Bergson, Kierkegaard, Esistenzialismo, Hidegger

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Testo

Henri Bergson (Parigi,1859 – 1941)
L’opera di Bergson si presenta come la massima espressione dello spiritualismo francese che prende origine da Maine de Brian e si continua in una numerosa famiglia di pensatori francesi contemporanei. Essa può tuttavia essere compresa nel quadro di quell’evoluzionismo spiritualistico che ha trovato rappresentanti o difensori i tutti i paesi d’Europa. Inoltre, essa accoglie alcuni temi della critica della scienza e del pragmatismo.
Contro la tradizione spiritualistica
La filosofia di Bergson segna il momento del rinnovamento della filosofia francese. Pur riprendendo elementi importanti della tradizione spiritualistica dell’Ottocento, Bergson ne innova profondamente i metodi e le finalità.
Il punto d partenza dello spiritualismo consisteva nella riaffermazione del primato della coscienza e nella difesa della tradizione filosofica nazionale, che avvertiva il positivismo come un corpo estraneo. Non altrettanto si può dire di Bergson: i suoi studi partono proprio dall’approfondimento delle discipline scientifiche; studia la matematica prima che la filosofia e abbraccia il metodo positivista (nella giovinezza). Se in seguito egli si allontana dal positivismo, non lo fa mosso dall’intento di difendere la fede e la religione cristiana, così viva nella tradizione dello spiritualismo. Bergson parte invece dall’analisi dei dati immediati della coscienza; nel corso di quest’analisi constata l’insufficienza della spiegazioni meccanicistica fornita dal positivismo.
Bergson si pone nell’ottica di superare le polarità classiche della filosofia: soggetto e oggetto, qualità e quantità, materia e spirito; esse impediscono di comprendere l’essenza dell’esperienza che, come affermerà nell’Evoluzione creatrice, è un’unità dinamica di movimento oggettivo e soggettivo. L’esperienza si presenta come un processo dinamico il cui esito non è affatto determinato: esso è slancio creatore che non può essere ridotto a puro dato di fatto.
Contro il positivismo
Nei Saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson sottopone ad analisi critica il tentativo positivista di ridurre i dati immediati della coscienza a fattori quantitativi, sperimentalmente riproducibili. Egli analizza i differenti stati psicologici che si presentano alla coscienza, individuandoli nell’azione, nella tensione, nelle emozioni violente, nelle sensazioni affettive, nelle sensazioni rappresentative, e in quelle di suono, calore, peso e luce. Bergson rifiuta il tentativo adoperato dai positivisti di ridurre la spiegazione degli stati psicologici alla somma degli atomi psichici numericamente determinabili che li compongono, e preferisce utilizzare il metodo dell’intuizione che permette di individuare piuttosto le differenze qualitative che si presentano tra i diversi stati psichici.
Per Bergson, l’intuizione permette di indagare la vita della coscienza per scomporla, come accade invece utilizzando la sola facoltà analitica dell’intelligenza. Questa seconda tendenza impedisce a suo avviso di cogliere il fluire mobile ma unitario della vita dello spirito e lo riduce a un insieme di parti numerabili e descrivibili secondo le equazioni della meccanica. Il metodo che Bergson propone consiste nel porre in evidenza le differenti componenti che costituiscono l’oggetto di una determinata intuizione. Esse possono differenziarsi sia “per grado” (quando si riferiscono a due oggetti che appartengono allo stesso ordine di realtà) sia “per natura” (quando si riferiscono a due ordini radicalmente distinti).
Analisi della temporalità
Da Aristotele in poi, il tempo è identificato come una successione, ordinata nello spazio, di istanti distinti: come la somma di un insieme, qualitativamente omogeneo, di quantità definite. Il tempo è dunque concepito come penetrato dallo spazio; tale visione si ottiene privilegiando la facoltà analitica dell’intelletto, che tende a sezionare la realtà in elementi quantitativamente determinabili. Il punto di vista dell’intuizione applicato all’oggetto tempo produce risultati radicalmente differenti. Il tempo è intuito della coscienza come un continuum (sequenza ininterrotta e ordinata) all’interno del quale convivono, come in un misto, differenti elementi qualitativi. Il metodo bergsoniano dell’intuizione non seziona questo continuum, ma permette di cogliere e di distinguere le differenti componenti che costituiscono tale unità. Nel caso del tempo si tratta di cogliere i due elementi che differiscono per natura: l’estensione e la durata. Secondo Bergson si tratta di cogliere, attraverso l’intuizione, l’oggetto così come si dà alla coscienza e di individuare quelle componenti qualitative che concorrono a costruirne e fondarne l’unità.
L’unità della coscienza non va ridotta a una successione numerabile di atti. Procedendo in questo modo, si proietta sulla coscienza una particolare forma di temporalità che non lo è propria: la temporalità spazializzante della fisica. Nelle equazioni della meccanica vengono introdotti rapporti designati con il termine tempo; ma si tratta in realtà di rapporti che definiscono situazioni successive nello spazio. Il tempo della meccanica è ridotto a una relazione spaziale. Tuttavia questa nozione di tempo non esaurisce il tempo vissuto: quella realtà che viene percepita dalla coscienza in modo immediato come trascorrere del tempo. Per la vita della coscienza, il tempo non si definisce come rapporto numerico, quantitativo, dove la natura qualitativa dei termini non ha importanza. Esiste inoltre un ordine di realtà che sfugge dalla conoscenza di tipo matematico, poiché dura nel tempo. Nel concetto di tempo si possono dunque identificare due ordini di realtà: quello quantitativo e ma tematizzabile della successione spaziale degli istinti e quello qualitativo della durata del tempo vissuto.
Il tempo della meccanica è fatto di istanti differenti solo quantitativamente mentre il tempo vissuto consta di istanti che sono diversi anche qualitativamente. Il tempo della fisica e dell’osservazione scientifica è reversibile, poiché un esperimento può essere ripetuto ed osservato un numero indefinito di volte, mentre il tempo della psiche è fatto di momenti irripetibili, per cui ogni ricerca del tempo perduto è destinata al fallimento o a ri-creare gli avvenimenti stessi. Il tempo della fisica è fatto di momenti distinti l’uni dall’altro, mentre il tempo dell’esistenza è costituito di diversi momenti che si compenetrano e si sommano fra di loro, alla maniera di una valanga. Il tempo della scienza è qualcosa di astratto, di esteriore, di spazializzato: l’esteriorità reciproca è il carattere fondamentale che definisce la differenza degli oggetti nello spazio e insieme il carattere distintivo degli istinti successivi del tempo spazializzato; noi proiettiamo il tempo nello spazio a nostra insaputa, la successione prende così per noi la forma di una linea continua. Ciò che caratterizzala durata reale è invece la condizione esattamente opposta, e cioè della non esteriorità, il compenetrarsi reciproco di un elemento con l’altro. Il tempo della vita si identifica con la durata. Per cui, mentre il tempo spazializzato della fisica trova la sua immagine in una collana di perle , tutte uguali e distinte fra di loro, l’immagine del tempo della durata è il gomitolo di filo (o la valanga), che continuamente muta e cresce su se medesimo. Questa conservazione totale è nello stesso tempo una creazione totale, giacchè in essa ogni movimento, pur essendo il risultato di tutti i momenti precedenti, è assolutamente nuovo rispetto ad essi. La durata può essere dunque definita come concentrazione di atti di coscienza che si dispiegano secondo la logica del tempo vissuto, con cui si contrappone il tempo spazializzato. La durata consta quindi di istanti qualitativamente irriducibili gli uni dagli altri che si danno simultaneamente alla percezione della coscienza. Il determinismo positivista non ha compreso la differenza tra la successione che caratterizza lo spazio omogeneo dei fenomeni esterni e la simultaneità qualitativa della coscienza; così ha proiettato l’omogeneità dello spazio delle scienze sulla vita della coscienza.
