Da Epicuro a Agostino

Materie:Riassunto
Categoria:Filosofia

Voto:

1 (2)
Download:451
Data:05.05.2005
Numero di pagine:19
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
epicuro-agostino_1.zip (Dimensione: 19.44 Kb)
trucheck.it_da-epicuro-a-agostino.doc     70.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

LA FILOSOFIA TRA GRECIA E Roma
Pur nella complessità e articolazione dei fenomeni che in essa hanno luogo, l’epoca ellenistico-romana presenta, dal punto di vista culturale, una sostanziale unitarietà. Si tratta infatti dell’affermarsi della cultura greca nel bacino del Mediterraneo, in primo luogo nella sua parte orientale, e della successiva rielaborazione che di tale cultura viene fornita da Roma prima, e successivamente dal pensiero cristiano. Potremo quindi osservare in che modo il patrimonio culturale, e specificamente filosofico, elaborato dal mondo greco classico si diffonda nell’intera oikoumene, il “mondo comune abitato”, nel periodo che vede l’instaurazione dei regni ellenistici, l’affermazione del dominio romano nel Mediterraneo occidentale e orientale, i grandi secolo della pax romana, l’irreversibile crisi della compagine imperiale d’Occidente.
EPICUREISMO, STOICISMO,SCETTICISMO
I sistemi filosofici dell’età ellenistica sono accomunati dall’interesse fondamentale per l’etica e dalla centralità attribuita al conseguimento della felicità individuale. Le scuole cosiddette “dogmatiche”, costituite dall’epicureismo e dallo stoicismo, si distinguono innanzitutto dallo scetticismo, che, negando l’esistenza di un criterio di verità, dichiara impossibile una fisica, ossia una scienza della natura nel suo insieme. Nella comune opposizione allo scetticismo, epicureismo e stoicismo si distinguono poi nettamente non solo per la differenza dei principi adottato nell’etica, ma anche per le tesi sostenute nei tre ambiti della fisica: cosmologia, teologia, psicologia.
EPICURO
Fisica e cosmologia
Il quadrifarmaco: la conoscenza come terapia.
La filosofia è, per Epicuro, una “medicina dell’anima”: è un fare, un’attività che mira al conseguimento di una condizione di benessere, che permette di curare l’infelicità dell’uomo.
Le sue prescrizioni sono condensate nelle quattro semplici proposizioni del quadrifarmaco: “Non sono da temere gli dei; non è cosa di cui si debba stare in sospetto la morte; il bene è facile a procurarsi; facile a tollerarsi il male.
La necessità di una terapia sorge dal fatto che l’uomo teme esageratamente ciò che non può arrecare vero danno, si consuma nel desiderio di ciò che non può o non vale la pena di ottenere. A questo deve mirare la conoscenza. Si può così comprendere la violenta polemica “anticulturale” d’Epicuro, contro quella cultura che non offre soluzione al problema principale della vita, la ricerca dell’eudaimonia (felicità).
La fisica: gli atomi e il vuoto
Nella Lettera ad Erodoto Epicuro enuncia i principi generali che devono guidare l’uomo in una corretta indagine del mondo fisico:
- Nulla deriva dal non essere
- Nulla si dissolve nel non essere
- Tutto fu sempre quale ora è e quale sempre sarà.
Su queste basi Epicuro costruisce una fisica atomistica che s’ispira a Democrito e Leucippo.
La realtà è costituita di corpi e di vuoto. L’esistenza dei corpi ci è attestata dall’esperienza, quella del vuoto consegue per ragionamento ( i corpi non avrebbero dove stare e muoversi). Gli aggregati corporei sono composti di parti semplici, non ulteriormente divisibili, o atomi. Gli atomi sono eterni e inalterabili, valendo di necessità per ciascuno di essi i principi generali relativi al tutto.
Le proprietà degli atomi: forma, grandezza e peso.
Le proprietà dell’atomo sono, per Epicuro, forma, grandezza e peso. La forma spiega le diversità degli aggregati e dei fenomeni. La forma è il limite dell’atomo, che definisce la sua separazione dal vuoto. Epicuro ritiene il numero delle forme “inconcepibile” ma non infinito: gli atomi sono infiniti, ma hanno forme finite. Analogamente, la grandezza degli atomi è variabile ma non infinita. La terza proprietà fondamentale dell’atomo, il peso, serve a dar ragione al movimento. Secondo Epicuro, l’atomo ha in se stesso la causa del movimento, il peso, che trascina gli atomi dall’alto verso il basso, perpendicolarmente e alla medesima velocità. Tutti i movimenti osservabili sono riconducibili a questo movimento lineare, a causa degli urti e degli intoppi che l’atomo incontra sul suo cammino, scontrandosi con altri atomi.
