Il nucleare pulito

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Categoria:Fisica

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IL NUCLEARE PULITO
Il futuro energetico e la fusione fredda. La storia e le aspettative di una scoperta controversa destinata a sconvolgere il mondo della fisica e della chimica. Raccontata da uno dei protagonisti, Giuliano Preparata.
Da anni si è alla ricerca di una fonte energetica rinnovabile e non inquinante.
Molte aspettative sono riposte nella possibilità di poter replicare i meccanismi della fusione nucleareche avvengono sul sole. Da dieci anni, però, alcuni scienziati stanno lavorando all’ipotesi di una fusione fredda, che per avvenire, cioé, non abbia bisogno delle condizioni estreme di una stella.
Più di 10 anni fa, precisamente il 23 marzo 1989, una notizia scosse violentemente la comunità scientifica internazionale: in un’infuocata conferenza stampa due chimici dell’Università dello Utah, Martin Fleischmann e Stanley Pons, annunciarono al mondo di aver scoperto una nuova fonte di energia, che battezzarono fusione fredda.
Cos’è la fusione fredda e perché genera tante e violente emozioni fra gli scienziati? Noi tutti siamo debitori alla nostra stella, il sole, della nostra stessa vita, e così tutti gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta. È l’enorme quantità di energia che si sprigiona dal Sole a tenere in vita l’intero ecosistema che, senza di essa, svanirebbe in una desolazione lunare. Come si produce questa energia vivificatrice? È dagli anni della seconda guerra mondiale che la risposta a questa domanda è più o meno nota: Hans Bethe, un fisico tedesco-americano, nei primi anni ‘40 mostrò che una stella come il sole ha al suo interno un “motore a fusione nucleare”, in cui nuclei leggeri come idrogeno (un protone), i suoi isotopi deuterio (un protone e un neutrone) e trizio (un protone e due neutroni) e l’elio-4 (due protoni e due neutroni) si fondono generando nuclei più pesanti instabili che si disintegrano producendo un eccesso di energia. Perché questo può avvenire solo all’interno dei corpi stellari? La ragione è semplice: perché queste reazioni si producano occorre che i nuclei vengano a contatto, ovvero si avvicinino a distanze dell’ordine della loro taglia, cioè un centomillesimo delle dimensioni di un pur minuscolo atomo, il cui raggio è di un centomilionesimo di centimetro! Ma per arrivare a toccarsi i nuclei, che hanno tutti carica positiva, debbono vincere la repulsione elettrostatica che opera fra cariche elettriche eguali, come ci ha insegnato alla fine del XVIII secolo il francese Coulomb. E per superare questa “barriera coulombiana” occorrono le alte temperature e le enormi pressioni che esistono nel centro di una stella. È quindi chiaro che per accedere ad una tale fonte di energia qui sulla Terra occorre riprodurre in un opportuno reattore le condizioni che la natura crea spontaneamente nelle viscere delle stelle. Un compito certamente non facile, se esaminiamo le deludenti vicende e le mostruose spese della fusione calda, che negli ultimi trent’anni è stata tentata in macchine sempre più grandi e costose (come i Tokamak, enormi ciambelle percorse da altissimi campi magnetici) senza alcun successo, nonostante l’enorme impegno di uomini e mezzi finanziari.
Ora, in quella giornata della primavera di dieci anni fa, due chimici mostravano al mondo la anonima provetta (una semplice cella elettrochimica) dove, a loro dire, si erano prodotte le fusioni nucleari che i Tokamak, con le loro enormi temperature, non erano riusciti a indurre. Incredibile, non vi sembra? E per avvalorare le loro asserzioni Fleischmann e Pons mostravano grafici secondo cui nelle semplici reazioni elettrochimiche della loro cella si producevano quantità di calore, che non potevano essere spiegate con le leggi della chimica, lasciando l’ipotesi della fusione nucleare come una delle meno esotiche e più probabili.
L’incredulità della comunità scientifica arrivò ad un livello parossistico quando ai due chimici venne richiesto di mostrare la prova della avvenuta fusione: la fuga dalla cella di un gran numero di neutroni, che accompagna i processi di fusione, dovettero ammettere che, grazie a Dio, non ve n’era traccia, poiché se la fusione fosse avvenuta con le stesse modalità del Tokamak probabilmente non sarebbero stati lì a raccontarne la storia, avendo assorbito una dose di neutroni più che letale. Questo era troppo. Non c’era solo il miracolo dell’attraversamento della “barriera coulombiana” senza le temperature e le pressioni stellari, ma anche quella di una reazione di fusione esotica, mai vista prima.
In importanti laboratori per la fusione calda si montarono in fretta e furia gli esperimenti che Fleischmann e Pons avevano condotto in segreto nel loro garage, e nel giro di qualche settimana si concluse che era tutta una montatura, e che i fenomeni di cui parlavano i due chimici erano un semplice abbaglio, dovuto a tecniche di osservazione rozze se non errate. I fisici furono fra i più feroci critici della fusione fredda, poiché, di fatto, quei fenomeni avrebbero richiesto la riscrittura di gran parte dei libri di testo o della fisica moderna.
Con pressioni così formidabili, per non parlare degli interessi economici dell’industria dell’energia (petrolio, centrali nucleari, ecc.), la fusione fredda venne liquidata in quattro e quattr’otto, spingendo i due chimici e i pochi scienziati curiosi e senza pregiudizi, che desideravano analizzare con rigore cosa esattamente accadeva nelle loro celle elettrolitiche, in un ghetto di cialtroneria e incompetenza, se non di disonestà. Sarà forse interessante per il lettore capire perché un fisico teorico delle particelle, come chi scrive, si trovò all’inizio degli anni ‘90 a condividere con uno sparuto gruppo di scienziati di varie discipline la miseria e le violenze cui furono sottoposti Fleischmann e Pons.
