Schopenhauer

Materie:Riassunto
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Testo

SCHOPENHAUER

PREMESSA
La filosofia di Schopenhauer rappresentò una critica radicale dell’idealismo = degenerazione del kantismo, pensiero mistificatorio che dava un’immagine falsata della realtà. Per certi aspetti la filosofia di Schopenhauer fu la sintesi di diverse influenze filosofiche e religiose: ritorno a certe impostazioni kantiane, richiamo alla teoria platonica delle idee, collegamento con la tradizione della mistica tedesca e con alcuni temi dei grandi sistemi filosofico-religiosi orientali, come l’induismo e il buddhismo.

GNOSEOLOGIA: IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE
“Il mondo come volontà e rappresentazione” = composto da 2 libri dedicati alla teoria gnoseologica del mondo inteso come rappresentazione, e 2 alla teoria metafisica del mondo inteso come volontà.
Schopenhauer si ispirò in parte a Kant che aveva già separato il noumeno (= cosa in sé in conoscibile) dal fenomeno (= ciò che appariva e si manifestava all’intuizione sensibile, con significato positivo, in quanto definiva il limite delle conoscenze scientifiche). In Schopenhauer invece la sfera fenomenica assumeva valenza negativa poiché veniva interpretata platonicamente come regno dell’apparenza illusoria, ovvero nascondeva una realtà più profonda, che la conoscenza scientifica non riusciva a raggiungere. Infatti il mondo si presentava al soggetto umano in primo luogo sotto forma di rappresentazione razionale (= conoscenza dei fenomeni).
La rappresentazione richiedeva necessariamente il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto e rappresentato. Questi due termini si limitavano reciprocamente (“dove comincia l’oggetto, finisce il soggetto” e viceversa) quindi non era possibile considerarli separatamente. Come era stato detto da Kant e molto tempo prima di Kant nelle Upanishad (testo sacro dell’induismo), il soggetto conosceva l’oggetto e classificava i fenomeni tramite le forme pure a priori di spazio (= rapp. di situazione), tempo (= rapp. di successione), causalità (= rapp. di dipendenza e relazione). Schopenhauer ridusse le 12 categorie di Kant all’unica categoria della causa, che le comprendeva e sintetizzava tutte, in quanto assumeva diverse funzioni.
Sulla base di questa teoria della rappresentazione, Schopenhauer condannò le due posizioni opposte del realismo (la natura oggettiva, un assoluto del tutto autonomo, aveva generato il soggetto pensante e le rappresentazioni razionali, che ne erano solo una semplice emanazione) e dell’idealismo (merito: affermava che non si potesse parlare di un oggetto se non in relazione ad un soggetto pensante; errore: aveva concepito il soggetto come un Io assoluto ed infinito, mentre Schopenhauer riteneva, in accordo con Kant, che il soggetto umano pensante fosse solo una realtà finita, limitata ed individuale).

SCHOPENHAUER E KANT
Schopenhauer semplificò la struttura dell’intelletto, riducendo le dodici categorie all’unica funzione della causalità, onnicomprensiva di tutte le altre, ma la differenza più significativa con Kant riguardò il modo di concepire l’intelletto: in Kant era solo attività sintetico-formale e giudicante basata su concetti puri ben distinti dalle intuizioni sensibili; per Schopenhauer invece era una facoltà intuitiva non diversa dalla sensibilità (entrava in rapporto diretto con i dati fenomenici, allo stesso modo in cui lo faceva la sensibilità tramite le forme a priori dello spazio e del tempo). L’intelletto, quindi, intuendo direttamente il materiale fenomenico, lo ordinava immediatamente secondo le leggi della causalità: infatti se la conoscenza si fermasse solo all’azione delle forme a priori di spazio e tempo, non riuscirebbe ad organizzare il materiale delle sensazioni in oggetti unitari aventi relazioni reciproche. Tuttavia anche in Schopenhauer l’intelletto era inteso come una struttura psichica a priori, ma mentre Kant tendeva a considerarla come una funzione essenzialmente immateriale, Schopenhauer invece ne sottolineò e ricercò le basi materiali e fisiologiche.
In Schopenhauer la ragione si configurò soltanto come la facoltà del pensiero logico-formale, basato su meccanismi astratti che non entravano mai a contatto diretto con la vita fenomenica. Quindi si fondava sui principi formali dell’identità, della non contraddizione, del terzo escluso e della ragion sufficiente (= c’è sempre una ragione per cui ogni ente è quello che è e non altro), con i quali elaborava deduzioni, astrazioni, ragionamenti e giudizi, che presupponevano comunque l’esistenza di un materiale empirico acquisito tramite sensibilità ed intelletto.
Tuttavia tra Kant e Schopenhauer sussisteva una fondamentale diversità di prospettiva: il primo era stato mosso da un’esigenza logico-metodologica a verificare limiti e possibilità della mente umana, Schopenhauer invece fu spinto soprattutto da un’esigenza metafisica e quindi fu indotto a considerare il mondo fenomenico solo come una realtà apparente che nascondeva l’essere autentico.

