Materie: | Appunti |
Categoria: | Filosofia |
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Testo
Platone
La teoria delle idee
Un uomo seduto osserva la strada di fronte a lui. Vede un mendicante che viene soccorso, nutrito e vestito e pensa "questa è un'azione giusta". E poi vede un uomo anziano che porta sulle spalle un pesante sacco e un giovane sconosciuto che gli va incontro e si offre di aiutarlo e portare lui quel carico, e anche allora pensa "questa è un'azione giusta". Però perché definisce con l'aggettivo "giusta" due azioni che nulla hanno di identico? Come spiegare che cosa quelle due azioni diverse, fatte da persone differenti, hanno in comune? Questo è, in breve, l'interrogativo a cui cercò risposta il più grande filosofo dell'antichità: Platone (427-347 a.C.), unico filosofo greco del quale ci rimangano integralmente le opere, circa 36, tra lettere e testi filosofici, scritti per i quali l'autore scelse sempre la forma dialogica e quasi tutti aventi Socrate come protagonista e diversi interlocutori che spesso danno il titolo al dialogo.
Nato da aristocratica famiglia ateniese il giovane Aristocle - soprannominato "Platone", dal greco pláton, "ampio", forse per la sua possente mole - ebbe educazione eccellente; poté leggere e ascoltare i filosofi, viaggiare molto e formarsi anche alla vita politica, com'era naturale per un nobile. Soprattutto fu impressionato dal vedere come nella sua amata patria, Atene, gli uomini fossero incapaci di costruire una società giusta e stabile e, anzi, sembrassero procedere di errore in errore o, nel migliore dei casi, alla cieca. Invece di dare retta al saggio Socrate, che predicava la virtù e incitava a usare la ragione, lo avevano condannato a morte, preferendogli i sofisti che della virtù non volevano sapere nulla; alla guerra, che minacciava di distruggere non solo Atene ma tutte le più importanti città greche, non sapevano opporre pace e stabilità, e anziché affidarsi alla conoscenza razionale preferivano ripetere le vecchie formule religiose o ricorrere al mito.
Sono come uomini imprigionati in una caverna - scrisse Platone - e tenuti fermi da catene che li costringono a guardare solo la parete di roccia di fronte a sé. Ogni tanto qualcuno o qualcosa passa al di fuori e la luce del sole riflette l'ombra sulle rocce; quegli uomini incatenati vedono solo ombre e, non potendo volgere il capo all'ingresso della grotta, le scambiano per l'unica e salda realtà. Ma se potessero sciogliersi dai legami, alzarsi e uscire, allora vedrebbero che quel che essi ritenevano reale era solo un'immagine proiettata, nulla più che un simulacro (una copia ingannevole) del vero. Aveva ragione Socrate - conclude Platone - a pensare che gli uomini andassero svegliati dal loro sonno, insegnando loro a ragionare e a non aver paura dei dubbi, ma - aggiunge - non è sufficiente che dubitino, bisogna anche che apprendano come conoscere il vero per poterlo seguire. Ed ecco riproporsi l'eterna domanda della filosofia: ma che cos'è il vero?
La ricerca del vero
Platone usa un esempio molto semplice. Un tavolo è un tavolo, o meglio: questo oggetto che ho di fronte, alto circa un metro, con quattro gambe di legno ecc. è un tavolo; questo è senz'altro vero. Ma non è l'unico tavolo, una quantità enorme di tavoli esistono nel mondo e sono tutti "tavoli" tanto quanto questo che ho di fronte. Eppure non hanno nulla di identico, uno è grande l'altro piccolo, uno di legno l'altro di metallo, uno con quattro gambe l'altro con tre e via dicendo. E anche un tavolo immaginato o dipinto, nonostante non esista nella realtà, si chiama "tavolo". Ciò accade perché tutti i tavoli hanno in comune qualcosa che non è materiale, diciamo una certa forma astratta a immagine della quale sono tutti costruiti. Un'idea generale di come debba essere un oggetto affinché sia un tavolo è presente nella mente di chi lo costruisce, e quest'idea non è legata a nessuna caratteristica specifica perché, abbiamo detto, nella realtà i tavoli possono essere l'uno molto diverso dagli altri. Ebbene, questa idea secondo Platone esiste per ogni "ente" (oggetto concreto o astratto): è la sua essenza e conoscerla significa conoscere la verità di quell'ente.