Anch’io, come i miei colleghi fisici, avevo accolto come una burla l’annuncio del 23 marzo 1989, e non conoscendo i due chimici, pensavo che fossero due avventurieri in cerca di un quarto d’ora di celebrità. Grande fu la mia sorpresa quando un collega di facoltà, il noto elettrochimico Sergio Trasatti, mi annunciò che Martin Fleischmann era fra i migliori elettrochimici del mondo, oltre che un rispettato membro della prestigiosa Royal Society inglese. Questa rivelazione fu sufficiente ad aprirmi gli occhi: chi, se non un pazzo, con un tale curriculum, metterebbe a repentaglio gli sforzi di una vita di successi su risultati scientifici dubbi, o peggio fraudolenti? E la pazzia mi pareva ben poco probabile in uno scienziato maturo (Fleischmann aveva appena compiuto 60 anni), la cui vita era stata punteggiata di onori e riconoscimenti. La fusione fredda era probabilmente vera. Ma allora: come rispondere alle sensate, sensatissime obiezioni dei fisici? Questo era il problema.
Per una singolare coincidenza , verso la fine degli anni ‘80 certi sviluppi del mio lavoro di teorico delle particelle mi avevano portato a mettere in questione l’impostazione stessa delle leggi che governavano la materia condensata – liquidi e solidi –, e avevo concluso che dentro la materia avvengono fenomeni che trascendono di gran lunga le aspettative delle teorie generalmente accettate e che i fisici avevano brandito con violenta arroganza contro le affermazioni di Fleischmann e Pons. E già, poiché i fenomeni che si ipotizzava avvenissero nella fusione fredda riguardavano la fusione nucleare dentro un cristallo di palladio (un metallo semiprezioso, detto anche oro bianco), un ambiente in linea di principio ben diverso da quello in cui avviene la fusione in una stella. Si trattava quindi di trovare nuovi meccanismi fisici in grado di spiegare le osservazioni di Fleischmann e Pons, sulla cui realtà non avevo ormai più dubbi.
Insieme ai colleghi Emilio Del Giudice e Tullio Bressani, ci gettammo con decisione in questa impresa e nel giro di due mesi identificammo gli elementi essenziali di questi meccanismi e, nel maggio del 1989, il Nuovo Cimento (la rivista della Società italiana di fisica) pubblicò il nostro lavoro, che con successivi raffinamenti rappresenta l’unica proposta teorica coerente di spiegazione della fusione fredda.
Con gli occhi ben aperti da questi sviluppi teorici ho potuto seguire con attenzione e senza pregiudizi l’evoluzione di questa linea di ricerca e di quanto successo dal 1989.
I leader, Fleischmann e Pons, cacciati dallo Utah si sono trovati all’inizio degli anni ‘90 nel sud della Francia, a Sophia Antipolis (un parco scientifico nei pressi di Nizza) finanziati dall’Imra, una società del gruppo Toyota. Il vecchio Signor Toyota, fondatore del gruppo, si era infatti convinto della bontà delle ricerche sulla fusione fredda. Purtroppo nel ‘93 il patriarca giapponese morì e nel giro di un paio d’anni anche il laboratorio di Sophia Antipolis fu disintegrato, non senza fornire ulteriori, importanti prove della validità e della realtà della fusione fredda.
La ragione di questo successo scientifico e fallimento organizzativo, a mio avviso, va ricercata nella grande ostilità francese a questa linea di ricerca (ricordiamoci che la Francia ha fatto enormi investimenti nel campo della fissione nucleare) e nell’atteggiamento molto ambiguo in questa linea di ricerche, assunto dai giapponesi, che pur avendo investito una certa quantità di denaro pubblico nella fusione fredda, non sembravano essere venuti a capo di nulla, abbandonando questo programma sulla base di ricerche che appaiono spesso come volutamente incompetenti.
È di questo periodo il mio sodalizio, rafforzatosi con il tempo, con Martin Fleischmann che mi fruttò, nell’estate del 1993, un’osservazione importante su certi esperimenti che Martin stava allora compiendo su fili di palladio ripieni di atomi di deuterio. Da certi strani comportamenti che si osservavano, mediante la teoria già sviluppata dedussi la possibilità di aumentare di gran lunga la densità di deuterio nel palladio, amplificando così notevolmente l’efficienza energetica della fusione fredda. In Italia trovai interesse su queste idee dapprima da parte della Fiat e della Edison, che decisero di installare un laboratorio a Torino, che per ragioni a me ignote, durò poco. In seguito la Edison mi propose di allestire un laboratorio a Macherio (dalle parti di Monza) che funzionò bene per alcuni mesi. Ma anche questa impresa fallì per gravi incomprensioni con il “management”. Sembra proprio che ci sia una sorte di “maledizione” sulla fusione fredda!
Da ultimo, con capitali privati, riuscii a far funzionare un laboratorio a Milano (Laboratorio di elettrodinamica avanzata, Leda) per due anni (1996-1997) con risultati molto lusinghieri e con il conseguimento di un brevetto internazionale sul nuovo metodo di caricamento di deuterio nel palladio (effetto Cöhn-Aharonov).
Per terminare questa breve storia, occorre ricordare che per interessamento del deputato Massimo Scalia, con la solidarietà del gruppo dirigente dei Verdi italiani, sta per partire a Frascati un iniziativa comune Enea-Leda dove speriamo di realizzare la grande promessa della ricerca di questi dieci anni.
Per quanto riguarda il resto del mondo, in questi dieci anni si sono tenute sette conferenze internazionali, dove sono stati presentati centinaia di lavori sperimentali che confermano completamente quelli di Fleischmann e Pons. Non solo, ma attraverso un’analisi delle “ceneri” della reazione, in particolare l’elio-4, si è stabilito che si tratta di fusione nucleare secondo il meccanismo ipotizzato. Come si è detto il programma giapponese è stato chiuso, ma molti ricercatori del sol levante continuano a produrre esiti interessanti. In Italia pregevoli risultati sono stati ottenuti da Scaramuzzi, De Ninno e Violante dell’Enea di Frascati e da Gozzi dell’Univesità La Sapienza di Roma. Insomma, nonostante le affermazioni sarcastiche e totalmente prive di fondamento degli esponenti della “scienza ufficiale”, la fusione fredda è viva più che mai!
Giuliano Preparata è professore ordinario di Teoria
delle interazioni subnucleari all’Università di Milano.

Dalla fusione nucleare ai robottini che sbrigano per noi le incombenze domestiche, ecco cosa bolle in pentola nell'Università americana dove il domani è già oggi.
