L'idea di tolleranza nel pensiero moderno

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Categoria:Filosofia

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Testo

Stefano Dalle Molle CLASSE: IV A Tc.

L’idea di tolleranza nel pensiero moderno

Il tema della tolleranza assume un rilievo teorico e pratico sempre maggiore man mano che l’Europa sperimenta con drammaticità, nella seconda metà del Cinquecento e per tutto il Seicento, le conseguenze dell’ odio religioso provocato dalla rottura dell’unità teologica seguita alla Riforma protestante.
È di Sebastiano Castellione la prima voce che si leva per affermare la necessità di non rendere le dispute dottrinali motivo di divisione e di oppressione, perché le vere armi di un credente sono quelle che derivano da un comportamento virtuoso. L’umanista savoiardo scrisse un breve trattato intitolato “De haereticis an sint persequendi”. Questo trattato si presentava come una raccolta di testi delle varie epoche a favore della tolleranza religiosa. Nella prefazione egli sviluppa un’argomentazione di tipo etico, sostenendo che la persecuzione derivasse da un’incomprensione degli insegnanti di Cristo e che le vere armi per un credente sono quelle che hanno origine dalla purezza dei costumi.
Con questa argomentazione Castellione si ricollega alla tradizione di Erasmo. Entrambi i pensatori sottolineano che l’annuncio cristiano deve essere guida all’agire in modo pratico del credente e non motivo di dibattiti tra teologi e che la carità è il tratto il quale contraddistingue il vero seguace di Cristo.
A questo proposito Castillione osserva che tutti sono d’accordo nel condannare i delitti che nascono da comportamenti immorali in ambito pratico, come il furto o l’omicidio.
La posizione di Castillione, che mirava a evitare che potesse essere considerato eretico chiunque esprimesse un giudizio non consono all’opinione dominante ed ad affermare l’illiceità della repressione violenta del dissenso dottrinale, risultò ampiamente minoritaria: come la Chiesa cattolica, anche le nuove Chiese riformate, alle quali egli si rivolgeva, scelsero con convinzione la strada dell’autoritarismo ecclesiastico e dell’intolleranza. La sua proposta restò, tuttavia, un patrimonio custodito con cura da ristrette ed isolate correnti religiose, le quali, dopo il lungo inverno costituito dalle guerre religiose della prima metà del Seicento, lo consegnarono, rimeditato e arricchito, ai pensatori successivi.

Un passo importante per la maturazione del concetto di tolleranza si ha quando il dibattito fuoriesce dall’ambito etico, nel quale si erano prevalentemente mossi Erasmo e Castellione, e si incomincia ad affrontare la riflessione sulla natura e i compiti specifici dello Stato e della sua legislazione. Ciò lo troviamo negli scritti di Johann Crell, un pensatore che proviene dalle file di un movimento nato nella seconda metà del Cinquecento, il “socinianesimo”, che prende il nome da Lelio e Fausto Socini. I punti fondamentali di tale corrente sono costituiti dall’impegno a trovare un accordo tra il messaggio religioso e le istanze della ragione e dalla preminenza attribuita all’aspetto morale della predicazione evangelica. Nei suoi scritti Crell si allontana dalla prospettiva dei movimenti settari, che tendevano ad evidenziare in modo netto la differenza rispetto alle altre Chiese e l’isolamento rispetto alla struttura del potere temporale, per giungere al riconoscimento dello Stato come istituzione necessaria al governo degli uomini e autonoma rispetto alla Chiesa. Egli, infatti, intende la conservazione della società come un compito specifico affidato da Dio agli uomini e come tale distinto da quello di rendere onore alla maestà divina.
Nelle “Vindiciae pro religionis libertate” scritte nel 1632, Crell propone il principio politico e giuridico della distinzione tra Stato e Chiesa, tra principi naturali e civili da un lato e legge divina dall’altro. Lo Stato deve limitare il suo intervento repressivo a quei comportamenti che mettono in discussione la pace e la tranquillità sociale e deve garantire le condizioni necessarie per il libero confronto tra le varie opinioni. I diritti di libertà vanno garantiti a tutti gli uomini, in quanto la pace civile può mantenersi anche se vi sono diversità di opinioni in merito ai problemi religiosi: lo Stato deve quindi astenersi dalla repressione verso gli eretici non solo per la difficoltà a definire in che cosa consista effettivamente l’eresia, ma soprattutto perché essi non violano né le leggi della natura, né le leggi della convivenza civile. Tra quello che scrive Crell non mancano riferimenti al fatto che il cristianesimo non si caratterizza tanto per il continuo impegno intransigente verso la verità, quanto piuttosto per un atteggiamento animato dalla pace e dalla pazienza, ma la sua argomentazione tende sempre a ritornare sulle norme civili e proprie di ogni società umana e sugli strumenti politici che permettono di garantire la pace e la concordia tra i cittadini.
Egli fonda la sua analisi non tanto sulle dimostrazioni teologiche, ma sull’indagine razionale intorno alla natura dello Stato e ai suoi rapporti con le differenti confessioni religiose.

