fu coinvolta in maniera non indifferente nella crisi dettata dal crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre 1929, il Giovedì nero.
Negli anni tra il ’25 e il ’30 l’economia italiana viveva un momento difficile a causa del cattivo equilibrio della bilancia dei pagamenti e della svalutazione della lira affrontata da Mussolini con una violenta manovra di rivalutazione detta “quota novanta”. L’operazione però portò l’unico effetto di rallentare l’economia nazionale.
Sommata a questi fattori, la crisi economica americana portò all’Italia una fortissima riduzione della produzione industriale e del mercato internazionale. Il recesso di questi importantissimi settori fu la causa della forte disoccupazione registrata in Italia tra gli anni Venti e Trenta.
Nel 1933 il regime fascista individuò nella creazione dell’Iri (Istituto per la ricostruzione italiana) la soluzione ai gravi problemi di natura economica.
L’Iri divenne proprietario dei maggiori istituti bancari e con essi delle partecipazioni in imprese industriali degli stessi. Lo stato si sostituì quindi ai privati divenendo il primo banchiere ed imprenditore italiano.
Facendo del demanio pubblico un bacino di risorse a disposizione delle aziende in crisi, lo stato salvò un considerevole numero di imprese, poi rivendute ai privati.
In questa sede è però importante sottolineare la ripercussione di questi eventi sul mercato del lavoro: nel corso della crisi cresceva la disoccupazione (direttamente proporzionale all’improduttività industriale); con la ripresa si ebbe un incremento dell’occupazione.
fascismo e agricoltura: interessi intrecciati tra economia e propaganda. La bonifica integrale
Nel corso del Ventennio, nonostante l’industrializzazione, l’economia italiana era basata prevalentemente sui prodotti agricoli.
Per giunta, consapevole di questo fatto, Benito Mussolini orientò le politiche propagandistiche in senso agricolo, al fine di raccogliere il maggior numero possibile di consensi nelle campagne.
Le politiche propagandistiche si trasformarono in provvedimenti di legge in tema di lavoro: i provvedimenti fascisti circa le campagne rappresentavano un importante sbocco per l’occupazione.
Il regime assunse due importanti provvedimenti in favore della produzione agricola: nel 1926 diede il là alla battaglia del grano per incrementare la produzione e rendere l’Italia indipendente; nel 1928 invece si varò il progetto di bonifica integrale.
L’operazione prevedeva la bonificazione delle infruttifere aree paludose e aveva il fine di incrementare la produzione agricola oltre che, naturalmente, l’occupazione.
Il progetto non venne però compiuto fino in fondo: furono bonificate solo un decimo delle paludi che necessitavano dell’intervento. Nell’Agro pontino furono prosciugati 60 000 ettari di palude, ma il progetto si fermò a questa bonifica.
la fine della dittatura: i primi governi della Dc
la Costituzione: “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”
L’Assemblea Costituente, eletta il 2 giugno 1946 e riunitasi sotto la presidenza di Saragat il 25 giugno dello stesso anno, scrisse gli articoli della prima fonte di leggi italiane.
La Costituzione stabilisce i fondamenti della Repubblica e si basa su dodici principi fondamentali.
Il tema del lavoro è trattato, nei principi fondamentali dagli artt. 1 e 4.
L’articolo 1 stabilisce che il lavoro si trova a fondamento della neonata Repubblica, mentre il 4 sancisce il diritto al lavoro di ogni cittadino.
La Costituente ha formato un testo che tutela nel più ampio modo possibile l’attività lavorativa: questo aspetto, visibile soprattutto nei principi fondamentali, mette alla luce il carattere programmatico della Costituzione.
Il testo entrò in vigore nel 1948.
la crisi post bellica: inflazione e disoccupazione
Al termine della Seconda Guerra Mondiale l’Italia, uscita sconfitta dal conflitto, attraversava un periodo di difficoltà economiche.
I bombardamenti avevano distrutto un quinto dell’apparato produttivo italiano, causando inevitabilmente il crollo della produzione industriale; inoltre i raccolti di grano furono scarsissimi.
La deficienza di fattori produttivi fu causa di un drastico aumento di licenziamenti e quindi della disoccupazione.
Il debito pubblico aveva raggiunto dimensioni enormi, la lira si svalutava rapidamente e l’inflazione era a livelli altissimi.
la scala mobile
Le drammatiche condizioni economiche del Paese vedevano penalizzate le classi lavoratrici: i pochi che erano riusciti a conservare un impiego erano oppressi dall’inflazione al punto che la paga non poteva essere sufficiente per la sopravvivenza.
La Cgil, sindacato fondato nel 1944, ottenne che nelle paghe dei lavoratori venisse inserita la scala mobile, un meccanismo di adeguamento del salario al tasso inflazionistico.
La conquista sindacale, datata 1947, prevedeva che nelle buste paga venisse inserita un’indennità, detta indennità di contingenza, che cresceva con il crescere del costo della vita: in questo modo si auspicava di mantenere costante il potere d’acquisto della quantità di denaro spettante al lavoratore in seguito alla prestazione fornita.
la vigilia del boom: i presupposti dello sviluppo
Perché terminasse la crisi economica e potesse avere luogo il galoppante progresso economico e sociale dell’Italia erano necessarie alcune condizioni, che ebbero luogo nella seconda metà degli anni Cinquanta.
L’Italia riuscì, grazie alla nascita del Mercato comune europeo, a cavalcare l’onda del progresso economico internazionale.