La scienza della levitazione. Dall'osservazione dei campi magnetici di Giove è nata l'idea per un un reattore a fusione semplice, piccolo, potente ed economico. Nasce così LDX, la "zucca nucleare" E' semplice quanto rivoluzionaria l'idea che Jay Kesner, ricercatore dell'Istituto di Fisica del MIT, illustra presentando LDX, ovvero Levitated Dipole Experiment (esperimento di levitazione dipolare), un dispositivo per la fusione termonucleare che sembra una zucca d'acciaio. LDX è, dopo 30 anni di ricerca, un possibile sostituto dei complessi, costosi e giganteschi Tokamak, gli attuali dispositivi di fusione a confinamento magnetico a forma di ciambella. In queste macchine si riesce a generare energia portando un gas ionizzato ad altissime temperature, cioè allo stato di plasma, e sottoponendolo a una fortissima compressione. Il fine è riprodurre le reazioni che avvengono nel Sole dove, grazie alle alte temperature e alla pressione di elevati campi gravitazionali, i nuclei del gas idrogeno fondono formando elio e generando energia. I Tokamak comprimono il plasma "spingendolo" verso l'interno della ciambella, mentre nell'LDX il plasma viene confinato in una sorta di "ciambella virtuale", creata soltanto da un campo magnetico dipolare, come quello dei pianeti. Proprio osservando come il campo magnetico di Giove intrappola il gas ionizzato proveniente dal Sole, infatti, è nata l'idea dell'LDX. Fisicamente, l'LDX è un serbatoio sottovuoto, alto tre metri e dal diametro di cinque, al cui interno si trova una bobina di niobio (elemento chimico usato per speciali leghe) avvolta ad anello che pesa circa 500 chili. La bobina riesce a confinare il plasma grazie al campo magnetico che genera, senza bisogno di strutture come nei Tokamak. L'anello viene introdotto nella "zucca" e raffreddato a -268 °C (affinché il niobio diventi superconduttore). Viene quindi fatta passare la corrente nella bobina e una gru la solleva sino a un metro e mezzo. A questo punto viene acceso un magnete sul soffitto del serbatoio, che genera un campo magnetico, debole per non interferire con quello dell'anello, ma abbastanza forte da sollevare la bobina sino al centro della struttura. La "levitazione" dura otto ore, dopo di che l'anello si riscalda e dev'essere nuovamente raffreddato. Il sistema consente di controllare il plasma in maniera più semplice, con dispositivi più piccoli e con campi magnetici inferiori a quelli dei Tokamak. Una centrifuga in orbita. Il sogno di una missione umana verso Marte diventa sempre più reale. Ecco cos'hanno inventato al MIT per allenarsi a vivere in una navicella che gira come una giostra. Uno dei problemi più grandi legati alla possibilità di una missione umana su Marte è la sua durata (almeno tre anni) e i danni fisici che possono subire gli astronauti a causa dell'assenza di gravità. Le soluzioni tradizionalmente adottate per ridurre gli effetti di una prolungata assenza di peso si sono concentrate in particolare sull'abbigliamento, con tute speciali che si gonfiano con una pressione graduata in modo da aiutare la circolazione sanguigna. Oltre a essere scomoda e a limitare molto la mobilità degli astronauti, la tuta allevia i sintomi fisici della 0 G (gravità zero) ma non ne rimuove le cause e, soprattutto, non interviene su tutti gli altri organi e tessuti (cuore, ossa, muscoli) che subiscono gli effetti collaterali della mancanza di gravità. La Nasa sta sperimentando sulla Terra una astronave rotante (o comunque una zona al suo interno) che produca una gravità artificiale. Ma i primi esperimenti sono stati devastanti per l'equipaggio, non abituato a tollerare brusche variazioni di gravità. La "mini-centrifuga" ideata nei laboratori del MIT ha proprio questo scopo: allenare il corpo a sopportare la "sindrome da adattamento nello spazio": i disturbi motori e i falsi stimoli sensoriali che gli astronauti provano sulla propria pelle ogni volta che passano da un ambiente a 0 G a uno con gravità artificiale. "Immaginate di essere distesi su un letto che pian piano comincia a ruotare a velocità costante", spiega Heiko Hecht, uno degli ideatori. "Provate a tenere la testa immobile, non sentirete alcun fastidio. Ora girate la testa: comincerete a sentire strani effetti, come se vi muoveste a spirale verso l'esterno. I vostri arti non risponderanno più e avrete come l'impressione di essere tirati in varie direzioni. È colpa delle forze di Coriolis e dei falsi segnali che arrivano dai canali dell'orecchio da cui dipende l'equilibrio. Bene, se foste degli astronauti dovreste imparare a muovervi, lavorare, mangiare e dormire in queste condizioni. Insomma questa sarebbe la vostra vita quotidiana, da alternare ai "voletti" da una parte all'altra dell'astronave nelle zone a gravità zero". Gli allenamenti nella centrifuga servono a capire i limiti di tolleranza e le capacità di adattamento del corpo e il via libera al volo su Marte potrebbe venire proprio dal lavoro di Hecht . Il medico a portata di dito Può un gioiello prendersi cura della nostra salute? Sì, purché sia l'anello-sensore che tiene sotto controllo il lavoro del cuore e la qualità della nostra linfa vitale: il sangue. Nei laboratori d'Arbeloff, la fucina del MIT dove vengono realizzati nuovi dispositivi elettronici e informatici, il futuro della medicina passa attraverso un chip e un'antenna radio. Almeno di questo sono convinti i ricercatori del gruppo di Harry Asada che stanno mettendo a punto una serie di minuscoli apparecchi per tenere sotto controllo la salute ventiquattro ore su ventiquattro. Tra i più interessanti frutti delle ricerche c'è un anello salvavita, il "ring-sensor". All'apparenza sembra un comune anello (magari dalla forma un po' vistosa), ma al suo interno racchiude un circuito elettronico, una CPU (come quelle dei computer), due fotodiodi e una serie di led che tengono sotto controllo in ogni istante il battito cardiaco, la quantità di sangue che arriva agli organi del corpo e la sua qualità, ovvero il carico di ossigeno che trasporta alle cellule. "Il nostro scopo è quello di creare apparecchi non invasivi, cioè che non diano l'impressione al