La vita spirituale è perciò essenzialmente auto-creazione e libertà. Coloro che ritengono che ogni azione spirituale sia necessariamente determinata dalle sue cause, si fondano su un concetto del tempo che non si può applicare alla vita spirituale. Immaginano cioè il tempo secondo lo schema spaziale, come fa la scienza, perciò esteriorizzano l’azione e il motivo dell’azione considerandoli quasi come due cose esterne l’una all’altra e di cui una agisca sull’altra. Questa esteriorizzazione o spazializzazione del tempo vissuto è in contrasto con la testimonianza della coscienza, la quale ci da soltanto un processo di mutamento unico e continuativo. Non si può perciò dire che l’anima sia determinata da una simpatia, da un odio ecc., come da una forza che dall’esterno agisca su di essa. Ognuno di questi sentimenti è tutta l’anima, si identifica con essa; e dire che l’anima è determinata da uno di essi è lo stesso che dire che si determina da sé ed è quindi libero.
Materia e memoria
A Bergson si presenta il problema di spiegare come il tempo vissuto dalla durata possa entrare in contatto con gli oggetti che compongono il mondo della vita quotidiana. Il tema che è affrontato nell’opera Materia e memoria è lo studio dei rapporti fra spirito e corpo (che si oppone alla coscienza). Per comprendere la nuova teoria Bergson costruisce la teoria sulla conoscenza. Bergson afferma che il mondo degli oggetti non esiste né in sé né al di fuori di noi, ma esiste così come noi la percepiamo immediatamente nella coscienza; esiste cioè l’immagine del mondo delle cose che, entrando in contatto con l’immagine dell’io, dà luogo ad un’interazione che attiva e produce la conoscenza.
La totalità dell’universo è concepita come un’insieme di immagini che appartengono allo stesso ordine di realtà. Il problema è ora quello di spiegare come da questo universo di immagini possa ritagliarsi il particolare punto di vista sul mondo che costituisce la coscienza. Il passaggio dall’immagine non attualmente presente, incosciente e impersonale, all’immagine cosciente e personale avviene attraverso la diminuzione. Il soggetto che percepisce, ritaglia dall’universo delle immagini una porzione significativa di esso, che diviene per lui una rappresentazione dell’oggetto. Per spiegare la genesi della coscienza occorre, tuttavia, presupporre l’intervento di un’immagine particolare che, nell’insieme delle immagini fornite, agisca come strumento di selezione per sottrazione o diminuzione: quest’immagine è il corpo. L’immagine-corpo seleziona solo le immagini che le interessano da un punto di vista pratico.
È, in poche parole, quello che avviene tra la memoria e ricordo. La memoria pura è la coscienza stessa, che registra automaticamente tutto ciò che accade, anche di ciò di cui non abbiamo consapevolezza. La memoria pure si identifica con il nostro passato. Il ricordo-immagine è la materializzazione, operata dal cervello, di un evento del passato. Materializzazione che non sempre avviene e che spiega come la coscienza, pur essendo memoria, non sia necessariamente ricordo. Anzi, quella che noi comunemente chiamiamo memoria (=ricordo-immagine) è solo una piccola parte della memoria complessiva (=memoria pura). Il cervello trasforma in ricordi-immagini solo ciò che serve all’azione, mantenendo nell’inconscio la massima parte del passato. Questo viene da Bergson schematizzato con l’immagine di un cono rovesciato che giace su un piano. La percezione, a sua volta, agisce come un continuo filtro selettivo dei dati, in vista delle esigenze dell’azione. Essa agisce solo in un secondo momento, grazie all’intervento della memoria che diviene un’attività rappresentativa.
Con questo tipo di discorso, Bergson ha continuato a presupporre il dualismo tra spirito (che è memoria e durata) e materia.
Lo slancio vitale
L’Evoluzione creatrice mostra come non solo la coscienza, ma l’universo stesso sia interpretabile secondo il concetto di durata reale. La vita è sempre creazione, imprevedibilità e nello stesso tempo conservazione integrale ed automatica dell’intero passato. Tale è la vita dell’individuo come quella della natura; ma le sorti dell’una e dell’altra sono diverse. Ciascuno di noi, considerando retrospettivamente la sua storia, constaterà che la sua personalità infantile riuniva in sé persone diverse che potevano restare insieme allo stato nascente, ma che sono via via divenute incompatibili, ponendoci più volte di fronte alla necessità di una scelta. La vita della natura, invece, non è costretta a simili sacrifici: essa conserva le tendenze che si sono a un certo punto biforcate e crea serie divergenti di specie che si evolvono separatamente. La vita non segue una linea di evoluzione unica e semplice. Si sviluppa come un fascio di steli creando direzioni divergenti fra le quali si divide il suo slancio originario. Le biforcazioni del suo sviluppo sono state numerose. Ma molte sono state anche le vie senza uscita.
L’unità delle varie direzioni non è un’unità di convergenza. Il finalismo in questo senso è escluso; la vita è creazione libera ed imprevedibile. Si tratta di un’unità che precede la biforcazione, cioè dello slancio che va via via realizzando. Lo slancio della vita è la causa profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente con l’eredità, che si addizionano e creano nuove specie. Tutto ciò, se esclude il disegno prestabilito di ogni teoria finalistica, esclude pure che l’evoluzione sia avvenuta per cause puramente meccaniche. Il meccanicismo non può spiegare la formazione di organi complicatissimi che hanno tuttavia una funzione assai semplice, com’è il caso dell’occhio.
Bergson si serve dell’immagine di una mano che traversi la limatura di ferro che si comprime e resiste a misura della mano che avanza. A un certo momento, la mano avrà esaurito il suo sforzo e nello stesso preciso momento i grani di limatura si saranno coordinati in una forma determinata: quella della mano che si arresta e di una parte del braccio. Se la mano e il braccio siano rimasti invisibili, gli spettatori cercheranno, negli stessi grani di limatura e nelle forze interne della massa, la ragione del loro accomodamento. Gli uni spiegheranno la posizione di ciascun grano con l’azione che i grani vicini esercitano su di esso: e saranno meccanicisti. Altri vorranno che un piano d’insieme abbia presieduto al dettaglio di queste azioni elementari: e saranno finalisti. La verità è che vi è stato un atto invisibile, quella della mano che ha attraversato a limatura: l’inesauribile dettaglio dei movimenti dei grani, come il loro ordine finale, esprime negativamente questo movimento indiviso perché è la forma globale della resistenza e non una sintesi di azioni positive elementari. L’azione indivisibile della mano è quella dello slancio vitale; il suddividersi dello slancio vitale in individui e specie, in ciascun individuo nella verità degli organi che lo compongono e in ciascun organo negli elementi che lo costituiscono, è dovuto alla resistenza della materia bruta.
La prima biforcazione fondamentale dello slancio vitale è quella che ha dato origine alla divisione fra la pianta e l’animale. Il vegetale è caratterizzato dalla capacità di fabbricare le sostanze organiche con sostanze minerali (funzione clorofilliana). Gli animali, obbligati ad andare a cercare il loro nutrimento, si sono evoluti nel senso dell’attività locomotrice e quindi di una coscienza sempre più sveglia. Le due tendenze si sono dissociate crescendo, ma nella forma rudimentale si implicano reciprocamente; e lo stesso slancio, che ha portato l’animale a darsi nervi e centri nervosi, ha dovuto pervenire nella pianta alla funzione clorofilliana.