L’Italia aveva i fondamenti della propria economia industriale nel processo produttivo, cioè nella trasformazione di materie prime in prodotti finiti.
Le materie prime avevano un basso costo sui mercati internazionali; questo favorì l’importazione e fece sì che potessero crescere le vendite.
La forza lavoro aveva costi bassissimi e si registrò un aumento della produttività.
Enormi masse popolari, inoltre, preparavano la migrazione dal Sud, dove il progresso sembrava solo un miraggio, al Nord, dove invece lo si poteva toccare con mano anche nei consumi di massa.
Il potere pubblico attuò una politica espansiva, favorendo il progresso industriale anche con partecipazioni statali in attività private (finanziamenti).
L’evoluzione dei mercati, l’ampliamento del bacino d’utenza per l’acquisto di moltissimi generi tecnologici quali la televisione e l’automobile e l’aumento del reddito portarono al boom economico che l’Italia visse negli anni Sessanta.
i magnifici anni Sessanta: il boom economico
Gli anni Sessanta del XX secolo furono, per l’Italia, lo spartiacque tra la nazione agricola e lavoratrice, decisamente arretrata dal punto di vista tecnologico, politicamente stabile solo dopo la fine del fascismo e la nazione forte a livello internazionale, culturalmente appagata, tecnologicamente all’avanguardia.
Nei primissimi anni del decennio d’oro i tassi di incremento del reddito raggiunsero valori record, segnale di un progresso galoppante ed inarrestabile: tra il ’59 e il ’62 si stette tra il 5,8 % e addirittura il 6,8 %, record del 1961.
La produzione industriale venne incrementata di oltre il trenta percento, grazie al determinante contributo dei settori meccanico (spopolavano la Fiat Seicento, la Lambretta e la Vespa) e tessile.
Il lavoro giocò un ruolo determinante in questo momento storico del Paese: se i brillanti imprenditori, artefici dello sviluppo, non avessero potuto disporre delle grandi quantità di manodopera a bassissimo costo il boom non avrebbe avuto luogo.
Nel rapporto lavoro – lavoratore, in un periodo di grande crescita, entrambe le parti ebbero di che guadagnare. È vero che gli operai provenuti da tutta Italia contribuirono in maniera determinante nella produzione delle industrie settentrionali; le stesse però traevano d’impiccio moltissimi lavoratori disoccupati che sarebbero rimasti tali senza l’intraprendenza degli industriali.
I flussi migratori verso il settentrione determinarono, oltre al progresso economico dovuto alla manodopera provenuta dalle Regioni del Sud Italia, vere e proprie colonie nel Nord, che vedeva nuove prospettive a livello sociale e culturale: Torino, dove c’era la Fiat, si vide invasa dalla manodopera calabrese e Milano visse un periodo di mescolanza regionale imprevedibile solo pochi anni prima.
Come già abbondantemente sottolineato, il boom portò alla nascita di nuovi settori economici: si incrementarono gli acquisti di frigoriferi, lavatrici, elettrodomestici in genere; in quegli anni nasceva un vero e proprio mercato del turismo, con la scoperta della vacanza da parte dell’italiano medio.
L’inizio del decennio vide anche il boom edilizio, con grande crescita della produzione cementifera ed edilizia dovuta all’aumento demografico, diretta conseguenza dell’incremento del reddito medio per abitante, ma anche alla ricostruzione di ciò che era andato perso durante la guerra. Inoltre molte abitazioni furono costruite per ospitare gli operai meridionali trasferiti al Nord.
Il settore edilizio assorbì la gran parte della manodopera provenuta dal Sud.
Il boom terminò con gli anni Sessanta, dopo aver compiuto una profonda trasformazione sociale oltre che economica nel Bel Paese.
L’Italia poteva ambire a traguardi politici internazionali importanti, la disoccupazione era un problema marginale per le minuscole dimensioni di popolazione coinvolte, gran parte degli italiani godevano di consumi diversi e progrediti, andavano in vacanza.
La nuova Italia diede vita a un nuovo mercato del lavoro, più dinamico, nel quale ognuno si muove al fine di raggiungere dei traguardi nutrendo la speranza di fare carriera; un mercato del lavoro che arriverà, ai giorni nostri, a pretendere un’ampia scolarizzazione e il conseguente miglioramento culturale di tutti i ceti.
Il lavoro cambiò moltissimo, sotto ogni aspetto; fino al punto di sentire la necessità di un regolamento apposito, che vide la luce nel 1970: lo Statuto dei lavoratori.
3. Gli anni Settanta: Statuto e BR
3.1 lavoro in evoluzione: lo Statuto dei diritti dei lavoratori

3.1.1 le condizioni economiche e sociali
Il magnifico momento di progresso vissuto dall’Italia negli anni Sessanta aveva migliorato di molto le condizioni di vita degli italiani e la loro capacità reddituale.
La disoccupazione era diminuita, ma le condizioni quasi anarchiche nelle quali venivano stabiliti i termini del contratto di lavoro vedevano il contraente forte, il datore di lavoro, in una posizione di eccessivo favore che faceva valere ponendo condizioni degradanti agli operai.
In pratica il lavoratore, disoccupato in seguito alla crisi del bracciantato, presentandosi alla ricerca di un lavoro nel mondo industriale vedeva come un miraggio la possibilità di un salario e accettava ogni offerta senza tutelare la propria dignità di persona e di fornitore di manodopera; aveva un lavoro e questo gli bastava.
