Zenone ed Epicuro

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Testo

Zenone ed Epicuro
-I filosofi del portico e quelli del giardino-

Dopo Aristotele, tra il quarto e terzo secolo avanti Cristo, il fondatore della maggiore scuola filosofica, si chiamava Zenone, era di origine fenicia ed era nato a Cizio sull’isola di Cipro: i Fenici erano considerati dagli Ateniesi poco più che barbari. Eppure quest’uomo dall’aspetto tanto modesto conquistò gli Ateniesi, al punto da diventare, con Epicuro, uno dei due leader filosofici dell’epoca.
Zenone invitava a vivere secondo natura, siccome per gli stoici la natura dell’uomo è la ragione, quello di Zenone era un invito a una razionalizzazione completa delle abitudini e dei comportamenti. Era quindi un ideale che pretendeva di coinvolgere l’intera umanità. Al contrario, Epicuro, si rifiutava di identificare la natura dell’uomo con l’astrattezza della ragione.
Come straniero, Zenone non aveva il diritto di acquistare terreni ad Atene, ma la città gli mise a disposizione un porticato dipinto presso la piazza principale, da questo deriva il termine stoicismo. Insegnare all’aperto corrispondeva bene agli ideali universalistici di Zenone. Epicuro, invece, aveva l’aspirazione a un rifugio riservato a pochi amici e lontano dal tumulto cittadino. Lo trovò nei recessi di un giardino fiorito, per cui la sua scuola venne detta il Giardino.

Dopo un naufragio Zenone approda alla filosofia
Zenone di Cizio, naufragò davanti al porto di Atene. Capitato da un libraio, si entusiasmò alla lettura di alcune pagine dei Detti memorabili di Socrate. “Dove posso trovare un uomo saggio come Socrate?” chiese al libraio. “Eccone uno” gli rispose indicandogli il filosofo cinico Cratere, Zenone lo seguì e cominciò allora la sua avventura di filosofo straniero ad Atene, città dei grandi pensatori.

I filosofi dal cuore di ghiaccio
Alcune scuole filosofiche hanno lasciato una traccia anche nel nostro lessico quotidiano. “Platonico” è diventato sinonimo di puramente spirituale, “stoico” significa imperturbabile nella sofferenza. Questo fenomeno non accade con tutte le correnti filosofiche, ma solo quando colpiscono per la loro esemplarità.
Gli stoici erano visti come campioni di eticità. Freddi e risoluti, esecutori del loro precetto fondamentale: il saggio non deve deviare dalla natura che gli impone la ragione, a qualunque costo.
Gli stoici non costituivano una setta come i pitagorici, ma avevano le estrazioni più varie, ma nessuno di loro assomigliava all’ateniese medio: meno di tutti Zenone, uomo freddo e poco socievole, ma possedeva quel fascino della cultura orientale che si era diffusa dopo le conquiste di Alessandro.
Zenone, si dichiarava indifferente all’impulso delle passioni. Prima di lui nessun filosofo aveva negato alle passioni un ruolo essenziale nella vita dell’uomo.
Per la prima volta, gli stoici intentarono un processo alle passioni. Vedevano in loro il primo nemico della ragione. E la ragione doveva dominare sia il mondo che l’uomo. Chi obbedisce alla ragione deve essere insensibile alle passioni. Difatti, la ragione è qualcosa di stabile e necessario, mentre le passioni sono mutevoli e capricciose. Questa insensibilità fu definita apatia: in greco significa appunto assenza di passioni. L’apatico è saggio, gli altri sono stolti.
Apatici si, ma non asociali: al contrario, gli stoici, non escludevano, ove se ne presentasse l’opportunità, di prender parte agli affari della vita politica. Ma conciliare l’apertura alla vita pubblica con il rigore dell’imperturbabilità, non era così facile. Consapevoli di questa difficoltà, gli stoici si vantavano di insegnare una propria arte di vita.
Gli stoici credevano che la ragione attuasse un disegno provvidenziale, sia nella natura, sia nell’esistenza.
Benché razionalisti, nel loro stile di vita gli stoici avevano un po’ della stramberia socratica e molto della mentalità cinica, cioè disumani, lo erano non perché cattivi, ma perché la logica delle cose li induceva a non scomporsi. Ignoravano la compassione e disprezzavano il dolore .
Il coraggio degli stoici di fronte alla morte e alla tortura è diventato proverbiale. Dopo le conquiste di Alessandro, era giunta voce che i santoni indiani erano capaci di farsi bruciare vivi.
Comunque per gli stoici il suicidio fu sempre un comportamento coerente e degno di ammirazione. Di fronte all’impossibilità di conformarsi alla provvidenza razionale, anticipare la morte appariva loro un gesto naturale. Del resto, giudicavano che il decesso non fosse altro che l’ultimo atto dell’esistenza, che la dissolve per generare nuove forme naturali.
È rimasta esemplare la morte di Seneca, il più ammirato degli stoici romani. Vissuto all’epoca della Roma imperiale, fu maestro del famigerato Nerone. Lo storico Tacito, immortalò la fermezza del filosofo di fronte all’ordine di Nerone di tagliarsi le vene. La morte di Seneca, è un caso impressionante di suicidio di stile stoico.
Fanatismo? No, piuttosto è il caso di parlare di fatalismo. Lo stoico è convinto che gli eventi seguano una necessità ineluttabile, che costituisce il destino sia delle cose, sia degli uomini.
Per gli stoici, il destino non è che una vendetta del fato, ma è il risultato di un concatenamento di cause che non dipendono da noi. Ma c’è fatalismo e fatalismo: c’è quello superstizioso di chi crede a giorni fausti e a quelli infausti. Invece il fatalismo stoico è di tipo razionale. È fatale che oggi piova,perché la concatenazione degli eventi atmosferici di ieri,rende inevitabile la pioggia di oggi. Questo, però, non impedisce che io sia libero di affrontare la pioggia a capo scoperto o di coprirmi con un mantello. Nella terminologia degli stoici, la pioggia è un evento atmosferico fatale, mentre il fatto di coprirmi con il mantello è solo parzialmente legato a quel fato: è con-fatale.
Con questa precisazione la fede stoica nel destino veniva conciliata con la convinzione che l’uomo fosse, almeno in parte, libero. Essa fu dovuta al più estroso degli stoici, Crisippo.