La declinazione degli atomi
Si crea con questo un nuovo problema: se gli atomi cadono nel vuoto lungo rette parallele e ad eguale velocità, come possono avvenire gli incontri-scontri che danno luogo agli aggregati e ai fenomeni naturali? Epicuro introduce, nel movimento degli atomi, la possibilità di una declinazione (clinamen) dalla retta perpendicolare. Il clinamen costituisce un elemento centrale della dottrina epicurea, perché consente di spiegare la formazione degli aggregati dell’universo e inoltre consente di sottrarre l’agire dell’uomo alla necessità assoluta e di fondarne la possibilità di libertà e autonomia. Il clinamen, infatti, non ha causa; esso può darsi in qualsiasi momento e luogo; rappresenta quindi un elemento di rottura delle “leggi di natura”, un elemento di contingenza e di “indeterminazione”.
Gnoseologia ed etica
Il fondamento sensibile della conoscenza
La teoria della conoscenza d’Epicuro pone l’esperienza sensibile a fondamento d’ogni atto conoscitivo. Per Epicuro, il problema è quello di individuare un criterio di verità che permetta di valutare l’attendibilità delle conoscenze.
I criteri di verità individuati dalla gnoseologia epicurea sono tre: la sensazione, l’anticipazione e l’affezione.
Verità della sensazione e ruolo dell’anticipazione.
La sensazione è concepita da Epicuro su base fisica. Ogni sensazione è contatto: i corpi che si trovano al di fuori dell’esperienza tattile dell’individuo emettono, a causa del movimento vibratorio degli atomi che li costituiscono, delle immagini o simulacri, composte d’atomi sottili e velocissimi, che colpiscono i nostri organi di senso.
La rappresentazione di un oggetto anche in assenza dell’oggetto stesso è resa possibile dall’anticipazione, o prolessi. Le sensazioni passate permangono nel soggetto come memoria delle esperienze sensibili avute. La conseguenza principale è che ogni sensazione, come ogni anticipazione, è sempre vera.
L’indifferenza degli dei nei confronti dell’uomo.
L’etica d’Epicuro presuppone direttamente la sua concezione di divinità e dell’anima. Epicuro non nega l’esistenza degli dei: al contrario, questa ultima è per lui un fatto addirittura evidente. Il principale argomento che Epicuro sviluppa per dimostrare l’esistenza degli dei ha fondamento gnoseologico: poiché non è possibile la prolessi (rappresentazione in assenza d’oggetto) di ciò di cui non si sia fatta esperienza, e l’esistenza degli dei è una nozione comune a tutti gli uomini, è evidente che gli dei esistono. Le testimonianze ci dicono come Epicuro concepisse gli dei: perfettamente beati e imperturbabili, gli dei abitano gli spazi vuoti tra mondo e mondo, gli intermundia, e non esercitano alcuna azione nei confronti dell’uomo.
L’attribuzione ad essi di poteri d’intervento nella vita dei mortali è dunque superstizione, falsa opinione, errore di giudizio.
L’anima e l’esperienza della morte
Per Epicuro l’anima è costituita d’atomi, particolarmente sottili e mobili e vive in stretta connessione con il corpo. La conclusione è che l’individuo non può avere esperienza della propria morte, perché ciò presupporrebbe una sopravvivenza dell’anima al corpo.
Il piacere come liberazione dal dolore
Nell’affermare la coincidenza di bene, felicità e virtù, Epicuro opera una sottolineatura particolare: non è possibile essere felici se non si è giusti ma, di converso, non si può essere giusti senza essere felici. Il bene non è un ideale trascendente: il bene è nella vita stessa. Ciascuno può averne una percezione immediata ed evidente: ogni individuo, infatti, distingue con chiarezza nell’affezione ciò che per lui è bene, il piacere, e ciò che è male, il dolore. Dunque virtù, bene, felicità coincidono con il piacere: o in altri termini, il piacere è criterio di distinzione fra bene e male.
