Kant:la Critica della Ragion Pratica

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Testo

LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA (1788)
IL CONCETTO DI “RAGION PRATICA” E GLI SCOPI DELLA NUOVA CRITICA
Nella “Critica della ragion pratica” Kant desidera trattare e criticare la ragione pratica empirica, che pretende di determinare la volontà e l’azione morale.

Infatti la ragione pratica empirica, legata, cioè, all’esperienza, pretende essa sola di determinare la volontà (come, del resto, la ragione puramente teoretica pretendeva, nella “Critica della ragion pura”, di raggiungere senza bisogno dell’esperienza la conoscenza).
Kant, nel fondamento della morale, rifiuta quindi qualsiasi condizionamento esterno.
Anche in questo caso l’approccio di Kant è di tipo trascendentale: il filosofo infatti si chiede quali siano le condizioni della morale (‘quale morale è veramente morale?’). Ciò implica che tale ragionamento non tenga mai conto dei contenuti, per focalizzarsi, invece, sulla forma.
Riassumendo: la nuova “Critica” tratta le condizioni di una morale universale, sostenendo due tesi:
• La ragione pura, scevra di qualsiasi interesse o condizionamento materiale, può, da sola, fondare una morale universale, che nasca da un principio comune, cioè la razionalità umana. Il fondamento della morale universale sarà, dunque, la ragione.
• Sono senza fondamento le pretese della ragione empirica di fondare una morale universale, poiché là dove c’è interesse essa non può esistere.
LA LEGGE MORALE COME “IMPERATIVO CATEGORICO”
Kant chiama principi pratici le regole generali della volontà. Essi sono divisi in due gruppi:
• Massime: sono princìpi pratici soggettivi, validi solo per singoli soggetti che se li propongono.
• Imperativi: sono princìpi pratici oggettivi, cioè validi per tutti gli uomini. Gli imperativi si dividono, a loro volta, in:
==> Imperativi ipotetici: introdotti da un ‘se’, questi imperativi valgono solo a condizione che si vogliano raggiungere determinati obiettivi. Sono oggettivi in quanto valgono oggettivamente per tutti coloro che si pongano lo stesso fine (es: “se vuoi essere promosso, allora studia”).
==> Imperativi categorici: tali imperativi determinano la volontà non in vista di un qualsiasi fine, ma semplicemente come volontà in sé. Essi sono leggi pratiche, che valgono incondizionatamente per l’essere razionale, poiché fondati unicamente sulla ragione (es: “devi perché devi”, “devi e basta”).
Le leggi morali sono solo gli imperativi categorici. Essi sono universali e necessari, anche se posso anche non attuarsi, perché la volontà umana non è soggetta solo alla ragione, ma anche alle inclinazioni sensibili, e quindi può essere da queste ultime deviata.
L’ESSENZA DELL’IMPERATIVO CATEGORICO
La legge morale, così l’imperativo categorico, non dipende e non si classifica in base al contenuto, che Kant chiama materia (altrimenti si cadrebbe nell’empirismo e nell’utilitarismo).
In una legge, escludendo il contenuto, non rimane che la forma, da qualla quale potrà essere definito l’imperativo categorico.
Possiamo dunque concludere che:
• L’imperativo categorico si fonda sulla forma, mai sul contenuto.
• Esiste una forte analogia con l’etica cristiana, in quanto non è definito morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa.
• La moralità può valere solo sul piano personale e non ha nulla a che fare con le leggi dello Stato, cui si obbedisce anche per paura, e che si basano più sul contenuto che sulla forma (infatti la legge non prende in considerazione l’intenzione dell’azione, ma proprio il fatto).
==> Tutta la morale di Kant è formale (poiché non si basa sul contenuto) e autonoma (non eteronoma, cioè fondata sul contenuti esterni), quindi è fondata sulla ragione intrinseca agli uomini.
==> Gli imperativi categorici si fondano sulla ragione, comune a tutti gli uomini: infatti essi hanno tutti una stessa forma che rispecchia un’idea di dovere comune a tutti gli esseri razionali.
LE FORMULE DELL’IMPERATIVO CATEGORICO
Kant cerca una formula che sia comune a tutti gli imperativi categorici.
L’unica formula alla quale giunge Kant nella “Critica della ragion pratica”, dopo averne eliminate altre elaborate nella “Fondazione della metafisica dei costumi” (1785), è quella che mette in evidenza la pura forma della legge morale, che è la sua universalità (il valere senza eccezioni).
La legge morale inoltre deve sottolineare:
- L’universalità;
- La razionalità comune a tutti gli esseri razionali;
- Il rispetto reciproco (visto che tutti gli esseri che sono razionali devono obbedire alla stessa legge).
LA LIBERTA’ COME CONDIZIONE E FONDAMENTO DELLA LEGGE MORALE
La legge morale, dunque anche l’imperativo categorico, s’impone alla coscienza “come un fatto della ragione”, un fatto che può essere spiegato solo se si ammette la libertà.
La coscienza della legge morale non deriva da una coscienza, interna all’uomo, che presupponga l’esistenza della libertà, ma, invece, è proprio perché innanzitutto l’uomo possiede in sé la coscienza del dovere che viene acquistata anche quella della libertà.
Il senso del dovere non avrebbe mai senso se non esistesse la libertà. Infatti nel momento in cui viene presa coscienza del comando, viene altresì presa anche coscienza della propria libertà.