paziente di essere "attaccato a una macchina"", spiega Phillip Shaltis, l'ingegnere che si occupa della messa a punto del dispositivo, "e l'anello è stato una scelta immediata. Primo, perché è uno degli oggetti che in genere si indossano di continuo, anche di notte; secondo, perché la pelle alla base del dito è molto più sottile, facilitando il controllo delle arterie con sensori optoelettronici". Tecnicamente l'anello combina due tipi di analisi: la fotopletismografia (il pletismografo è un dispositivo che misura le variazioni di dimensione di una parte del corpo analizzando i cambiamenti della quantità di sangue che irrora la parte in esame) e la pulsiossimetria (misurazione della frequenza cardiaca e della saturazione d'ossigeno, vedi Newton n° 3/2001, pagina 24). I dati raccolti vengono inviati tramite una microantenna al computer, al palmare e persino al telefono cellulare del medico o del centro di pronto soccorso, che può intervenire in tempo reale in caso d'allarme anche se il paziente non ha ancora avvertito nessun sintomo. "Ma non basta" conclude Phillip Shaltis. "Il ring-sensor permette anche di tarare esattamente il dosaggio dei farmaci in base alle esigenze del paziente, il che è di fondamentale importanza soprattutto nei casi di malattie croniche". Formiche hi-tech I primi colonizzatori di altri pianeti potrebbero essere una tribù di formiche, gli specialissimi insetti elettronici nati nel Laboratorio di Intelligenza artificiale del MIT. Dalla mente dello studente James McLurkin ai progetti del laureando McLurkin, alle scrivanie degli ingegneri della Nasa: ne hanno fatta di strada questi cubetti, grandi appena 2,5 centimetri, capaci di muoversi e interagire tra loro e con il mondo che li circonda. "Cercavo un'idea per la tesi di laurea", racconta McLurkin "e il mio professore mi propose una sfida: creare una comunità di robot. Immediatamente pensai alle formiche, esseri minuscoli eppure capaci di creare vere "città" con una struttura sociale e di comunicare fra loro attraverso feromoni, messaggeri chimici. Le mie formiche utilizzano luci e impulsi radio invece dei feromoni, ma il risultato è lo stesso: parlano tra loro e agiscono secondo una strategia di gruppo". Le formiche elettroniche si muovono su ogni superficie grazie alle ruote cingolate. Il loro cervello è stato realizzato utilizzando una nuova tecnica di incisione 3D per inserire sul minuscolo microprocessore i sistemi di controllo di ben 17 sensori, ciascuno dei quali comunica sia con il proprio cervello elettronico sia con quelli delle altre formiche. Il sensore di carica (le formiche funzionano con una pila ricaricabile al nichel-cadmio da 2,4 volt), per esempio, è collegato a un led che col variare della luminosità, comunica lo stato di "stanchezza" del robottino (ovvero la carica della pila). I sensori di urto, invece, servono a riconoscere gli oggetti che si incontrano durante il cammino, e quelli per il nutrimento sono in grado di valutare se si tratta di semplici ostacoli, che quindi vanno aggirati o di cibo, che va recuperato chiamando in rinforzo tutte le altre formiche. "I parametri da controllare e la scelta della funzione da attivare è un lavoro talmente complesso", spiega McLurkin, "che il software di ciascun robot è composto da tanti piccoli programmi o "comportamenti", ciascuno dei quali comanda massimo due sensori e prende le relative decisioni". E le applicazioni? "Quella che mi affascina di più è l'esplorazione spaziale", conclude lo scienziato. "Un semplice zainetto può contenere una colonia di centinaia di formiche e ciascuna di esse potrebbe portare a casa tanti bei bocconcini di terreno marziano, per esempio. Un vero pasto da gourmet per gli scienziati". Un alter ego d'acciaio. Dai laboratori ai salotti: ecco iRobot, il primo robot che, attraverso Internet, fa la spesa, controlla la sicurezza di casa, bambini, anziani, animali domestici e... Avete mai sognato come sarebbe la vita se il vostro computer fosse davvero intelligente? Se si potesse muovere, grazie a Internet, in giro per casa o dove vi pare per eseguire i vostri ordini? Se fosse in grado di guardare, ascoltare, parlare e agire al posto vostro? Insomma vi piacerebbe avere un alter ego fatto di chip, viti e bulloni? Ancora pochi mesi di pazienza e dalla fine di quest'anno (negli Stati Uniti) o al più tardi dalla prossima primavera (in Europa) potrete avere in casa iRobot, quella specie di giraffino che vedete immortalato qui sopra. è un progetto nato in collaborazione tra gli Istituti di Robotica e di Intelligenza artificiale del MIT e la iRobot, un'azienda americana specializzata in "avatar" ovvero in identità umane virtuali. L'intelligenza (e anche la fascia di prezzo a cui sarà venduto) è data da un comune processore di ultima generazione e una serie di software (il sistema base è Linux) tra cui anche uno per la gestione in automatico degli acquisti su siti di commercio elettronico. Grazie alla videocamera digitale che costituisce gli occhi di iRobot, sarà così possibile, per esempio, inviare il robottino in "missione" nella dispensa e, scoperti gli ingredienti che mancano, ordinargli di acquistarli on-line. Il tutto mentre siete al lavoro o in vacanza. Con la webcam ad alta definizione iRobot si trasforma anche in un "vigilantes privato" ai cui occhi nessun intruso sfugge o in "baby sitter hi-tech", per controllare i bambini che giocano o dormono in un'altra stanza. Ma non basta ancora. Gli arti meccanici di iRobot gli consentono anche di prendersi cura degli animali domestici che restano soli in casa, versando il cibo nelle vaschette e addirittura facendo loro qualche carezza. Il sistema di cingoli gli permette di muoversi su qualsiasi superficie, anche di salire le scale, e i software di gestione della posta elettronica e delle telefonate via Internet lo rendono molto utile anche per l'assistenza alle persone anziane. Oltre a far loro compagnia con i giochi e il frasario che il robot man mano impara, iRobot è anche in grado di controllare alcuni parametri medici (battito cardiaco e pressione, per esempio) e chiamare numeri di emergenza memorizzati.

