Lo stoicismo

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CAPITOLO 9. L'INSEGNAMENTO DEGLI STOICI: "VIVI SECONDO NATURA"

§ 1. Lo stoicismo come "scuola"
La scuola stoica fu fondata da Zenone di Cizio ad Atene alla fine del sec. IV e le sue lezioni si svolgevano nel Portico Dipinto (Stoà Poikìle). Lo scopo essenziale dell'insegnamento stoico, non diversamente da quello epicureo e da quello scettico, è la liberazione dalle passioni e il raggiungimento della serenità dell'anima. Ma lo stoicismo ebbe, nel mondo ellenistico prima e poi soprattutto nel mondo ellenistico-romano, una presa e una diffusione molto più grandi delle altre due nuove correnti sopra ricordate. Esso era sia una scuola filosofica organizzata, il cui insegnamento era distinto nelle tre materie canoniche LOGICA, FISICA ed ETICA, sia insieme un movimento culturale di vasta portata: etico, religioso e, in senso lato, anche politico.
Nonostante che la prima sede della scuola sia stata Atene, lo stoicismo *ci appare fin di subito come una concezione tipicamente ellenistica, che fonde elementi greci ed elementi orientali. Questo si intravede già nell'origine etnica dei primi tre grandi scolarchi, Zenone di Cizio (362-262), Cleante di Asso (312-232) e Crisippo di Soli (277-204), ma ancor di più nella religiosità di tipo monoteistico che la scuola propone.
Tale religiosità però *ci pare anche profondamente fusa con il razionalismo e il naturalismo greci. Infatti al centro del credo stoico c'è l'idea dell'unità del genere umano e di tutto il cosmo sotto il comando provvidenziale di un unico Dio intelligente, *immanente nella materia. Esso è chiamato "Fuoco", "Soffio" o "Spirito" (pneuma), ed è una forza fisica che forgia il mondo: gli stoici dicono chiaramente che è corpo esso stesso.
La ragione divina è dunque artefice della legge naturale, alla quale le cose e gli esseri viventi non forniti di ragione si adeguano spontaneamente; al tempo stesso essa fornisce quei principi e quelle norme razionali (diritto naturale, morale naturale) cui gli esseri umani e le comunità politiche dovrebbero adeguarsi in quanto essi stessi razionali.
Natura, ragione e divinità, *come si vede, per gli stoici in sostanza coincidono, e la virtù-felicità dell'uomo consiste proprio nell’adeguarsi all'ordine naturale razionale.
*Dobbiamo subito osservare che questa religiosità universalistica si contrappone nettamente al particolarismo della religione cittadina tradizionale e al "nazionalismo" panellenico, che considerava i non greci esseri inferiori o addirittura non-uomini.
*Si consideri inoltre la visione stoica dell'ordine razionale della natura, che include anche l'ordine sociale. Se c'è un ordine naturale della società, conoscibile con la ragione, non è giustificabile la rinuncia alla politica degli epicurei e degli scettici. essi infatti, in mancanza di un ordine giusto e obiettivo del mondo, evitavano di proporre qualsiasi ideale politico fondato su valori assoluti. Tuttavia, dal punto di vista dell'impegno pratico, la posizione degli stoici oscilla tra due estremi.
Da un lato, per chi insiste sulla potenza dell'intervento provvidenziale, e sul fatto che tutto è bene perchè tutto è stato disposto da Dio, la grande differenza tra il saggio, che sa riconoscere il disegno divino e lo accetta, e lo stolto, che inutilmente vi si ribella, è essenzialmente nella coscienza. Più che un differente risultato della loro azione, è una differente consapevolezza. Entrambi non possono con la loro azione mutare l'ordine necessario delle cose: "il fato conduce chi lo accetta e trascina chi non lo accetta", dice lo stoico Seneca ("fata volentes ducunt, nolentes trahunt). In questa prospettiva prevale la contrapposizione tra la perfezione del saggio, al quale è sufficiente la virtù per essere sempre felice e per essere sempre in armonia con l'ordine universale, e il vizio e l'infelicità dello stolto, che, anche nel caso in cui esteriormente agisca come il saggio, compia meccanicamente tutti i suoi doveri, rispetti le leggi dello Stato e le leggi morali, sarà comunque inadeguato e disarmonico perché lo farà senza la necessaria consapevolezza. Egualmente il saggio sarà libero e felice pur nella peggiore schiavitù e nella più terribile miseria, mentre lo stolto sarà sempre prigioniero: servo delle sue stesse passioni, le ricchezze e gli onori non potranno mai dargli la felicità.
