Il problema della comunicazione in Platone

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Categoria:Filosofia

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Data:20.07.2000
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IL PROBLEMA DELLA COMUNICAZIONE IN PLATONE

Sommario:
1. Il problema della comunicazione in Platone
2. La controversia tra filosofia e poesia
3. Paideia e punto di vista dell'A. nei dialoghi
4. Il dialogo e il mito in Platone come forme della mediazione
5. Il contesto storico-letterario in cui nasce il dialogo
6. Platone, la retorica e Isocrate
7. Dibattito

1. Il problema della comunicazione in Platone
Che significato ha, per la comprensione del pensiero di Platone, il modo con cui egli ha deciso di comunicarlo? La questione non è di secondaria importanza: si è portati in genere a credere che la forma comunicativa non sia determinante, ma così non la pensava certo Platone, anzi si potrebbe rintracciare nella sua opera il filo conduttore di una riflessione metodologica che porta a questa precisa scelta espressiva. Questo motivo distingue nettamente Platone dagli altri filosofi che hanno scelto in epoche successive, e peraltro saltuariamente, la forma del dialogo. Penso ad esempio a figure come Leibniz o Berkeley. In effetti in questi casi ci troviamo di fronte a fredde imitazioni del procedere platonico, o ad opere in cui i personaggi sono privi di spessore e di individualità autentica. Al contrario, ciò che caratterizza la maggior parte dei dialoghi di Platone, è la indiscutibile vivacità letteraria con cui sono ritratti i personaggi, molti dei quali storici, che vi prendono parte, spesso connotati nelle loro peculiarità individuali, emotive e caratteriali.
2. La controversia tra filosofia e poesia
Il pregio artistico dei dialoghi, rilevato anche dagli storici della letteratura, offre lo spunto per riallacciarci ad un tema assai discusso dell’interpretazione platonica, a cui fa cenno anche lo stesso Platone nella Repubblica : si tratta della celebre controversia tra filosofia e poesia. Secondo una notizia conservataci da Diogene Laerzio, Platone avrebbe scritto in gioventù delle tragedie, che avrebbe successivamente dato alle fiamme, per effetto della sua "conversione" alla filosofia . Si tratta, con ogni probabilità, di una notizia leggendaria, e del resto la storia della cultura è ricca di "conversioni" altrettanto repentine (Agostino si converte alla filosofia leggendo l’Hortensius di Cicerone, Manzoni si converte al cristianesimo nella chiesa di San Rocco, ecc.), ritratte con toni drammatici a dispetto della natura lenta e speculativa dei processi di questo genere. E tuttavia il racconto di Diogene Laerzio, anche a prescindere della sua attendibilità storica, contiene un suo fondo di verità, perché collima con la costante attenzione dimostrata da Platone agli aspetti letterari della sua opera. Se si pensa ai miti contenuti nei dialoghi, risulta evidente la cura dedicata dal filosofo allo "scrivere bene", in ordine ad un preciso progetto che è assente, ad esempio, in Aristotele. Anche se va considerato che gli scritti che di quest’ultimo ci sono rimasti non erano destinati alla pubblicazione, si può affermare che egli non avesse una particolare attenzione per la forma espressiva. Invece proprio l’interesse che Platone dimostra per lo stile ha indotto molti a ritenere che per lui la filosofia sia stata una sorta di ripiego rispetto all’attività letteraria, ed è così nata la convinzione diffusa che egli avesse un animo di poeta in qualche modo in contrasto con l’attività filosofica alla quale si era egli stesso costretto.
Su questo tema hanno molto insistito i critici romantici: Platone appare ai loro occhi animato da un sentimento di amore-odio per la poesia, che egli da un lato critica duramente (soprattutto la tragedia e l’epos), dall’altro cerca di imitare dando ai suoi dialoghi un’indiscutibile impronta letteraria. Anzi, proprio nei dialoghi dove Platone prende distanza con maggior vigore da forme letterarie non filosofiche (come la Repubblica o il Fedro) si trovano alcuni fra i suoi pezzi più pregevoli da un punto di vista artistico (il mito di Er nel X libro della Repubblica e quello del carro alato nel Fedro). Malgrado ciò, io non penso che il mito, romantico ed anche un po’ romanzesco, di un Platone conteso tra le due anime del poeta e del filosofo sia corrispondente alla realtà. Io ritengo piuttosto che Platone abbia inteso operare delle scelte precise di natura espressiva, corrispondenti ad un progetto filosofico per il quale non ha senso parlare di conversione improvvisa dalla poesia alla filosofia, o della difficile soluzione di un contrasto interiore. A dimostrazione di ciò si può portare la parola stessa del filosofo: nelle Leggi, l’ultimo e più lungo dialogo, accanto alla critica alla poesia, Platone afferma che, se lo Stato di cui si stanno stabilendo i fondamenti accetterà dei poeti, questi saranno poeti che scriveranno e canteranno temi simili a quelli che sono oggetto del dialogo stesso : in altri termini qui Platone sta proponendo come sostituto della poesia la propria opera, i cui contenuti sono un esempio di ciò che egli vorrebbe veder trattato in versi.