IL NUCLEARE PULITO
Il futuro energetico e la fusione fredda. La storia e le aspettative di una scoperta controversa destinata a sconvolgere il mondo della fisica e della chimica. Raccontata da uno dei protagonisti, Giuliano Preparata.
Da anni si è alla ricerca di una fonte energetica rinnovabile e non inquinante.
Molte aspettative sono riposte nella possibilità di poter replicare i meccanismi della fusione nucleareche avvengono sul sole. Da dieci anni, però, alcuni scienziati stanno lavorando all’ipotesi di una fusione fredda, che per avvenire, cioé, non abbia bisogno delle condizioni estreme di una stella.
Più di 10 anni fa, precisamente il 23 marzo 1989, una notizia scosse violentemente la comunità scientifica internazionale: in un’infuocata conferenza stampa due chimici dell’Università dello Utah, Martin Fleischmann e Stanley Pons, annunciarono al mondo di aver scoperto una nuova fonte di energia, che battezzarono fusione fredda.
Cos’è la fusione fredda e perché genera tante e violente emozioni fra gli scienziati? Noi tutti siamo debitori alla nostra stella, il sole, della nostra stessa vita, e così tutti gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta. È l’enorme quantità di energia che si sprigiona dal Sole a tenere in vita l’intero ecosistema che, senza di essa, svanirebbe in una desolazione lunare. Come si produce questa energia vivificatrice? È dagli anni della seconda guerra mondiale che la risposta a questa domanda è più o meno nota: Hans Bethe, un fisico tedesco-americano, nei primi anni ‘40 mostrò che una stella come il sole ha al suo interno un “motore a fusione nucleare”, in cui nuclei leggeri come idrogeno (un protone), i suoi isotopi deuterio (un protone e un neutrone) e trizio (un protone e due neutroni) e l’elio-4 (due protoni e due neutroni) si fondono generando nuclei più pesanti instabili che si disintegrano producendo un eccesso di energia. Perché questo può avvenire solo all’interno dei corpi stellari? La ragione è semplice: perché queste reazioni si producano occorre che i nuclei vengano a contatto, ovvero si avvicinino a distanze dell’ordine della loro taglia, cioè un centomillesimo delle dimensioni di un pur minuscolo atomo, il cui raggio è di un centomilionesimo di centimetro! Ma per arrivare a toccarsi i nuclei, che hanno tutti carica positiva, debbono vincere la repulsione elettrostatica che opera fra cariche elettriche eguali, come ci ha insegnato alla fine del XVIII secolo il francese Coulomb. E per superare questa “barriera coulombiana” occorrono le alte temperature e le enormi pressioni che esistono nel centro di una stella. È quindi chiaro che per accedere ad una tale fonte di energia qui sulla Terra occorre riprodurre in un opportuno reattore le condizioni che la natura crea spontaneamente nelle viscere delle stelle. Un compito certamente non facile, se esaminiamo le deludenti vicende e le mostruose spese della fusione calda, che negli ultimi trent’anni è stata tentata in macchine sempre più grandi e costose (come i Tokamak, enormi ciambelle percorse da altissimi campi magnetici) senza alcun successo, nonostante l’enorme impegno di uomini e mezzi finanziari.
Ora, in quella giornata della primavera di dieci anni fa, due chimici mostravano al mondo la anonima provetta (una semplice cella elettrochimica) dove, a loro dire, si erano prodotte le fusioni nucleari che i Tokamak, con le loro enormi temperature, non erano riusciti a indurre. Incredibile, non vi sembra? E per avvalorare le loro asserzioni Fleischmann e Pons mostravano grafici secondo cui nelle semplici reazioni elettrochimiche della loro cella si producevano quantità di calore, che non potevano essere spiegate con le leggi della chimica, lasciando l’ipotesi della fusione nucleare come una delle meno esotiche e più probabili.
L’incredulità della comunità scientifica arrivò ad un livello parossistico quando ai due chimici venne richiesto di mostrare la prova della avvenuta fusione: la fuga dalla cella di un gran numero di neutroni, che accompagna i processi di fusione, dovettero ammettere che, grazie a Dio, non ve n’era traccia, poiché se la fusione fosse avvenuta con le stesse modalità del Tokamak probabilmente non sarebbero stati lì a raccontarne la storia, avendo assorbito una dose di neutroni più che letale. Questo era troppo. Non c’era solo il miracolo dell’attraversamento della “barriera coulombiana” senza le temperature e le pressioni stellari, ma anche quella di una reazione di fusione esotica, mai vista prima.
In importanti laboratori per la fusione calda si montarono in fretta e furia gli esperimenti che Fleischmann e Pons avevano condotto in segreto nel loro garage, e nel giro di qualche settimana si concluse che era tutta una montatura, e che i fenomeni di cui parlavano i due chimici erano un semplice abbaglio, dovuto a tecniche di osservazione rozze se non errate. I fisici furono fra i più feroci critici della fusione fredda, poiché, di fatto, quei fenomeni avrebbero richiesto la riscrittura di gran parte dei libri di testo o della fisica moderna.
Con pressioni così formidabili, per non parlare degli interessi economici dell’industria dell’energia (petrolio, centrali nucleari, ecc.), la fusione fredda venne liquidata in quattro e quattr’otto, spingendo i due chimici e i pochi scienziati curiosi e senza pregiudizi, che desideravano analizzare con rigore cosa esattamente accadeva nelle loro celle elettrolitiche, in un ghetto di cialtroneria e incompetenza, se non di disonestà. Sarà forse interessante per il lettore capire perché un fisico teorico delle particelle, come chi scrive, si trovò all’inizio degli anni ‘90 a condividere con uno sparuto gruppo di scienziati di varie discipline la miseria e le violenze cui furono sottoposti Fleischmann e Pons.