La natura mostra che il piacere non è qualcosa che si aggiunga all’esistenza “da fuori”: il piacere è la vita, è l’esistenza stessa quando si riesce a liberarla dal turbamento e dal dolore. Il piacere non consiste dunque in altro che nella liberazione dal dolore: assenza di dolore fisico (aponia) e di turbamento spirituale (atarassia).
STOICISMO
Gnoseologia e logica
L’assenso e l’attività della coscienza
Per gli stoici il problema gnoseologico consiste essenzialmente nell’individuazione del criterio di verità: fonte d’ogni conoscenza è la sensazione.
L’anima è come una carta “ben disposta alla scrittura” sulla quale gli oggetti esterni, colti dai sensi, lasciano le loro “impronte”. A tali impronte gli stoici danno il nome di rappresentazioni, che vengono fissate per mezzo della memoria; l’insieme delle rappresentazioni costituisce l’esperienza. Abbiamo dunque gli oggetti e le loro rappresentazioni. Gli stoici individuano un criterio che garantisca corrispondenza fra gli uni e le altre nell’assenso: sensazione e rappresentazione costituiscono un momento passivo, che non esaurisce l’operare della conoscenza. Alla rappresentazione, infatti, il soggetto può accordare o negare l’assenso: solo questo ultimo trasforma la rappresentazione in rappresentazione comprensiva, cioè in rappresentazione vera. Nella rappresentazione comprensiva l’oggetto viene afferrato e compreso in forza dell’evidenza con cui si impone al soggetto. L’evidenza empirica è dunque il fondamento della gnoseologia stoica. E l’errore nasce dall’assenso accordato ad una rappresentazione in modo precipitoso e scorretto.
Mentre alla rappresentazione non ci si può sottrarre, l’assenso è un atto libero e configura quindi un momento d’attività razionale. Tale attività prosegue nell’elaborazione dell’esperienza, che mette capo alla formazione di concetti universali. Il concetto è dunque pensato dagli stoici come inseparabile dall’esperienza sensibile.
Fisica e cosmologia
Il logos, principio corporeo e immanente
Il logos cioè il principio unitario d’organizzazione del cosmo, è immanente alla realtà e inseparabile da essa: il tentativo stoico è dunque quello di spiegare il mondo escludendo il ricorso a principi o forme trascendenti. Esiste un unico piano dell’essere: quello della corporeità. Tutto ciò che esiste è corpo. Reale è, infatti, solo ciò che agisce o subisce un’azione, e solo ciò che è corporeo può agire o patire. Perciò solo il corpo esiste. Ritroviamo dunque nella natura l’operare di due principi fondamentali: l’uno attivo, l’altro passivo. La distinzione vale a spiegare il divenire della physis e l’esistenza d’enti qualitativamente determinati.
La materia riceve forma ad opera di un principio attivo, corporeo anch’esso, perché diversamente non potrebbe agire sui corpi. Il pneuma non è altro che la dimensione fisica del logos, della ragione che ordina il mondo. Entrambi coincidono con Zeus, la divinità, la cui esistenza ci è convalidata dall’essere una nozione naturale comune a tutti i popoli della terra e dall’ordine, bellezza e perfezione della natura. Se ogni corpo è compenetrato nel pneuma, non esiste tra un corpo e l’altro il vuoto, perché, se così fosse, il principio attivo non potrebbe trasmettersi a tutte le cose.
Determinismo e finalismo nella visione stoica del cosmo.
Fissata l’immanenza del logos alla vita del cosmo e identificato l’ordine razionale con l’intelligenza divina, si ricavano due conseguenze. In primo luogo, tutto ciò che accade ha una causa, anche ove non sia possibile scorgerla. A questa legge causale assoluta gli stoici danno il nome di fato, o destino. In secondo luogo, dall’ordine causale concepito come piano intelligente seguono di necessità la perfezione del mondo e la sua organizzazione in vista del bello e del bene. Il mondo è perfetto, non manca di nulla, ha una fine e una destinazione precisa che realizza la bellezza e l’armonia dell’insieme. Il cosmo è dunque retto da una provvidenza divina che va intesa come l’operare della razionalità divina.
L’etica
La natura come criterio morale
Il fondamento dell’agire morale è costituito dalla natura, che coincide con il logos: bene è ciò che è conforme alla natura, male ciò che è contrario ad essa. Ma posto questo principio si pone un problema di valutazione morale. Gli stoici affermano che il piacere, in quanto affermazione sensibile, è esterno al campo della razionalità, caratteristica specifica dell’uomo.