Non è qui il caso di approfondire la questione di quali contenuti Platone ritenesse validi per la poesia: basti accennare (e del resto sono cose note) al fatto che apprezzava i contenuti educativi, l’esaltazione della virtù, ed era in sostanza favorevole alla censura per eliminare tutto ciò che potesse apparire sconveniente e diseducativo. Proprio questa funzione educativa era quella che lo autorizzava a proporre le proprie opere come fonte del materiale artistico e letterario della poesia: un materiale filosoficamente fondato che permettesse la vera educazione e si sostituisse ai temi tradizionali della tragedia e dell’epos, fonti di corruzione e di errore. Il tentativo attuato da Platone non era dunque quello di vincere la propria anima di poeta, come vorrebbero gli interpreti romanticheggianti, ma quello di governare la poesia guidandola verso finalità di carattere educativo. Insomma, l’ideale di poesia che Platone propone assomiglia molto a quello che si chiamava un tempo "realismo socialista", cioè una produzione letteraria monotona ed uniforme, ripetitiva, finalizzata a cogliere il bene e la virtù e ad insegnarli. Di conseguenza si negava spazio alla rappresentazione di passioni eccessive o azioni malvagie, di dei raffigurati, ad esempio, nell’atto di compiere adulterio, e di eroi che compissero gesti riprovevoli, con un restringimento delle possibilità di rappresentazione che trova la sua giustificazione nella finalità etico-pedagogica della letteratura.
3. Paideia e punto di vista dell'A. nei dialoghi
Il punto che volevo chiarire è proprio questo: se Platone fa ricorso a determinati modelli letterari è perché riconosce ad essi una precisa funzione educativa. In tal modo Platone interpreta una tendenza profonda di tutta la cultura greca, che Werner Jaeger ha studiato in un celebre saggio che ha per titolo Paideia : il termine significa in prima istanza "educazione", ma assume anche il valore più ampio di "cultura letteraria", poiché in essa la civiltà greca considera prevalente proprio l’aspetto educativo. La funzione della letteratura è generalmente intesa in Grecia come psicagogia, cioè "conduzione dell’anima": si scrive non tanto per esprimere sentimenti o stati d’animo, e neppure per descrivere qualcosa, ma per suscitare un determinato effetto nell’animo di chi ascolta, ed eventualmente anche un corrispondente atteggiamento pratico.
E’ dunque da qui, cioè dalle finalità educative che egli si proponeva, che occorre prendere le mosse se si vuole affrontare la questione del perché Platone ha scritto dei dialoghi. Per risolvere tale questione si deve considerare altresì un dato troppo spesso a mio giudizio sottovalutato o addirittura sottaciuto: Platone non si include mai tra i protagonisti dei dialoghi che scrive. Si autonomina solo due volte, ed in un’occasione il fatto è particolarmente significativo: si tratta del Fedone, che racconta la morte di Socrate circondato dai suoi discepoli. Per giustificare la sua assenza in un momento tanto cruciale, il filosofo fa dire ad uno dei personaggi che Platone non c’era, perché era malato : dove è appunto da sottolineare il fatto che neppure in una circostanza drammatica e letteraria così importante Platone ha voluto derogare dal suo criterio, di rimanere assolutamente estraneo alla sua opera filosofica. Gli unici testi scritti dal filosofo in prima persona sono le tredici Lettere, di cui un buon numero è sicuramente spurio: solo la VII in realtà è riconosciuta autentica dalla maggioranza degli studiosi. Tutte le altre opere di Platone sono scritte in terza persona, ed hanno per protagonisti personaggi storici, sofisti, filosofi, ed ovviamente Socrate, che è la figura di maggior rilievo. Nella maggioranza dei dialoghi egli è il protagonista, in alcuni compare senza quasi prendere parte alla conversazione, ed in uno solo, le Leggi, non figura affatto. Conduttore di questo dialogo è un anonimo Ateniese, personaggio che più di altri si presta ad essere interpretato come la controfigura di Platone: e tuttavia, ancora una volta, non si tratta di Platone.
Poiché così stanno le cose, si pone il problema di stabilire quale sia in ciascun dialogo il punto di vista di Platone, che cosa in realtà egli pensi del tema in discussione. Si tratta di un problema che è ben noto agli studiosi della letteratura: leggendo una tragedia, poniamo, di Euripide, non è affatto facile né scontato stabilire qual è il parere dell’autore, perché in scena vi sono solo personaggi differenti, nessuno dei quali è il suo diretto portavoce. Analogamente, se considerassimo i Promessi sposi, e cercassimo di stabilire in quale personaggio si identifichi Manzoni, arriveremmo a concludere che anche quello che gli si avvicina di più, fra’ Cristoforo probabilmente, rappresenta il suo punto di vista solo in modo parziale. In questo caso, però, ci verrebbero in aiuto le parti narrative, in cui l’autore scrive in prima persona, che consentirebbero facilmente di verificare la correttezza delle nostre ipotesi. Ma dove ci sono solo dialoghi? Quando non c’è la voce narrante dell’autore, né egli si rappresenta fra gli interlocutori della conversazione, come possiamo stabilire con sicurezza le sue opinioni? Ora, questo è un problema che per Platone è stato spesso ignorato: la maggior parte degli studi tra ’800 e ’900 procede con un criterio molto comodo, ma inesatto: si individua per ogni dialogo il personaggio privilegiato, il conduttore del dialogo (nella maggior parte dei casi Socrate; in altri - come nel Sofista o nel Politico - lo Straniero di Elea; Parmenide e Timeo nei dialoghi omonimi, e così via) e si attribuiscono a Platone le tesi sostenute da esso. E’ invalsa pertanto l’abitudine di attribuire senza discussioni a Platone ciò che in realtà nei suoi dialoghi dicono Socrate, lo Straniero di Elea, Timeo, ecc. E’ ben vero che si può affermare che entro certi limiti l’autore si nasconde dietro ciascuno di questi personaggi, ma non è certo una regola assoluta in base alla quale stabilire pacificamente che cosa pensa Platone: per fare questo ci vuole qualche elemento in più.
