tolleranza fatale

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Testo

“Tolleranza fatale”?
Donne, Islam e la voce di Antigone
di Andrea Duranti

La scia di sangue versato in nome della religione, da sempre machiavelliano instrumentum regnii in grado di legittimare e giustificare ogni “umana, troppo umana” barbarie, non si ferma. Hina Saleem è soltanto l’ultima vittima di una lunga, lunghissima catena che risale agli albori della storia.
In passato, quando una città musulmana era assediata, racconta la sociologa marocchina Fatima Mernissi, le prime a pagare erano sempre le donne, capri espiatori designati che espiavano, con la propria libertà, il senso di insicurezza della popolazione (maschile). Anche oggi le donne musulmane sono chiamate a scontare sulla propria persona l’assedio della modernità alla cittadella della tradizione, una tradizione maschilista e patriarcale, che uccide ovunque, nel dar al-Islam (letteralmente “casa dell’Islam”, il termine indica i territori ove predomina la religione musulmana) come nelle nuove “medine d’Europa”, così come, non diversamente, nel cuore selvaggio della Sardegna o della Sicilia. Ovunque si levi minacciosa una voce dissidente che ne rinneghi i dettami.
E la voce di Antigone, dalla tomba dove la scrittrice Maria Zambrano le ha ridato vita, grida ancora il suo messaggio: l’amore che è più forte delle leggi e della società degli uomini e degli dèi. E Antigone rappresenta ancora il simbolo di tutte le donne che levano alta la propria voce contro l’ingiustizia e la violenza, e che, come Antigone, pagano con la propria vita. Questo eccidio, perpetrato ovunque dall’ignoranza e da un’educazione all’onore che pervade il cuore e la mente e soverchia i più naturali sentimenti, è come un cancro, che riempie di insidiose metastasi tutto il corpo sociale, e uccide puntualmente, non sempre con la spada, sterminando gli individui più deboli: le donne, le minoranze, gli omosessuali, ed in generale tutti i soggetti “diversi”, devianti dal seminato della “tradizione”, sociale o religiosa, la quale non è altro, in realtà, che un artefatto costrutto ideologico ad uso e consumo delle masse, priva, non diversamente dall’ideologia dei regimi totalitari, di qualsivoglia fondamento storico. Parafrasando l’intellettuale irano-tedesco Navid Kermani, la “tradizione” cui si rifanno il radicalismo ed il pensiero integralista nel mondo musulmano, sta alla dimensione storica del mondo arabo-sunnita così come l’ideologia nazista stava alla mitologia della Walhalla.
La radicalizzazione del pensiero islamico e delle istituzioni sociali nel mondo musulmano altro non è che un prodotto diretto dell’epoca coloniale, che ha interrotto un processo storico che avrebbe, probabilmente, condotto l’Islam verso l’assimilazione pacifica dei prodotti, culturali e non, dell’Occidente. La colonizzazione, con la sua violenza e brutalità, ha indotto le popolazioni invase a cercare rifugio in ciò che consideravano come assolutamente peculiare: i costumi tradizionali e, fra questi, la religione, che ne è divenuta sigillo e suggello.
Citando ancora Fatima Mernissi, dobbiamo ricordare che «non soltanto il testo sacro è sempre stato manipolato, ma la sua manipolazione è una caratteristica strutturale della pratica del potere nelle società musulmane. Come ogni potere, già a partire dal VII secolo esso si giustificava soltanto con la religione; le mire politiche e gli interessi economici spinsero così alla fabbricazione di falsi Hadith. Hadith è una testimonianza secondo la quale il Profeta avrebbe detto o fatto qualcosa, il che permette, d’emblée, di legittimare un certo fatto o un certo atteggiamento. […] Il periodo contemporaneo non costituisce affatto un’eccezione, quando si tratta di spacciare privilegi e interessi per tradizione del Profeta».
Esiste oggi, da parte di molti giovani dei Paesi musulmani, la volontà di superare i costumi tradizionali che questi, influenzati dal contatto con l’Occidente, spesso mediato dai media satellitari e da Internet, percepiscono come insostenibili ed anacronistiche costrizioni sociali, estranee, per alcuni, alla propria stessa fede. Fatima Mernissi, ancora, racconta della rivoluzione in corso nel mondo arabo, che sta trasformando dal basso il volto di società tradizionali ricorrendo proprio agli strumenti della globalizzazione (in particolare i nuovi media), attraverso cui giovani e classi deboli riescono non solo a superare i rigidi hudud (confini sacri) che separano Occidente e Oriente, ma erodono progressivamente, in maniera talora impercettibile dall’esterno, il potere della tirannide politica e sociale, dando nuova voce ad Antigone e a Shahrazad, e con loro a tutte le minoranze – o maggioranze – oppresse. Un esempio significativo è rappresentato dai blog persiani, prezioso strumento di libera espressione per i giovani ed i dissidenti iraniani che, virtualmente liberi, possono spezzare così le rigide maglie della censura e della società.
L’immigrazione musulmana in Europa rappresenta un fenomeno oggi incontrovertibile, con cui è necessario confrontarsi criticamente e dialogicamente. Il rifiuto di accettare tale realtà e la sua conseguente marginalizzazione rappresenta un biglietto di sola andata per l’esplosione della violenza repressa nei “ghetti” delle “medine” europee, così come l’accettazione acritica costituirebbe una “fatale tolleranza” per l’Europa, dal titolo del libro dell’intellettuale tedesco Günther Lachmann (Tödliche Toleranz. Die Muslime und unsere offene Gesellschaft). E proprio la Germania rappresenta oggi un prezioso laboratorio per comprendere “dove siamo e dove stiamo andando”. Passeggiare per le strade di Monaco, Colonia o Berlino permette di avere una chiara visione dell’ampiezza del “problema”: circa la metà dei passanti è costituita da stranieri, provenienti da Paesi musulmani. Un occhio allenato non trova difficoltà nel riconoscere le varie provenienze dal tipo di hejab (velo) indossato dalle donne (quasi sempre accompagnate dal marito, o comunque da un membro della famiglia di sesso maschile): tunica e foulard nero per le donne turche – la componente maggioritaria – con qualche variante per le più giovani, che, in pieno stile “iraniano post-khatamista”, sfoggiano sovente jeans, t-shirt e trucco all’ultima moda, ma senza dimenticare il foulard; castigato velo integrale (che lascia scoperti soltanto gli occhi e non risparmia neppure le mani, coperte da pesanti guanti neri) per le donne provenienti dai Paesi arabi del Golfo.