LE CONCEZIONI FILOSOFICO-RELIGIOSE ORIENTALI
Il pensiero di Schopenhauer fu influenzato anche dalle grandi concezioni filosofico-religiose indiane (= induismo, buddismo), approfondite solo nei primi decenni dell’800. Schopenhauer fu uno dei primi a mettere radicalmente in discussione la tesi della Grecia antica come unica culla della civiltà: sostenne che l’India fosse stata la vera culla della cultura umana, non riconosciuta dagli eruditi del suo tempo per un misto di arroganza e di ignoranza. Secondo induismo e buddhismo (= evoluzione dell’induismo) esiste una sorta di sostanza unica totale, il brahman, (= origine di tutte le cose; corrispondente dell’essere supremo ed eterno tipico delle filosofie e delle religioni dell’Occidente, anche se completamente impersonale ed indeterminato) che sta a fondamento dell’atman (= il Sé, l’Io profondo ed universale identico in ogni individuo ma che non viene percepito perchè è soffocato dalla materialità e dalle passioni), il quale viene trasformato dagli istinti e dai desideri in karman (= Io empirico assoggettato al divenire incessante delle cose). Solo un lungo percorso di meditazione interiore e di distacco dal mondo può portare a riscoprire l’atman.
Principio vitale dell’universo (brahman) e principio vitale dell’uomo (atman) tendono a coincidere, come nella relazione macrocosmo-microcosmo. Per una sua interna necessità, l’Assoluto brahman-atman è costretto a diventare karman, ossia il processo che determina e governa il divenire, quindi ad incarnarsi in forme individuali e materiali, perdendo la coscienza della propria unità universale ed originaria. Queste esistenze fenomeniche si ripetono senza che se ne possa prevedere la fine, in quel ininterrotto ciclo di nascita e morte chiamato samsara (= non solo processo di reincarnazione delle anime ma eterno ritorno di tutte le cose della natura). Tuttavia il karman è un’illusione (= Maja).
Schopenhauer si ispirò direttamente a questa sapienza filosofico-religiosa indiana e contribuì a denunciare i processi di “occidentalizzazione” del mondo, valorizzando la spiritualità orientale, in particolare egli fu affascinato dalle Upanishad.

IL MONDO COME VOLONTA’
Il mondo inteso come rappresentazione razionale del soggetto non esauriva l’intera realtà, poiché si riferiva soltanto alla sfera fenomenica. Infatti era possibile sollevare il “velo di Maja” (= andare al di là dell’apparenza fenomenica, accedere alla dimensione metafisica delle cose) per accedere alla verità.
Né la scienza intellettuale e sperimentale di Newton e Kant, nè la ragione dialettica degli idealisti consentivano all’uomo sapiente di squarciare il velo di Maja, perchè le scienze governate dall’intelletto spiegavano soltanto il dove, il quando, il perché dei fenomeni ma non la loro essenza profonda, e la ragione dialettica idealistica, pur essendo una ragione metafisica, era un sapere astratto, artificioso e formale, incapace di penetrare l’essenza nascosta della realtà.