L’imprenditore dalla sua vedeva la possibilità di approfittare di una massa di uomini disperati e poneva le condizioni che preferiva, certo che venissero accettate dalla controparte.
I sindacati però esigevano ora che la classe lavoratrice, in particolare quella operaia, venisse tutelata come previsto dalla Costituzione.
3.1.2 Statuto e politica: i sindacati e le agitazioni rosse
Valutate le condizioni in cui la classe operaia forniva prestazioni lavorative, i sindacati misero in piazza una serie di proteste che spesso sfociarono nella violenza.
Per giunta gli imprenditori ricorrevano alla cassa integrazione per i lavoratori con frequenza: era diventata una modalità di risanamento dell’azienda normalmente utilizzata.
L’occupazione delle fabbriche da parte degli operai capeggiati dai sindacalisti divenne una pratica consueta, come anche gli scontri in piazza con le forze dell’ordine.
Tra i sindacati, fortemente politicizzati (ognuno aveva un partito di riferimento), e gli imprenditori si aprì uno scontro senza esclusione di colpi.
Le forze rosse pretendevano per i lavoratori condizioni di lavoro più favorevoli, in particolare intendevano che i contratti venissero rispettati, venisse messo un freno alla facoltà di licenziamento (altra pratica comune e normale di tutti gli imprenditori per il risanamento del bilancio aziendale) e il lavoratore venisse tutelato in caso di fallimento dell’azienda o di messa in cassa integrazione.
I datori di lavoro, dalla loro, ribattevano con buona ragione che la gestione industriale non poteva prescindere dalla gestione della forza lavoro: in pratica sostenevano che se l’azienda non poteva permettersi di pagare un salario, o non necessitava più di quella fornitura di lavoro, doveva essere libera di recedere dal contratto come con un normale fornitore.
I sindacati furono al centro di varie polemiche, in questo clima caldo nel quale le agitazioni da loro promosse aggravavano una frattura già piuttosto netta tra le parti contraenti nel lavoro.
A livello internazionale si vociferava che molte azioni di protesta non fossero altro che azioni di facciata per l’arricchimento dei privati; in Italia i sindacati che promossero la nascita dello Statuto ebbero un importante favore dal punto di vista politico: divennero infatti obbligatorio intermediario tra i contraenti, al pari dei rappresentati del governo.
3.1.3 dagli anni Sessanta al 1970: la crescita delle leggi sul lavoro fino allo Statuto
Con il boom economico alle porte, in tema di mercato del lavoro non esisteva una valida legislazione.
Con la crescita del settore industriale e le importanti modifiche settoriali nella manodopera, divenne inevitabile regolare le nuove forniture di lavoro.
Le prime ad essere tutelate furono le donne, che Moro volle proteggere nel 1963 con una normativa in tema di lavoro femminile che proibiva il licenziamento per matrimonio e consentiva alle donne l’accesso al lavoro pubblico e alle professioni libere.
Oltre a queste significative ma ancora scarse leggi sul lavoro non si ebbero grandi evoluzioni nel periodo seguente: le forze parlamentari socialiste dirottarono il loro interesse verso altri temi, perlopiù militari, accantonando la legislazione sul lavoro.
L’attenzione socialista nei confronti del lavoro si tradusse due anni più tardi, nel 1965 nella creazione del Testo unico in materia di infortuni e malattia e nelle leggi in tema di previdenza (venne introdotta la pensione sociale e quella di anzianità) e di licenziamenti.
Il PSI ebbe quindi un ruolo determinante in un periodo di governi sì di centrosinistra, ma sempre presieduti dai democristiani, nella persona di Aldo Moro.
Politicamente, però, le azioni socialiste ebbero come scopo ultimo quello di vincere la concorrenza di sinistra del PCI più che di tutelare realmente la classe lavoratrice.
Un insieme di leggi sul lavoro formulato fino a quel punto non era ancora sufficiente per una regolamentazione efficiente né per attribuire un significato politico e sociale importante al ruolo del lavoratore: nel 1969 Brodolini, sindacalista socialista, chiese che venisse formata una commissione composta da esperti e tecnici per la stesura di un documento che avrebbe risolto tutti i nodi legati al ruolo del lavoratore nella società italiana: ne sarebbe uscito lo Statuto dei diritti dei lavoratori.
3.1.4 cosa cambiò con lo Statuto?
L’impronta sindacalista sul testo dello Statuto dei lavoratori è messa alla luce dalla presenza di bel due titoli su sei relativi alle libertà del lavoratore per quanto concerne l’attività sindacale. Lo Statuto comprende poi un titolo che tratta della dignità del lavoratore, uno sul collocamento e uno che contiene le disposizioni transitorie.
Lo Statuto tutela innanzitutto, nell’art. 1, la libertà d’opinione del lavoratore. Il fornitore di manodopera viene quindi messo in condizione di impugnare lo Statuto contro il datore di lavoro che intendesse proibirgli l’attività politica.
Questo articolo risulta ridondante, in quanto certi diritti sono già tutelati dalla prima fonte di legge della Repubblica; tuttavia il legislatore ha ritenuto opportuno ribadirlo perché non si intendesse il mondo del lavoro come un “ambiente franco” nel quale, senza specifica normativa, perdono validità le altre e per impedire licenziamenti dovuti a divergenze d’idea politica tra il datore di lavoro e il dipendente. Inoltre era avvenuto non infrequentemente che dei lavoratori perdessero il loro impiego perché impegnati in politica.