Anch’io, come i miei colleghi fisici, avevo accolto come una burla l’annuncio del 23 marzo 1989, e non conoscendo i due chimici, pensavo che fossero due avventurieri in cerca di un quarto d’ora di celebrità. Grande fu la mia sorpresa quando un collega di facoltà, il noto elettrochimico Sergio Trasatti, mi annunciò che Martin Fleischmann era fra i migliori elettrochimici del mondo, oltre che un rispettato membro della prestigiosa Royal Society inglese. Questa rivelazione fu sufficiente ad aprirmi gli occhi: chi, se non un pazzo, con un tale curriculum, metterebbe a repentaglio gli sforzi di una vita di successi su risultati scientifici dubbi, o peggio fraudolenti? E la pazzia mi pareva ben poco probabile in uno scienziato maturo (Fleischmann aveva appena compiuto 60 anni), la cui vita era stata punteggiata di onori e riconoscimenti. La fusione fredda era probabilmente vera. Ma allora: come rispondere alle sensate, sensatissime obiezioni dei fisici? Questo era il problema.
Per una singolare coincidenza , verso la fine degli anni ‘80 certi sviluppi del mio lavoro di teorico delle particelle mi avevano portato a mettere in questione l’impostazione stessa delle leggi che governavano la materia condensata – liquidi e solidi –, e avevo concluso che dentro la materia avvengono fenomeni che trascendono di gran lunga le aspettative delle teorie generalmente accettate e che i fisici avevano brandito con violenta arroganza contro le affermazioni di Fleischmann e Pons. E già, poiché i fenomeni che si ipotizzava avvenissero nella fusione fredda riguardavano la fusione nucleare dentro un cristallo di palladio (un metallo semiprezioso, detto anche oro bianco), un ambiente in linea di principio ben diverso da quello in cui avviene la fusione in una stella. Si trattava quindi di trovare nuovi meccanismi fisici in grado di spiegare le osservazioni di Fleischmann e Pons, sulla cui realtà non avevo ormai più dubbi.
Insieme ai colleghi Emilio Del Giudice e Tullio Bressani, ci gettammo con decisione in questa impresa e nel giro di due mesi identificammo gli elementi essenziali di questi meccanismi e, nel maggio del 1989, il Nuovo Cimento (la rivista della Società italiana di fisica) pubblicò il nostro lavoro, che con successivi raffinamenti rappresenta l’unica proposta teorica coerente di spiegazione della fusione fredda.
Con gli occhi ben aperti da questi sviluppi teorici ho potuto seguire con attenzione e senza pregiudizi l’evoluzione di questa linea di ricerca e di quanto successo dal 1989.
I leader, Fleischmann e Pons, cacciati dallo Utah si sono trovati all’inizio degli anni ‘90 nel sud della Francia, a Sophia Antipolis (un parco scientifico nei pressi di Nizza) finanziati dall’Imra, una società del gruppo Toyota. Il vecchio Signor Toyota, fondatore del gruppo, si era infatti convinto della bontà delle ricerche sulla fusione fredda. Purtroppo nel ‘93 il patriarca giapponese morì e nel giro di un paio d’anni anche il laboratorio di Sophia Antipolis fu disintegrato, non senza fornire ulteriori, importanti prove della validità e della realtà della fusione fredda.
La ragione di questo successo scientifico e fallimento organizzativo, a mio avviso, va ricercata nella grande ostilità francese a questa linea di ricerca (ricordiamoci che la Francia ha fatto enormi investimenti nel campo della fissione nucleare) e nell’atteggiamento molto ambiguo in questa linea di ricerche, assunto dai giapponesi, che pur avendo investito una certa quantità di denaro pubblico nella fusione fredda, non sembravano essere venuti a capo di nulla, abbandonando questo programma sulla base di ricerche che appaiono spesso come volutamente incompetenti.
È di questo periodo il mio sodalizio, rafforzatosi con il tempo, con Martin Fleischmann che mi fruttò, nell’estate del 1993, un’osservazione importante su certi esperimenti che Martin stava allora compiendo su fili di palladio ripieni di atomi di deuterio. Da certi strani comportamenti che si osservavano, mediante la teoria già sviluppata dedussi la possibilità di aumentare di gran lunga la densità di deuterio nel palladio, amplificando così notevolmente l’efficienza energetica della fusione fredda. In Italia trovai interesse su queste idee dapprima da parte della Fiat e della Edison, che decisero di installare un laboratorio a Torino, che per ragioni a me ignote, durò poco. In seguito la Edison mi propose di allestire un laboratorio a Macherio (dalle parti di Monza) che funzionò bene per alcuni mesi. Ma anche questa impresa fallì per gravi incomprensioni con il “management”. Sembra proprio che ci sia una sorte di “maledizione” sulla fusione fredda!
Da ultimo, con capitali privati, riuscii a far funzionare un laboratorio a Milano (Laboratorio di elettrodinamica avanzata, Leda) per due anni (1996-1997) con risultati molto lusinghieri e con il conseguimento di un brevetto internazionale sul nuovo metodo di caricamento di deuterio nel palladio (effetto Cöhn-Aharonov).
Per terminare questa breve storia, occorre ricordare che per interessamento del deputato Massimo Scalia, con la solidarietà del gruppo dirigente dei Verdi italiani, sta per partire a Frascati un iniziativa comune Enea-Leda dove speriamo di realizzare la grande promessa della ricerca di questi dieci anni.
Per quanto riguarda il resto del mondo, in questi dieci anni si sono tenute sette conferenze internazionali, dove sono stati presentati centinaia di lavori sperimentali che confermano completamente quelli di Fleischmann e Pons. Non solo, ma attraverso un’analisi delle “ceneri” della reazione, in particolare l’elio-4, si è stabilito che si tratta di fusione nucleare secondo il meccanismo ipotizzato. Come si è detto il programma giapponese è stato chiuso, ma molti ricercatori del sol levante continuano a produrre esiti interessanti. In Italia pregevoli risultati sono stati ottenuti da Scaramuzzi, De Ninno e Violante dell’Enea di Frascati e da Gozzi dell’Univesità La Sapienza di Roma. Insomma, nonostante le affermazioni sarcastiche e totalmente prive di fondamento degli esponenti della “scienza ufficiale”, la fusione fredda è viva più che mai!
Giuliano Preparata è professore ordinario di Teoria
delle interazioni subnucleari all’Università di Milano.

Dalla fusione nucleare ai robottini che sbrigano per noi le incombenze domestiche, ecco cosa bolle in pentola nell'Università americana dove il domani è già oggi.