Il tema della tolleranza religiosa si intreccia strettamente non solo con le riflessioni sulla natura dello Stato, ma pure con l’affermazione della libertà della ricerca intellettuale e con il rifiuto di ogni intervento di censura sui libri. Molto importante a questo riguardo è la posizione del poeta inglese John Milton, che si impegna in prima persona negli avvenimenti politici della Rivoluzione inglese e partecipa attivamente ai dibattiti nati a instaurare il nuovo assetto religioso ed ecclesiastico nel paese. Egli scrisse un’opera dal titolo Aeropagitica nella quale si esprime a favore della libertà di stampa e affronta in modo non esplicito il tema della tolleranza, ma lo fa con un’impalcatura teorica a esso sottesa, con l’accentuazione del valore della coscienza individuale ed il riferimento ad una nozione di verità intesa come sorgente inesauribile, lo iscrive a pieno titolo nel dibattito della tolleranza. L’autore non intende difendere un qualunque gruppo minoritario perseguitato, ma incentra il proprio intervento sulla necessità della libertà della ricerca, della cultura e degli intellettuali, in modo che si possa apprendere e parlare liberamente e secondo coscienza. Il confronto tra diverse ricerche sia in campo religioso, sia in campo politico e scientifico può permettere di aprire la strada per il conseguimento della verità, la quale d’altra parte non ha bisogno di artifizi o censure che le diano la vittoria. Infine nelle pagine di Milton si può notare il pensiero del tollerare molti, piuttosto che costringere tutti.

Nelle pagine di Baruch de Spinoza la riflessione sulla natura e i limiti dello Stato si intreccia con l’analisi delle caratteristiche dell’atto religioso, giungendo a fondare il diritto di ogni cittadino a sviluppare in modo libero la propria razionalità. Spinoza non usa il termine tolleranza: la sua indagine non porta, infatti, a rivendicare il diritto per una minoranza religiosa di vedere riconosciuta la legittimità di organizzarsi liberamente, ma giunge ad affermare che il compito dello Stato è quello di far si che ogni uomo possa esercitare in piena libertà la propria facoltà razionale.
Spinoza mostra, favorendo il momento etico nell’atto religioso, come l’insegnamento della Bibbia riguardi l’esercizio della virtù e non la verità e come la Rivelazione abbia un’unico scopo, ovvero quello di stabilire le condizioni dell’obbedienza a Dio, in cui consiste la fede. Vengono in tal modo a cadere gli scontri che sono all’origine dell’odio teologico, in quanto la fede religiosa si caratterizza per il suo contenuto pratico e non si presenta come un sistema di verità. Inoltre, siccome la fede è completamente distinta dalla ricerca razionale, viene rimossa ogni possibilità di conflitto tra l’indagine filosofica e scientifica e l’autorità ecclesiastica, il cui obiettivo specifico è quello di definire gli atteggiamenti pratici in cui si concretizza l’obbedienza alla divinità. La stessa Bibbia non si presenta come via d’accesso privilegiato alla verità, ma si presenta come strumento che permette di conoscere il modo in cui Dio desidera essere onorato dagli uomini.
Successivamente Spinoza analizza la natura del patto che unisce gli uomini in società, osservando che all’origine del contratto sociale vi è, da parte di tutti, la rinuncia alla propria potenza individuale, ossia alla possibilità di agire secondo la propria specifica volontà, a vantaggio della sovranità dello Stato che garantisce la sicurezza di tutti tramite il monopolio della forza e il timore delle pene. Rispetto all’autorità religiosa, il potere statuale si caratterizza come autonomo e il suo impegno deve essere volto a far sì che le differenze religiose non diano origine a contrasti capaci di turbare la pace della convivenza civile. Il fatto che i cittadini trasferiscano allo Stato la loro potenza non significa che esso possa stabilire leggi in contrasto con i diritti connessi alla natura di ogni essere umano, primo fra tutti la libertà di pensiero e di giudizio. Lo Stato detiene il monopolio della forza, ma non quello delle idee e può intervenire soltanto per sventare quelle iniziative che si propongono di sovvertire, con la violenza o con l’inganno, le leggi stabilite. L’argomentazione politica, unendosi con quella religiosa, viene così a fondare il diritto a un’estesa tolleranza religiosa in una prospettiva di più ampio respiro, quella del diritto di ogni uomo di esercitare in piena libertà la propria facoltà razionale, contribuendo in tal modo non solo al proprio perfezionamento individuale, ma anche alla crescita complessiva della società tutta.