Dall'altro, c'è chi insiste sul dovere di adeguare non solo il singolo individuo e la sua coscienza, ma anche l'intera società umana, imperfetta, alla perfezione del disegno divino. Mentre i fautori della prima posizione contrapponevano senza mezzi termini la saggezza alla stoltezza, i fautori della seconda si pongono il problema del graduale passaggio dell'uomo comune dall'uno stato all'altro. Coerentemente costoro si preoccuperanno di stabilire la casistica pratica dei comportamenti doverosi ed opportuni (mentre per i rigoristi la virtù è tutta d'un pezzo, e non puo' essere scomposta in particolari prescrizioni) e di individuare quelle condizioni della vita umana, che pur non essendo di per sè la perfetta virtù e il bene completo, sono però preferibili (salute, ricchezza, onore, rispettabilità, ecc.).
In circostanze storiche diverse, gli stoici tentarono l'una e l'altra di queste soluzioni. La prima prevale nel primo periodo della storia della scuola. Il periodo di Zenone, Cleante e Crisippo è detto "Antica Stoa e comprende, come si è visto, la fine del IV e tutto il III secolo. I tre filosofi ci sono noti essenzialmente attraverso frammenti e testimonianze, e ci è piuttosto difficile distinguere le rispettive dottrine. Lo stoicismo antico ha come suo centro principale Atene ed è caratterizzato sia dal gusto tipicamente greco per i problemi intellettuali, sia dall'isolamento, tipicamente ellenistico, dell'intellettuale (del "saggio") rispetto alla società degli "stolti" e alla politica concreta.
Panezio e Posidonio, i maestri greci della "Media Stoa" (sec. II e I a. C.; anche di essi abbiamo solo frammenti) entrano in contatto diretto con il mondo culturale romano, e insistono sul compito pragmatico, civile ed educativo della filsofia. Panezio fu ben accolto nel cosiddetto "circolo degli Scipioni", che contribuì notevolmente alla diffusione dello stoicismo e in genere della cultura greca nella Roma repubblicana (anche lo storiografo greco Polibio era legato a questo circolo). Il maggiore esponente romano di questa posizione sarà Cicerone: ammiratore di Panezio, il grande oratore e uomo politico romano non è propriamente uno stoico, ma lega eccletticamente dottrine stoiche, platoniche e aristoteliche. Egli riflette lungamente sui doveri (officia), che si presentano nella sua filosofia come comportamenti descrivibili e insegnabili, in contrapposizione con la virtù unica e indivisibile dei primi maestri stoici.
Lo stoicismo più rigido sembra invece essere stato tipico del comportamento di Catone l'Uticense, l'irriducibile avversario del partito cesariano e campione della legalità repubblicana, che morì suicida piuttosto che accettare la tirannide. Questo modello di comportamento stoico rimarrà a lungo nella tradizione senatoria e antimperiale del primo impero (Seneca, Trasea Peto).
La terza fase della filosofia stoica, di cui abbiamo un discreto numero di opere complete è detta "Nuova Stoa". Essa fiorisce in età imperiale e si diffonde tra gli alti esponenti della classe dirigente romana, annoverando nelle sue file tra gli altri Seneca (consigliere prima e vittima poi di Nerone, autore di opere filosofiche e di tragedie di ispirazione filosofica in latino) e l'imperatore filosenatorio Marco Aurelio (autore del diario filosofico A se stesso, in greco). A questa fase appartengono anche le opere di Epitteto, schiavo letterato di lingua greca (***I-II sec. d. C.). Nonostante il fatto che i primi due autori siano importantissimi statisti, nonostante che sia de essi riconosciuta l'unità del genere umano, la parità morale dei liberi e degli schiavi e l'eguale dignità di tutti gli uomini, non troviamo in questa fase né un'articolata filosofia politica, né l'atteggiamento pragmatico ed educativo proprio della Media Stoa.

§ 2. LA LOGICA DEGLI STOICI
Gli stoici, come gli epicurei, accettano la tripartizione della filosofia in Logica, Fisica ed Etica, di origine accademica. Ma la loro logica include anche ciò che noi moderni chiameremmo *gnoseologia (la teoria della conoscenza).