Ogni essere vivente mostra una tendenza fondamentale all’autoconservazione, ad appropriarsi di ciò che gli giova, a rifiutare ciò che lo danneggia. Nell’uomo questa capacità di valutare è pienamente consapevole e si manifesta nella formulazione di concetti di valore: l’individuo, se riceve un’educazione adeguata, diviene capace di scegliere in vista del bene. Oggetto della scelta è il logos stesso: utile e buono in massimo grado è ciò che consente all’uomo di realizzare la sua natura d’essere razionale e ne permette lo sviluppo; male è ciò che è d’ostacolo a questo; indifferente tutto quanto non porta né vantaggio né danno morale. Dal momento che il bene consiste nella realizzazione della natura razionale dell’uomo, questi è portato per natura a fare il proprio bene.
La concezione intellettualistica del male e le passioni.
Il male è una perversione del logos. È un’incapacità di corretta valutazione a generare il comportamento ingiusto e dannoso. Quando il patos, la passione, prevale sul logos, viene dato l’assenso a rappresentazioni false di ciò che è buono e utile. Le passioni sono dunque vere e proprie malattie dell’anima, che richiedono un’adeguata terapia. Non viene riconosciuta ad esse alcuna funzione positiva nella ricerca della vita felice. Non si tratta perciò di limitarle, di governarle con l’esercizio della ragione, ma di estirparle: l’ideale del saggio stoico si fonda sull’apatia, l’eliminazione delle passioni, l’impassibilità.
LO SCETTICISMO
Caratteri generali
L’esame critico del sapere e del senso comune.
Scepsi significa “ricerca”. Il termine indica dunque un atteggiamento mentale aperto alla ricerca, che muove dalla non accettazione del sapere immediatamente disponibile. La scepsi solleva innanzitutto il dubbio circa conoscenze, credenze, valori, chiedendone una giustificazione razionale.
La ricerca filosofica è in primo luogo esame critico dei contenuti e delle forme del sapere esistente. La scepsi rappresenta una modalità attraverso la quale si elabora il sapere, obiettivo che non viene emesso in discussione, ma anzi assunto come meta della ricerca.
La negazione della conoscenza e la lotta contro il dogmatismo.
Il dubbio non è per gli scettici una condizione d’avvio della ricerca, ma l’unico atteggiamento praticabile di fronte all’impossibilità del conoscere.
Gli scettici dedicheranno gran parte delle loro energie a mettere in luce la contraddittorietà e l’inconsistenza d’ogni pretesa di ricerca della verità al di là dei fenomeni: è questa la battaglia polemica che essi conducono contro il dogmatismo ( dottrina che pretende di passare dal piano dei fenomeni a quello dell’essere e che ritiene delle verità inconfutabili). Gli avversari dogmatici degli scettici sono in primo luogo gli epicurei e gli stoici.
Da Pirrone a Sesto Empirico
L’impossibilità di un criterio di verità
Non è mai possibile decidere in modo ultimativo circa la corrispondenza fra l’oggetto e la sua rappresentazione.
Il problema è impostato a partire da un’analisi critica della conoscenza sensibile: questa si mostra poco attendibile. La conoscenza sensibile è sempre relativa: il giudizio sugli oggetti muta in relazione ai soggetti che ne fanno esperienza.
L’inaffidabilità della conoscenza sensibile domina tutto il pensiero greco classico che è convinto che questo tipo di conoscenza non permetta di conseguire la verità.
I sensi, infatti, descrivono le cose come appaiono, non come sono: il fenomeno, non la realtà dell’essere. Esiste una distinzione fra i diversi gradi di conoscenza, riconducibili a due fondamentali: la doxa, l’opinione, e la conoscenza chiara e certa offerta dall’intelletto, l’episteme. Due gradi di conoscenza relativi a due diversi piani ontologici: il mondo mutevole e contingente dell’apparenza per la prima e la realtà stabile e universale dell’essere per la seconda. È in rapporto a questo modello che si può meglio valutare la novità della posizione scettica. Se la conoscenza sensibile non offre alcuna base di certezza, anche l’attività razionale è destinata a fallire il proprio obiettivo: lo scarto esistente tra la realtà in sé e la realtà come viene percepita dai sensi non può essere colmato ad opera dell’intelletto.