Istinto, intelligenza e intuizione
Istinto ed intelligenza sono tendenze diverse, ma connesse e mai assolutamente separate. Nella loro forma perfetta, l’intelligenza si può definire come la facoltà di fabbricare strumenti artificiali e di variarne indefinitamente la fabbricazione; l’istinto cometa facoltà di utilizzare o costruire strumenti organizzati. L’uomo non è homo sapiens, ma homo faber. La sua caratteristica è quella di sopperire alla deficienza dei mezzi naturali di cui si dispone con strumenti adatti a difenderlo contro i nemici e contro la fame e il freddo. Gli strumenti che l’uomo crea artificialmente corrispondono agli organi naturali di cui si avvale l’istinto.
Ciò stabilisce i caratteri fondamentali dell’intelligenza umana e della scienza che essa si avvale. Essa è diretta essenzialmente ai fini della vita, serve a costruire strumenti inorganici, perciò si trova a suo agio solo quando si trova a che fare con la materia inorganica. Il funzionamento dell’intelligenza è determinato dalla natura dell’oggetto che le è proprio. Essa si rappresenta chiaramente soltanto ciò che è solido, discontinuo, immobile; ed è proprio caratterizzata da una incomprensione naturale per il movimento, il divenire e la vita.
Tuttavia l’intelligenza non si separa mai completamente dall’istinto. È possibile quindi un ritorno consapevole dell’intelligenza all’istinto; e tale ritorno è l’intuizione. L’intuizione è un istinto divenuto disinteressato, consapevole di se stesso, capace di riflettere sul suo oggetto e di estenderlo indefinitamente. Che uno sforzo di questo genere sia possibile è dimostrato dalla presenza nell’uomo dell’intuizione estetica, che dà luogo all’arte; ma l’intuizione estetica è diretta soltanto a questa o quella realtà particolare e non può essere l’organo di una metafisica della vita. Si può concepire tuttavia una ricerca orientata nello stesso senso dell’arte e che abbia per oggetto la vita in generale. Una ricerca di questo genere sarà profondamente filosofica e costituirà l’organo adatto per la comprensione della vita: la metafisica.
Società, morale e religione
Nel mondo umano Bergson scorge la stessa alternativa tra l’immobilità e il movimento, tra la solidificazione in forme relativamente fisse e lo slancio creativo che procede in avanti. In esso vi sono infatti società chiuse nelle quali l’individuo agisce unicamente come parte del tutto e che lasciano un margine minimo all’iniziativa e alla libertà; e società aperte nelle quali invece si continua lo sforzo creatore della vita. Nelle società chiuse domina la morale dell’obbligazione, fondata su abitudini sociali che garantiscono la vita e la solidità del corpo sociale. Nelle società aperte invece c’è la morale assoluta che è quella dei santi del cristianesimo, dei sapienti della Grecia, dei profeti d’Israele, la quale guarda non a un gruppo sociale, ma a tutta l’umanità. Mentre la morale dell’obbligazione è immutabile è immutabile e tende alla conservazione, la morale assoluta è in movimento e tende al progresso. La prima consiste nella conformità ad abitudini acquisite;la seconda risponde all’appello di una personalità che può essere quella di un rivelatore della vita morale o di uno dei suoi imitatori, o anche quella dell’individuo stesso nella sua singolarità.
A queste due morali diverse corrispondono due diversi tipi di religione. C’è la religione statica che mediante miti e superstizioni (dovuti ad un uno speciale della fantasia→funzione fabulatrice) cerca di dare all’uomo una difesa controre prospettive di pericolo, di insuccesso e di morte che la vita presenta e che l’intelligenza non manca di prospettargli chiaramente. La religione statica è qui una reazione difensiva della natura contro l’intelligenza, che fa riconoscere chiaramente all’uomo il carattere estremamente incerto e rischioso della sua esistenza nel mondo. La fede dell’immoralità, nella protezione soprannaturale, sono i risultati di questa religione.
Al di sopra di essa e dell’intelligenza c’è invece la religione dinamica, identificata col misticismo. Questo è assai chiaro e presuppone un uomo privilegiato e geniale. Ma fa appello a qualcosa che è in tutti gli uomini e tende a comunicare a tutti la sua forza creativa. Attraverso il misticismo l’uomo si inserisce nello slancio creatore della vita o, in altre parole, nella stessa creazione divina, e la continua per suo conto.
La coincidenza dell’esperienza mistica in tutte le forme di religione è l’unica prova possibile dell’esistenza di Dio, giacché non si spiegherebbe che religioni diverse presentino la stessa forma di misticismo se non si ammettesse che il misticismo è l’esperienza diretta di un oggetto reale: di Dio, del suo slancio vitale. Bergson tuttavia ritiene che i mistici cristiani siano superiori a quelle delle altre religioni perché essi insistono sull’amore. L’amore spiega infatti la molteplicità degli esseri viventi, che sono diversi tra loro appunto perché possono ritrovarsi e amarsi nell’unità dello slancio creatore.
Bergson auspica il sorgere di qualche genio mistico come correzione dei mali sociali e morali di cui soffre oggi l’umanità. La tecnica moderna, estendendo la sfera d’azione dell’uomo sulla natura, ha ingrandito smisuratamente il corpo dell’uomo. Questo corpo ingrandito attende un supplemento d’anima e la meccanica esige una mistica. I problemi sociali e politici che nascono da questa sproporzione potrebbero essere eliminati da una rinascita del misticismo.
Il riso
Capitolo 1:
Il riso ha una funzione sociale: se il riso è un gesto che appartiene a pieno titolo al comportamento umano, allora deve essere lecito domandarsi qual è il fine che lo anima. Ora, per comprendere il fine cui mira un comportamento si deve in primo luogo far luce sulle occasioni in cui accade:
1. "Non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano" (p. 4). (Fa ridere se un qualcosa assomiglia all’uomo→l’uomo è un animale che fa ridere)
2. "il comico esige dunque, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore" (pp. 5-6). (noi non dobbiamo farci coinvolgere dalla scena e quindi non dobbiamo provare pietà o simpatia)
3. "Il riso cela sempre un pensiero nascosto di intesa, direi quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie che siano" (p. 6). (ridiamo meglio se stiamo in gruppo e spesso il riso è ciò che tiene legati una cerchia di amici)
Il riso sembra essere strettamente connesso con la vita sociale dell'uomo, con il suo essere un animale sociale. Possiamo allora far convergere i tre punti su cui abbiamo dianzi richiamato l'attenzione in un'unica tesi, che getta appunto la sua luce sul quando del riso: "Il "comico" nasce quando uomini riuniti in un gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità, ed esercitando solo la loro intelligenza" (p. 7).
Capitolo 2:
1. Il riso ed il diavolo a molla (p. 46). È dunque il comportamento rigidamente meccanico di ciò che pure nel gioco vale come un essere dotato di un'autonoma volontà a far ridere il bambino. la comicità che sorge dalla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei pensieri. "Due volti simili, ciascuno dei quali preso isolatamente non fa ridere, presi insieme fanno ridere per la loro somiglianza" - diceva Pascal (p. 23), e tutti sappiamo come un tic fisico o intellettuale (una frase, sempre la stessa, ripetuta troppo di sovente) sia causa di ilarità. Per l'immaginazione una macchina È innanzitutto ripetitiva: ciò di cui ridiamo è tutto ciò in cui l'immaginazione scorge una sorta di meccanicizzazione della vita.
Capitolo 3:
Da ciò il carattere equivoco del comico. Esso non appartiene né completamente all'arte, né completamente alla vita. Da un lato i personaggi della vita reale non ci farebbero mai ridere se noi non fossimo capaci di assistere alle loro vicende come ad uno spettacolo visto dall'alto di una loggia; essi sono comici ai nostri occhi solo perché ci danno la commedia. Ma d'altra parte, anche a teatro, il piacere di ridere non è puro, cioè esclusivamente estetico, assolutamente disinteressato. Vi si associa sempre un pensiero occulto che la società ha per noi quando non l'abbiamo noi stessi; vi è sempre l'intenzione non confessata di umiliare e con ciò, è vero, di correggere, almeno esteriormente" (p. 89).