Dopo sedici anni dalla pubblicazione delle riflessioni di Spinoza, il Commentare Philosophique dell’ugonotto francese Pierre Bayle è un’altra delle opere che danno un significativo contributo alle ragioni della tolleranza.
L’opera si presenta come un commento alle parole del Vangelo di Luca (XIV, 10) e intende dimostrare come non vi sia niente di più abominevole che fare conversioni con l’uso della forza. L’argomentazione di Bayle non si struttura come un’esposizione puntuale del testo, ma si fonda sulla centralità accordata alla coscienza individuale, sia in ambito morale, sia in ambito teoretico. Egli mette l’accento sull’aspetto formale dell’agire morale, sottolineando il valore assoluto dell’intenzione: colui che agisce seguendo l’ispirazione della coscienza pone a base della sua azione una regola che suppone data da Dio stesso; disobbedendole intende quindi porsi contro Dio e disprezzare la sua legge.
La riflessione di Bayle si spinge fino al riconoscere dell’ambito delle verità teoretiche la possibilità di una ignoranza invincibile, in quanto la condizione umana è tale che la forza dell’ educazione e dei pregiudizi impedisce alla maggior parte degli uomini di avere una giusta conoscenza della verità. Egli nega il legame, ampiamente diffuso nella pubblicistica del tempo, tra errore e peccato, per cui l’errore veniva imputato alla coscienza come prova della sua radicale corruzione, e mostra con tutta una serie di esempi che l’errore può essere il frutto di una scelta compiuta in perfetta buona fede.
La coscienza diventa l’intermediario privilegiato e il luogo d’incontro tra l’uomo, dotato di mezzi di conoscenza spesso inadeguati e tali da renderlo incline all’errore, e Dio, ed esige quindi non solo tolleranza, ma assoluto rispetto.
La Lettera sulla tolleranza di John Locke sviluppa le motivazioni di ordine etico e gnoseologico che erano state proposte contro la persecuzione nell’Europa riformata, sottolineando con forza il valore della libertà religiosa in quanto tale e fondandolo sulla considerazione della diversità dei fini propri della Chiesa e dello Stato. L’opera si apre con l’affermazione secondo cui la tolleranza è il principale segno distintivo della vera chiesa e si sviluppa inizialmente la tesi, a cui si era uniformata tutta la primitiva dottrina cristiana e che era stata ripresa da Erasmo, Castillione e dallo stesso Bayle, secondo cui la carità è il segno distintivo del vero cristiano. Successivamente Locke passa ad affrontare l’argomentazione centrale del suo trattato, sulla quale fonda la validità stessa della libertà religiosa, e cioè la distinzione tra l’ambito civile e quello religioso. Si tratta di un argomento insieme giuridico e politico: giuridico in quanto tende a stabilire le competenze specifiche dei due ambiti; politico in quanto nasce dall’analisi della natura propria del potere politico e dei fini che hanno portato alla sua istituzione. Lo stato viene definito come una società umana, costituita unicamente al fine della conservazione e della promozione dei beni civili, mentre la chiesa è connotata come una società di uomini liberi, che si uniscono volontariamente per adorare Dio in pubblico.
La Chiesa è libera di comminare la scomunica a chi infrange le sue leggi, ma non di accompagnarla con offese e danni materiali. L’unico motivo per cui il magistrato può intervenire nelle pratiche di culto è dato dall’utile pubblico, che è l’elemento costitutivo della sua esistenza. È certamente possibile che la Chiesa e lo Stato fuoriescano dagli ambiti che sono loro propri: la Chiesa tentando di imporsi con la forza, il magistrato andando oltre la sua giurisdizione. Nel primo caso sarà il potere politico a respingere le pretese arbitrarie della Chiesa, nel secondo i cittadini avranno diritto di ribellarsi. Locke individua, inoltre, la possibilità di un conflitto particolare: quello che pone la conoscenza del singolo di fronte a una norma che, pur promulgata per il bene pubblico, è da lui giudicata illecita. Qui però il filosofo propone il tema dell’obbedienza passiva: il singolo deve astenersi da ciò che ripugna alla sua coscienza, che è il luogo specifico in cui si forma il convincimento morale, ma come membro di una società alla quale ha con libertà accettato di far parte deve sottomettersi alla pena prescritta dalla legge, in attesa di veder accolti i suoi convincimenti e modificata dal potere legislativo la legge stessa.
Nella sua riflessione Locke mette in luce anche alcuni limiti precisi da porre alla tolleranza, motivati dalla consapevolezza che essa di fonda sulla reciprocità, ossia sul principio secondo cui si deve concedere agli altri almeno la stessa libertà che si rivendica per se stessi. Esclusi dalla tolleranza sono coloro che insegnano come dogmi della religione comportamenti che palesemente sovvertono i fondamenti della società; coloro che riservano per sé e per i membri della propria setta prerogative contrarie al diritto civile; coloro per i quali la comunità religiosa è al servizio di un sovrano straniero; coloro, infine, che negano l’esistenza di Dio. La prima esclusione riguarda un numero esiguo di persone, le altre sembrano riferirsi ai cattolici e agli atei. Bisogna sottolineare come il tema della limitazione della tolleranza sia di tipo strettamente politico, dovuto a specifiche motivazioni storiche, in quanto cattolici, ubbidendo a un’autorità esterna alla nazione, rappresentavano un pericolo per la stessa pace del regno inglese e gli atei, annullando ogni riferimento trascendente, rendevano instabili i rapporti tra i cittadini.
Per quanto riguarda i cattolici non si tratta di porre restrizioni all’esercizio del culto, ma di limitare i loro diritti politici, per quanto riguarda gli atei si tratta di impedire loro di fare pubblica propaganda delle proprie convinzioni.
Il filosofo è pure convinto che un confronto condotto in pubblico e sottoposto al vaglio della ragione è in grado di ridurre i focolai di sedizione e le cause di contrasto. Ovviamente su tutto vigilerà lo Stato, che è nato per assicurare la pace sociale e i diritti inviolabili del cittadino ed è in grado di garantire un’ordinata e pacifica convivenza e di far prevalere le ragioni della tolleranza e del rispetto reciproco.