LA TARDA ANTICHITA’ E IL CRISTIANESIMO
Nei primi secolo dell’era cristiana, la riflessione filosofica e l’elaborazione della dottrina religiosa del cristianesimo procedono seguendo due percorsi in larga parte indipendenti. Lungo il primo, con il neoplatonismo, la filosofia di lingua greca raggiunge uno dei suoi massimi vertici speculativi; lungo il secondo, i Padri della Chiesa si confrontano con le diverse forme religiose che caratterizzano i primi secoli dopo Cristo, e definiscono valore e funzioni della Chiesa.
Con il maturare del pensiero cristiano, tuttavia, affiorano sempre più chiaramente le analogie che lo legano alla speculazione neoplatonica, fonte di ispirazione dei grandi Padri fino ad Agostino: si tratta, da un lato, della forte aspirazione alla trascendenza che caratterizza il pensiero neoplatonico; dall’altro, dell’interpretazione cristiana della figura di Cristo come logos o “verbo” nel quale, come nell’inteletto dei neoplatonici, sono contenute le idee o forme di tutto il reale.
IL NEOPLATONISMO
L’eredità platonica e la filosofia di Plotino.
L’irrisolto problema della molteplicità dell’essere.
Al centro della riflessione di Plotino è il problema dell’essere: quale struttura esso abbia, come possono conciliarsi unità e molteplicità, immobilità e movimento, eternità e tempo.
Il clima culturale: cristianesimo e religioni di salvezza.
Tra II e III secolo d.C. la nascente filosofia cristiana elabora la tesi di una creazione personale, volontaria e dettata da un atto d’amore divino, tesi che però ha, almeno agli occhi dei greci, il difetto di trasformare Dio in una “persona” e di lasciare aperto l’abisso esistente tra l’essere di Dio e l’essere del mondo. Sulla tradizione filosofica del tempo s’innestano contributi di sapienza indiana, iranica, caldaia, egizia ed ebraica: non a casa i diversi popoli hanno ormai pari dignità all’interno del mondo romano.
Uno schema della dottrina di Plotino
I capisaldi del pensiero di Plotino sono:
- L’Uno come suprema realtà e condizione di pensabilità del molteplice;
- L’impossibilità di definire in positivo l’Uno; la sua ineffabilità; dunque la necessità di un discorso sull’essere che proceda essenzialmente per via negativa o, come si dirà in seguito, “apofatica”;
- La dottrina delle tre ipostasi (Uno Intelletto, Anima) che articolano il procedere della realtà, intelligibile e sensibile, dall’Uno; della molteplicità dall’unità;
- La concezione della materia come estremo grado di lontananza dall’Uno, come non –essere
- Di qui, la negazione dell’esistenza metafisica del male, concepito come privazione assoluta;
- Il cammino di ritorno dell’anima all’Uno, attraverso le tre vie della virtù, della bellezza e del sapere, sino all’estasi che è ricongiungimento con l’Uno.
L’Uno come origine di tutte le cose
Il punto di partenza della filosofia di Plotino è un dato sensibile e immediato: l’esistenza del mondo e il suo esistere come “molteplicità”. Il mondo è un’immensa raccolta d’enti.
L’Uno è il termine con il quale Plotino designa la realtà suprema, il punto d’irradiazione dell’essere, il primum ineffabile e indefinibile da cui tutto ha origine e vita. L’Uno è la prima delle tre “ipostasi”, i modi di essere della sostanza (uno intelletto, anima), attraverso cui il mondo riceve l’esistenza; l’Uno è la “categoria delle categorie” in cui possiamo scorgere l’idea platonica di bene, è la fonte perenne da cui ogni cosa scaturisce e verso cui tende a tornare.
L’Uno, un Dio senza nome
L’Uno è un dio senza nome. Esso è ben lontano sia dall’attività subordinata del demiurgo platonico, sia dall’immobile esistenza del motore aristotelico. Il Dio di plotino non crea ciò che è altro da se, ma s’auto crea liberamente.
L’Uno è definibile solo negativamente
L’Uno non è causa, non è il bene, non è il pensiero, non è l’essere, non è nemmeno Dio e non può essere definito propriamente neanche come Uno. Dell’Uno dunque può dirsi propriamente solo ciò che non è.
Le tre ipostasi: processo d’irradiazione
L’Uno, suprema potenza, è centro di un processo di “irradiazione” grazie al quale egli non esce da se ma produce in se la sovrabbondanza d’essere di cui è portatore. Con ciò esso non si depotenzia, non si sminuisce, non cambia, ma, semplicemente “è ciò che deve essere”. Per esprimere questo processo produttivo, Plotino usa una serie d’efficaci immagini metaforiche, prima fra tutte quella della luce che s’irradia in ogni direzione senza, per questo, veder diminuito il suo splendore.