Viene fatto divieto ai datori di lavoro di controllare l’operato dei propri salariati facendo uso di impianti tecnologici o vigilanti; subisce forti limitazioni il diritto di perquisizione del datore di lavoro che temesse di aver subito furti dai propri dipendenti.
Il controllo dell’effettivo stato di malattia o infortunio del lavoratore viene trasferito dal datore di lavoro agli enti pubblici, delegati e unici aventi diritto a tale opera.
Lo Statuto, sebbene introducesse diritti inviolabili delle persone in azienda, paga una forte limitazione ancora oggi: grande parte del testo, infatti, si riferisce unicamente alle piccole imprese, quelle con impiego limitato a quindici o meno dipendenti.
Questi dipendenti vantano quindi diritti, attribuiti loro dallo Statuto, che non possono vantare coloro che forniscono la loro manodopera ad imprese grandi.
3.2 terrorismo made in Italy: le Brigate Rosse
In vista di affrontare il tema della Riforma del mercato del Lavoro che porta il nome del giuslavorista che l’ha ideata, Marco Biagi, è necessario approfittare di questo spazio per porre una premessa storica ai fatti degli anni Duemila.
3.2.1 BR: cenni storici
Le Brigate Rosse sono nate come nucleo eversivo di sinistra, rispondente all’ideologia comunista, nel 1970 per mano di Renato Curcio e Alberto Franceschini.
Il fine ultimo delle BR era il rovesciamento dello Stato e colpiva con azioni di guerriglia coloro che rappresentavano il potere politico; organizzato in cellule, il movimento terrorista di estrema sinistra ricopriva l’intero territorio italiano.
Tra gli slogan delle BR una famosa frase del dittatore cinese Mao Tze Tung: “colpirne uno per educarne cento”.
3.2.2 l’ideologia brigatista
L’ideologia delle BR, madre degli scopi dell’organizzazione, prevedeva la Dittatura del proletariato per la costruzione del comunismo.
Gli strumenti di cui si servivano all’inizio della loro opera i brigatisti erano tutti di fenomenale violenza: dalla propaganda armata tra gli operai alla creazione di piccoli incendi dolosi.
I brigatisti si rifacevano a grandi leader comunisti del presente e del passato, quali appunto Mao Tze Tung o Lenin.
Inoltre non ritenevano conclusa in Italia la fase fascista e giustificavano molti dei loro atti come movimenti della Resistenza, infangando il nome dei liberatori e creando un falso storico evidentemente inattendibile da oltre venticinque anni.
3.2.3 BR e violenza: Moro e altri colpi
Nel corso della loro esistenza le BR rivendicarono una serie di eventi sanguinosi e spesso omicidi rivolti agli uomini del potere politico che Brigate Rosse intendevano rovesciare.
Su tutti viene ricordato il rapimento e la conseguente uccisione dell’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, statista democristiano ammazzato nel 1978; ma fecero scalpore anche i sequestri Macchierini, l’assassinio del Generale dell’Arma dei Carabinieri Dalla Chiesa e del sindacalista Guido Rossa.
Innumerevoli furono, nel corso delle prime Brigate Rosse, gli atti dimostrativi, concentrati specialmente nel primo periodo di esistenza del Partito Armato, come amavano autodefinirsi i brigatisti.
A cavallo tra gli anni Novanta e gli anni Duemila l’incubo del terrorismo italiano si è ripresentato con il duplice omicidio, nel corso di tre anni (’99 – ’02), di Massimo D’Antona e di Marco Biagi.
I due non erano che esperti tecnici politicamente indipendenti che lavoravano a una riforma del mercato del lavoro. D’Antona era un collaboratore del I Governo D’Alema, mentre Biagi lo era del Governo Berlusconi, più precisamente del ministro Maroni.
3.2.4 Vecchie e Nuove BR
Gli anni Ottanta videro disgregarsi le Brigate Rosse, con la cattura di moltissimi leader carismatici quali Barbara Balzerani e Senzani.
I prigionieri condivisero il malcostume di tacere sulle questioni che interessavano gli inquirenti dichiarandosi prigionieri politici; di fatto con queste dichiarazioni i detenuti dichiaravano guerra allo Stato sotto l’egida delle Brigate Rosse.
Di fatto però l’organizzazione attraversava un momento di profonda crisi, sfociata in moltissimi regolamenti di conti interni e nella disgregazione dell’intero apparato, avvenuta gradualmente e conclusa nel corso degli anni Ottanta.
Dopo dieci anni di silenzio le BR si sono ripresentate con gli stessi simboli e gli stessi slogan degli anni Settanta, nel 1999, rivendicando l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona, avvenuto a Roma.
Oltre a questo colpo, le BR hanno ucciso un altro collaboratore del Ministero del Lavoro, a Bologna nel 2002, Marco Biagi.
La grande distanza temporale tra i due omicidi non lascia escludere tuttora che le BR abbiano cessato di esistere.
Tuttavia sotto moltissimi aspetti le Nuove BR non hanno dimostrato la forza che avevano dimostrato le Vecchie, tenendo sotto scacco lo Stato per quasi vent’anni.
I nuovi brigatisti infatti hanno peccato di ingenuità fino ad arrivare alla cattura ed alla scongiura di attentati che forse erano in corso di preparazione.
Nel corso della loro esistenza, finora, le BR hanno ucciso circa settanta persone e ferito moltissime altre.
