Bergson: il tempo omogeneo e la durata reale

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Testo

BERGSON: IL TEMPO OMOGENEO E LA DURATA REALE
Da questa analisi risulta che solo lo spazio è omogeneo, che le cose situate in esso costituiscono una molteplicità indistinta, e che tutte le molteplicità distinte sono ottenute grazie a un dispiegamento nello spazio. Risulta pure che nello spazio non ci sono né durata né successione, nel senso in cui la coscienza intende questi termini: ognuno dei cosiddetti stati successivi del mondo esterno esiste da solo, e la loro molteplicità ha realtà solo per una coscienza in grado prima di conservarli, e poi di giustapporli esteriorizzandoli gli uni rispetto agli altri. Se essa li conserva, ciò avviene perché questi diversi stati del mondo esterno danno luogo a dei fatti di coscienza che si compenetrano si organizzano insensibilmente insieme e, per l’effetto di questa stessa solidarietà, legano il passato al presente. E se li esteriorizza gli uni rispetto agli altri, è perché, pensando poi alla loro distinzione radicale (poiché uno cessa di essere quando l'altro appare), li pensa nella forma di una molteplicità distinta: il che significa ritornare ad allinearli insieme nello spazio in cui ciascuno di essi esisteva separatamente. Lo spazio di cui ci si serve per far ciò è proprio ciò che viene definito tempo omogeneo. [...]
In breve, si dovrebbero riconoscere due specie di molteplicità, due possibili significati del termine distinguere, due concezioni, l'una qualitativa e l’altra quantitativa, della differenza tra il medesimo e l’altro. Purtroppo, siamo talmente abituati a spiegare l’uno con l’altro questi due significati dello stesso termine, e addirittura a scorgerli l’uno nell'altro, che ci risulta molto difficile distinguerli, o per lo meno esprimere questa distinzione attraverso il linguaggio. Dicevamo dunque che parecchi stati di coscienza si organizzano fra loro, si compenetrano, si arricchiscono sempre più, e che, a un io che ignorasse lo spazio, essi potrebbero fornire così il sentimento della durata pura: ma già per impiegare il termine "parecchi" avevamo isolato questi stati gli uni dagli altri, li avevamo esteriorizzati, gli uni rispetto agli altri, li avevamo insomma giustapposti, e così, la stessa espressione cui abbiamo dovuto far ricorso, tradiva la nostra abitudine radicata di dispiegare il tempo nello spazio.
Diviene allora evidente che, al di fuori di ogni rappresentazione simbolica, il tempo non assumerà mai per la nostra coscienza l’aspetto di un mezzo omogeneo, in cui i termini di una successione si esteriorizzano gli uni rispetto agli altri. Ma a questa rappresentazione simbolica perveniamo naturalmente, per il solo fatto che, in una serie di termini identici, ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all'identità dell’oggetto esterno, l'altro specifico, perché l’addizione di questo termine dà luogo a una nuova organizzazione dell'insieme. Di qui, la possibilità di dispiegare nello spazio, nella forma di molteplicità numerica, ciò che abbiamo chiamato una molteplicità qualitativa, e di considerare l'una come l'equivalente dell'altra. Ora, da nessuna parte questo doppio processo si compie così facilmente come nella percezione di quel fenomeno esterno, inconoscibile in sé, che assume per noi la forma di un movimento. In questo caso abbiamo proprio una serie di termini identici tra loro, poiché si tratta sempre dello stesso mobile; ma d'altra parte, la sintesi operata dalla nostra coscienza tra la posizione attuale e ciò che la nostra memoria chiama la posizione anteriore, fa sì che queste immagini si compenetrino, si completino e che in qualche modo si prolunghino le une nelle altre. Quindi, è soprattutto attraverso l’intermediario del movimento che la durata assume la forma di un mezzo omogeneo, e che il tempo si proietta nello spazio. Ma, se non ci fosse stato il movimento, ogni ripetizione di un fenomeno esterno ben determinato avrebbe suggerito alla coscienza lo stesso modo di rappresentazione. Così quando sentiamo una serie di colpi di martello, i suoni, in quanto sensazioni pure, formano una melodia indivisibile, dando ancora luogo a ciò che abbiamo chiamato un progresso dinamico: ma, sapendo che agisce la stessa causa oggettiva, dividiamo questo progresso in fasi che da questo momento consideriamo identiche; e poiché questa molteplicità di termini identici non può più essere concepita se non in base a un dispiegamento nello spazio, perveniamo di nuovo e necessariamente all'idea di un tempo omogeneo, immagine simbolica della durata reale. Insomma, con la sua superficie, il nostro io tocca il mondo esterno: e, sebbene si fondino le une nelle altre, le nostre sensazioni successive mantengono qualcosa dell’esteriorità reciproca che caratterizza oggettivamente le loro cause; ed è per questo che la nostra vita psicologica superficiale si svolge in un mezzo omogeneo senza che questa modalità di rappresentazione ci costi un grande sforzo. Ma il carattere simbolico di questa rappresentazione diviene sempre più evidente via via che penetriamo nelle profondità della coscienza: l'io interiore, quello che sente e si appassiona, che delibera e decide, è una forza i cui stati e modificazioni si compenetrano intimamente, subendo una profonda alterazione allorchè li si separa per dispiegarli nello spazio. Ma siccome questo io più profondo forma una stessa e unica persona con l'io superflciale, sembra che essi durino nello stesso modo. E siccome la rappresentazione costante di un fenomeno oggettivo identico che si ripete seziona la nostra vita psichica superficiale in parti esterne le une alle altre, a loro volta, i momenti così ottenuti determinano dei segmenti distinti nel progresso dinamico e indiviso dei nostri stati di coscienza più personali. Così, questa esteriorità reciproca che la loro giustapposizione nello spazio omogeneo assicura agli oggetti materiali si ripercuote e si propaga sino alle profondità della coscienza: a poco a poco, le nostre sensazioni si staccano le une dalle altre come le cause esterne che le fecero nascere, e questo accade anche per i sentimenti o per le idee, similmente alle sensazioni di cui sono contemporanei. Che la nostra concezione abituale della durata derivi da una graduata invasione dello spazio nel campo della coscienza pura, lo prova molto bene il fatto che per togliere all’io la facoltà di percepire un tempo omogeneo basta staccare da lui quello strato più superficiale di fatti psichici che egli utilizza come regolatori. Il sogno ci pone proprio questa condizione, poiché il sonno, allentando il gioco delle funzioni organiche, modifica soprattutto la superficie di comunicazione tra l’io e le cose esterne. Allora non misuriamo più la durata, la sentiamo; da quantità, ritorna allo stato di qualità non c’è più valutazione matematica del tempo trascorso, essa ha lasciato il posto a un istinto confuso che, come tutti gli istinti, può commettere degli errori grossolani ma talvolta anche procedere con una straordinaria sicurezza. Anche allo stato di veglia, l'esperienza quotidiana dovrebbe insegnarci a cogliere la differenza tra durata-qualità quella che la coscienza afferra immediatamente, e che probabilmente l'animale percepisce, e il tempo per così dire materializzato, il tempo divenuto quantità a causa di un dispiegamento nello spazio.