Dall’Uno, prima ipostasi, procede per emanazione la seconda ipostasi, l’Intelletto. L’Intelletto pensa se stesso ed è, nello stesso tempo, l’oggetto pensato. Esso, così, si configura come Intelletto-Intelligibile, unificando in se l’atto puro aristotelico e le idee platoniche. Da questo procede la terza ipostasi, l’anima. L’anima occupa una posizione intermedia tra il mondo sensibile e quello intelligibile: essa, da un lato, si volge verso l’intelletto e quindi partecipa della vita dell’Uno, cogliendo la luce delle idee; dall’altro, produce la materia dell’universo fisico e si specifica nei singoli corpi viventi come “anima individuale”.
La materia, il tempo, il ritorno all’Uno
La materia e il male come privazione
L’impianto metafisico del pensiero di Plotino, con la dottrina dell’Uno e delle ipostasi, lo conduce ad impostare con grand’originalità un problema centrale anche nella dottrina platonica, quello della materia.
La materia è l’ultimo esito del processo d’irradiazione dell’Uno, è il margine d’ombra al limitare della luce, è mancanza e privazione di bene, ma non è il male. Il male, infatti, sta nella rinuncia dell’anima a percorrere la strada che riconduce all’Uno. Se la materia rappresenta “il confine dell’anima” ed è l’ultimo effetto della cosmica irradiazione dell’Uno, allora si deve concludere che i corpi stanno dentro le anime, e non che l’anima sta nel corpo.
Da questo primato dell’anima sul corpo deriva anche il rifiuto di Plotino per la tesi cristiana della resurrezione dei corpi.
Le vie del ritorno all’Uno: virtù, bellezza e filosofia.
C’è una sorta di parallelismo tra “la via in giù” (che porta dall’Uno all’anima individuale dell’uomo) e “la via in su”(che riporta l’anima all’Uno): esiste una specie di scala di valori che permette di ripercorrere il cammino verso l’Uno. I gradini di questa metaforica scala sono la pratica della virtù, la contemplazione della bellezza e lo studio della filosofia. La virtù è purificazione, liberazione dall’esteriorità e dalla corporeità, la contemplazione della bellezza permette di cogliere la manifestazione dell’Uno nell’ordine e nell’armonia delle cose; nella filosofia, infine, si ha l’intuizione intellettuale del mondo intelligibile.
L’anima dell’uomo attraverso questa serie di conquiste (morali, estetiche, intellettuali), arrivata al punto più alto della consapevolezza di sé, si libera e raggiunge lo stato in cui è possibile l’estasi. Nell’estasi essa gode direttamente dell’Uno e della sua pienezza di vita: perché l’Uno, essendo “al di là” dell’Anima, dell’Intelletto e dell’Essere, non si può raggiungere e godere “restando in sé”.
AGOSTINO
L’itinerario intellettuale
Retorica e filosofia: la formazione del giovane Agostino.
La formazione d’Agostino fu quella tipica di un giovane avviato alla carriera retorica nell’epoca del tardo impero: si trattava di una formazione basata sulla grammatica e sulla retorica, e tendente a realizzare il tipo ideale dell’oratore.
La prima comprendeva anche la letteratura, ovvero lo studio degli autori classici. Lo studio della retorica aveva in cicerone il suo modello ideale e la sua fonte privilegiata.
Il primo incontro d’Agostino con la filosofia avviene grazie alla lettura dell’Hortensius di Cicerone. L’Hortensius era un dialogo filosofico in cui Cicerone, muovendo dal tema tradizionale della felicità, mostrava che questa ultima non può essere trovata nella ricchezza, nei piaceri, negli onori, ma solo nella sapientia, la saggezza che è verità, conoscenza delle cose umane e divine. Per Agostino, la lettura dell’Hortensius significa la scoperta della filosofia intesa come ricerca della verità.
L’iniziale adesione al manicheismo
Decisivo risultò poi l’incontro con i missionari manichei. Nella visione dualistica manichea del conflitto fra bene e male, luce e tenebra, Agostino trova spiegazione ad un problema che lo tormenta: perché esiste il male nel mondo? La spiegazione manichea, pur nella sua tragicità, istituisce nel contempo l’esistenza di un polo positivo e incontaminato, di un principio e di una parte incondizionatamente buoni, permettendo di pensare il negativo, il male come forza esterna.