In questo caso, dice Kant, ci si trova di fronte a un singolarissimo caso di giudizio sintetico a priori metafenomenico (lo è infatti perché: A) aggiunge qualcosa di nuovo a ciò che già a priori l’uomo aveva in sé, cioè il senso del dovere, B) tale novità non c’entra con la dimensione fenomenica, perché la libertà è un concetto del quale non può essere conosciuta l’essenza).
Con la “Critica della ragion pura” Kant aveva detto che tutto ciò che non è spazializzabile né temporalizzabile non può essere conosciuto: la libertà non è spazializzabile né temporalizzabile, eppure egli ammette che di essa si possa prendere coscienza nel momento in cui si prende coscienza del comando morale.
Questo può essere ammesso perché il piano morale è regolato da leggi diverse rispetto a quelle proprie del piano sensibile.
La libertà può essere spiegata solo nella sfera morale (quindi nella “Critica della Ragion Pratica” e non nella “Critica della Ragion Pura”), perché essa non può essere conosciuta scientificamente (infatti nella “Grande critica”, nella dialettica, essa aveva dato luogo alla terza antinomia insuperabile).
IL PRINCIPIO DELL’ “AUTONOMIA” MORALE E IL SUO SIGNIFICATO
La legge morale, capace di autodeterminarsi (cioè di porre da sé le proprie leggi), è assolutamente formale, in quanto è attraverso la forma, non i contenuti, che è possibile misurare la qualità di una morale universale.
Inoltre essa può anche essere detta autonoma, poiché la volontà libera è fondata unicamente sulla ragione e quindi è indipendente da qualsiasi contenuto e oggetto condizionante esterno ad essa.
Ovviamente, il fatto che la morale si autodetermini e che di essa il fattore caratterizzante sia la forma, non significa che la legge morale non abbia una materia.
Semplicemente non sarà il contenuto il motivo determinante della legge morale.
Tutte le morali fondate sui contenuti sono eteronome (dunque dipendono da motivi esterni alla ragione e sono legate alla materialità), poiché implicano una dipendenza della volontà dalle cose sensibili.
In particolare bisogna rilevare che qualsiasi etica che si fondi sulla “ricerca della felicità” è eteronoma, perché questa introduce fini materiali, inquinando la purezza dell’intenzione.
Quindi sarà eteronoma l’etica greca, appunto eudemonistica, mentre più vicina alla morale kantiana è quella è quella evangelica, che esalta la purezza dell’intenzione.
L’uomo non deve agire per ottenere la felicità, ma unicamente per puro dovere.
IL “BENE MORALE” E LA “TIPICA DEL GIUDIZIO”
Tutte le etiche prekantiane definivano innanzitutto cosa fosse bene morale e male morale e da queste determinazioni deducevano la legge morale.
Kant, nel suo formalismo, rovesciando tale questione, invece dà forma a una legge morale e da essa fa discendere il concetto di bene: sarà la volontà pura a far essere buono ciò che si fa, perché da nessuna azione, da nessun contenuto, si può comprendere l’intenzione con cui si agisce.
S’insinua però una seconda questione a questo discorso: infatti, come si può passare da tale formalismo rigoroso all’agire concreto? Come si può passare dall’imperativo categorico, che prescrive la sola forma, ai contenuti particolari?
È necessario trovare un ponte tra i concetti puri della morale e l’azione sensibile.
Come schema Kant usa la natura, come insieme di leggi che si attuano necessariamente.
A questo punto sarà necessario immaginare che il comando di cui si vuole appurare il carattere universale (e quindi morale) divenga legge necessaria di una natura in cui tutti fossero costretti a vivere. Se risulta che in tale modo tutti saranno felici di vivere, allora questa legge necessaria sarà conforme al dovere e quindi sarà universale e morale.
Se, al contrario, non si sarà felici di vivere in un tale mondo, allora la legge necessaria non sarà conforme al dovere.
Guardando le proprie azioni nell’ottica universale, sarà possibile intendere se queste azioni saranno moralmente buone o meno.
Possiamo quindi notare una nuova analogia con ciò che dice il Vangelo. Leggiamo infatti: “Non fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te”.
IL “RIGORISMO” E L’INNO KANTIANO AL “DOVERE”
Kant divide l’azione compiuta secondo legge o secondo morale:
- Azione compiuta conformemente alla legge: si tratta di un’azione mossa non dalla sola volontà, ma anche da sentimenti estranei alla legge morale (come la compassione, la vanità…)
- Azione compiuta secondo la morale: si tratta di un’azione che deriva immediatamente dalla sola legge morale, causata dal solo senso del dovere.
Fare la carità a un povero per compassione, risulterà, dunque, un’azione fatta secondo la legge, mentre se lo stesso gesto avverrà per dovere, esso sarà considerato morale.
È chiaro che l’uomo, come essere sensibile, non potrà mai prescindere dai sentimenti: quando tuttavia le emozioni subentreranno sul piano morale, allora questo, inficiato, si trasformerà in piano legale.
Kant riconosce un unico sentimento, il rispetto: si tratta però di un sentimento suscitato dalla stessa legge morale e dalla ragione (ha infatti fondamento puramente intellettuale).
Il rispetto può essere riferito solo a persone, mai a cose o animali, e solo a persone morali (che incarnino la legge morale).
“Il rispetto”, afferma Kant, “è un tributo che non possiamo rifiutare al merito (morale), lo vogliamo noi o no”.
In conclusione si può affermare che si agisce moralmente semplicemente per dovere, perché ogni essere razionale sente di dover agire secondo la legge morale. Proprio al dovere Kant innalza il suo inno: “Dovere, nome grande e sublime, che non contiene nulla che lusinghi il piacere, ma esiga sottomissione”.