Con il pensiero di Voltaire il tema della tolleranza assume una coloritura differente che porta a mettere il primo piano la prospettiva storica, in grado di mostrare come l’intolleranza sia un errore che ha offuscato l’umanità solo per un determinato numero di secoli e che non è connaturata né alla necessità di una stabile convivenza civile, né alla stessa religione cristiana. L’esigenza che anima gli scritti voltairiani non è tanto quella di spiegare i motivi che stanno alla base di una scelta considerata erronea, come nel caso della riflessione di Bayle, e neanche quella di sottolineare la natura propria dello Stato, come avevano fatto Spinoza e Locke, quanto piuttosto di incentrare l’attenzione sul legame tra fanatismo e intolleranza. Attraverso il ricorso ad una pungente ironia e il continuo riferimento a esempi concreti, ora tratti dalla storia, ora dalla cronaca, Voltaire mostra come un atteggiamento di ostinato rifiuto delle opinioni diverse è frutto di una malattia dello spirito, tipica di un’età di barbarie ormai superata e nella quale può attardarsi solo chi non ha saputo fare un buon uso della ragione.
Nelle pagine di Voltaire la convinzione socratica del “sapere di non sapere” diventa il punto cruciale su cui costruire l’appello a una mutua comprensione, che è fatta non solo di rispetto per le ragioni dell’altro, ma anche di accettazione dei suoi limiti e pure delle sue balordaggini. D’altra parte egli osserva come la realtà stessa del mondo economico, quale si poteva vedere nei grandi porti commerciali, sia in Europa che nelle colonie, dimostra in concreto la possibilità di intrattenere scambi reciproci senza fare riferimento alle differenti convinzioni religiose.
Tutta quanta l’opera di Voltaire può essere intesa come un appello volto a instaurare una società tollerante e comprensiva delle caratteristiche dei singoli individui, capace di accantonare lo spirito di parte e di esorcizzare il demone sempre ricorrente del fanatismo.