Portato ai suoi estremi, questo procedimento arriva a mostrare tutta la sua discutibilità: ad esempio è stato pubblicato di recente un libretto dal titolo Platone - Breviario che consiste in una raccolta di massime desunte dai dialoghi. Ora, se ci si prende la briga di verificare nel testo platonico la provenienza di queste massime, si scopre che spesso non sono affermate nemmeno dal personaggio privilegiato del dialogo: sono tratte alle volte dalle battute del deuteragonista, cioè del suo oppositore nella discussione, o dalle parole di qualunque altro partecipante. Il fatto è che il dialogo è una struttura letteraria complessa, e non è possibile distillarne il succo semplicemente raccogliendo delle proposizioni sparse, intese in modo letterario e separatamente dal contesto. E’ necessario inoltre osservare che a volte i dialoghi contengono opinioni diverse sul medesimo argomento, cosicché appare difficile individuare il punto di vista definitivo, e ricostruire in modo sistematico la griglia del pensiero platonico. In proposito ha scritto una volta Leibniz che chi riuscirà a ridurre a sistema la filosofia di Platone, avrà fatto un grande favore all’umanità . Ma, a prescindere dalla questione se la filosofia sia capace di fare servizi del genere all’umanità, e se sia il suo compito, io non sono affatto convinto che sia necessario ridurre Platone a sistema . Già l’idea del "ridurre" in sé mi sembra sbagliata: se l’autore ha voluto comporre la sua opera con queste caratteristiche, evidentemente esse richiedono da parte nostra non già il tentativo di aggirarle, ma quello di comprenderle.
4. Il dialogo e il mito in Platone come forme della mediazione
La mia convinzione, che anticipo qui, è la seguente: tutte le forme espressive utilizzate da Platone: il dialogo, il mito, la rinuncia ad attribuire sistematicamente ad un personaggio privilegiato il proprio punto di vista, sono forme di mediazione. Un esempio evidente di ciò è il Simposio: in esso è presentata una serie di discorsi su Eros tenuti da vari personaggi, tra cui anche Socrate, il quale, quando è il suo turno, non espone un punto di vista personale, ma riferisce ciò che ha appreso da Diotima, una sacerdotessa. Come si vede, per arrivare a ciò che dice Platone si deve operare un duplice passaggio: dall’autore a Socrate, e da Socrate a Diotima. Sarebbe troppo riduttivo e semplicistico identificare la posizione di Platone in quella di Diotima tout-court: è qui evidentemente in atto una forma di mediazione del punto di vista.
Un altro tipo di mediazione è rappresentato dal prologo dei dialoghi. Mentre alcuni introducono la questione dibattuta in medias res (come nel caso del Menone), altri si aprono con una serie di intermediazioni molto lunga ed articolata: consideriamo ad esempio il Parmenide. Questo dialogo si apre con un personaggio, Cefalo (da non identificare con l’omonimo personaggio della Repubblica) che in compagnia di alcuni amici incontra ad Atene Adimanto e Glaucone, fratelli di Platone, e chiede loro di fare la conoscenza di un tale Antifone, figlio di seconde nozze della madre di Platone, e quindi suo fratellastro. Lo scopo della richiesta è il legame di amicizia di Antifone con Pitodoro, che era stato testimone trenta o quarant’anni prima, di un incontro tra Socrate, Parmenide e Zenone, incontro del quale Cefalo ed i suoi vorrebbero sentire il resoconto. Quando il gruppo raggiunge Antifone, questi inizialmente dichiara che, pur ricordando il contenuto di quell’incontro, non se la sente di raccontarlo, perché da molto tempo non si occupa più di filosofia, ma di cavalli. Alla fine, convinto, narra quello che è uno dei dialoghi più difficili di Platone: esso quindi ci viene raccontato attraverso il ricordo più o meno sbiadito di quattro o cinque personaggi, di cui quello chiave da almeno trent’anni è dedito a tutt’altra attività. Tutto questa complessa articolazione deve avere un significato, e questo non può essere che un prendere le distanze dal tema trattato, una forma di mediazione del contenuto.