Le ultime notizie relative alle BR sono quelle della cattura di Nadia Desdemona Lioce, nel 2003, e della morte del suo compagno Galesi, morto insieme ad un agente della Ferroviaria su un treno.
4. Rivoluzione nel lavoro: i governi Berlusconi e la Riforma del Lavoro
4.1 Silvio Berlusconi: la discesa in campo
4.1.1 Silvio Berlusconi: elementi della biografia
Silvio Berlusconi è un politico e imprenditore italiano nato a Milano nel 1936.
Nel 1961 inizia la sua attività imprenditoriale, forte di una laurea in legge conseguita con lode e di qualche esperienza nell’ambito immobiliare come agente di vendita.
L’attività edile prosegue con fortuna e lo porta alla creazione di un intero quartiere residenziale, Milano 2.
La grande opera compiuta nel campo dell’edilizia gli vale il titolo di Cavaliere del Lavoro, conferitogli nel 1977 da Leone.
Quando, un anno dopo, rileva una piccola rete locale, Telemilano, Berlusconi amplia il proprio raggio di affari: è l’inizio di una nuova era per la televisione italiana.
Nel 1980 Berlusconi trasmette in tutta Italia i programmi di Telemilano, trasformata in Canale 5, seppure in differita.
L’impero televisivo del Cavaliere si amplia con le acquisizioni nel 1982 di Italia 1 e nel 1984 di Rete 4, rispettivamente da Rusconi e Mondadori.
Nel 1986 acquista l’Associazione Calcio Milan, caduta in disgrazia a seguito dello scandalo scommesse che aveva travolto il mondo dello sport; in pochi anni riporta la squadra di Milano a competere per i massimi trofei e vince una serie di campionati e di coppe europee che portano il Milan, ad oggi, ad essere una delle più grandi squadre del mondo.
Berlusconi acquista molte altre aziende nel campo editoriale, diventando l’uomo più ricco d’Italia e uno degli uomini più ricchi del mondo con un patrimonio di circa dieci miliardi di euro, nel 2007.
Berlusconi si occupa anche di politica, fondando nel 1993 Forza Italia, tuttora il primo partito su scala nazionale.
Nel percorso imprenditoriale e politico di Silvio Berlusconi non mancano accuse e processi, alcuni risolti altri ancora in corso di svolgimento.
4.1.2 aria nuova con Forza Italia: il I Governo Berlusconi
In seguito allo scandalo di Tangentopoli, che travolse l’Italia all’inizio degli anni Novanta, Silvio Berlusconi decide di dedicarsi alla politica.
Il successo del partito creato in pochissimo tempo per competere alla Presidenza del Consiglio nel 1994 ha grandi possibilità di vittoria: FI sembrava ciò di cui il Paese aveva bisogno dopo la corruzione degli anni di Craxi.
Appoggiato dalla Lega Nord e da Alleanza Nazionale, Berlusconi vince con largo margine le elezioni; tuttavia cade prima della fine dell’anno per via dell’abbandono di Bossi.
L’Italia viene traghettata alle elezioni politiche del 1996 dal tecnico Dini.
4.1.3 2001: il ritorno del Cavaliere
Le elezioni politiche del 2001 vengono vinte dal centrodestra guidato da Silvio Berlusconi: si dà vita al II Governo Berlusconi.
La legislatura vive all’ombra del Contratto con gli italiani, siglato da Berlusconi presso una nota trasmissione televisiva nel corso della campagna elettorale.
Il documento consta di una pagina, nel quale viene espresso a grandi linee il programma di governo che il centrodestra avrebbe attuato in caso di vittoria.
Nel contratto si parla di abbattimento della pressione fiscale, aumento delle pensioni, grandi opere e sicurezza; ma risalta al punto 4 l’impegno circa l’abbattimento della disoccupazione.
Letteralmente, Berlusconi si impegna al “dimezzamento dell’attuale tasso di disoccupazione con la creazione di almeno 1 milione e mezzo di nuovi posti di lavoro”.
Ai piedi del foglio, l’impegno a non ricandidarsi nel caso di fallimento di più d’un obiettivo.
Nel 2003 viene approvata la legge Biagi in tema di lavoro; se ne approfondirà il contenuto in seguito in quanto il tema è al centro della presente trattazione.
Il II Governo Berlusconi capitola in seguito alla pesante sconfitta alle amministrative nel 2005, per essere poi riconfermato e bocciato dai cittadini alle elezioni politiche del 2006.
4.2 Lavoro e formazione: la mobilità
4.2.1 un nuovo lavoratore: esigenza di mobilità
Le indagini condotte dalle più autorevoli fonti di statistiche hanno dimostrato che un numero sempre crescente di giovani avverte l’esigenza di cambiare spesso lavoro, sia modificando le mansioni in una stessa azienda o spostandosi da un’impresa a un’altra.
La nuova visione del lavoro portata dai giovani ha modificato la concezione del lavoratore: prima dei provvedimenti in materia di mercato del lavoro, infatti, una grandissima percentuale di lavoratori non cambiava il proprio impiego per la quasi totalità della durata della carriera.
Tantomeno i lavoratori cambiavano spesso azienda. Nasce quindi per un nuovo mercato di lavoro la necessità della mobilità, per definizione “lo spostamento dei lavoratori sia all’interno di una stessa impresa da un reparto a un altro si all’esterno da un’impresa a un’altra”.