Vivi secondo natura! Ma non è facile
Lo stoicismo fu una delle correnti filosofiche più seguite in tutti i secoli nel mondo occidentale. E ci si può chiedere come filosofi glaciali e fatalisti quali gli stoici abbiano potuto avere tanta fortuna. Difficilmente le idee stoiche sulla morte e sul dolore, riuscirebbero a fare proseliti, anche se non mancano casi di persone disposte a sacrificare la vita per una fede: ma le loro motivazioni, sono in genere estranee alla filosofia. È più facile trovare chi si uccide perché rovinato dal gioco o distrutto da una delusione amorosa.
Per quanto riguarda il dolore fisico, se col ragionamento si può vincere la paura della morte, non si possono tuttavia neutralizzare gli effetti di una tortura, e non è seguendo la filosofia stoica che si può alzare la soglia d sopportazione del dolore. Per questo lo stoicismo va collocato nella mentalità e nel costume del suo tempo: gli stoici vissero in un’epoca, in cui i medici amputavano senza anestetici, per cui gli uomini erano più abituati alla sofferenza fisica.
Dunque, per gli stoici passioni zero. Di fronte al piacere a al dolore. E tuttavia, prescrivevano, come se fosse la stessa cosa: vivi secondo natura e vivi secondo ragione, ma, si può obiettare, una natura priva di passioni non è più natura.
L’azzeramento delle passioni conduce inevitabilmente a una serie di paradossi, a partire proprio dalla difficoltà di far coesistere questa in naturalità col precetto di vivere secondo natura.
Lo stoico è paradossale anche perché vede le cose in bianco o in nero. C’è la virtù e c’è il vizio, nessuno dei due ha gradi.
Ma il paradosso più grande è stato quello di irrigidire la ragione e pretendere di sottomettere a quella rigidità anche la vita quotidiana. Ne deriva anzitutto un costante pessimismo, per cui l’uomo deve sempre attendersi il peggio. Se poi il peggio non gli capita, lo stoico si ritiene egualmente infelice perché non ha potuto fare quell’esperienza.
I nemici dello stoicismo hanno quindi buon gioco a metterlo in caricatura.
Ma di fronte ai paradossi stoici, c’è chi si riteneva saggio in una maniera non così esasperata.
Per gli epicurei, la tranquillità dell’animo valeva ben più che non il rigore dell’inflessibilità. Piacere, amicizia e vita privata, erano in cima ai loro interressi, mentre dell’ineluttabile destino degli stoici si facevano beffe.