Quindi, per concludere, distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente. Al di sotto della durata omogenea, simbolo estensivo della vera durata, una psicologia attenta riesce a districare una durata i cui momenti eterogenei si compenetrano al di sotto della molteplicità numerica degli stati di coscienza, una molteplicità qualitativa; al di sotto di un io dagli stati ben definiti, un io in cui la successione implica fusione e organizzazione. Ma la maggior parte delle volte noi ci limitiamo al primo di essi, e cioè all'ombra dell’io proiettata nello spazio omogeneo. La coscienza, tormentata da un insaziabile desiderio di distinguere sostituisce il simbolo alla realtà oppure scorge quest'ultima solo attraverso il primo. E siccome l’io così rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare, essa lo preferisce, e perde di vista a poco a poco l'io fondamentale.
Per ritrovare questo io fondamentale, così come verrebbe percepito da una coscienza inalterata, è necessario un vigoroso sforzo d’analisi, attraverso il quale i fatti psicologici interni e vivi verranno isolati dalle loro immagini dapprima rifratte, e poi solidificate nello spazio omogeneo. In altri termini le nostre percezioni, sensazioni, emozioni e idee si presentano sotto un duplice aspetto: l'uno netto, preciso, ma impersonale; l'altro confuso, infinitamente mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale senza farlo cadere nel dominio comune.
Da H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cap. 2. in H. Bergson, Opere 1889-1896, a cura di F. Sossi e Rovatti, A. Mondadori, Milano 1986.
IL CORPO, LA MEMORIA E LA PERCEZIONE
Il nostro corpo non è altro che la parte della nostra rappresentazione che rinasce invariabilmente, la parte sempre presente, o piuttosto quella che, in ogni momento, è appena passata. Immagine esso stesso, questo corpo non può immagazzinare le immagini, perché fa parte di esse; ecco perché pretendere di localizzare le percezioni passate, o anche presenti, nel cervello, è del tutto chimerico: le percezioni non si situano nel cervello; è il cervello che è in esse. Ma, in ogni istante, quest’immagine tutta particolare, che persiste in mezzo alle altre e che chiamo il mio corpo, costituisce, come dicevamo, un taglio trasversale nel divenire universale. E quindi il luogo di passaggio dei movimenti ricevuti e rinviati, il "trait d'union" tra le cose che agiscono su di me e le cose sulle quali io agisco, la sede, in una parola, dei fenomeni sensorio-motori. Se rappresento con un cono SAB la totalità dei ricordi accumulati nella mia memoria, la base AB, situata nel passato, rimane immobile, mentre il vertice S, che raffigura in ogni momento il mio presente, avanza senza posa, e, sempre senza posa, tocca il piano mobile P della mia rappresentazione attuale dell’universo. L’immagine del corpo si concentra in S; e, poiché fa parte del piano P, tale immagine si limita a ricevere e a restituire le azioni che emanano da tutte le immagini che compongono il piano.
La memoria del corpo, costituita dall'insieme dei sistemi sensorio-motori che l’abitudine ha organizzato, è, dunque, una memoria quasi istantanea a cui la vera memoria del passato serve da base. Poiché esse non costituiscono due cose separate, poiché la prima è, come dicevamo, solo la punta mobile che la seconda inserisce nel piano mobile dell’esperienza è naturale che queste due funzioni si prestino un mutuo appoggio. Da un lato, infatti, la memoria del passato presenta ai meccanismi sensorio-motori tutti i ricordi in grado di guidarli nel loro compito e di dirigere la reazione motrice nel senso suggerito dagli insegnamenti dell’esperienza: le associazioni per contiguità e per somiglianza consistono proprio in ciò. Ma, dall’altro, gli apparati sensorio-motori forniscono ai ricordi impotenti cioè inconsci, il modo di prendere corpo, di materializzarsi insomma di divenire presenti. Un ricordo, infatti, per riapparire alla coscienza deve scendere dalle altezze della memoria pura fino al punto preciso in cui si compie l’azione. In altri termini, l’appello a cui il ricordo risponde parte dal presente, e il calore che dà vita viene preso a prestito dal ricordo dagli elementi sensorio-motori dall'azione presente.
Da H. Bergson, Materia e memoria cap. 3, in H. Bergson, Opere 1889-1896 cit.
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