4.2.2 mobilità e formazione
Il lavoratore che ha mansioni manuali e ripetitive acquisisce, nel corso di un periodo di lavoro, le nozioni necessarie per lo svolgimento dei compiti attribuitigli.
Se quindi, ad esempio, un lavoratore viene incaricato dal datore di lavoro a mansioni impiegatizie, la persona acquisisce tutto quanto gli serve per l’assoluzione del suo compito.
Se il dipendente resta inquadrato in quel ruolo per l’intera durata della sua carriera avrà arricchito in dosi minuscole le proprie conoscenze, limitando la crescita culturale e professionale allo svolgimento di quella mansione che gli era stata attribuita all’inizio del rapporto di lavoro.
Se invece al lavoratore vengono attribuite svariate mansioni nel corso della sua carriera, questi acquisirà le conoscenze necessarie per lo svolgimento di ognuno dei compiti che deve svolgere, disponendo di un maggiore bagaglio culturale e professionale.
Ne consegue, ovviamente, che il lavoratore del futuro sarà meno specializzato ma più duttile.
È importante considerare anche il fattore psicologico, mosso positivamente nel lavoratore: nuovi incarichi significano automaticamente nuovi stimoli e maggiore rendimento.
4.2.3 svantaggi: la disciplina della mobilità
Alle luce di queste considerazioni, le imprese hanno favorito la politica della mobilità, che consente al lavoratore di vivere il lavoro con maggiore stimolo.
La legge in materia di mobilità può però penalizzare il fornitore di forza lavoro: la messa in mobilità, allo stato effettivo delle cose, è uno strumento legale per ridurre la forza lavoro a disposizione di un’impresa; in pratica consente l’attuazione di licenziamenti di massa motivati dalla necessità della riduzione del personale.
A favore del lavoratore la legge prevede delle indennità per coloro che vengano messi in mobilità: la Cassa integrazione guadagni e l’indennità di mobilità.
4.2.4 lavoratori in mobilità: le indennità
1. CIG (Cassa integrazione guadagni): la CIG è un’indennità corrisposta dall’INPS al lavoratore che si trovasse sollevato dall’obbligo di prestazione lavorativa, parzialmente o totalmente. Lo spirito della legge che introduce questa indennità è aziendalista: lo scopo ultimo è quello di evitare che l’azienda in momentanea difficoltà debba pagare della manodopera che non utilizza. Infatti non è il lavoratore a doverne fare richiesta, ma l’azienda che intende rinunciare a dei lavoratori. L’integrazione salariale ordinaria è corrisposta nei casi in cui l’azienda si trovasse in difficoltà a causa di diminuzione o arresto dell’attività produttiva; ma anche nell’eventualità che l’impresa non riesca a conseguire i propri obiettivi reddituali per via di particolari e penalizzanti situazioni di mercato, ovvero non per responsabilità attribuibili all’imprenditore o agli operai. La Cassa integrazione è invece corrisposta in via straordinaria ai lavoratori delle aziende nei casi di crisi, ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale. Il lavoratore che gode di questa indennità si vede corrispondere l’80% del corrispettivo che gli sarebbe spettato se avesse lavorato; il dipendente riceve il denaro in corrispondenza dei periodi di paga.
2. L’indennità di mobilità: è il corrispettivo per la prestazione di disoccupazione, spettante al lavoratore inserito nelle liste di mobilità, quindi in attesa di un collocamento sul mercato del lavoro. Il lavoratore, in un periodo variabile da 1 a 3 anni proporzionalmente all’età anagrafica (ma mai in un periodo superiore all’anzianità nell’impresa), riceve il 100% dell’ultimo salario lordo ricevuto. L’iscrizione nelle liste di mobilità comporta per il lavoratore che il proprio nominativo venga trasmesso agli uffici che si occupano del collocamento. I lavoratori collocati nelle liste di mobilità godono di alcuni vantaggi rispetto agli altri disoccupati: hanno la precedenza per le assunzioni nella stessa impresa che li ha posti in mobilità e per quelle concernenti imprese che impiegano più di dieci lavoratori. La legge prevede che i lavoratori che non dimostrano di applicarsi per risolvere la situazione di mobilità vengano cancellati dalle liste. I lavoratori in mobilità indegni di godere dei benefici sono coloro i quali si rifiutino di essere avviati a un corso di formazione professionale o si rendano assenteisti allo stesso, non accettino la proposta di un lavoro professionalmente omogeneo a quello svolto prima della collocazione in mobilità oppure rifiutino l’impiego in opere socialmente utili.
4.3 Massimo D’Antona e Marco Biagi
4.3.1 Massimo D’Antona
Massimo D’Antona nasce a Roma nel 1948.
Nel corso della sua vita si occupa di trasporti: ha ricoperto l’incarico di amministratore delegato dell’ENAV, l’Ente Nazionale per l’Assistenza al Volo.
In ambito accademico era investito del ruolo di docente di diritto del lavoro presso la rinomata università romana “La Sapienza”.
La sua capacità professionale lo ha portato fino a ricoprire il ruolo di consulente del governo, come collaboratore del Ministero del Lavoro. In particolare ha lavorato governo retto da Massimo D’Alema, collaborando con i ministri Bassolino e Salvi.
Proprio nell’ambito di questa collaborazione Massimo D’Antona cominciò a lavorare ad una riforma che rinnovasse il mercato del lavoro nel nome della flessibilità: il suo lavoro ha gettato le basi affinché Marco Biagi potesse completare l’opera.