Il giardino dei piaceri filosofici
Per la formazione di Epicuro, fu decisiva la lettura di un materialista, Democrito, vissuto fra il 460 e il 370 a.C., ossia poco più di un secolo prima di lui.
Epicuro, ancora adolescente, si propose di dare una spiegazione dell’universo, in prima persona. Scoprì che il mondo fisici era composto di atomi, che i ragionamenti logici dipendevano dalle sensazioni e che la morale aveva le sue regole.
Erano le tre branche della filosofia: la fisica, la logica e l’etica; quest’ultima gli stava più a cuore.
Epicuro era un tipo originale, anche se di un’originalità ben diversa da quella stoica. Era persona mite, affettuosa e socievole.
Fisicamente non fu fortunato: era cagionevole di salute, tanto da stare più spesso a letto che in piedi. Pur non teorizzando la repressione delle passioni come gli stoici, prima di morire però seppe sopportare tremendi dolori alla vescica. Tuttavia, partiva dall’indubbia constatazione che la natura umana tende al piacere e rifugge il dolore. E riteneva ragionevole assecondare questi istinti innati.

Un consiglio diverso: vivi nascostamente!
Epicuro fu il primo filosofo greco ad esortare i suoi seguaci a tenersi lontano dalla vita pubblica; mentre i suoi predecessori avevano fatto l’opposto: Aristotele, definiva, senz’altro, l’uomo un animale politico, che chi vive fuori dallo Stato o è una bestia o è un dio. Per Aristotele prima veniva lo Stato e poi l’individuo, al contrario per Epicuro la base dell’essenza è l’individuo, e in ogni caso lo Stato viene in second’ordine.
L’individuo epicureo, non è né un egoista, né un misantropo, anzi, l’amicizia, era per Epicuro uno dei beni della vita. Esortava i suoi allievi ad essere socievoli, però li diffidava dall’avventurarsi nel corrotto mondo politico.
Il significato del “Vivi nascostamente!”, non era affatto un’esortazione a diventare degli eremiti, ma l’avvertimento che non era mai successo che un filosofo piacesse ai politici, né che un politico piacesse a qualche filosofo.
Questo ideale di vita ritirata non era considerato da Epicuro una costrizione che frenasse la natura umana, ma al contrario un istinto innato dell’uomo.

Una medicina per quattro mali
Negli auspici, il Giardino di Epicuro, avrebbe dovuto procurare quella tranquillità che proviene da una vita serena e lontana dalla folla. Ma anche al suo interno ci si ammalava, si era di cattivo umore e si provava paura. Di questa eventualità Epicuro non mancò di preoccuparsi: non appena appariva un’inquietudine, era subito pronta una massima a fungere da antidepressivo.
Secondo la diagnosi di Epicuro, tutti i turbamenti dell’anima provenivano da quattro cause fondamentali: la paura della morte, la paura degli dei, la paura del dolore, la sfiducia nel futuro. E siccome i mali erano quattro, veniva detta la medicina dei quattro mali.
La prima terapia riguardava la paura della morte. I discepoli di Epicuro la temevano perché non credevano nell’immortabilità dell’anima e per allontanarla la paura della morte Epicuro sosteneva che “la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è la morte noi non ci siamo più”. Possiamo quindi rassegnarci al nostro destino di essere raggiungibili, in ogni momento, dalla morte.
Un secondo male è la paura dell’ira degli dei: rassicurava Epicuro, gli dei esistono, ma hanno ben altro da fare che curarsi delle vicende umane.
Il terzo male è la paura per il dolore. Il dolore, diceva Epicuro, è sempre sopportabile; certo il dolore ha i suoi gradi e a volte può essere molto violento, ma quando ciò avviene dura poco e si finisce col perdere i sensi.
Resta l’ultimo dei quattro mali, la sfiducia nel futuro. Va combattuta riflettendo che non è importante realizzare qualsiasi desiderio, ma soltanto quelli naturali e necessari. È la realizzazione di questi desideri a darci piacere. E, per Epicuro, si tratta dell’autentico piacere, cioè di quello inteso negativamente come assenza del dolore fisico e dei turbamenti dell’anima. Ad esempio, se siamo assetati dopo una corsa sotto il sole, è piacevole bere un bicchiere d’acqua fresca, perché eliminiamo una sofferenza del corpo.
Questa era dunque la terapia generale usata da Epicuro per garantire la piacevolezza della vita. Ma la felicità non può soltanto essere affidata alla medicina filosofica: per avere un’esistenza felice bisogna coltivare l’amicizia, che è il bene più prezioso per l’uomo. Va quindi riconosciuto che il mondo filosofico di Epicuro ebbe il merito di introdurre l’amicizia come una componente della saggezza.

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