LA CORPOREITA’: COME SI SCOPRE LA VOLUNTAS
Schopenhauer, rifacendosi alla Critica del giudizio di Kant e ai romantici, sostenne che l’esperienza conoscitiva rivelatrice dell’essenza metafisica del mondo fosse il sentimento della propria corporeità (= percepire il proprio corpo come centro di volontà e di desideri).
Infatti l’intelletto percepiva il proprio corpo soprattutto come oggetto collocato nello spazio e nel tempo e soggetto alle leggi della causalità, ma anche come il centro di impulsi istintivi, di bisogni biologici e di sentimenti: il corpo pertanto era l’unico oggetto che entrava in rapporto diretto con l’Io in modo diverso dalla rappresentazione (= l’Io consapevole sentiva il proprio corpo come una volontà di vita che tendeva ad affermare se stessa).
Pertanto, attraverso il sentimento della propria corporeità, l’uomo scopriva che il fondamento ultimo del proprio essere era costituito da una volontà di vivere che permeava ogni atto e ogni pensiero della propria esistenza, che non era semplicemente un desiderio momentaneo che scompariva definitivamente una volta soddisfatto o un istinto che si manifestava solo in determinate circostanze, ma qualcosa che emergeva fin dalla nascita e durava fino alla morte.

LA VOLUNTAS
Se l’essere profondo dell’uomo consisteva in una cieca volontà, allora per analogia anche l’essenza profonda del mondo consisteva necessariamente nella voluntas (= “cosa in sé” di Kant): essa non solo fondava il proprio essere individuale ma era anche la forza cosmica vitale universale che permeava tutti gli aspetti della natura, e risultava unica, infinita (in quanto principio metafisico, per df supera ogni confine spazio-temporale) e libera (nulla poteva opporsi alla sua piena e totale realizzazione); inoltre era anche irrazionale (come energia cosmica vitale, non ha alcuna ragion d’essere, non attuava alcun piano, non tendeva a nulla se non soltanto la mera conservazione di sé, nessun filo razionale collegava tra loro le vicende delle cose e degli uomini, quindi non esisteva una vera storia dell’uomo alla maniera hegeliana) ed inappagabile (ogni sua parziale realizzazione era solo la premessa di un nuovo impulso, per cui il mondo appariva come l’incessante dispiegarsi di un principio che riproponeva eternamente e vanamente se stesso).

IL PROCESSO DI OGGETTIVAZIONE
Il mondo fenomenico esisteva solo per consentire alla voluntas di oggettivarsi, e la voluntas si oggettivava perché voleva. Il passaggio dalla voluntas indeterminata ed infinita al mondo naturale finito e concreto avveniva attraverso un processo di oggettivazione graduale, con cui infine dava vita alla molteplicità degli enti e degli individui che popolavano la natura (mondo = struttura ontologica ordinata basata su modelli gerarchici ben definiti). Un passaggio essenziale era la fissazione della voluntas in una molteplicità di essenze eterne, archetipi immutabili in virtù dei quali si formavano progressivamente gli enti individuali concreti: ad ogni grado della realtà corrispondeva un modello ideale, da cui si ramificava a sua volta una gerarchia di forme sempre più complesse. Il passaggio da un grado ad un altro rispondeva ad una necessità interna inarrestabile in quanto la voluntas non poteva fermarsi nelle sue progressive oggettivazioni, era spinta ad abbandonare e superare continuamente le sue forme inferiori, per aprire la strada a manifestazioni di sé sempre più potenti. Il culmine del processo veniva raggiunto con l’uomo nel quale, tramite il cervello, la voluntas acquistava coscienza ed intelligenza; ma ciò non era un progresso positivo (v. Illuminismo, idealismo) perché l’intelligenza consapevole è un perfido strumento attraverso cui la voluntas persegue i propri scopi, affermando ad un livello sempre più elevato la propria assurda volontà di essere: infatti nel mondo umano si riproduce la stessa incessante, assurda e dolorosa lotta per la sopravvivenza e per il dominio incontrata nei gradi più bassi (= individui vs individui, classi vs classi, popoli vs popoli).