Se il riso È un castigo sociale, allora si deve aggiungere che talvolta sembra castigare anche là dove non ce n'è alcun bisogno. Di un vizio morale come l'avarizia o la gelosia, noi non sempre ridiamo, poiché il riso chiede che il vizio da castigare non ci coinvolga troppo da vicino e ci permetta di mantenere la posizione dello spettatore. In secondo luogo, uno stesso vizio può talvolta suscitare il riso, talvolta il nostro disprezzo. La diversità della reazione non dipende solo dalla gravità della colpa, ma soprattutto dal modo in cui questa si palesa. Gli eroi tragici ci rivelano il loro carattere nelle azioni intesi come i comportamenti volontari della soggettività. Il personaggio comico invece si rivela nei gesti, e cioè in quei movimenti e in quei discorsi nei quali uno stato d'animo si manifesta senza scopo e senza alcuna premeditazione. Nell'azione la persona intera è in gioco, nel gesto una parte isolata della persona si esprime all'insaputa o (per lo meno) in disparte dell'intera personalità (p. 94). Il gesto è quindi una sorta di irruzione improvvisa dell'inconscio nella vita desta, ed è proprio questo carattere di involontarietà e di immediatezza che ci fa apparire comico anche un vizio che detestiamo.
Kierkegaard (Copenhagen 1813, 1855)
La comunicazione d’esistenza
La prima caratteristica dell’opera e della personalità di Kierkegaard è l’aver cercato di ricondurre la comprensione dell’intera esistenza umana alla categoria della possibilità e di aver messo in luce il carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale. Mentre Kant aveva riconosciuto una possibilità trascendentale, ma di tale possibilità egli aveva messo in luce l’aspetto positivo, che fa un’effettiva capacità umana, limitata, ma che ritrova, nei limiti, la sua validità e il suo impegno di realizzazione. Kierkegaard scopre e mette in luce l’aspetto negativo d’ogni possibilità che entri a costituire l’esistenza umana. Ogni possibilità è infatti, oltre che possibilità-che-sì, anche possibilità-che-non: implica la nullità possibile di ciò che è possibile, quindi la minaccia del nulla. Kierkegaard vive, e scrive, sotto il segno di questa minaccia. Si è visto che in tutti i tratti salienti della sua vita si siano rivestiti di un’oscurità problematica. I rapporti con la famiglia, l’impegno di fidanzamento finiscono per paralizzarlo. Egli stesso ha vissuto in pieno la figura del discepolo dell’angoscia, di chi si sente in sé le possibilità annientatrici e terribili di ogni alternativa dell’esistenza prospetta.
Il punto zero è l’indecisione permanente, l’equilibrio instabile tra le alternative opposte che si aprono di fronte a qualsiasi possibilità.
Una seconda caratteristica del pensieri di Kierkegaard è il suo sforzo costante di chiamare le possibilità fondamentali che si offrono all’uomo, gli stadi o i momenti della vita che costituiscono le alternative dell’esistenza e tra le quali l’uomo generalmente è condotto a scegliere, mentre egli, Kierkegaard, non poteva scegliere. Egli si disse e si credette poeta, e moltiplicò la sua personalità con pseudonimi. La pseudonimia, in Kierkegaard, è in realtà una polinomia. Lo scopo fondamentale è realizzare quella comunicazione indiretta che Kierkegaard ritiene l’unica in grado di parlare della verità: non si tratta di trasmettere una dottrina compiuta ma di realizzare una comunicazione d’esistenza, che ha di mira l’attivazione, nell’interlocutore, di un poter fare. Il cristianesimo stesso, che rappresenta la più alta verità, non è per Kierkegaard dottrina, ma comunicazione d’esistenza, cioè comunicazione che traforma. Ciascuno pseudonimo esprime esistendo un’idea. Lo schermo degli pseudonimi non serve dunque a Kierkegaard per proteggersi dal giudizio esterno ma in modo da accentare il distacco tra se stesso e le forme di vita che veniva descrivendo in modo da far intendere chiaramente che egli stesso non s’impegnava a scegliere tra esse.
Una terza caratteristica basilare del suo pensiero è il tema della fede. Soltanto nel Cristianesimo egli vede un’ancora di salvezza: in quanto il Cristianesimo gli sembrava insegnare quella stessa dottrina dell’esistenza che a lui pareva l’unica vera e nello stesso tempo offrire, con l’aiuto soprannaturale della fede, un modo nuovo per sottrarre l’uomo all’angoscia e alla disperazione, che costituiscono strutturalmente l’esistenza.
Kierkegaard ha in odio la filosofia accademica, che gli pare veicolo di un pensiero astratto e morto, e intende invece il filosofare come esercizio attivo, finalizzato a produrre mutamenti nell’attegiamento verso la vita e nei comportamenti. Se Cristo è il suo grande modello in campo religioso, Socrate (e ricordiamo la tesi di laurea Sul concetto dell’ironia con particolare riguardo a Socrate) lo è in campo filosofico. Di qui deriva la ricerca di una scrittura filosofica capace di riprodurre la mobilità, la concretezza, la vicinanza alla vita del dialogare socratico e l’attenzione posta alla tematica della comunicazione, e del rapporto tra pensiero e comunicazione. Kierkegaard stesso divide la sua opera sulla base della modalità comunicativa: alla comunicazione diretta appartengono gli scritti di carattere direttamente religioso, pubblicati a sua firma; alla comunicazione indiretta appartengono tutte le grandi opere pseudonime: Aut Aut, Timore e Tremore, Il concetto dell’angoscia, La malattia mortale.
Vita estetica e vita etica
Il primo libro di Kierkegaard s’intitola Aut-Aut (opposto all’Et-Et hegeliano) e presenta l’alternativa di due stadi fondamentali della vita: la vita estetica e la vita etica. Il titolo indica già come questi stadi non siano due gradi di uno sviluppo unico che passi dall’uno all’altro e li concili. Tra uno stadio e l’altro vi è un abisso. Ognuno di essi forma una vita a sé, che con le sue opposizioni interne si presenta all’uomo come un’alternativa che esclude l’altra.
Lo stadio estetico è la forma di vita di chi esiste nell’animo, fuggevolissimo e irripetibile. L’esteta è colui che vive insieme di immaginazione e di riflessione. La sua sfera è il gioco e la sua esistenza è vissuta come un teatro. È dotato di un senso finissimo per trovare nella vita ciò che vi è di interessante, e sa trattare i casi vissuti come se fossero l’opera dell’immaginazione poetica. Così l’esteta si foggia un mondo luminoso, dal quale è assente tutto ciò che la vita presenta di banale, insignificante e meschino; e vive in uno stato di ebbrezza intellettuale continua. La vita estetica esclude la ripetizione, che implica sempre monotonia e toglie l’interessante alle vicende più promettenti. La vita estetica è rappresentata da Kierkegaard in Don Giovanni, il protagonista del Diario di un seduttore, che sa porre il suo godimento non nella ricerca sfrenata e indiscriminata del piacere, ma nella limitazione e nell’intensità dell’appagamento. Il potere e il piacere della seduzione immediata di Giovanni, che allinea le proprie conquiste l’una accanto all’altra come un’indefinita di istanti; è la pura forza dell’eros, il cui medio espressivo ideale è la musica di Mozart. Pure il Faust che incarna invece il potere dissolutore del dubbio radicale; il patto demoniaco costringe Faust alla ricerca insensata della conoscenza assoluta, e quindi a dubitare di tutto. Anche Faust è seduttore, ma di una sola donna, Margherita, poiché nel potere assoluto di una donna, che conquista grazie alla sua superiorità intellettuale, egli riesce a trovare un momento di presente, un istante di riposo di fronte al nulla che lo minaccia e che il suo scetticismo continuamente gli ripropone. Ma la vita estetica rivela la sua insufficienza e la sua miseria nella noia; la disperazione è l’ultimo sbocco della concezione estetica della vita. Essa è ansia di una vita diversa che si prospetta come un’altra alternativa possibile. Ma per raggiungerla bisogna attaccarsi alla disperazione, scegliere e darsi ad essa con tutto l’impegno, per rompere l’involucro della pura esteticità e riagganciarsi con un salto all’altra alternativa possibile, a vita etica.