Con la Rivoluzione francese e con la filosofia kantiana il tema della tolleranza si trasforma in quello dei diritti umani, spogliandosi dei connotati negativi presenti nella sua etimologia per affermarsi nel suo valore universale di rispetto per la specificità di ogni essere umano. Non si tratta più di tollerare un male minore ma di dichiarare che non vi può essere una società giusta senza il riconoscimento della dignità e del valore di ogni individuo, rispettato nella sua specificità di persona e nella sua consistenza razionale.
Kant pone come principio cardine della morale il rispetto dell’umanità, in sé e negli altri, nella convinzione che sono così è possibile attuare un comportamento pratico che segua le indicazioni che la ragione è in grado autonomamente di dare a ogni uomo. Con la sua nozione di Stato, ovvero quella di uno Stato in cui i cittadini sono soggetti solo all’autorità delle leggi, espresse in modo chiaro e frutto del consenso di tutto il corpo sociale, Kant individua una strada che permette di contrastare ogni abuso di potere e ogni forma di intolleranza dovuta a motivi religiosi.

Secondo Karl Popper il rifiuto di tollerare è in primo luogo un atto di arroganza intellettuale, che scaturisce dalla negazione della possibilità di essere in torto. È significativo il fatto che per Popper la tolleranza non si accompagna né allo scetticismo, né al relativismo, ma ha alla base la concezione della verità come ideale regolativi del sapere umano, cioè come meta verso cui tendere attraverso una continua verifica delle nostre ipotesi e conoscenze, sia in ambito scientifico, sia in tutte le altre attività umane. Solo così è possibile evitare il rischio di ricorrere alla discriminazione, per motivi di prudenza nei confronti di punti di vista scomodi o anticonformisti.

Habermas è attento alla dimensione comunicativa dell’esperienza umana, infatti egli utilizza il termine “ inclusione” per indicare il modo in cui oggi si specifica il tema della tolleranza: inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura nei confronti del diverso, bensì apertura verso coloro che sono e si sentono reciprocamente estranei e che tali vogliono rimanere. Secondo egli i valori culturali hanno diritto al riconoscimento politico perché sono costitutivi delle varie identità, ma vanno inseriti in una realtà sociale fondata su criteri costituzionali universali, ovvero accettati e condivisi da tutti, e transculturali, cioè non vincolati a nessun gruppo culturale specifico.
A fianco alla riflessione di Habermas si sviluppa quella di Michael Walzer il quale concentra l’attenzione sul fatto che nella società complesse, come le attuali società occidentali, caratterizzate da forme di identità difficilmente riconducibili a precise coordinate religiose e culturali e da legami di appartenenza più fluidi, non è possibile individuare un modello di tolleranza valido per tutte le situazioni. Per egli è universale solo il bisogno di tolleranza e la consapevolezza della precarietà delle soluzioni via via escogitate per rendere la convivenza civile equilibrata e armonica. Walzer sottolinea, inoltre, come il nostro sia un tempo di transizione, in cui permane un senso di appartenenza, forte in certi casi e più sfumato in altri, richiedendo così una duplice forma di tolleranza e di accettazione della differenza, a livello personale e insieme a livello politico.

Infine, le pagine dello scrittore marocchino Ben Jelloun ci offrono una significativa testimonianza di che cosa voglia dire essere un immigrato nelle nostre città. Egli ci narra in modo brillante le difficoltà e le incomprensioni alle quali va spesso incontro un immigrato nelle città europee. Egli sperimenta in prima persona il peso dei pregiudizi dovuti alla disinformazione: pensa con nostalgia, ma anche con realismo, al villaggio che ha abbandonato perché non permetteva di condurre un’esistenza decorosa, sente con dolore la distanza che si sta scavando nel rapporto con i suoi figli, che tendono ormai anche in casa a parlare francese, e soprattutto manifesta con chiarezza l’esigenza di essere rispettato nella sua dignità di essere umano.

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