IL PESSIMISMO
L’uomo appare prigioniero di una sorta di solitudine ontologica poiché nella storia non agiva alcun piano razionale, così il mondo si presentava nella sua totale arbitrarietà ed assurdità, e l’uomo non si poteva aggrappare ad alcuna fede religiosa, ad alcun mito.
L’uomo era una macchina desiderante inappagabile, poiché ogni soddisfazione era solo una premessa di un nuovo desiderio, il che determinava una condizione esistenziale permanente dominata da un sentimento di incompletezza, che a sua volta generava frustrazione, impotenza e infelicità. Tutto ciò caratterizzava anche la condizione di tutti gli esseri viventi: questo mondo era senza dubbio il “peggiore dei mondi possibili” (vs Leibniz).
La felicità era una chimera irraggiungibile per l’uomo: la felicità, non esistendo, si poteva definire solo in negativo (= per quello che non era) e si riduceva ad essere soltanto una tregua dal desiderio doloroso. Quando il dolore scompariva momentaneamente spesso subentrava la noia, quindi la vita umana si risolveva in una continua oscillazione tra dolore e noia.
L’uomo, essendo consapevole di sé, soffriva molto di più di tutte le altre creature: anzi il dolore risultava direttamente proporzionale al grado di consapevolezza di sé e di conoscenza.
Inoltre il pessimismo di Schopenhauer inoltre derivava anche dalla constatazione che la vita naturale, umana e sociale fosse dominata dalla legge della sopraffazione (= il più forte schiaccia il più debole, per essere a sua volta schiacciato). Solidarietà, amore e simpatia camuffavano un desiderio di dominio.
Dato che l’uomo non era un angelo ma piuttosto un lupo (v. Hobbes) animato da un feroce egoismo, le rappresentazioni ottimistiche dell’uomo costituivano solo una mistificazione della realtà. L’esistenza dell’individuo era soltanto uno strumento della voluntas per perpetuare la vita e il dolore.
L’amore, esaltato da filosofi e poeti romantici, era un’altro perfido inganno della voluntas: la natura aveva fatto dell’eros l’istinto più potente e l’esperienza più piacevole, nascondovi il piano della voluntas, che costringeva gli individui ad amarsi per potersi riprodurre, e, attraverso la riproduzione, alimentare in realtà la stessa voluntas. Il fatto che la donna dopo aver procreato perdesse la propria bellezza dimostrava che alla base dell’amore ci fosse un istinto biologico imposto dalla voluntas. Anticipando le intuizioni di Freud, Schopenhauer affermò che ogni sentimento amoroso avesse sempre e comunque la sua origine dall’impulso sessuale. Il fatto che la sessualità umana fosse accompagnata da un sentimento di vergogna, fu spiegato attraverso la considerazione che l’eros era responsabile del più grave dei delitti, mettere alla luce creature destinate inesorabilmente a soffrire.
Lapidaria definizione dell’amore di Schopenhauer: “due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano, e una terza infelicità che si prepara”.

IL PROCESSO DI LIBERAZIONE
L’uomo, essendo dotato di coscienza, era l’essere che soffriva di più del suo destino di dolore e sofferenza e, in quanto capace di staccarsi dal presente, proiettava la sua condizione anche verso il passato (nostalgia, malinconia) e il futuro (paura, incertezza, attesa).
Tuttavia proprio quella presa di coscienza del proprio destino che aumentava le sofferenze dell’uomo era il primo passo nel cammino di liberazione dal dolore: la stessa filosofia, in quanto svelava l’essenza metafisica delle cose, poteva offrire gli strumenti per un possibile superamento della voluntas.
Occorreva dunque ricercare e mettere in atto esperienze che bloccassero la voluntas, contrapponendovi quindi una noluntas (= non volere).
Schopenhauer fu contrario al suicidio poichè si presentava come un atto individuale egoistico (il suicida desiderava semplicemente per sé una vita migliore) che non sopprimeva la voluntas ma ne rimaneva prigioniero (il suicida era schiavo del proprio egoismo, quindi schiavo della voluntas, che si oggettivava dal suo egoismo). In ogni caso, sopprimendo la propria esistenza individuale, il suicida lasciava intatto il suo archetipo (= la vita umana) nel mondo, che, pur morendo in un individuo, rinasceva in mille altri.
Occorreva invece trovare qualcosa che fosse in grado in qualche modo di portare fuori dalla voluntas metafisica: tre tappe progressive (arte, etica ed ascesi).