La vita etica implica una stabilità e una continuità che la vita estetica, come incessante ricerca della verità, esclude da sé. Essa è il dominio della riaffermazione di sé, del dovere e della fedeltà a se stessa: il dominio della libertà per la quale l’uomo si forma o si afferma da sé. . Nella vita etica l’uomo singolo si sottopone ad una forma, si adegua all’universale e rinuncia ad essere l’eccezione. La vita etica è incarnata dal marito; il matrimonio è l’espressione tipica dell’eticità. Mentre nella concezione estetica dell’amore, una coppia di persone eccezionali può essere felice in forza della sua eccezionalità, nella concezione etica del matrimonio può diventare felice ogni coppia di sposi. La persona etica vive del suo lavoro che è la sua vocazione, perciò lavora con piacere: il lavoro la mette in relazione con altre persone, e adempiendo il suo compito essa adempie a tutto ciò che può desiderare al mondo.
La caratteristica della vita etica è la scelta che l’uomo fa di se stesso. La scelta di se stesso è una scelta assoluta perché non è la scelta di una qualsiasi determinazione finita ma la scelta della libertà. L’estetico consiste appunto nel non scegliere. La non-scelta ignora il principio di contraddizione, è l’indifferenza che annulla le distinzioni: l’etica, in quanto si fonda sulla scelta, assume invece la disgiunzione, l’aut-aut, come atto che fonda la personalità e che deve essere continuamente rinnovato. L’illusione di libertà che caratterizza l’estetico rivela allora la sua inconsistenza, perché mentre l’individuo rifiuta la sua inconsistenza o rimanda la scelta, altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso. Solamente nella scelta divengono possibili l’esperienza della libertà e la conoscenza di sé. Chi si è scelto è ciò che è divenuto. Una volta effettuata questa scelta, l’individuo scopre in sé una ricchezza infinita, scopre che ha in sé una storia nella quale riconosce una sua identità con se stesso. Questa storia include i suoi rapporti con gli altri sicchè nel momento in cui l’individuo sembra isolarsi di più, penetra più profondamente nella radice con la quale si ricatta all’intera umanità. Egli non può rinunciare a nulla della sua storia, neanche gli aspetti di essa più dolorosi e crudeli; e nel riconoscersi in questi aspetti, egli si pente. Il pentimento è l’ultima parola della scelta etica, quella per cui questa scelta appare insufficiente e trapassa nel dominio religioso. Il pentimento coinvolge se stesso, la famiglia, il genere umano, finchè egli si ritrova in Dio. Solo a questa condizione egli può scegliere se stesso e questa è la sola condizione che egli vuole perché solo così egli può scegliere se stesso in senso assoluto. La scelta è dunque pentimento, riconoscimento della propria colpevolezza della colpevolezza perfino di ciò che si è ereditato. Il pentimento è il suo amore perché egli lo sceglie assolutamente, per la mano di Dio.
Ciò che infine caratterizza l’etico rispetto all’estetico è un diverso rapporto con il tempo: la vita etica ha consistenza temporale, ha durata, ha sviluppo. Solo nell’etica vi è storia, perché la scelta ha istituito la personalità è ha fissato il punto che da senso al passato, al presente, al futuro. L’esteta invece non ha memoria, perché non ha storia, e ripete se stesso in istanti sempre uguali, senza mai potersi riprendere nella profondità del proprio sé.
Ma l’etica, che nasce dalla scelta, non costituisce lo stadio definitivo nel cammino della vita. Da un lato la scelta da vita al sé, poiché senza scelta il singolo rimane un puro Io immediato; dall’altro, ciò che è scelto già esiste,altrimenti non si tratterrebbe di una scelta. Ciò che è scelto è già posto: è l’individuo che esiste nel tempo all’interno della specie. Lo scacco dell’etica nasce dal fatto che essa addita l’idealità come scopo e presuppone che l’uomo sia in grado di raggiungerlo. Così non è, poiché l’uomo si dà nel tempo come ineliminabilmente gravato dal peccato, che lo riguarda come singolo e come specie; l’etica è perciò destinata a naufragare contro lo scoglio della personalità dell’individuo. La vera scelta etica di sé deve passare attraverso l’accettazione dolorosa della propria colpa e della specie: in una parola, attraverso il pentimento, che è l’espressione dell’amore per Dio. Il limite superiore della sfera etica è segnato dunque dal rapporto con Dio, cioè dal passaggio ulteriore della sfera religiosa. Quindi tra vita etica e quella religiosa c’è un abisso ancora più profondo. Kierkegaard chiarisce questa opposizione in Timore e tremore, raffigurando la vita religiosa nella persona di Abramo che ricevette da Dio l’ordine di uccidere il figlio Isacco e di infrangere così la legge per la quale è vissuto. Il significato della figura di Abramo sta nel fatto che il sacrificio del figlio non è suggerito da una qualsiasi esigenza morale, ma da un puro comando divino che è in contrasto con la legge morale e con l’affetto naturale e non trova alcuna giustificazione innanzi ai familiari stessi di Abramo. L’affermazione del principio religioso sospende interamente l’azione del principio morale. Tra i due principi non c’è possibilità di conciliazione o di sintesi. La loro opposizione è radicale. Ma se è così, la scelta tra i due principi non può essere facilitata da nessuna considerazione generale, né decisa in base a nessuna regola. L’uomo, che ha fede come Abramo, opterà per il principio religioso, seguirà l’ordine divino anche a costo di una rottura totale con la generalità degli uomini e con la norma morale. Ma la fede non è un principio generale: è un rapporto privato tra l’uomo e Dio, un rapporto con l’Assoluto. È il dominio della solitudine: di qui deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa.
Come può l’uomo esser certo di essere l’eccezione giustificata? La forza angosciosa con cui proprio questa domanda si pone all’uomo che è stato veramente eletto da Dio. L’angoscia dell’incertezza è la sola assicurazione possibile. La fede è appunto la certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sé e di un nascosto rapporto con Dio. C’è nella fede una contraddizione ineliminabile. La fede è paradosso e scandalo. Cristo è il segno di questo paradosso: è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; è colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo. L’uomo è posto di fronte al bivio: credere o non credere. Da un lato è lui che deve scegliere, dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perché Dio è tutto e da lui deriva anche la fede. Ma questa contraddizione è quella stessa dell’esistenza umana. Kierkegaard vede rivelata dal cristianesimo la sostanza stessa dell’esistenza. Paradosso, scandalo, contraddizione, necessità e nello stesso tempo impossibilità di decidere, dubbio, angoscia, sono le caratteristiche dell’esistenza e sono nello stesso tempo i fattori essenziali del cristianesimo.