D’Antona, nel 1999, muore ucciso da due brigatisti: Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi.
I colpi da arma da fuoco lo raggiunsero proprio mentre stava andando al lavoro.
4.3.2 Marco Biagi
Nato a Bologna nel 1950, Marco Biagi si laurea a pieni voti in giurisprudenza presso l’ateneo della città natale e diviene un grande esperto di diritto del lavoro.
Di professione è docente universitario, dei più stimati: offre la sua opera presso le università italiane di Pisa, della Calabria, di Ferrara e di Modena.
Nel corso della sua carriera di giuslavorista collabora a più battute con gli apparati governativi: nel 1997 rappresenta lo stesso Governo presso l’Unione Europea, nel Comitato per l’occupazione e il mercato del lavoro; un anno più tardi diviene consigliere del Ministero del lavoro, in questa occasione lavora con i ministri Bassolino e Treu.
Infine, nel 2001 diviene consulente del Ministero, retto nel II Governo Berlusconi dal leghista Roberto Maroni.
È proprio nel corso di questa collaborazione che Marco Biagi completa l’opera di Massimo D’Antona già portata avanti precedentemente.
Ucciso dalle Nuove BR nel 2002, Biagi non vede la propria opera divenire legge nel 2003, anno dell’approvazione della Riforma del Lavoro, altrimenti detta legge Biagi, ed attualmente in vigore nel nostro Paese.
A Marco Biagi è stata intitolata la facoltà di economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, presso la quale ha insegnato negli ultimi anni della sua vita.
4.4 la Riforma del mercato del lavoro
4.4.1 nozioni
La Riforma del mercato del lavoro varata dal II Governo Berlusconi nel 2003, non senza dissensi, viene chiamata anche legge Biagi, è la legge 30/2003 e riporta il titolo di Delega al Governo in materia di occupazione e di mercato del lavoro.
Il testo della legge Biagi, sia come posizione gerarchica nelle fonti di legge che come dimensione, è paritaria allo Statuto dei Lavoratori, prima del 2003 unico testo dedicato interamente al lavoro.
La Riforma si basa sul concetto di flessibilità, concertatamente a quello di mobilità.
La normativa introdotta nel diritto italiano infatti prevede una serie di articoli che favoriscano la dinamicità del mercato del lavoro.
4.4.2 contratti a progetto
I contratti a progetto hanno sostituito i precedente contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) tendendo a tutelare il collaboratore non subordinato.
I contratti per la co.co.co si trovavano in una situazione detta di deregulation, cioè quasi priva di restrizioni di legge eliminate dai governi per favorire l’andamento dell’economia nazionale.
La normativa, regolamentando questo genere di rapporto, tende alla tutela del collaboratore.
Si decide infatti che il collaboratore è tutelato, sotto l’aspetto previdenziale, al pari dei dipendenti “classici” e che il contratto è convertibile al suo termine in un accordo a tempo indeterminato.
Il contratto è altresì convertibile in contratto a tempo indeterminato qualora, a seguito di una causa, il giudice accertasse l’inesistenza di un progetto.
Il contratto a progetto, regolando un rapporto equiparato alla fornitura di lavoro da parte di un libero professionista, non prevede il pagamento dei giorni di assenza siano per malattia, infortunio, maternità o qualunque altra ragione; inoltre il lavoratore a progetto può essere licenziato senza giusta causa, con preavviso, contrariamente alle norme a difesa di ogni lavoratore dipendente.
I prestatori di lavoro a progetto sono altresì esclusi da ogni forma di ammortizzatore sociale per la disoccupazione; la motivazione di questo sta nel fatto che il contratto a progetto regola il rapporto lavorativo nel quale il prestatore è autonomo.
4.4.3 contratti a progetto: vantaggi…
I contratti a progetto generano senza dubbio dei vantaggi per entrambi i contraenti: il lavoratore ha meno difficoltà a trovare lavoro perché, nel corso del rapporto, l’azienda non è penalizzata dai costi che dovrebbe sostenere in caso di contratto a tempo indeterminato.
Questi viene collocato sul mercato da agenzie specializzate, che fanno incontrare la domanda di lavoro con l’offerta unendo le richieste maggiormente compatibili.
Gli articoli relativi al licenziamento avvantaggiano le imprese nei confronti dei lavoratori in forza, ma di riflesso aumenta la possibilità che i lavoratori disoccupati trovino un impiego.
Il datore di lavoro arruola con maggiore entusiasmo un lavoratore che non resterà legato all’azienda a tempo indeterminato, non genererà costi previdenziali e potrà essere licenziato prima del termine previsto dal patto anche senza giusta causa.
Il più grande vantaggio portato dai contratti a progetto è stato il taglio netto dato al tasso di disoccupazione mediante la creazione di posti di lavoro: Silvio Berlusconi aveva sottoscritto nel Contratto con gli italiani l’impegno in questo senso, riuscendo nei suoi intenti grazie al lavoro di Marco Biagi.

4.4.4 …e limiti
Parimenti, questi caratteri della Riforma penalizzano il lavoratore che presta l’opera mediante contratto a progetto: tutto quanto viene ad avvantaggiare le aziende penalizza i lavoratori (facoltà di licenziamento, durata prefissata del contratto).
La flessibilità del mercato del lavoro, di fatto attuata con la Riforma e in particolare con i contratti a progetto, crea un problema: la precarietà.