ARTE
1^ forma di negazione della voluntas poichè si realizzava una sorta di sospensione del desiderio di vita.
Schopenhauer si allontanò da Kant (il giudizio estetico non può avere carattere conoscitivo perché non è un giudizio sintetico a priori), e si avvicinò invece alla teorie idealistico-romantiche di Schelling (tramite la facoltà intuitiva che genera l’arte e implica la sintesi di sensibilità, immaginazione e intelletto, è possibile cogliere l’essenza profonda della realtà).
Infatti, nel godimento estetico di un oggetto bello, l’uomo non si fermava a considerare soltanto agli aspetti sensibili dell’oggetto stesso, ma arrivava a cogliere il modello ideale, eterno ed immutabile, che vi si celava dietro: l’arte era appunto contemplazione e riproduzione di questo contenuto ideale.
Per potersi elevare a tale livello superiore l’individuo doveva però staccarsi dal flusso delle passioni, realizzando così una sospensione del divenire spazio-temporale. L’esperienza estetica pertanto costituiva un’interruzione del flusso vitale doloroso.
Schopenhauer descrisse anche una gerarchia delle forme artistiche: architettura, pittura, poesia e musica, la più elevata (ogni altra forma artistica coglieva e riproduceva soltanto i modelli ideali in cui la volontà si era oggettivata, la musica invece riproduceva direttamente il movimento interno dell’essenza della voluntas).
Tuttavia l’arte aveva il difetto di essere provvisoria (esperienza che si esauriva in breve tempo), e soltanto individuale (non sopprimeva l’egoismo e il dolore degli altri uomini), quindi era ancora una risposta inadeguata al problema della liberazione dalla voluntas: la bellezza era più una “consolazione della vita” che una vera e propria “liberazione dalla vita”.

ETICA
Poneva gli esseri umani in relazione con gli altri, era una possibilità di superare l’egoismo individuale.
Schopenhauer non si riferì alla sfera socio-politica hegeliana (= distinzione tra moralità ed eticità), ma considerò etica = solo moralità, ricerca interiore attraverso cui la coscienza si poneva di fronte al problema del bene (v. Kant). Schopenhauer tuttavia si oppose all’impostazione razionalistica dell’etica di Kant (ragion pura = essenza e origine della moralità dell’uomo) e sostenne che alla base del comportamento morale ci fosse un sentimento fondamentale (= pietà) che a sua volta si scindeva in due atteggiamenti o virtù: giustizia (= considerare gli altri uguali a noi stessi e a non fare del male al prossimo per ricavarne un vantaggio, poneva un freno al proprio egoismo) e carità (= sentimento etico più attivo, amore disinteressato ≠ erotico egoistico, somigliante all’agàpe dei cristiani, partecipandola dolore altrui non solo trattiene dal ledere l’altro ma spinge perfino ad aiutarlo).
Tuttavia anche la compassione era inadeguata poiché consisteva in un compatire, in un soffrire insieme agli altri: ma in questo modo ci si trovava ancora all’interno della volontà.

ASCESI
L’ascesi (= “allenamento”, tecnica di negazione della voluntas) era l’unica possibilità di uscire dalla vita.
L’ascesi cominciava quando l’uomo cessava di volere, esercitando la massima indifferenza per ogni cosa e finendo per provare orrore per la volontà di vivere che costituiva il nucleo del proprio essere. Il primo gradino dell’ascesi era la castità completa, seguivano poi povertà volontaria, digiuno, sacrificio (= mortificazione degli istinti) e nirvana (= “estinzione, spegnimento del soffio vitale, della brama”, portava alla completa negazione della voluntas, convertita in noluntas). Il nirvana era stato raggiunto solo da un ristretto numero di persone (santi, asceti, saggi), infatti presupponeva una lotta impari contro la radice della vita. Alla fine nel nirvana l’Io individuale tendeva a dissolversi nell’Io universale ed atemporale (= atman), che a sua volta s’identificava con il principio metafisico generale; questa sorta di visione non poteva essere considerata come conoscenza, in quanto veniva a mancare la distinzione tra soggetto ed oggetto: quindi era anche incomunicabile ad altri. Nei testi indù: nirvana = conoscenza per identità o realizzativa, proprio per distinguerlo dalle conoscenze razionali. Tuttavia l’esperienza del nulla andava intesa come raggiungimento di uno stato di beatitudine, come realizzazione della suprema liberazione dal negativo.

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