L'idea di fondo degli stoici è che la conoscenza abbia come sua fonte esclusiva la sensazione, e, insieme, che tutto ciò che esiste sia corporeo, cioè in qualche modo suscettibile di cadere, direttamente o indirettamente, sotto qualcuno dei sensi (Dio stesso è corporeo, come si è detto).

§ 3. LA FISICA STOICA: una cosmologia in chiave teologica
Lo studio della fisica fu per gli stoici, come per gli epicurei, motivato principalmente dal bisogno di fondare razionalmente l'etica e di stabilire quali sono le condizioni oggettive che permettono all'individuo il raggiungimento della felicità. Per il resto, le due scuole furono in disaccordo su quasi tutti i problemi.
Per gli epicurei il mondo fisico di per sé non ha alcun senso o scopo: esso è soltanto grande macchina in cui gli atomi rimbalzano in eterno secondo il principio di causa ed effetto, senza tuttavia che neppure tale principio governi fino in fondo le cose, a causa della casualità sistematicamente introdotta dal clinamen. "... la natura non è stata fatta assolutamente per noi per mano degli dei. Di tante manchevolezze essa è marcata!" (Lucrezio). Zenone invece si pone con rispetto stupito davanti alla bellezza e alla perfezione del cosmo, le quali, secondo lui, non possono provenire se non da uno spirito che opera in vista di fini.
Certo anche Zenone è avverso quanto Epicuro a qualsiasi idea di *trascendenza. Né le idee di Platone, pure e separate dal mondo, né il Dio di Aristotele, pura forma, estraneo alla materia, hanno senso per lui. Lo spirito di cui Zenone parla non è fuori del mondo ma è un principio direttivo inseparabile dalla materia, una sorta di Anima del tutto che lo governa provvidenzialmente dal suo interno.
Grande rilevanza gli Stoici diedero ai fenomeni termici. La loro è una concezione fondamentalmente *biologica dell'universo: l'esistenza del corpo vivente dipende dal "respiro" (o "spirito" -in greco pneuma) e dai processi termici che in esso si verificano. Quando questi processi, con la morte, vengono a cessare, il corpo vivente comincia a disgregarsi. Del resto, per loro, anche nel mondo inorganico l'aggregazione della materia è resa possibile solo dal pneuma e dalla forza di coesione da esso esercitata.
Fu probabilmente l'importanza dei fenomeni termici sia nel mondo inorganico sia soprattutto nel mondo organico che portò gli Stoici a sostenere la dottrina secondo cui il fuoco è l'essenza di tutte le cose. "Fuoco" e "pneuma" sono, in sintesi, attributi, manifestazioni di Dio stesso (l'intelligenza immanente nel mondo), forze vive capaci di forgiare l'intero universo.
Quanto al fuoco, gli Stoici sostenevano che il cosmo è emerso da esso e che in epoche stabilite dal fato il cosmo si incendia per poi tornare al suo ordine primitivo. E' l'idea del grande ciclo che si incontra già in Anassimandro, in Eraclito, nei Pitagorici, in Empedocle. Gli stoici dichiarano apertamente di ispirarsi ad Eraclito, ed è in effetti ben visibile il rapporto delle concezioni stoiche con la dottrina eraclitea del Fuoco come essenza di tutte le cose e dell'equilibrio dinamico che si instaura fra gli elementi che emergono dal fuoco. Questo equilibrio tuttavia è solo relativo perchè il fuoco conserva sempre una certa supremazia. Lo dimostra, secondo gli Stoici, il fatto che un tempo il mare era più esteso di quanto non sia ora. Infatti è dato trovare conchiglie sulla terra ferma anche in luoghi distanti dal mare. Basandosi su questi segni di un'evaporazione del mare ad opera del calore del fuoco cosmico, gli Stoici sostenevano che alla fine il fuoco avrebbe avuto il sopravvento e si sarebbe avuta una conflagrazione universale. Ma più che un incendio improvviso e a una distruzione istantanea del cosmo, pare che gli Stoici intendessero un processo assai lento, qualcosa di simile, osserva Sambursky, a quella "morte termica" di cui parleranno i fisici dell'ottocento.