L’approfondirsi degli interessi filosofici e la fase scettica.
Ma, con l’approfondirsi dei suoi interessi filosofici e scientifici, prende corpo in Agostino il sospetto che la sapienza manichea non sia veramente tale.
Il progressivo allontanamento dal manicheismo è accompagnato in Agostino da un crescente interesse nei confronti dello scetticismo: la sospensione del giudizio, il dubbio, la negazione della conoscibilità della verità esprimono un’istanza antidogmatica che affascina Agostino. Più che una scepsi profonda, radicale, si tratta tuttavia di un salutare sospetto nei confronti di un dogmatismo facile e non sorvegliato. La scepsi è, infatti, in contraddizione con l’esigenza di verità che anima la ricerca agostiniana.
L’incontro con Ambrogio e con il neoplatonismo.
Il soggiorno a Milano, dove Agostino si trasferisce per insegnarvi retorica, segnerà una svolta fondamentale sia sul piano esistenziale, sia su quello filosofico. La chiesa locale è dominata dalla figura d’Ambrogio.
Ricostruendo nelle Confessioni, la sua esperienza milanese, Agostino ci dà la possibilità di scorgere due temi principali sui quali concentra le sue riflessioni in quegli anni: il problema delle Sacre scritture, con il loro ingenuo antropomorfismo, e quello di una metafisica non materialista. Su entrambe le questioni risulterà decisivo l’incontro con Ambrogio e con la filosofia neoplatonica. Ambrogio è in grado, in primo luogo, di proporre un’interpretazione delle Scritture che utilizza la tradizione di lettura allegorica elaborata dalla scuola alessandrina e da Origene.
Ma nei sermoni d’Ambrogio, Agostino trova anche l’integrazione di religione cattolica e di neoplatonismo. L’ambiente intellettuale milanese della fine dell’IV secolo, infatti, era tutto permeato di platonismo cristiano.
L’incontro con il neoplatonismo apre ad Agostino un nuovo orizzonte di pensiero, in cui troveranno posto non solo la conversione ma anche una nuova fase di studio e di riflessione.
Agostino nel neoplatonismo trova, in primo luogo, una filosofia radicalmente antimaterialista, in cui pensare quel superamento dell’opacità della materia che egli giudica necessario sul piano religioso non meno che su quello filosofico. In secondo luogo, un’impostazione del problema del male che gli consente di svincolarsi dal dualismo manicheo; da Plotino, Agostino impara che il male non è sostanza, ma privazione, non-essere.
La conoscenza e il problema del male.
L’inscindibile legame tra conoscenza, felicità, amore.
Agostino ritiene che solo a partire da sé l’uomo possa giungere alla verità, all’Uno, a Dio. L’anima è il luogo dell’incontro con la verità.
Dal mondo esterno all’interiorità dell’anima, alla verità trascendente: è questo l’itinerario che conduce alla conoscenza di Dio. Ciò che spinge l’uomo ad intraprendere questo viaggio è il desiderio d’essere felice.
La felicità è si un processo che appaga un desiderio, ma perché sia autentica occorre che il bene voluto sia veramente tale: occorre quindi conoscere quale sia il vero bene.
Si vuole ciò che si ama: si cerca di trovare ciò che si ama. L’amore è dunque il motore fondamentale. L’amore fa gravitare irresistibilmente l’animo verso l’oggetto voluto e ritenuto buono. Senza amore non vi è movimento, non vi è conoscenza: senza amore buono, cioè rivolto ad un fine che è il bene, non può esservi la felicità.
La confutazione dello scetticismo
L’itinerario verso la verità presuppone la confutazione della scepsi: contro lo scetticismo vi è, in primo luogo, una considerazione d’ordine etico-pratico: poiché la felicità coincide con il possesso della verità, lo scetticismo, negando la possibilità della verità, impedisce all’uomo in linea di principio la via a realizzare la sua aspirazione fondamentale. Ma vi sono anche argomenti dialettici che confutano lo scetticismo:
- Non è vero che non esistono verità certe;
- Se anche non è possibile essere certi di verità fattuali, tuttavia occorre ammettere la verità di proposizioni disgiuntive;
- Dal fatto che la conoscenza sensibile sia imprecisa, non si può ricavare l’impossibilità della conoscenza vera: quello che i sensi attestano è sempre vero nel campo delle apparenze, l’errore consiste nell’estenderne il valore di verità al campo dell’intelligibile.