L’angoscia
L’approfondimento della sua ricerca lo porta al punto centrale nel quale si radicano le stesse alternative della vita ed i loro contrasti: l’esistenza come possibilità. Kierkegaard affronta direttamente, nelle sue due opere fondamentali, il Concetto dell’angoscia e La malattia mortale, la situazione di radicale incertezza, di instabilità e di dubbio, in cui l’uomo si trova costituzionalmente per la natura problematica del modo d’essere che gli è proprio. Nel Concetto dell’angoscia questa situazione è chiarita nei confronti del rapporto dell’uomo col mondo, nella Malattia mortale nei confronti del rapporto dell’uomo con se stesso, cioè nel rapporto costitutivo dell’io. L’angoscia è la condizione generata nell’uomo dal possibile che lo costituisce. Essa è strettamente connessa col peccato ed è a fondamento dello stesso peccato originale. L’innocenza di Adamo è ignoranza; ma è un’ignoranza che contiene un elemento che determinerà la caduta. Il peccato originale, che rivive nel peccato di ogni uomo, è rottura di una condizione di innocenza. L’innocenza è ignoranza, è la condizione della naturalità in cui l’uomo non è ancora consapevole del bene o del male. Il primo peccato di ogni uomo, dunque, non è scelta del male, poiché il male stesso, e il bene, sono posti solo con il peccato. Come si passa dall’innocenza al peccato? Di questo passaggio non si può dare per Kierkegaard una spiegazione; se ne può solo indicare la condizione, il presupposto: e questa è l’angoscia. A differenza del timore e di altri stati analoghi che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso. Essa è il puro sentimento della possibilità.
Adamo possiede il suo potere nella forma della pura possibilità; e l’esperienza vissuta di questa possibilità è l’angoscia. L’angoscia non è necessità né libertà astratta, cioè libero arbitrio; è libertà finita, cioè limitata e impastoiata, e così si identifica col sentimento della possibilità.
La connessione dell’angoscia col possibile si rivela nella connessione del possibile con l’avvenire. Il possibile corrisponde completamente all’avvenire. Per la libertà, il possibile è l’avvenire, per il tempo l’avvenire è il possibile. Così nella vita individuale corrisponde l’angoscia. Il passato può angosciare solo in quanto si ripresenta come futuro, cioè come una possibilità di ripetizione (Nietzsche). Così una colpa passata genera angoscia, solo se non è veramente passata, giacché se fosse tale potrebbe generare pentimento, non angoscia. L’angoscia è legata a ciò che non è ma può essere, al nulla che è possibile o alla prossimità nullificante. Essa è legata strettamente alla condizione umana.
Nel Concetto dell’angoscia si esprime la natura dell’angoscia come sentimento del possibile. La parola più terribile pronunciata da Cristo non è quella che impressionava Lutero: Mio Dio, perché mi hai abbandonato? L’altra che egli rivolse a Giuda: Ciò che tu fai, affrettalo! La prima parola esprime la sofferenza per ciò che accadeva, la seconda l’angoscia per ciò che poteva accadere; e solo in questa si rivela veramente l’umanità del Cristo; perché umanità significa angoscia. La povertà spirituale sottrae l’uomo all’angoscia; ma l’uomo sottratto all’angoscia è lo schiavo di tutte e circostanze che lo sballottano senza meta. L’angoscia è la più gravosa d tutele categorie.
Kierkegaard collega l’angoscia strettamente con il principio dell’onnipotenza del possibile: principio che egli esprime: nel possibile, tutto è possibile. Per questo principio, ogni possibilità favorevole all’uomo è annientata dall’infinito numero delle possibilità sfavorevoli. Di solito si dice che la possibilità è leggera perché s’intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è un’invenzione fallace che gli uomini nella loro corruzione imbellettano per avere un pretesto di lamentarsi della vita e della provvidenza e per avere un’occasione di farsi importanti ai propri occhi. Nella possibilità tutto è possibile ugualmente e chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole di essa. Quando si è appreso a fondo che ciascuna delle angoscie che noi teniamo può piombare su di noi da un istante all’altro, siamo costretti a dare alla realtà un’altra spiegazione: siamo costretti a lodare la realtà quando anche essa gravi su di noi con mano pesante e a ricordarci che essa è di gran lunga più facile che non la possibilità. È l’infinità delle possibilità che rende insuperabile l’angoscia e ne fa la situazione fondamentale nel mondo.
L’angoscia è insopprimibile come la possibilità da cui si genera. Essa, tuttavia, è condizione di apertura verso la libertà, perché distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni: per questo, più profonda è l’angoscia e più grande è l’uomo. Solo colui che è formato dall’angoscia è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato mediante possibilità, è formato secondo la sua infinità. La possibilità è la più pesante di tutte le categorie, ma solo in essa si attua l’autentica pedagogia della libertà.
Disperazione e fede
L’angoscia è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce al mondo; la disperazione è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce alla sua stessa interiorità. La disperazione è inerente alla personalità stessa dell’uomo, al rapporto in cui l’io è con se stesso e alla possibilità di questo rapporto. Disperazione e angoscia sono quindi strettamente legate, ma non identiche:entrambe sono fondate sulla struttura problematica dell’esistenza.
L’io è un rapporto che si rapporta a se stesso; è, nel rapporto, l’orientamento interno di questo stesso rapporto. L’io non è rapporto, ma il ritorno su se stesso del rapporto. La disperazione è strettamente legata alla natura dell’io. Difatti l’io può volere, come può non volere, essere se stesso. Se vuol essere se stesso, poiché è finito, quindi insufficiente a se stesso, non giungerà mai all’equilibrio e al riposo. Se non vuole esser se stesso e cerca di rompere il proprio rapporto con sé, urta anche qui contro un’impossibilità fondamentale. Essa è perciò la malattia mortale, perché è il vivere della morte dell’io: è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o renderlo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta. Le due forme della disperazione si richiamano l’un l’altra e si identificano: disperare di sé nel senso di volersi disfare di sé significa voler essere l’io che non si è veramente, voler essere se stesso ad ogni costo significa ancora voler essere l’io che non si è veramente, un io autosufficiente e compiuto. Nell’uno e nell’altro caso la disperazione è l’impossibilità del tentativo.
L’io è la sintesi di necessità e di libertà e la disperazione nasce in lui o dalla deficienza di necessità o dalla deficienza di libertà. La deficienza della necessità è la fuga dell’io verso possibilità che si moltiplicano indefinitamente e non si solidificano mai. L’individuo diventa un miraggio. Alla fine e come tutto se fosse possibile. La disperazione è quella che oggi chiamiamo evasione, cioè il rifugio a possibilità fantastiche. Nella possibilità tutto è possibile. Perciò nella possibilità ci si può smarrire in tutti i modi possibili ma essenzialmente in due. L’una di queste forme è quella del desiderio, dell’aspirazione, l’altra è quella malinconico-fantastica. C’è poi la disperazione dovuta alla deficienza del possibile. La possibilità è l’unica cosa che salva: se l’uomo rimane senza possibilità è come se gli mancasse l’aria.
Proprio perché a Dio tutto è possibile, il credente possiede il contravveleno sicuro contro la disperazione: il fatto che la volontà di Dio è possibile fa si che io possa pregare. Come opposto della fede, la disperazione è il peccato. La fede è l’eliminazione della disperazione, è la condizione in cui l’uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo esser se stesso, non si illude sulla sua autosufficienza ma riconosce la sua dipendenza da Dio. La volontà di esser se stesso non urta contro l’impossibilità dell’autosufficienza che determina la disperazione, perché è una volontà che si affida alla potenza da cui l’uomo stesso è posto, cioè a Dio. La fede sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio. Ma porta pure l’uomo al di là della ragione e di ogni possibilità di comprensione: essa è assurdità, paradosso e scandalo. Che la realtà dell’uomo sia quella di un individuo isolato di fronte a Dio, che ogni individuo come tale esista dinanzi a Dio, questo è lo scandalo fondamentale del cristianesimo. Tutte le categorie del pensiero sono impensabili. Impensabile è la trascendenza di Dio, che implica una distanza infinita di Dio e l’uomo e così esclude qualsiasi familiarità tra Dio e l’uomo. Impensabile è il peccato nella sua natura concreta, come esistenza dell’individuo che pecca. Impensabile è l’idea di un Dio che si fa carne e muore per noi. La fede è il capovolgimento paradossale dell’esistenza; di fronte all’instabilità radicale dell’esistenza costituita dal possibile la fede si appella alla stabilità del principio di ogni possibilità, a Dio, cui tutto è possibile.