La scienza della levitazione. Dall'osservazione dei campi magnetici di Giove è nata l'idea per un un reattore a fusione semplice, piccolo, potente ed economico. Nasce così LDX, la "zucca nucleare" E' semplice quanto rivoluzionaria l'idea che Jay Kesner, ricercatore dell'Istituto di Fisica del MIT, illustra presentando LDX, ovvero Levitated Dipole Experiment (esperimento di levitazione dipolare), un dispositivo per la fusione termonucleare che sembra una zucca d'acciaio. LDX è, dopo 30 anni di ricerca, un possibile sostituto dei complessi, costosi e giganteschi Tokamak, gli attuali dispositivi di fusione a confinamento magnetico a forma di ciambella. In queste macchine si riesce a generare energia portando un gas ionizzato ad altissime temperature, cioè allo stato di plasma, e sottoponendolo a una fortissima compressione. Il fine è riprodurre le reazioni che avvengono nel Sole dove, grazie alle alte temperature e alla pressione di elevati campi gravitazionali, i nuclei del gas idrogeno fondono formando elio e generando energia. I Tokamak comprimono il plasma "spingendolo" verso l'interno della ciambella, mentre nell'LDX il plasma viene confinato in una sorta di "ciambella virtuale", creata soltanto da un campo magnetico dipolare, come quello dei pianeti. Proprio osservando come il campo magnetico di Giove intrappola il gas ionizzato proveniente dal Sole, infatti, è nata l'idea dell'LDX. Fisicamente, l'LDX è un serbatoio sottovuoto, alto tre metri e dal diametro di cinque, al cui interno si trova una bobina di niobio (elemento chimico usato per speciali leghe) avvolta ad anello che pesa circa 500 chili. La bobina riesce a confinare il plasma grazie al campo magnetico che genera, senza bisogno di strutture come nei Tokamak. L'anello viene introdotto nella "zucca" e raffreddato a -268 °C (affinché il niobio diventi superconduttore). Viene quindi fatta passare la corrente nella bobina e una gru la solleva sino a un metro e mezzo. A questo punto viene acceso un magnete sul soffitto del serbatoio, che genera un campo magnetico, debole per non interferire con quello dell'anello, ma abbastanza forte da sollevare la bobina sino al centro della struttura. La "levitazione" dura otto ore, dopo di che l'anello si riscalda e dev'essere nuovamente raffreddato. Il sistema consente di controllare il plasma in maniera più semplice, con dispositivi più piccoli e con campi magnetici inferiori a quelli dei Tokamak. Una centrifuga in orbita. Il sogno di una missione umana verso Marte diventa sempre più reale. Ecco cos'hanno inventato al MIT per allenarsi a vivere in una navicella che gira come una giostra. Uno dei problemi più grandi legati alla possibilità di una missione umana su Marte è la sua durata (almeno tre anni) e i danni fisici che possono subire gli astronauti a causa dell'assenza di gravità. Le soluzioni tradizionalmente adottate per ridurre gli effetti di una prolungata assenza di peso si sono concentrate in particolare sull'abbigliamento, con tute speciali che si gonfiano con una pressione graduata in modo da aiutare la circolazione sanguigna. Oltre a essere scomoda e a limitare molto la mobilità degli astronauti, la tuta allevia i sintomi fisici della 0 G (gravità zero) ma non ne rimuove le cause e, soprattutto, non interviene su tutti gli altri organi e tessuti (cuore, ossa, muscoli) che subiscono gli effetti collaterali della mancanza di gravità. La Nasa sta sperimentando sulla Terra una astronave rotante (o comunque una zona al suo interno) che produca una gravità artificiale. Ma i primi esperimenti sono stati devastanti per l'equipaggio, non abituato a tollerare brusche variazioni di gravità. La "mini-centrifuga" ideata nei laboratori del MIT ha proprio questo scopo: allenare il corpo a sopportare la "sindrome da adattamento nello spazio": i disturbi motori e i falsi stimoli sensoriali che gli astronauti provano sulla propria pelle ogni volta che passano da un ambiente a 0 G a uno con gravità artificiale. "Immaginate di essere distesi su un letto che pian piano comincia a ruotare a velocità costante", spiega Heiko Hecht, uno degli ideatori. "Provate a tenere la testa immobile, non sentirete alcun fastidio. Ora girate la testa: comincerete a sentire strani effetti, come se vi muoveste a spirale verso l'esterno. I vostri arti non risponderanno più e avrete come l'impressione di essere tirati in varie direzioni. È colpa delle forze di Coriolis e dei falsi segnali che arrivano dai canali dell'orecchio da cui dipende l'equilibrio. Bene, se foste degli astronauti dovreste imparare a muovervi, lavorare, mangiare e dormire in queste condizioni. Insomma questa sarebbe la vostra vita quotidiana, da alternare ai "voletti" da una parte all'altra dell'astronave nelle zone a gravità zero". Gli allenamenti nella centrifuga servono a capire i limiti di tolleranza e le capacità di adattamento del corpo e il via libera al volo su Marte potrebbe venire proprio dal lavoro di Hecht . Il medico a portata di dito Può un gioiello prendersi cura della nostra salute? Sì, purché sia l'anello-sensore che tiene sotto controllo il lavoro del cuore e la qualità della nostra linfa vitale: il sangue. Nei laboratori d'Arbeloff, la fucina del MIT dove vengono realizzati nuovi dispositivi elettronici e informatici, il futuro della medicina passa attraverso un chip e un'antenna radio. Almeno di questo sono convinti i ricercatori del gruppo di Harry Asada che stanno mettendo a punto una serie di minuscoli apparecchi per tenere sotto controllo la salute ventiquattro ore su ventiquattro. Tra i più interessanti frutti delle ricerche c'è un anello salvavita, il "ring-sensor". All'apparenza sembra un comune anello (magari dalla forma un po' vistosa), ma al suo interno racchiude un circuito elettronico, una CPU (come quelle dei computer), due fotodiodi e una serie di led che tengono sotto controllo in ogni istante il battito cardiaco, la quantità di sangue che arriva agli organi del corpo e la sua qualità, ovvero il carico di ossigeno che trasporta alle cellule. "Il nostro scopo è quello di creare apparecchi non invasivi, cioè che non diano l'impressione al paziente di essere "attaccato