Abbiamo voluto riportare solo due esempi in cui la mediazione tra Platone, la sua opera e il lettore ha natura formale. A ciò si può aggiungere l’uso del mito, che ha evidentemente lo scopo di indebolire la responsabilità dell’autore in rapporto alla verità di quanto viene comunicato. Ma è chiaro che la forma più evidente di mediazione consiste, nel testo platonico, nel dialogo stesso, che si svolge come detto senza la presenza dell’autore. Tutti questi elementi congiurano a dar l’impressione che Platone eviti deliberatamente di consegnare al lettore una verità in modo diretto, come sarebbe in un modello di comunicazione in cui qualcuno dice ad un altro, con lo scopo di convincerlo, semplicemente quello che ritiene per vero. Il problema sta nel comprendere lo scopo di questa scelta. La mia opinione è che Platone cerca una forma di coinvolgimento del lettore nella discussione. Se l’autore scrivesse direttamente la propria opinione e la comunicasse esplicitamente al lettore, questi, come si dice in un celebre passo del Fedro, non avrebbe la possibilità di rivolgere al testo alcuna richiesta di chiarimento, se si trovasse in dubbio o non avesse compreso qualcosa (275d). Il libro non è un insegnante, dice sempre la stessa cosa e non fornisce chiarimenti oltre a quanto reca scritto: le forme di mediazione servono allora a Platone per suscitare nel lettore un moto attivo di partecipazione, per far sì che egli senta di non trovarsi davanti ad un testo da imparare a memoria o da apprendere così come è stato composto, ma davanti ad un esercizio da svolgere.
Cercherò di spiegarmi meglio con un esempio. Credo che molti, nell’apprendere le modalità di funzionamento di un computer, abbiano trovato un grande aiuto nei cosiddetti programmi interattivi, cioè quei programmi che inducono l’utente ad agire e ad assumere in qualche modo l’iniziativa nel meccanismo di apprendimento. Il dialogo platonico, fatte salve le ovvie differenze, ha a mio giudizio le stesse finalità: il modo in cui è costruito ha lo scopo di indurre il lettore a prendere l’iniziativa nella discussione dell’argomento e di stimolare la sua interazione con il testo. In altre parole, l’intento del filosofo è quello di costruire un testo che susciti domande, che non facendo capire con immediatezza l’intento dell’autore, induca ad una ricerca autonoma. L’assenza stessa di una dottrina sistematica ed uniforme stimola il lettore a cercare di capire quel che sta sotto le molteplici affermazioni del dialogo, e a farsene un’idea propria. L’opera di interpretazione richiesta dall’interazione dei personaggi nel dialogo è irrinunciabile, e si attiva pressoché automaticamente ad ogni rilettura del testo. Quello che intendo dire è che non si può leggere un dialogo di Platone come un testo cioè che abbia un solo livello di lettura. L’opera di Platone appartiene a quel genere di testi che, come la Divina Commedia, rivelano una nuova prospettiva, un altro riferimento, un differente percorso di riflessione ad ogni rilettura, perché è l’autore ad aver predisposto lo scritto in modo da suscitare nel destinatario questo itinerario di scoperte sempre nuove. La consapevolezza che l’intento compositivo di Platone consistesse proprio nello scrivere un testo in cui il lettore trovasse sempre cose nuove ad ogni rilettura è stata espressa in modo molto efficace da un filosofo del nostro secolo, Whitehead, quando disse che la storia della filosofia occidentale "non è che una serie di note a piè di pagina al testo di Platone" . Una riprova della vitalità del testo filosofico platonico consiste nel fatto che ancora oggi ha senso che un filosofo si definisca più o meno platonico, e che il confronto teoretico con Platone (anche se troppo spesso il suo pensiero viene superficialmente interpretato) è tuttora attivo.
La densità del testo è dunque prodotta dall’esigenza dell’autore di instaurare un rapporto diretto ed attivo con il lettore: ed è questa una conclusione alla quale non si può giungere se ci si limita a considerare le tesi del personaggio privilegiato di ogni dialogo. C’è infatti nel dialogo platonico un doppio livello di comunicazione: quello che va dal conduttore del dialogo al suo interlocutore e quello che va dall’autore al lettore, e non è obbligatorio che i due livelli coincidano. Ciò che vuol dire Platone deve essere ricavato dal confronto delle posizioni del protagonista e del suo antagonista (oltre che da altre elementi letterari come l’ironia, il contesto drammatico, i sottintesi polemici, ecc.). Un passo del Filebo (19b-e) si presta ad illustrare bene questo punto: Socrate, il conduttore del dialogo, afferma ad un certo momento che per affrontare la ricerca sul piacere è necessario scegliere un metodo che arrivi alla fine ad un sapere esaustivo; il suo interlocutore, Protarco, gli fa invece notare con ironia che sarà anche bello sapere tutto, ma che in seconda istanza è necessario conoscere almeno se stessi. C’è qui una allusione al motto delfico "conosci te stesso", anche nel senso del conoscere i limiti delle possibilità umane. Ora, le due tesi isolate non corrispondono a nessuna convinzione platonica: essa invece può essere individuata nella necessità di conciliare l’ideale di un sapere completo con i limiti di una conoscenza ristretta a condizioni e problemi specifici. Chi volesse sostenere che secondo Platone l’uomo possiede un sapere completo e assoluto, e citasse a sostegno di ciò le parole di Socrate nel Filebo, commetterebbe perciò un errore, perché non terrebbe in conto la risposta di Protarco. Infatti nel seguito del dialogo Socrate accetta l’obiezione del suo interlocutore e scende, per così dire, di un gradino, accettando di condurre l’indagine a una conclusione positiva anche in assenza di un sapere esaustivo. Criteri interpretativi di questo genere non sono quasi mai applicati al testo platonico, ma io ritengo che siano necessari per intenderlo correttamente.