Conoscere le idee sarebbe allora la garanzia migliore per una vita giusta. Platone è convinto che gli uomini non agiscano male per cattiveria ma per ignoranza; è un assertore, si usa dire in filosofia, dell'identità tra etica e conoscenza, così che se gli uomini conoscessero il bene sarebbero naturalmente portati a farlo. Non che il filosofo creda che gli esseri umani siano buoni per natura, vede benissimo che spesso il male nasce dall'anteporre il proprio utile a quello altrui; solo è convinto che anche questa "cattiveria" dipenda, alfine, dall'ignoranza, dalla falsa supposizione che esistano molte forme individuali di bene, una in contrasto con l'altra, mentre in realtà c'è una sola idea di bene che è comune a tutti gli uomini.
Stabilito questo, il problema diviene quello di sapere come fare a conoscere le "idee" e che rapporto possa esistere tra queste e gli enti fatti a loro immagine. Si torni all'esempio iniziale. Forse che l'idea di giustizia, per la quale diciamo che questa e quest'altra azione sono giuste, ci viene dall'osservazione? è una somma di tutte le azioni giuste la giustizia? e il tavolo la somma di tutti i tavoli passati, presenti, futuri o anche solo immaginati? Noi incontriamo solo casi particolari di giustizia e oggetti concreti che sono tavoli, mai l'idea di giustizia e quella di tavolo. E nemmeno si può dire che l'idea sia la somma di tutti gli oggetti, intanto perché chi mai potrebbe fare quella somma infinita? Ma poi, se anche fosse possibile, come fare a sommare tutte le azioni giuste senza usare un'idea di giustizia, che cosa sommare?
Secondo Platone la soluzione è una sola: le idee esistono prima delle cose e degli enti, anzi esistono da sempre e la realtà è una specie di collezione infinita di copie di quelle idee originarie, eterne e immutabili dalle quali un demiurgo (un "divino artigiano") trae tante singole copie, differenti l'una dall'altra, e così per tutto quello che esiste o esisterà in natura.
Il metodo dialettico
Platone riconosce che possano esserci molti generi di conoscenza, ma nega che tutti abbiano lo stesso valore. Dato che gli enti sono copie mutevoli delle idee, conoscerne anche perfettamente uno non porterà mai alla vera sapienza; come chi pretendesse, visto che conosce perfettamente un suo amico, di poter con questo affermare di sapere com'è fatto l'uomo.
Questo significa anche che i cinque sensi umani non sono sufficienti alla conoscenza filosofica. La vista, l'udito, il tatto non ci presentano mai le idee nella loro purezza ma solo copie materiali: sarà quindi un altro l'organo della conoscenza, ma quale? Platone, il discepolo di Socrate, non ha dubbi: è la dialettica, quel ragionare critico che Socrate insegnò per tutta la vita. L'uomo non nasce come un foglio bianco (una tabula rasa) ma è presente in lui un certo sapere. In realtà non una scienza vera e propria, ma piuttosto una certa conoscenza confusa, quasi fosse qualcosa che ognuno sapeva ma che poi ha scordato. In fondo, almeno sulle questioni più semplici, tutti sono in grado di ragionare e ricordare con chiarezza certe idee elementari non solo di oggetti (tavolo, erba, acqua), ma anche di relazioni (uguale, diverso, maggiore) e di princìpi logici (il tutto è maggiore delle parti, oppure: l'effetto non può venire prima della causa).