La polemica contro Hegel
Il punto decisivo di dissenso con Hegel è che, per Kierkegaard, un sistema logico è possibile, ma non è possibile un sistema dell’esistenza. Infatti nella logica, che è la sfera del pensiero puro, non può esservi movimento, mentre l’esistenza è precisamente continuo divenire. È infondata, secondo Kierkegaard, la pretesa hegeliana di dedurre la dialettica dell’essere e nulla:essere e nulla sono pura quiete, e da essi non può dunque sorgere il divenire. In realtà, il pensiero non è mai privo di presupposti: esso invece presuppone l’esistenza. Il tema di fondo della critica kierkegaardiana è che l’essere non può venire dedotto dal pensiero. Il pensiero astratto e oggettivo, nella pretesa di comprendere razionalmente l’esistenza sub specie aeterni la fraintende completamente. L’esistenza è movimento, contraddizione, discontinuità, possibilità, e non può essere compresa nelle categorie della meditazione e dello sviluppo necessario all’Idea.
La filosofia hegeliana appare a Kierkegaard l’antitesi del punto di vista sull’esistenza da lui vissuto, e un’antitesi illusoria. Le alternative possibili dell’esistenza non si lasciano riunire e conciliare nella continuità di un unico processo dialettico. L’opposizione delle alternative stesse è solo apparente, perché la vera ed unica realtà è l’unità della Ragione con se stessa. Ma nella Ragione l’uomo singolo, l’uomo concretamente esistente, è assorbito e dissolto. Kierkegaard presenta l’istanza del singolo, dell’esistente come tale. La verità non è l’oggetto del pensiero ma il processo con cui l’uomo se l’appropria, la fa sua e la vive: l’appropriazione della verità è la verità. Alla riflessione oggettiva propria della filosofia di Hegel, kierkegaard contrappone la riflessione soggettiva, connessa con l’esistenza: la riflessione nella quale il singolo uomo è direttamente coinvolto quanto al suo stesso destino e che non è oggettiva e disinteressata, ma appassionata e paradossale. Hegel ha fatto dell’uomo un genere animale giacchè solo negli animali il genere è superiore al singolo. Il genere umano ha invece la caratteristica che il singolo è superiore al genere. Questo è, secondo Kierkegaard, l’insegnamento fondamentale del Cristianesimo, ed è il punto su cui bisogna combattere la battaglia contro la filosofia hegeliana e in generale contro ogni filosofia che si avvalga della riflessione oggettiva. Kierkegaard considera come un aspetto essenziale del compito che si è proposto l’inserzione della persona singola, con tutte le sue esigenze, nella ricerca filosofica. Ha combattuto contro il panteismo idealistico, cioè contro la pretesa di identificare uomo e Dio, affermando invece l’infinita esistenza qualitativa tra finito e l’infinito.
L’attimo e la storia
Secondo Kierkegaard la storia non è affatto una teofania, cioè, come pensava Hegel, una rivelazione o autorealizzazione dell’Assoluto. Il rapporto tra l’uomo e Dio non si verifica nella storia, ovvero nella continuità del divenire umano, ma piuttosto nell’attimo, inteso come subitanea inserzione della verità divina nell’uomo. Il cristianesimo è paradosso e scandalo. Se il rapporto tra l’uomo e Dio si verifica nell’attimo, ciò vuol dire che l’uomo per conto suo vive nella non-verità; e la conoscenza i questa condizione è il peccato. Kierkegaard contrappone il cristianesimo al socratismo, secondo il quale l’uomo invece vive nella verità e si tratta soltanto per lui di renderla esplicita, di trarla fuori maieuticamente. Il maestro per il socratismo è una semplice occasione per il processo maieutico, giacché la verità abita sin dal principio nel discepolo. Socrate perciò rifiutava di chiamarsi maestro e dichiarava di non insegnare nulla. Ma dal punto di vista cristiano, poiché l’uomo è la non-verità, si tratta di ricreare l’uomo, di farlo rinascere, per renderlo adatto alla verità che gli viene da fuori. Il maestro è perciò un salvatore, un redentore, che determina la nascita di un uomo nuovo, capace di accogliere nell’attimo la verità di Dio.
Dio rimane quindi al di là di ogni possibile punto d’arrivo della ricerca umana. L’unica sua possibile definizione è quella che lo contrassegna come differenza assoluta; ma è una definizione apparente, perché una differenza assoluta non può essere pensata, e allora questa differenza assoluta non significa altro che l’uomo non è Dio, che l’uomo è la non-verità, il peccato. La ricerca di Dio non ha fatto un passo innanzi.
L’attimo è dunque l’inserzione paradossale e incomprensibile dell’eternità nel tempo, e realizza il paradosso del cristianesimo, che è la venuta di Dio nel mondo. Il cristianesimo è un fatto storico; e se ogni fatto storico fa appello alla fede, questo particolare fatto storico implica una fede alla seconda potenza perché esige una decisione che superi la contraddizione implicita nell’eternità che si fa tempo, nella divinità che si fa uomo. Ma questo fatto storico non ha testimoni privilegiati, giacchè la sua storicità si rappresenta, nell’attimo, ogni volta che il singolo uomo riceve il dono della fede. Kierkegaard afferma che l’uomo, che vive dopo molti secoli dalla venuta di Cristo, crede all’informazione del contemporaneo di Cristo solo in virtù di una condizione che a lui stesso deriva direttamente da Dio. Per lui quindi si verifica originalmente la venuta di Dio nel mondo, e ciò accade in virtù della fede. La divinità di Cristo non era più evidente per il testimone immediato, per il contemporaneo di Gesù, di quanto non lo sia per qualsiasi cristiano che abbia ricevuto la fede.
Esistenzialismo
L’esistenzialismo è un insieme di filosofie che risultano oggettivamente caratterizzate da taluni tratti comuni, che denunciano l’appartenenza a un medesimo clima speculativo.
1. nelle filosofie cosiddette esistenzialistiche assume un rilievo tematico centrale la riflessione circa l’esistenza;
2. l’esistenza viene intesa dagli esistenzialisti come modo d’essere proprio dell’uomo: un modo specifico, diverso da quello di tutti gli altri enti del mondo, perché segnato da talune caratteristiche peculiari;
3. tale modo d’essere specifico viene descritto innanzitutto come un rapporto con l’essere. Infatti, gli esistenzialisti concepiscono l’esistenza non come un’entità autosufficiente, ma come un’entità costitutivamente aperta a un oltre. Il rapporto esistenza-essere, cioè la relazione problematica fra l’uomo e l’essere, rappresenta quindi il binomio centrale e decisivo dell’esistenzialismo. Per Heidegger l’essere coincide con un evento ontologico che, pur manifestandosi nell’ente, risulta irriducibile all’ente. Per Sartre e Abbagnano coincide con la realtà esperienziale. Per Jaspers con l’Assoluto divino (Dio, la Verità, ecc);
4. degli esistenzialisti il rapporto esistenziale con l’essere viene interpretato come qualcosa in cui “ne va” dell’uomo e che richiede da lui una qualche scelta o progetti aperti al rischio;
5. di conseguenza, gli esistenzialisti ritengono che l’uomo non sia una realtà sostanziale e già data, ma un ente che si trova di fronte a determinate possibilità di realizzazione. Possibilità che impegnano la sua libertà e che si collocano ai due estremi dell’autenticità e dell’inautenticità;
6. l’appello alla scelta e all’autenticità implicano che l’uomo, per gli esistenzialisti, viva come singolo, ossia come un ente individuato e irripetibile, che ha una sua personale prospettiva sull’essere e che risulta direttamente chiamato in causa come tale;
7. come rapporto individuato e concreto con l’essere, l’esistenza si trova sempre in una situazione altrettanto individuata e concreta, racchiusa dalla nascita e dalla morte;
8. in quanto struttura razionale caratterizzata dalla singolarità, dal possibile, dalla scelta, dalla situazione, ecc., l’esistenza risulta costitutivamente segnata dalla finitudine e dal limite.