5. Il contesto storico-letterario in cui nasce il dialogo
Una sostanziale conferma delle ipotesi sopra avanzate si può ottenere mediante una breve analisi del contesto storico-letterario in cui il dialogo platonico nasce e si sviluppa. Il primo a fare menzione di un particolare genere letterario chiamato "dialogo socratico" fu Aristotele nella Poetica (1147b), dove però altro non si dice. Altrove, in un frammento del De poetis , lo stesso Aristotele attribuisce l’invenzione di questo tipo di dialogo ad un certo Alessameno (a noi non altrimenti noto), che sarebbe stato discepolo di Sofrone, scrittore di mimi, cioè di quel particolare genere di rappresentazione che ritrae comicamente scene della vita quotidiana. Ci sarebbe insomma, in base a questi dati, una sorta di derivazione dal mimo del dialogo socratico, apparentato in qualche modo alla commedia che dal mimo trae anch’essa la propria origine.
Nella stessa direzione porta anche una notizia di Diogene Laerzio secondo cui Platone teneva i mimi di Sofrone sotto il cuscino e li leggeva ogni sera prima di dormire . Sono proprio notizie come queste ad aver avvalorato la tesi dell’ "anima poetica" di Platone, ma contengono secondo me qualcosa di distorto. Semmai, se un nucleo di verità si può qui individuare, è che se Platone ha usato una tecnica simile a quella della commedia, sicuramente non lo ha fatto con un intento analogo a quello del mimo, ovverosia non ha inteso fare un’imitazione della vita reale. L’imitazione (mimesis) nei dialoghi platonici è considerata il modo di espressione dell’arte, ma è valutata negativamente (solo nelle Leggi i giudizio viene parzialmente addolcito), perché due volte lontana dalla verità, in quanto imitazione degli oggetti sensibili a loro volta imitazione delle idee, cioè della realtà in sé. Ciò esclude che Platone avesse intenti mimetici nel comporre i dialoghi, e del resto è costante nella sua opera la valutazione pesantemente negativa di tragedia e commedia: nel terzo libro della Repubblica questi due generi letterari sono indicati come i modi peggiori per rappresentare la realtà, e nelle Leggi i poeti tragici sono banditi dalla comunità ideale.
Dunque il ricorso al dialogo aveva un intento educativo ed insieme letterario: era finalizzato in primo luogo a stimolare nel lettore un rapporto diretto con il testo, in secondo luogo a proporre il sostituto di un tipo di comunicazione letteraria, la tragedia, che già aveva questa forma; del resto anche l’altro genere con cui Platone entra in concorrenza, l’epos, era denso di parti dialogate. Proprio perché intende sostituirsi alla letteratura tradizionale, il filosofo non rinuncia al dialogo, che costituisce la forma comunicativa più immediata e coinvolgente, come si può facilmente sperimentare anche nella lettura di un romanzo: sono le parti dialogate quelle di presa più immediata sul lettore. Al contrario le lunghe descrizioni sono di più difficile approccio, e la lettura di qualche pagina di Proust lo dimostra immediatamente. Il dialogo costituisce dunque lo strumento letterario più efficace che Platone ha trovato per esercitare un effetto concreto nella mente del lettore. A questo proposito è rivelatrice una frase del Fedro pronunciata da Socrate, ma che può essere attribuita direttamente a Platone: "La potenza del logos - che qui sono da intendere come "discorsi" o "ragionamenti" - non è nient’altro che psicagogia" (271c) cioè conduzione dell’anima. In questo concetto si deve riconoscere in senso lato l’idea dell’educazione, se è vero che anche in latino educare etimologicamente contiene l’idea del ducere, cioè del guidare ad uno scopo.