La dialettica viene allora in soccorso di questa specie di memoria. Se Socrate la impiegava per invitare gli uomini a disfarsi dei loro pregiudizi, Platone non la limita a questa funzione pedagogica, ma la intende come un vero e proprio metodo di conoscenza o, per meglio dire, come l'unico metodo corretto che conduce alla conoscenza del vero.
La realtà che viviamo è davvero, come sostenne Eraclito, un deposito di contraddizioni, e da queste noi siamo indotti a credere ora una cosa, ora il suo contrario, senza poter mai afferrare un punto saldo. Intuiamo che debba esistere una strada per arrestare quella confusione, ma non riusciamo a ricordare quale sia. Abbiamo solo un indizio: gli enti sono a immagine e somiglianza delle idee, e le idee sono le essenze che gli enti dispiegano in un'infinita serie di variazioni. Basterebbe che l'uomo riuscisse a farsi guidare non dall'esperienza ma da quella specie di memoria di cui s'è detto, per andare oltre l'apparenza verso il regno delle idee (iperuranio, letteralmente "che sta oltre il cielo"). Un tempo, racconta il filosofo, tutte le anime degli uomini erano libere dalla prigione del corpo e potevano contemplare non gli oggetti, ma le idee stesse. Qualcosa, però, le legò a dei corpi mortali, le imprigionò nel mondo mutevole e confuso delle sensazioni e delle opinioni, e le privò della conoscenza che avevano accumulato.
Per fare ritorno a quella conoscenza, l'unica via percorribile è il procedimento che mette a confronto i pensieri che gli uomini hanno, che fa dialogare (da cui dialettica) conoscenze contraddittorie l'una con l'altra, e da questa contraddizione recupera un'unità vera per tutti e in ogni tempo, quella verità che è espressa, appunto, come idea.
I Dialoghi
Platone è l'unico filosofo dell'antichità greca del quale ci sia giunta quasi tutta la produzione. Del pensatore ateniese possiediamo 36 scritti: un'Apologia di Socrate, 13 Lettere (con qualche dubbio sull'autenticità) e 34 Dialoghi.
Tra i primi dialoghi ricordiamo il Protagora e il Menone sul tema della virtù , in cui Platone formula la nozione di forma o idea e la teoria della reminiscenza; il Simposio sul tema dell'amore, il Fedone che propone una dimostrazione razionale dell'immortalità dell'anima. Tra i dialoghi maggiori si ricordano il Parmenide, la Repubblica e il Timeo.
La scelta di scrivere dialoghi - non trattati o saggi e nemmeno poemi in versi come Parmenide - ebbe delle motivazioni filosofiche comprensibili alla luce di quanto appena detto. Se conoscere è ricordare e se questo ricordo scocca come una scintilla nell'anima quando questa, liberata dalla gabbia delle sensazioni e delle opinioni, si rivolge a dialogare con se stessa, ecco che il dialogo platonico è una sorta di imitazione dell'intenso colloquio interiore che l'anima ha con se stessa. I dialoghi di Platone sono dialettici anche nel senso che non presentano una verità compiuta, ma permettono di percorrere i passi necessari a ricostruirla, non definiscono bensì conducono per la via della conoscenza.