In generale, si tratta di persone con regolare permesso di soggiorno, che lavorano, pagano le tasse, spendono i loro guadagni nel Paese ospitante: in poche parole, “fanno girare l’economia” e, soprattutto in un paese come la Germania, il venir meno di tale forza economica determinerebbe certamente un tracollo del sistema. Come comportarsi, tuttavia, nel momento in cui queste persone, rivendicando l’applicazione della propria legge (la cui applicazione, per il pensiero islamico classico, non poteva superare i confini del dar al-Islam)? Come reagire nel momento in cui questi si rendono esecutori di una “superiore e sacra volontà” che imporrebbe – o se non altro non punirebbe - atti intolleranti, violenze e addirittura efferati omicidi, rivolti, più spesso, verso membri della propria famiglia che ne hanno infangato l’onore con comportamenti peccaminosi o, in taluni casi, verso cittadini del Paese ospitante, rei di aver esercitato il proprio diritto di critica nei confronti dei loro costumi “tradizionali”? Che dire del caso Theo Van Gogh? E che dire, soprattutto, delle dichiarazioni della madre di Hina e della comunità pachistana in Italia, che, pur nella timida condanna del padre-assassino, hanno imputato la causa prima dell’accaduto al comportamento “non islamico”, “non da buona pachistana”, della vittima, colpevole di essersi mischiata con gli italiani, i kafir (infedeli), e di averne assimilato i comportamenti, fuggendo dalla famiglia d’origine e dai suoi abusi consumati nell’omertà delle pareti domestiche. Non è forse un atteggiamento xenofobo e contrario alla rahma (misericordia) divina rifiutare l’integrazione e la felicità dell’individuo in nome di un’identità che, come qualunque “identità”, non è altro che un costrutto socio-culturale, sovente elaborato, nel caso delle comunità immigrate, nel contesto di arrivo. Come ricorda il geniale scrittore austriaco Stefan Zweig ne Il mondo di ieri, spesso le comunità immigrate, sentendosi estranee alla società in cui si trovano a vivere, si chiudono nella sterile riproduzione di stilemi sociali “originari”, talvolta addirittura già superati nel Paese d’origine (è sufficiente pensare alle “Little Italy” d’America o allo iato esistente fra le comunità marocchine d’Occidente, con un tasso di analfabetismo femminile superiore all’80%, e il Marocco di Mohammad VI, con la sua avanzata riforma del diritto di famiglia, le sue “carovane civiche” e i suoi Internet point), che creano vero-finte società “originarie” come «non sono mai esistite sulla terra», o almeno nella terra d’origine. E la radicalizzazione degli elementi deteriori della cosiddetta “tradizione” è, purtroppo, un elemento frequente presso alcune categorie di immigrati. Günther Lachmann ricorda che i piloti-kamikaze dell’11 settembre, quando giunsero come immigrati in Germania, non erano radicalisti islamici, ma lo sono diventati frequentando l’ambiente radicalizzato di alcuni centri islamici tedeschi. In ogni paese europeo, scrive Lachmann, vi sono liste della morte che individuano le vittime designate che si oppongono “all’Islam”, ovvero alla sua versione più intollerante; nelle liste olandesi v’era il nome di Theo Van Gogh, e v’è tuttora quello della sua “musa”, Ayaan Hirsi Ali.
Tutto questo ricorda l’Iran totalitario della velayat i-faqih (governo del giurisperito, forma di governo senza precedenti nella storia islamica, creata dall’ayatollah Khomeini) e gli omicidi a catena degli intellettuali dissidenti alla fine degli anni ’90, denunciati dal giornalista Akbar Ganji (appena rilasciato dopo 5 anni di carcere duro, comminati proprio in riferimento ai suoi articoli sull’argomento), indicati uno ad uno sulle liste della morte, su cui si trovava anche il Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, come lei stessa racconta nella sua autobiografia Il mio Iran.
Operare per la pace e per il dialogo, e per una fattiva, ma rispettosa, integrazione rappresenta oggi un compito delicato e rischioso, che ogni cittadino, ogni intellettuale e ogni governo deve assumersi. Solo creando le condizioni per una pacifica ed effettiva integrazione potrà essere arrestata la scia di sangue e sofferenza che continua a generare vittime per l’Europa, dramma umano e storico che alla negligenza dei governi occidentali nei confronti delle politiche dell’immigrazione e dell’integrazione deve molto della sua gravità. Un dramma a tinte forti che richiama, in tutta la sua mediterraneità, la tragedia euripidea e sofoclea. Un dramma che è, anzitutto, parte del dramma universale della donna, vittima sacrificale designata in tutte le culture, donna che, come afferma Simone de Beauvoir, non “nasce” tale, ma lo “diventa”, in base alle pressioni e agli stimoli sociali che riceve fin dalla più tenera infanzia, educata a divenire nel suo corpo “epifania della disuguaglianza”, pietra d’angolo su cui si fonda un intero sistema, scartata – ed eliminata – dai costruttori nel momento in cui, non accettando di indossare la fragile maschera di vetro del proprio ruolo, si rifiuta di combaciare col resto dell’edificio. Così Hina Saleem, così Safiya, così Amina e tutti i volti senza nome che, come Antigone, per un gesto d’amore e libertà, sono state sacrificate sulla fredda arcaica pietra della legge e dell’onore.