I POSTULATI DELLA RAGION PRATICA E IL PRIMATO DELLA RAGION PRATICA RISPETTO ALLA RAGION PURA.
Dal punto di vista scientifico le tre Idee della ragione, quella di Dio, dell’anima e del mondo, non possono essere conosciute.
Tuttavia, per quanto riguarda la morale, esse, da tre idee, divengono postulati, cioè precondizioni della morale stessa. Infatti la morale non potrebbe esistere se tali presupposti non esistessero e, siccome l’esistenza della morale è innegabile, essi stessi diventano pure innegabili.
• LA LIBERTA’: Kant aveva già affrontato questo argomento parlando dell’imperativo categorico, affermando che nel momento in cui l’uomo prendeva coscienza dell’idea di dovere, prendeva anche coscienza della propria libertà.
Egli aggiunge a questo discorso molto di più. L’uomo, infatti, appartiene a due mondi: da un lato, come fenomeno, egli risulta condizionato, in quanto soggetto, dal principio di causa- effetto; dall’altro, invece, egli si riscopre come essere intelligibile e libero, proprio in virtù della legge morale (in cui, appunto, prevale il principio di libertà).
• L’ESISTENZA DI DIO: la legge morale comanda all’uomo di essere virtuoso: agire secondo virtù è, secondo Kant, bene supremo. Tuttavia non sempre chi agisce secondo virtù riesce a conquistare la felicità: essere virtuosi e ottenere anche la felicità è, invece, bene sommo.
Accade, come già detto, che chi si comporta secondo virtù non ottenga la felicità: egli, tuttavia, diviene degno di felicità. Appunto per questo viene postulata l’esistenza di Dio, il quale possa far corrispondere in un altro mondo quella felicità che in questo mondo non è stato possibile raggiungere.
• L’IMMORTALITA’ DELL’ANIMA: adeguarsi completamente alla legge morale significa aspirare alla santità. Poiché non è possibile raggiungere la santità in questo mondo, essa potrà essere raggiunta “solo in un processo all’infinito”, cioè in un progresso che giustifichi il proprio sforzo verso la perfezione. È dunque necessario postulare un’esistenza dell’essere infinito che continui il proprio approssimarsi alla santità, che è, appunto, l’anima immortale.

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