§. 4. L'etica dello "stoicismo antico": il saggio si ritrae dalla società degli stolti per vivere secondo natura
"VIVI SECONDO NATURA": SECONDO IL COMANDO DIVINO DEL FATO,
SECONDO LA NATURA DEL COSMO, SECONDO RAGIONE
Il precetto etico supremo per gli stoici è quello di vivere secondo natura. Poiché è già dato da sempre l'ordine della natura o del mondo (o dell'essere), di cui tratta la fisica (che per gli stoici è insieme metafisica e teologia), al saggio non resta che adeguarsi al disegno divino, buono e razionale, non resta che stare al suo proprio posto. Vivere secondo natura significa dunque, in primo luogo obbedire al comando divino, al comando del Fato, e insieme accettare i limiti naturali dell'uomo, lo spazio a lui assegnato nell'ordine fisico del cosmo. Ma significa anche vivere secondo ragione. La ragione è ciò che accomuna l'uomo al Dio-Fato razionale che domina il cosmo. Vivere secondo natura vuol dire dunque vivere secondo la specifica natura umana, che è la ragione, e secondo la natura del Dio-Fato e del cosmo stesso, che è sempre la ragione. Alcuni Stoici interpretano il precetto nel senso ulteriore di vivere secondo la propria natura individuale, secondo le caratteristiche e i limiti che la natura ci ha individualmente assegnato.
EQUIVALENZA DI VIRTU', SAPIENZA E FELICITA'
Poiché l'ordine naturale è di per sé buono, è il migliore possibile, l'adeguamento ad esso sarà anche la forma più alta di felicità accessibile all'individuo. Tuttavia, secondo l'Antica Stoa, solo il vero sapiente comprende l'ordine divino nella sua totalità, senza fermarsi al particolare studiato dalle singole scienze e arti. La virtù è possibile dunque solo al sapiente - in conformità all'insegnamento di Socrate (*intellettualismo etico). Questo rigorismo è del resto collegato con il fatto che Zenone fosse originariamente seguace della scuola cinica, come ci risulta da diverse fonti.
LA VIRTU' E' APATIA, ASSENZA TOTALE DI PASSIONI
La virtù, per gli Stoici Antichi, è, come per i cinici, dominio delle passioni. Tale dominio, in un essere razionale, deve essere assoluto: il saggio non obbedisce a nessuna passione, E la virtù è dunque apatia, mancanza assoluta di passioni.
IL SAGGIO E' LIBERO ANCHE IN PRIGIONE, PREFERISCE IL SUICIDIO
ALLA VITA SENZA VIRTU' E CONSIDERA INDIFFERENTI I BENI DI FORTUNA
Secondo questa concezione rigoristica, il saggio, conscio di avere svolto la parte a lui richiesta dall'ordine cosmico e sempre pago del destino a lui assegnato, si sentirà perfettamente libero anche in prigione e non esiterà a togliersi la vita se per lui fosse impossibile vivere secondo virtù (e molti maestri stoici effettivamente si suicidarono). Per lui i beni naturali (la salute, la bellezza, ecc.) e i beni sociali (la ricchezza, l'onore, ecc.) sono, in sé, indifferenti (adiaforà) rispetto alla assoluta razionalità della virtù; sono solo eventualmente dei puri mezzi non desiderabili di per sé.
NON CI SONO STATI INTERMEDI TRA LA SAGGEZZA E LA FOLLIA
Egualmente assoluta è la distanza del saggio dallo stolto, tra i quali non ci sono passaggi intermedi. I maestri stoici la esprimevano con questa agghiacciante similitudine: essere saggi è tanto diverso dall'essere stolti, quanto tenere la testa sopra il livello dell'acqua e tenerla sotto. Poco importa se la profondità è grande o piccola: chi ha la testa sott'acqua non respira.
Questa etica rigoristica fin dall'antichità *è stata oggetto di ammirazione, ma naturalmente anche di ironia. L'accento posto esclusivamente sull'intelletto e il precetto della totale apatia contrastano con l'adesione al mondo terreno e l'amore per la bellezza corporea tipiche di una buona parte del mondo greco. Aristotele, per esempio, non negava che i beni di fortuna contribuiscano alla felicità, naturalmente insieme alla virtù. L'insegnamento degli aristotelici era, piuttosto che l'apatia, la metropatia, la misura nelle passioni. Ed egualmente attento alla giusta misura e all'opportunità è l'insegnamento di Epicuro, che abbiamo appena trattato.