6. Platone, la retorica e Isocrate
Da qui ha origine anche il conflitto tra filosofia e retorica, che Platone ingaggiò prima con i sofisti e poi con Isocrate. Il tema dell’opposizione è quale sia la parola che persuade, o meglio, posta la forza persuasiva della parola, chi ne è il depositario autentico: il retore, il sofista, il logografo o il filosofo? E’ in questo contesto che dobbiamo pensare a Platone come filosofo: egli intendeva la sua attività come finalizzata, in concorrenza con la cultura coeva, a trovare i logoi più persuasivi, in linea con i suoi interessi fondamentalmente etico-politici ed educativi. Ecco perché il confronto con la retorica costituisce uno dei temi centrali del suo pensiero. Il termine chiave di questo confronto è quello di "persuasione", parola d’ordine di molti, se non di tutti, i sofisti. Ne è esempio lampante l’affermazione di Gorgia, un sofista contemporaneo di Socrate, più anziano di Platone, secondo cui la parola è un pharmakon , cioè un potente narcotico ambivalente, in grado di produrre sia il bene sia il male. Sempre nell’ Encomio di Elena, che Gorgia scrisse a scopo dimostrativo in difesa del celebre personaggio del mito, uno degli argomenti addotti contro l’accusa rivolta ad Elena di aver seguito Paride a Troia è che questi la avesse convinta a parole, il che la assolverebbe da ogni responsabilità: alla parola non ci si può opporre, ed i suoi effetti sono irresistibili .Ancora la forza persuasiva della parola è il nucleo della vanteria di Gorgia di essere più abile del fratello medico nel persuadere i malati ad assumere le medicine : la forza della parola priva di conoscenza specifica si rivela superiore al possesso della scienza. Platone reagiva polemicamente contro questa esasperata esaltazione della persuasione. Tuttavia il fatto che egli criticasse duramente i sofisti per questo (come nel Gorgia) non significa che egli fosse contrario in linea di principio alla persuasione, ma significa piuttosto che intendeva distinguerne differenti modalità. Ciò a cui egli si opponeva era un’arte di persuadere in quanto tale, priva di contenuto: era la posizione estrema di Gorgia, che negava di insegnare alcunché, ma sosteneva di essere in grado di persuadere qualunque ascoltatore su qualunque argomento. Platone riconosceva invece la necessità di persuadere solo a partire dal possesso della verità. E’ questo un dato di fatto che di solito non si vuole riconoscere: quando si contrappone Platone, sostenitore della verità, ai sofisti, tecnici della persuasione pura, non si tiene conto del fatto che anche Platone riteneva che fosse necessario non solo conoscere la verità, ma anche saperla comunicare. E’ un dato di fatto che il semplice possesso della verità, senza la capacità di comunicarla agli altri in modo convincente, non produce alcun effetto. La verità esiste solo nella misura in cui è diffusa e condivisa, ed implica perciò anch’essa una fondamentale dimensione di persuasione. Di qui risulta chiara la difficoltà di Platone, che doveva mantenersi in equilibrio tra la posizione dei sofisti che sostenevano che fosse possibile persuadere senza conoscere la verità, e la necessità di fare ricorso anch’egli alla forza della persuasione, senza confondersi con quelli.
Si colloca su questa linea discriminativa anche il difficile rapporto di Platone con Isocrate, che vale la pena di esaminare più da vicino. Isocrate, oratore, severissimo maestro di stile, autore a volte francamente noioso, come è noto ebbe una vita lunghissima, di quasi cent’anni: dalla metà del V sec. fino alla battaglia di Cheronea del 338 a. C., che con la vittoria dei Macedoni segnò la fine della civiltà classica. Nel 392-390 egli fondò ad Atene una scuola di retorica: il termine non va inteso in senso riduttivo o tecnico, perché allora una scuola di retorica corrispondeva a quella che gli inglesi definirebbero di Humanities, cioè di scienze umane in generale. Contemporaneamente anche Platone apre una sua scuola, e a partire da questa data e per tutta la vita di Platone (che muore nel 348-347) i due si fecero una concorrenza spietata, e non solo sul piano teorico: la lotta era finalizzata anche a cercare di accaparrarsi gli allievi appartenenti alle famiglie più ricche, che potevano pagare meglio.
Aristotele stesso, che rimase fino all’età di quarant’anni nell’Accademia di Platone, era stato preparato dal maestro per combattere conto Isocrate, e teneva per questo motivo dei corsi di retorica all’interno della scuola. Secondo una tradizione non del tutto certa , sembra che anche il perduto Gryllos di Aristotele contenesse numerosi attacchi ad Isocrate. Del resto la controversia tra Platone ed Isocrate si può cogliere anche negli scritti dei due. Isocrate spesso allude all’avversario senza citarlo: già nell’orazione Contro i Sofisti, che secondo Flacelière è il "manifesto" con cui l’oratore apre la propria scuola , l’attacco è rivolto non certo contro Protagora o Prodico o Gorgia, di cui Isocrate fu discepolo, ma in prima istanza contro gli eristi (una sorta di funamboli della parola privi di qualsiasi credibilità), e in secondo luogo contro Platone, bersaglio di numerose battute, pur senza che venga mai nominato. Analogamente, allusioni e critiche al filosofo e alla sua scuola si trovano nell’ Elena, o nell’ Antidosis, o disseminate nelle varie orazioni. Addirittura l’Antidosis, un discorso fittizio di autodifesa che Isocrate finge di dover pronunciare di fronte ad un tribunale, appare chiaramente impostato come una imitazione dell’Apologia di Socrate, testo con il quale Isocrate entra evidentemente in concorrenza.