Il dramma universale della donna, e della donna musulmana in particolare, è stato efficacemente espresso dalla femminista egiziana Nawal al-Sada‘wi, perseguitata per le sue idee nel suo “moderato” Egitto, per bocca di uno dei suoi personaggi più toccanti, Firdaus, prostituta condannata a morte, autentica pirandelliana maschera nuda che rivela la “gran pupazzata”, l’inganno della società, con quello che il germanista Matteo Tuveri definirebbe “disincantato ghigno heiniano”: «Era giunto il momento di disfarmi dell’ultimo granello di virtù, dell’ultima goccia di purezza che avevo nel sangue. Ero consapevole della realtà, della verità. Sapevo quello che volevo. Non c’era più spazio per le illusioni. Meglio essere una prostituta di successo che una santa ingannata. Le donne sono vittime di un inganno. Gli uomini impongono alle donne l’inganno e le puniscono quindi per essere state ingannate. Le costringono a scendere al più basso livello e poi le puniscono per essere cadute così in basso; le costringono al matrimonio e poi le condannano a lavori servili a vita, se non a insulti e percosse. Mi rendevo conto che la meno illusa tra le donne è la prostituta e che il sistema matrimoniale è costruito sulla sofferenza delle donne».
Memento: «Il vostro Signore Si è imposto la misericordia […] in verità Allah è perdonatore, misericordioso» (Cor. 6,54). Magnificat anima mea Dominum.

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