CONFRONTO TRA ETICA STOICA ED ETICA CRISTIANA
Un atteggiamento simile (rigore, disciplina assoluta del corpo, accettazione totale dell'ordine provvidenziale) lo si trova piuttosto in certe correnti cristiane, verosimilmente influenzate non solo da certi aspetti rigoristici del messaggio di Cristo, ma anche dallo stoicismo stesso. Tuttavia anche tali correnti (per non parlare, naturalmente di quelle che privilegiano nella loro etica l'indulgenza e l'amore) mantengono alcune notevoli differenze con lo stoicismo. Nello stoicismo, come del resto nel mondo classico, manca l'idea del vizio come peccato, come trasgressione di un comando dato da un dio personale, da un Dio Padre. Il vizio, per gli stoici e in genere per il mondo classico, è mancanza di una qualità positiva, di una virtù, e risulta da una carenza dell'intelletto, dalla stoltezza. Il dio degli stoici ha in effetti qualcosa di paterno (come risulta chiaramente dall'Inno a Zeus di Cleante), ma è prima di tutto ragione, e obbedire a lui significa obbedire all'ordine di questo mondo, di cui egli è l'anima, ed anche obbedire a noi stessi, alla nostra natura ragionevole. Egualmente le passioni non sono nulla di impuro, di satanico (non c'è alcun Satana tentatore nel mondo degli stoici), ma semplicemente di irrazionale.
LA POLITICA STOICA: SUPERIORITA'DEL DIRITTO DI
NATURA AL DIRITTO SCRITTO (POSITIVO) DEGLI STATI
Veniamo alla politica degli stoici antichi (della quale, come si è detto, si sa ben poco). Conformemente al loro precetto di "vivere secondo natura", essi ritengono il diritto naturale (il "giusto secondo natura", o physis) assolutamente superiore al diritto positivo, cioè alle leggi scritte degli stati, ai costumi e alle consuetudini (il "giusto secondo la legge" o nomos). Egualmente per loro il saggio non è semplicemente cittadino (polites) della sua polis, ma del mondo (cosmopolites). Anche qui è evidente l'influenza dei cinici (e di certi sofisti). E queste concezioni stoiche non mancheranno di influenzare il *giusnaturalismo moderno.
IN QUANTO DOTATI DI RAGIONE, GLI UOMINI SONO UGUALI.
LA SCHIAVITU' E' CONTRO NATURA
Non ci è però sufficientemente noto l'atteggiamento che in concreto assumevano gli stoici antichi quando le norme positive dello stato e della società non coincidevano con il diritto di natura. In astratto sappiamo che per loro gli uomini sono accomunati dalla ragione e sono perciò in linea di principio uguali (con la non piccola postilla della differenza tra saggi e stolti); differentemente che per Aristotele, dunque, per loro la schiavitù è contro natura (la superiorità dei saggi non è un argomento a favore della schiavitù, perché essi, essendo indifferenti ai beni di fortuna, non aspirano a fare schiavi gli stolti). Ma in concreto, essi si schierarono davvero apertamente contro la schiavitù, o (come sembra più probabile nella maggioranza dei casi) si limitarono a riprovarla in modo molto generico, come uno dei tanti aspetti irrazionali della società umana, così difforme dall'ordine razionale della natura? E come è possibile che proprio l'uomo, l'unico animale razionale, non viva secondo natura?
NELLA CITTA' IDEALE DEI SAPIENTI NON C'E'
COSTRIZIONE LEGALE NE' PROPRIETA' PRIVATA
Queste domande sono destinate a rimanere senza una precisa risposta. Sappiamo solo che Zenone immaginava una città dei sapienti in cui non esisteva nè famiglia, né proprietà privata, né tanto meno schiavitù, in cui i sapienti non avevano neppure bisogno di leggi positive, sapendo perfettamente comandare alle proprio passioni. Si tratta *evidentemente della classica costituzione costruita solo en logois ("nei discorsi") come diceva Platone, o campata per aria, come ci permettiamo di dire noi. Non meno campati per aria (ma qui la cosa è più esplicita) sono certi romanzi utopistici di ispirazione stoica, che ci raccontano della vita secondo natura di popoli abitanti in regioni esotiche, tra i quali si vive con semplicità dei prodotti della terra, senza costrizioni legali e ineguaglianze sociali.

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