a una macchina"", spiega Phillip Shaltis, l'ingegnere che si occupa della messa a punto del dispositivo, "e l'anello è stato una scelta immediata. Primo, perché è uno degli oggetti che in genere si indossano di continuo, anche di notte; secondo, perché la pelle alla base del dito è molto più sottile, facilitando il controllo delle arterie con sensori optoelettronici". Tecnicamente l'anello combina due tipi di analisi: la fotopletismografia (il pletismografo è un dispositivo che misura le variazioni di dimensione di una parte del corpo analizzando i cambiamenti della quantità di sangue che irrora la parte in esame) e la pulsiossimetria (misurazione della frequenza cardiaca e della saturazione d'ossigeno, vedi Newton n° 3/2001, pagina 24). I dati raccolti vengono inviati tramite una microantenna al computer, al palmare e persino al telefono cellulare del medico o del centro di pronto soccorso, che può intervenire in tempo reale in caso d'allarme anche se il paziente non ha ancora avvertito nessun sintomo. "Ma non basta" conclude Phillip Shaltis. "Il ring-sensor permette anche di tarare esattamente il dosaggio dei farmaci in base alle esigenze del paziente, il che è di fondamentale importanza soprattutto nei casi di malattie croniche". Formiche hi-tech I primi colonizzatori di altri pianeti potrebbero essere una tribù di formiche, gli specialissimi insetti elettronici nati nel Laboratorio di Intelligenza artificiale del MIT. Dalla mente dello studente James McLurkin ai progetti del laureando McLurkin, alle scrivanie degli ingegneri della Nasa: ne hanno fatta di strada questi cubetti, grandi appena 2,5 centimetri, capaci di muoversi e interagire tra loro e con il mondo che li circonda. "Cercavo un'idea per la tesi di laurea", racconta McLurkin "e il mio professore mi propose una sfida: creare una comunità di robot. Immediatamente pensai alle formiche, esseri minuscoli eppure capaci di creare vere "città" con una struttura sociale e di comunicare fra loro attraverso feromoni, messaggeri chimici. Le mie formiche utilizzano luci e impulsi radio invece dei feromoni, ma il risultato è lo stesso: parlano tra loro e agiscono secondo una strategia di gruppo". Le formiche elettroniche si muovono su ogni superficie grazie alle ruote cingolate. Il loro cervello è stato realizzato utilizzando una nuova tecnica di incisione 3D per inserire sul minuscolo microprocessore i sistemi di controllo di ben 17 sensori, ciascuno dei quali comunica sia con il proprio cervello elettronico sia con quelli delle altre formiche. Il sensore di carica (le formiche funzionano con una pila ricaricabile al nichel-cadmio da 2,4 volt), per esempio, è collegato a un led che col variare della luminosità, comunica lo stato di "stanchezza" del robottino (ovvero la carica della pila). I sensori di urto, invece, servono a riconoscere gli oggetti che si incontrano durante il cammino, e quelli per il nutrimento sono in grado di valutare se si tratta di semplici ostacoli, che quindi vanno aggirati o di cibo, che va recuperato chiamando in rinforzo tutte le altre formiche. "I parametri da controllare e la scelta della funzione da attivare è un lavoro talmente complesso", spiega McLurkin, "che il software di ciascun robot è composto da tanti piccoli programmi o "comportamenti", ciascuno dei quali comanda massimo due sensori e prende le relative decisioni". E le applicazioni? "Quella che mi affascina di più è l'esplorazione spaziale", conclude lo scienziato. "Un semplice zainetto può contenere una colonia di centinaia di formiche e ciascuna di esse potrebbe portare a casa tanti bei bocconcini di terreno marziano, per esempio. Un vero pasto da gourmet per gli scienziati". Un alter ego d'acciaio. Dai laboratori ai salotti: ecco iRobot, il primo robot che, attraverso Internet, fa la spesa, controlla la sicurezza di casa, bambini, anziani, animali domestici e... Avete mai sognato come sarebbe la vita se il vostro computer fosse davvero intelligente? Se si potesse muovere, grazie a Internet, in giro per casa o dove vi pare per eseguire i vostri ordini? Se fosse in grado di guardare, ascoltare, parlare e agire al posto vostro? Insomma vi piacerebbe avere un alter ego fatto di chip, viti e bulloni? Ancora pochi mesi di pazienza e dalla fine di quest'anno (negli Stati Uniti) o al più tardi dalla prossima primavera (in Europa) potrete avere in casa iRobot, quella specie di giraffino che vedete immortalato qui sopra. è un progetto nato in collaborazione tra gli Istituti di Robotica e di Intelligenza artificiale del MIT e la iRobot, un'azienda americana specializzata in "avatar" ovvero in identità umane virtuali. L'intelligenza (e anche la fascia di prezzo a cui sarà venduto) è data da un comune processore di ultima generazione e una serie di software (il sistema base è Linux) tra cui anche uno per la gestione in automatico degli acquisti su siti di commercio elettronico. Grazie alla videocamera digitale che costituisce gli occhi di iRobot, sarà così possibile, per esempio, inviare il robottino in "missione" nella dispensa e, scoperti gli ingredienti che mancano, ordinargli di acquistarli on-line. Il tutto mentre siete al lavoro o in vacanza. Con la webcam ad alta definizione iRobot si trasforma anche in un "vigilantes privato" ai cui occhi nessun intruso sfugge o in "baby sitter hi-tech", per controllare i bambini che giocano o dormono in un'altra stanza. Ma non basta ancora. Gli arti meccanici di iRobot gli consentono anche di prendersi cura degli animali domestici che restano soli in casa, versando il cibo nelle vaschette e addirittura facendo loro qualche carezza. Il sistema di cingoli gli permette di muoversi su qualsiasi superficie, anche di salire le scale, e i software di gestione della posta elettronica e delle telefonate via Internet lo rendono molto utile anche per l'assistenza alle persone anziane. Oltre a far loro compagnia con i giochi e il frasario che il robot man mano impara, iRobot è anche in grado di controllare alcuni parametri medici (battito cardiaco e pressione, per esempio) e chiamare numeri di emergenza memorizzati.

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