Platone, a sua volta, in alcuni dialoghi sembra alludere in termini polemici ad Isocrate: un riferimento pressoché sicuro si trova nell’ Eutidemo , e anche nella parte conclusiva del Fedro si può cogliere una certa ironia nei confronti dell’avversario . Il dialogo, composto negli anni in cui era più vivo il contrasto tra i due, è ambientato alcuni decenni addietro nel tempo, all’epoca in cui Isocrate era agli esordi della sua attività. Perciò l’apprezzamento che su di lui esprime Socrate, che suona all’incirca: "E’ un giovane che farà strada, anche se dovrebbe perfezionarsi un poco", sembra sottilmente ironico nei confronti di un oratore ormai affermato e all’apice della carriera. La radicalità dell’opposizione tra i due si spiega con il fatto che essi programmaticamente occupavano lo stesso terreno: entrambi affermava di fare filosofia, e si proponevano come educatori del futuro uomo politico, ed entrambi perseguivano lo scopo con il ricorso ai mezzi della retorica, anche se questo non è generalmente riconosciuto per Platone. E’ ovvio che per quest’ultimo distinguere la propria posizione da quella di Isocrate fosse assai più difficile ed impegnativo di quanto non lo fosse il differenziarsi dalle posizioni radicali dei sofisti. Con il suo proposito di educare alla politica Isocrate, in effetti, non solo invadeva direttamente il campo che Platone riteneva di sua specifica competenza, ma lo faceva in sostanziale accordo con il concetto tradizionale di cultura. La critica che l’oratore rivolgeva all’educazione platonica era incentrata da un lato sull’inutilità del dialogo, che appare ad Isocrate un mezzo di comunicazione noioso ed inconcludente, dall’altro sull’astrattezza delle discipline che si insegnavano nell’ Accademia: astronomia, matematica, geometria. A Platone spettava perciò il difficile compito di dimostrare che il miglior modo di condurre e persuadere l’anima, in vista dell’attività etico-politica, era proprio il complicato esercizio dialettico insegnato nell’Accademia, e non la facile e piane educazione retorico-umanistica propugnata da Isocrate. Agli occhi del filosofo, il difetto dell’oratore (e in generale quello della retorica) è la superficialità, e la conseguente incapacità ad attingere il vero. La proposta educativa di Platone invece era di impronta radicale. Essa muoveva dall’acquisizione della verità filosofica come punto di partenza: la persuasione applicata ad essa era poi il mezzo con cui ottenere quella che ai suoi occhi appariva come l’unica e vera forma di educazione e di cultura.
7. Dibattito
D.: Da quanto Lei ha detto, si ricava che il problema del persuadere è in Platone assai più importante di quanto di solito non venga considerato. E’ così?
R.: A me sembra che la preoccupazione principale di Platone fosse che ciò che egli diceva fosse recepito correttamente. Questo spiega anche la diffidenza nei confronti della scrittura che si riscontra a tratti nei dialoghi, e che è ribadita anche in un passo molto famoso della VII Lettera, in cui addirittura dice che non esiste alcuno scritto che riporti le sue opinioni (341bc). La scrittura è molto esposta al rischio di fraintendimenti, perché non può difendersi da sola, né chiarire ciò che dice in modo da assicurarsi che sia stato recepito nel giusto significato. Del resto questa dei fraintendimenti è un’esperienza, credo, abbastanza comune: molto spesso anche sui giornali assistiamo a polemiche nate da dichiarazioni riportate in un articolo, ed interpretate, dal giornalista o da altri, in un modo che poi è smentito dalla persona stessa che le ha rilasciate.
Ma per Platone, ancora più difficile che far capire correttamente la propria opinione è comunicare la convinzione che le cose stiano veramente come si crede: altro è comunicare ciò che si pensa, altro convincere della verità di ciò che si pensa. Solo quest’ultima condizione produce la trasmissione di un sapere, e di questo si fa esperienza abitualmente nella scuola: il sapere autentico non consiste nella trasmissione di un’informazione, ma nell’atto individuale di acquisizione che ciascuno compie nei confronti di ciò che gli viene insegnato. E’ quello che io definisco l’atto di riconoscimento, un moto dell’anima di chi riceve che spontaneamente si convince e dà il proprio assenso a ciò che gli viene detto. Platone aveva di questo una chiara consapevolezza, e da ciò origina il problema del come promuovere l’atto di assenso nel discente che produce il sapere.
Platone ricorre spesso per conseguire questo scopo al metodo che io definisco del "se non": invece di comunicare direttamente la propria opinione, il filosofo formula all’inizio del dialogo un’ipotesi e ne ricava tutte le implicazioni, giungendo spesso ad una conclusione aporetica, di cui il lettore è implicitamente costretto a prendere atto. Ad esempio, nel Menone, la questione se la virtù sia insegnabile non arriva ad essere risolta né per il sì, né per il no. La reazione che ne deriva non può che essere di insoddisfazione per le conclusioni raggiunte: di conseguenza il lettore è indotto da questo meccanismo a riconsiderare l’intera questione, per scoprire se nelle premesse o in qualche punto del ragionamento si celi la fonte dell’aporia. Se in questo modo riesce a risolvere la questione, la conclusione che raggiunge è una convinzione sua, e non un’informazione ricevuta dall’autore. Se ad esempio vi dicessi: "Dovete essere virtuosi", un’esortazione del genere susciterebbe un’adesione tutto sommato poco convinta da parte vostra; diverso sarebbe invece il caso se vi presentassi un modello di vita non virtuosa come impossibile da vivere: prendendone atto, sareste costretti a convincervi che è necessario essere virtuosi, ma a questo punto avreste fatto vostra questa idea con un moto di adesione spontanea.