Il lavoratore che conosce la data della fine del rapporto del lavoro è psicologicamente scosso e continuamente sotto pressione, terrorizzato dal fantasma della disoccupazione.
Questo fatto, di riflesso, favorisce però l’impegno che il lavoratore profonderà nella sua opera: per essere riconfermato impiegherà tutte le sue capacità ed attitudini.
Essendo sottoscritto dal lavoratore e dal datore di lavoro, questo contratto non viene formato con il contributo dell’intermediazione dei sindacati né del Governo: questo altro punto penalizza il lavoratore che, spessissimo, si trova nella posizione di contraente debole e si vede costretto ad accettare qualunque condizione posta dal datore di lavoro.
4.4.5 le Agenzie per il lavoro
La Riforma contiene anche norme per facilitare, mediante privatizzazione, il sistema di collocamento dei lavoratori disoccupati.
La legge Biagi prevede le Agenzie per il lavoro, che si occupano di intermediare tra domanda ed offerta di lavoro, unendole nel punto di maggiore corrispondenza.
La domanda e l’offerta si incontrano quindi, a vantaggio di tutti, nel punto professionalmente più vicino (un operaio meccanico non andrà a lavorare nell’edilizia, un ragioniere non verrà chiamato a fare il giornalista).
L’intermediazione delle Agenzie fa scaturire che nasca un vero e proprio mercato alle spalle del mercato del lavoro.
La Riforma ha anche fatto crescere il Paese in termini macroeconomici.
L’intermediazione viene attuata presso uffici distribuiti in varie sedi, ma anche on line dalle grandi Agenzie, fra cui Adecco o Temporary.

4.4.6 la BCNL
Un altro provvedimento relativo al collocamento è contenuto nella creazione della BCNL, la Borsa Continua Nazionale del Lavoro, un portale web nel quale si incontrano, come nelle Agenzie, la domanda e l’offerta di lavoro.
I servizi della BCNL si articolano essenzialmente a due livelli: quello nazionale, nel quale si stabiliscono gli standard tecnici e dei flussi informativi di scambio, si organizza l’interscambio di informazioni a livello interregionale e si definiscono i caratteri di ricerca maggiormente adeguati all’incontro tra domanda e offerta; quello regionale, che integra sistemi pubblici e privati a livello a livello territoriale, modella i servizi al lavoro, coopera alla borsa nazionale nella definizione degli standard tecnici.

5. Gli effetti della Riforma
5.1 la disoccupazione
Gli istituti di statistica hanno dimostrato che la disoccupazione, con l’attuazione della legge Biagi, ha portato ad un netto taglio del tasso di disoccupazione, che al termine del 2006 ha toccato i livelli record del 1992.
In pratica, un tasso così basso di disoccupazione non si vedeva da 14 anni e, secondo le statistiche, il merito è tutto della Riforma, dato che la crescita è cominciata in corrispondenza con l’entrata in vigore della stessa.
5.2 la precarietà
Nessun lavoratore si dice contento di conoscere il termine del contratto che lo lega al suo posto di lavoro, ma come già evidenziato in precedenza questo aspetto stimola il prestatore di manodopera a dare il meglio di sé.
Per giunta, coloro che entrano nel mondo del lavoro con il sistema della mobilità, nel giro di qualche anno tendono a stabilizzare la loro posizione: secondo Almalaurea il 71% dei laureati ha un posto di lavoro stabile dopo cinque anni dal conseguimento del titolo di studio, inoltre i contratti a tempo indeterminato sono saliti al 47% (la crescita negli ultimi cinque anni è di ben 15 punti percentuali).
5.3 la creazione di un nuovo mercato
Le Agenzie per il lavoro che operano sul nostro territorio hanno contribuito all’accrescimento del Pil, avendo creato un nuovo settore di mercato e fornendo un servizio utilissimo ad imprese e disoccupati, oltre che ai lavoratori alla ricerca di un miglioramento professionale.

6. critica alla Riforma
Il testo approvato dal II Governo Berlusconi presenta un quadro definibile positivo, a quattro anni dall’entrata in vigore della legge Biagi.
Il Paese cresce con l’occupazione, in costante aumento, e l’alto numero di lavoratori assunti a tempo indeterminato suggerisce che Marco Biagi aveva ragione: la mobilità arricchisce.
Difficilmente il datore di lavoro si priva di un collaboratore assunto come interinale.
Tuttavia non è certo rassicurante per il lavoratore, per quanto di un stimato professionista si tratti, sapere di dover abbandonare il posto di lavoro a un certo termine o anche prima.
In questa Riforma si tiene conto anche degli interessi delle aziende che, in quanto al centro della vita economica del Paese, non possono che essere favorite da ogni proposta di legge in materia economica.
In linea generale, è giusto che il lavoratore venga lungamente messo alla prova prima di ricevere la proposta di assunzione: per l’azienda ogni lavoratore è un costo considerevole e deve essere necessario sostenerlo.
In questo meccanismo del mercato del lavoro, chi è valido trova svariati sbocchi; chi non lo è si ferma.
L’integrazione della legislazione sul mercato del lavoro mette il lavoro al centro della vita degli italiani: senza un lavoro non si può pensare alla famiglia.
Questa politica di interesse è inevitabile in un Paese avanzato come il nostro, e il lavoro deve essere un carattere fondamentale nella vita di ogni italiano, per la crescita propria e per quella comune.

Esempio



  


  1. Luigi

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