Il Fedone: l'immortalità dell'anima
Il Fedone, che fa parte del gruppo dei dialoghi della maturità, è uno dei dialoghi platonici che ebbe maggior diffusione tra i teologi cristiani. In esso infatti Socrate offre alcune prove dell'immortalità dell'anima ai discepoli preoccupati della prossima esecuzione del maestro, a seguito della condanna a morte pronunciata dal tribunale di Atene nei confronti di Socrate. La dimostrazione va suddivisa in quattro distinte argomentazioni. Nella prima dimostrazione, detta dei contrari, Socrate considera come ogni cosa debba risolversi nel suo contrario affinché non accada che tutti gli esseri assumano la stessa forma, così che se la vita si risolve necessariamente con la morte, anche la morte deve, in una qualche forma, ritornare alla vita. Il secondo argomento si fonda sulla reminiscenza, cioè su quella particolare teoria platonica che sostiene la conoscenza non essere altro che il ricordo - la reminiscenza appunto - di cose che la nostra anima ha saputo un tempo, grazie alla contemplazione delle idee, ma che s'è scordata al momento della nascita. Se dunque l'anima è esistita prima di nascere, è del tutto logico supporre che continui a esistere anche dopo il disfacimento del corpo che segue alla morte. L'argomento della semplicità è di ordine fisico: l'anima, come le idee, è un essere indivisibile, ma a subire la morte, intesa come dispersione degli elementi costitutivi, sono solo gli esseri composti, così che se le idee sono eterne perché uniche e indivisibili, anche l'anima deve partecipare delle medesime qualità.Socrate presenta infine un'ultima motivazione, che rivela ai nostri occhi notevoli somiglianze con la dottrina cristiana. L'anima, sostiene Socrate, è il vero e autentico principio della vita, com'è possibile che muoia il principio della vita? Essa potrà quindi abbandonare un corpo o un altro, ma che il principio della vita si trasformi in principio di morte sarebbe una contraddizione e un'assurdità, e dunque ciò non può verificarsi.
La condanna dell'arte
Secondo Platone sarebbe ridicolo pensare di imporre la verità con definizioni, teoremi e dimostrazioni; al contrario chi insegna deve, socraticamente, partire dalle esigenze e dalle opinioni del suo interlocutore e ragionare insieme su quelle per elevarsi, un poco alla volta, fino alle idee. Ma questa impostazione comporta il fatto che non esista alcun libro platonico dove egli descriva esattamente la sua teoria, ma solo dialoghi dove diverse opinioni, che Platone considera errate, vengono criticate e sostituite con altre. Insomma, la sua filosofia è improntata sul modello del rapporto tra maestro e discepolo più che su quello dello scienziato che scopre qualche legge fisica e la racconta per iscritto di modo che tutti possano leggere e apprenderla.
Per Platone la verità non è un oggetto che si tratti di afferrare, ma una passione, o semmai un modo di pensare, che si deve suscitare dialogando, e meglio ancora se il dialogo avviene tra amici, perché la passione di uno per l'altro può divenire passione comune per la verità. Si comprende allora perché Platone condanni con parole tanto dure sia l'arte sia il mito sia, persino, la scrittura. Prendiamo la scrittura; i segni delle parole, argomenta Platone, sono imitazioni della voce umana che pronuncia i nomi, e questi, d'altronde, sono delle copie sonore degli oggetti, e poiché gli oggetti sono copie delle idee, abbiamo che un testo scritto è una copia di una copia di una copia. Come potrebbe avvicinare alle idee? Raggiungere la verità?
Il carro alato dell'anima
L'anima, che è immortale secondo Platone, è come fosse un carro alato trainato da due cavalli; il guidatore possiamo paragonarlo alla ragione che cerca di condurre l'anima verso il bene, ma dei due cavalli uno è nero, simbolo delle passioni negative, l'altro è bianco e rappresenta invece la tensione verso il bene e la verità.
Il compito del guidatore è davvero difficile, deve tenere a freno non solo il cavallo nero delle passioni ignobili ma anche quello bianco della tensione verso il bene, che altrimenti partirebbe per conto suo. Si devono, insomma, armonizzare le due opposte tendenze, e per far questo serve, appunto, la ragione. Però la poesia, l'arte figurativa e i miti non si rivolgono certo alla ragione dell'uomo, ma semmai ai suoi sentimenti cercando di suscitare emozioni sempre più forti e numerose. Per questo sono di ostacolo al compito armonizzante della ragione e dovrebbero essere banditi. Perché allora Platone stesso scrive libri, si serve di miti per spiegare le sue idee e inventa addirittura una nuova forma poetica come il dialogo? La risposta è semplice: perché la condanna non è di tutte le forme artistiche ma solo di quelle che, anziché rivolgersi alla parte nobile dell'anima umana, vogliono al contrario eccitare le passioni più basse. Ma esiste anche una bellezza che non è desiderio di possesso bensì amore (filo-) del sapere (-sofia), ed è quindi una bellezza filosofica, e di questa Platone vuole essere il poeta. In un'ipotetica città perfetta, quindi, non dovrebbe esserci posto per l'arte del sentimento e delle emozioni.