Un discorso analogo vale per l’accettazione delle conseguenze di un ragionamento. Ad esempio, spesso Socrate all’inizio dei dialoghi chiede non una definizione, poniamo, del concetto di giustizia, ma se l’interlocutore crede che la giustizia sia qualcosa o niente del tutto. Dalla risposta affermativa a questa domanda preliminare, discende tutta una serie di ragionamenti che porta a determinate conclusioni. Il risultato che ne consegue è che, se si vuole mantenere ferma quella prima affermazione, che la giustizia è qualcosa, vanno accettate anche tutte le conseguenze che ne derivano. Ma poiché il processo delle domande si è mosso ogni volta dal consenso dell’interlocutore, Socrate può dire che la conclusione raggiunta è una opinione dell’interlocutore stesso, e non di chi ha formulato le domande. Ed è chiaro che nulla del genere si sarebbe ottenuto se Socrate avesse esposto semplicemente, e in modo continuato, il punto di vista ricavato dal processo interrogativo. In questo consiste l’interrogare socratico: nel porre le questioni in modo che l’interlocutore sia indotto a prendere parte attiva allo sviluppo del ragionamento, e raggiunga determinate conclusioni in seguito ad un moto di assenso spontaneo a determinate premesse. Senza questo moto di assenso spontaneo non si ha vera comunicazione, o meglio, comunicare non serve, perché produce una semplice acquisizione di informazioni che non fanno parte delle convinzioni personali.
D.: Se il personaggio di Socrate fa parte delle forme di mediazione che Platone ha adottato a fini persuasivi nei dialoghi, che valore ha il Socrate platonico come testimonianza storica? O, detto altrimenti, come si deve intendere il rapporto tra le convinzioni di Platone e quelle di Socrate nei dialoghi?
R.: La questione del pensiero di Socrate costituisce, come è noto, un problema, dal momento che non ha lasciato alcuno scritto. Per risolverlo si ricorre alle testimonianze indirette: Platone, Senofonte, Aristofane, Aristotele, ecc. Dal confronto e dallo studio di quello che questi autori ci hanno lasciato, non è impossibile stabilire che cosa abbia detto Socrate anche attraverso Platone.
Bisogna però fare attenzione a non credere che nei dialoghi ci siano due Socrate: quello "reale", del Critone o dell’Apologia, e il personaggio ricreato da Platone ad es. nel Parmenide o nel Filebo. In realtà questa evoluzione nel modo di rappresentare il maestro sta a significare, secondo me, il riconoscimento da parte di Platone del fatto che Socrate rappresenta nell’evoluzione del suo pensiero lo spunto di avvio, il momento iniziale, che viene ritratto nei cosiddetti dialoghi "socratici", ma anche la premessa fondamentale per i successivi sviluppi. Quindi il Socrate dei dialoghi è uno, nel senso che rappresenta per così dire la radice di tutta la filosofia platonica nelle varie fasi della sua evoluzione .
Ben diverso, ed infinitamente minore, è lo spessore del personaggio Socrate nei dialoghi di Senofonte, o di Eschine socratico: nell’Economico di Senofonte ad esempio Socrate si occupa di agricoltura e di allevamento dei cavalli, ed altrettanto futili sono gli interessi del Socrate rappresentato da Eschine, di cui abbiamo notizia nel De inventione di Cicerone. Si tratta chiaramente di invenzioni: in tutti gli autori che hanno scritto di Socrate c’è qualcosa di inventato, ed anche in Platone, ma credo che con un criterio empirico si possa stabilire quanto del Socrate storico c’è nei dialoghi. Certo, poiché è sempre Platone la testimonianza chiave, il rischio che si corre è di stabilire quanto Socrate ci sia in Platone in base a ciò che Platone ci dice di lui in alcuni dialoghi, e poi di utilizzare le conclusioni così raggiunte per espungere dal Socrate storico caratteristiche attribuitegli da Platone in altri dialoghi. Tuttavia, malgrado la circolarità di questo procedimento, credo che non si possano avere dubbi sul fatto che quando nel Critone Socrate manifesta la propria determinazione a restare in carcere, siamo di fronte ad una testimonianza storica; e che invece il Socrate che parla dei generi sommi, dell’essere e del non essere, non è più il Socrate storico.
Quel che è certo è che Platone usa il personaggio del maestro con estrema libertà, come del resto faceva Aristofane nelle Nuvole: una commedia messa in scena nel 423-422 quando Socrate era vivo e vegeto, e che è piena di inverosimiglianze. In definitiva, non credo che ci possa essere un criterio preciso per individuare in Platone i dati del Socrate storico, ma che si debba procedere in modo un po’ empirico. Nella Storia della filosofia di Giovanni Reale viene suggerito un criterio abbastanza interessante, che consiste nel riscontrare quali concetti nuovi entrano nel dibattito filosofico dopo Socrate: in questo modo egli stabilisce ad esempio che la concezione dell’anima come interiorità può essergli attribuita con una certa sicurezza . Più di questo però non si può dire: tanto che c’è stato chi ha voluto sostenere come tesi estremistica che Socrate non esiste, nel senso che, se si può riconoscere che un individuo di questo nome effettivamente visse nel V sec. a. C. ad Atene, tuttavia il Socrate della storia della filosofia non ebbe realtà storica, ed è invece il risultato della sua "reinvenzione" operata da Platone, Aristofane, Senofonte. E va riconosciuto che è una tesi per quanto estrema, inconfutabile, stante l’incontrovertibile dato di fatto che Socrate non ha lasciato alcuno scritto di suo pugno.

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