Ma la base d’ogni argomentazione antiscettica è, per Agostino, la certezza che l’uomo ha di sé in quanto soggetto pensante e vivente.
Il processo conoscitivo: la sensazione
Due concetti fondamentali strutturano l’indagine agostiniana: il primo è che la verità non è posta dall’uomo, ma è scoperta da questi nell’esercizio della ragione; il secondo afferma l’esistenza nel mondo di un ordine gerarchico, di una scala di gradi o livelli di crescente perfezione.
Nell’esperienza che il soggetto pensante fa di se stesso, esso consce di esistere e di vivere: essere, vita e conoscenza sono dunque le caratteristiche che l’uomo scopre come sue proprie.
Nella conoscenza si manifestano la specificità e la superiorità della creatura umana. La conoscenza è l’attività dell’anima: ciò è vero anche la sensazione. Questa ultima, infatti, ha luogo attraverso una modificazione degli organi di senso, ma non appartiene al corpo: la sensazione è un’esperienza che l’anima compie attraverso il corpo, utilizzando il corpo come suo strumento. In generale, l’anima dà vita al corpo: nella sensazione, essa rivolge alle modificazioni degli organi di senso un’attenzione, intentio, che dà luogo alla rappresentazione. Senza quest’attività dell’anima non vi è sensazione.
Il processo conoscitivo: le verità intelligibili.
Il giudizio dell’animo umano sulle realtà sensibili implica non solo la classificazione e l’ordinamento degli oggetti sensibili, ma anche la valutazione della conoscenza sensibile. In entrambi i casi, i parametri di giudizio devono essere reperiti dall’anima entro se stessa.
L’esistenza di verità intelligibili, che l’anima trova dentro di sé, senza averle essa stessa create, rinvia alla Verità come sorgente di tutte le verità, all’Uno come principio d’unificazione; rinvia alla realtà immutabile, eterna e necessaria, dunque a Dio. Dio è la verità che rende possibili tutte le verità: le realtà intelligibili, gli universali sono pensieri nella mente di Dio.
Conoscenza e salvezza: la sapienza come dono divino.
Con la ricerca agostiniana ci troviamo in un quadro diverso da quello neoplatonico: in questo ultimo, vi è continuità ontologica tra le diverse ipostasi dell’Uno m una continuità garantita dal concetto stesso d’emanazione. Con Agostino ci muoviamo all’interno della nozione giudeo-cristiana di creazione: l’uomo è stato creato ex-nihilo, non generato, a somiglianza di Dio. La sua natura, quindi, non è identica a quella divina. Ecco allora che la vera filosofia, per Agostino, coincide con la vera religione e la conoscenza della verità è tutt’uno con la salvezza dell’anima. Agostino concepisce la sapienza come dono di Dio.
Il male come privazione
È ancora la metafisica neoplatonica che fornisce ad Agostino il quadro concettuale in cui pensare il problema del male. Se Dio ha creato tutte le cose, qual è l’origine del male?
Occorre pensare che, se tutto quanto procede da Dio è buono, il male non esiste. Tale non esistenza va intesa in senso metafisico e ontologico, non in senso fattuale: del male, infatti, si fa continua esperienza. Ma il male non ha realtà ontologica; non appartiene all’ordine dell’essere, ma a quello del non essere. Il male è privazione, venir meno del bene; è il negativo, mancanza dle positivo inerente alla natura di un essere.
Ragione e fede
Il rapporto circolare fede – ragione – fede.
Un altro passaggio cruciale del pensiero d’Agostino è quello del rapporto tra fede e ragione. La ragione senza fede non può giungere alla verità. Bisogna credere, per sapere, crede ut intelligas: la ragione ha bisogno del soccorso della fede.
Fede e ragione, credere e sapere, stanno in un rapporto di circolarità: da un lato, il credere è condizione del comprendere; ma dall’altro, l’uomo crede in quanto pensa: senza pensiero, non vi è fede. L’ascesa a Dio è un processo in cui fede e ragione interagiscono continuamente, perché è un processo in cui ogni conquista pone una domanda.
La storia come disegno divino nel tempo
Agostino interpreta la storia dell’uomo come l’attuarsi nel tempo del disegno provvidenziale concepito dalla mente divina.
1

Esempio