La repubblica di Platone
Esistono due opere platoniche che trattano questo tema: le Leggi e la Repubblica. Innanzitutto bisogna ricordare che, per Platone, non tutte le idee sono di uguale valore; alcune sono, per così dire, di grado inferiore, altre superiori. Sopra a tutte loro - idea delle idee - c'è l'idea del bene, alla quale le altre devono corrispondere, e non fa eccezione quella della città perfetta. A dire il vero la città perfetta platonica corrisponde forse troppo alla situazione sociale dell'Atene aristocratica. I suoi cittadini sono rigorosamente divisi tra i reggitori (ovvero filosofi), i guerrieri e gli artigiani in ordine d'importanza decrescente, nel senso che, per esempio, l'uguaglianza dei diritti e dei beni riguarda solo filosofi e guerrieri mentre gli artigiani ne sono esclusi. Gli schiavi poi, che nell'Atene di Platone erano la gran massa della popolazione e il cui lavoro permetteva ai pochi privilegiati di occuparsi di filosofia, politica e arte, non sono nemmeno presi in considerazione. È vero che Platone raccomanda di considerare uguali tutti i bambini e chiede che non sia la famiglia di origine a stabilire che cosa debbano fare da grandi ma solo le loro naturali inclinazioni, è fin troppo facile però immaginare che difficilmente il figlio di un pescatore, per quanto educato come tutti gli altri, possa sviluppare un'inclinazione per la geometria astratta o per la filosofia.
A ciò si aggiunga che la forma ideale di governo non è la tirannide (dove uno solo comanda) ma nemmeno la democrazia (dove il potere è esercitato da tutto il popolo), bensì l'aristocrazia: il governo dei migliori. Bisogna dire che il progetto politico di Platone - che il filosofo tentò pure di realizzare presso il suo amico Dionigi, tiranno di Siracusa - costituisce oggi la parte meno attuale del suo pensiero o, per lo meno, quella più fortemente condizionata dal punto di vista particolare del suo autore. La decadenza delle città-stato greche era comunque già iniziata per altri motivi e le teorie platoniche si dimostrarono del tutto impotenti ad arrestare questo processo. Basti dire che Aristotele, il discepolo più grande, abbandonò completamente il progetto del maestro che auspicava una riforma politica e morale dello stato e diventò, all'opposto, consigliere fidato del re macedone Alessandro il Grande (356-323 a.C.), il conquistatore delle città greche.
Alla morte di Platone l'Accademia da lui fondata ad Atene era divenuta un importante luogo di studio dedito all'approfondimento e alla discussione delle concezioni filosofiche del maestro.
Tra i successori di Platone alla guida della scuola non ci fu, fino ad Aristotele, nessuno all'altezza del maestro. La ricerca restò ferma alle tesi del fondatore e solo Speusippo e Senocrate cercarono di proseguirla in forma originale; la loro attenzione si concentrò sul tentativo di interpretare le idee platoniche come forme geometriche esprimibili tramite rapporti numerici. In questa concezione la realtà risultava strutturata secondo ordini diversi, all'interno dei quali i numeri, le grandezze e le forme geometriche svolgevano un ruolo fondamentale, riprendendo spunti tipici dei pitagorici e dell'ultima fase del pensiero platonico.
Nel pensiero di Senocrate le idee sono identificate con i numeri matematici e l'indagine sviluppata portò a preziose scoperte, soprattutto nel campo delle scienze logico-matematiche, comportando però l'abbandono dell'antica passione politica e morale del maestro; com'era mai possibile ricondurre le "idee" di giustizia, verità e bellezza a un rapporto tra numeri?
il simposio di platone: 5 lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo su fedone christofer rowe