L’esistenzialismo filosofico è un concetto storiografico per indicare tutte quelle forme di pensiero che, nel contesto cronologico e culturale che va dagli anni Venti agli anni Quaranta, si sono trovate a condividere la concezione dell’esistenza come modo d’essere proprio dell’uomo, qualificato da talune prerogative di base, a cominciare dal rapporto con l’essere. Modo d’essere in relazione a cui l’individuo, nella sua singolarità finita e irripetibile, cioè situata nell’ambito di una determinata condizione storico-temporale, compresa fra la nascita e la morte, è chiamato a decidere, in vista della propria autenticità e realizzazione.
L’esistenzialismo prende le distanze da tutte quelle filosofie ottocentesche e novecentesche che non riconoscono la finitudine esistenziale, identificando l’uomo con l’Assoluto; risolvono la singolarità dell’individuo in un processo impersonale e totalizzante ove il problema del singolo in quanto tale cessa di avere importanza; mettono in ombra la rilevanza delle situazioni-limite dell’esistenza (nascita, morte, ecc.) e dagli stati d’animo che lo accompagnano (angoscia, paura, ecc.); negano l’iniziativa e la scelta, ritenendo l’esistenza un fatto deterministicamente ricostruibile, ovvero un veicolo di impulsi e strutture, in cui l’uomo, più che pensare, risulta pensato, più che agire risulta agito.
Heidegger (Messkrich, 1889-1976)
Heidegger e l’esistenzialismo
Per molto tempo Heidegger è stato considerato come la maggior figura dell’esistenzialismo contemporaneo. In seguito è apparso evidente che il problema centrale di Heidegger, coerente con il programma ontologico di Essere e tempo, non era quello dell’esistenza, bensì quello dell’essere. Lo stesso Heidegger nega la propria appartenenza all’esistenzialismo. Da rappresentate di spicco dell’esistenzialismo, sia pure in forma di esistenzialismo negativo, Heidegger ha finito per essere considerato come sostanzialmente estraneo all’esistenzialismo.
Heidegger, pur non essendo storiograficamente classificabile come esistenzialista, risulta essere parte integrante della storia dell’esistenzialismo, a cui ha fornito analisi, tematiche e una sorta di grammatica filosofica. Non bisogna dimenticare che Essere e tempo è, di fatto, un’analitica esistenziale, sia pure condotta in vista dell’elaborazione del problema dell’essere; che il protagonista di Essere e tempo non è l’essere bensì l’esistenza, che campeggia in tutta la sua specificità e rilevanza; che Essere e tempo non si è limitato ad influire sull’esistenzialismo, poiché per certi aspetti ( a cominciare dalla scelta dei temi: l’angoscia, la morte, il nulla, ecc.) è stato influenzato dalla contemporanea atmosfera esistenzialistica e dalla sua sensibilità per gli aspetti negativi e limitanti della condizione umana.
Essere e esistenza
Lo scopo di Essere e tempo è quello di costituire un’ontologia che, partendo da quella vaga comprensione dell’essere che permetta almeno d’intendere e di porre la domanda intorno all’essere, giunga ad una determinazione piena e completa del senso (Sinn) dell’essere. Se noi siamo senza risposte, afferma Heidegger, è perché nell’epoca attuale, dominata dai problemi settoriali del sapere e dai successi della tecnica, non avvertiamo neppure il bisogno di porre tale domanda. Occorre dunque ridestare la comprensione stessa della domanda sull’essere, sottraendola al lungo oblio che coincide della storia della metafisica avviatasi in Grecia; occorre riscoprirla mentre oggi siamo portati a considerare l’essere come il concetto più semplice e ovvio, tanto semplice e ovvio che non costituisce neppure un problema.
Poiché in ogni domanda si possono distinguere tre cose: ciò che si domanda, ciò a cui si domanda, ciò che si trova domandando; che cosa è l’essere? Ciò che si domanda è l’essere stesso, ciò che si trova è il senso dell’essere, ma ciò che si interroga non può essere che un ente giacché l’essere è sempre proprio di un ente. Il primo problema dell’ontologia è quello di determinare qual è l’ente che dev’essere interrogato, cioè al quale la domanda sull’essere è specificamente rivolta. Questa stessa domanda è il modo d’essere di un ente determinato che è l’uomo, che perciò possiede un primato ontologico sugli altri enti in quanto è l’unico fra tutti gli enti che si distingue per la comprensione dell’essere. Questo esistente che noi stessi sempre siamo ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo con il termine Esserci (Dasein). Nel problema dell’essere abbiamo un cercato (=l’essere), un ricercato (=il senso dell’essere) e un interrogato (=l’uomo o l’esserci).
Solo interrogando l’Esserci si può cercare che cos’è l’essere e trovarne il senso. Ma il modo d’essere dell’Esserci è l’esistenza: analisi di questo modo d’essere sarà quindi un’analitica esistenziale e tale analitica sarà l’unica strada per giungere alla determinazione di quel senso dell’essere che è il finale dell’ontologia.
La prima caratteristica dell’esistenza è la possibilità di comprendere l’essere, ovvero di rapportarsi in qualche modo all’essere. La seconda caratteristica dell’esistenza risiede nel fatto che essa è esistenzialmente possibilità d’essere: l’esistenza non è una realtà fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità fra cui l’uomo deve scegliere. Mentre le cose sono ciò che sono, ossia delle semplici-presenze, l’uomo è ciò che ha d’essere ciò che è, in quanto, come possibilità, è ciò che lui stesso sceglie o progetta di essere. Per cui, il termine esistenza, riferito all’uomo va inteso nel senso etimologico di ex-sistere, cioè di uno stare al di fuori o al di là di sé, nella dimensione della possibilità o del progetto. Per questo suo trascendere la realtà in vista della possibilità, l’Esserci appare conclusivamente come l’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, ossia come un ente il cui essere risulta permanentemente in gioco, a cominciare dall’alternativa fra autenticità ed in autenticità. Appunto perché l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o scegliersi, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo apparentemente.
Ogni scelta è un problema che si pone di fronte al singolo uomo e che dà luogo a quella che Heidegger chiama comprensione esistentiva od ontica, la quale concerne l’esistenza concreta di ognuno. La comprensione esistenziale od ontologica è invece quella che si propone di indagare teoreticamente le strutture fondamentali dell’esistenza. Ma poiché l’esistenza è sempre individuata e singola, non l’esistenza di un uomo in generale, ma la mia, tua, sua esistenza, è evidente che la stessa analitica esistenziale si radica nella condizione esistentiva od ontica dell’uomo.
La comprensione esistenziale deve assumere, come suo metodo, quello fenomenologico. La fenomenologia è un metodo: concerne non l’oggetto della ricerca filosofica, ma le modalità di questa ricerca. La massima della fenomenologia è puntare direttamente sulle cose. Il fenomeno di cui essa parla non è apparenza, ma manifestazione o rivelazione di ciò che la cosa stessa è nel suo essere in sé. Non si contrappone perciò ad una realtà più profonda, ma è l’aprirsi, il manifestarsi stesso, di questa realtà. Il logos è un discorso che manifesta o fa vedere ciò di cui si parla; ed è vero (alēthés=non nascosto) quanto appunto fa vedere o discolpare ciò che era coperto. Ciò vuol dire che l’essenza della fenomenologia consiste nel far vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso, nel fare in modo che l’essere dell’esistenza si riveli e si mostri, all’analisi, nelle sue strutture fondamentali, senza alterazioni, aggiunte o correzioni. In questo senso Heidegger dice che la filosofia è ontologica e fenomenologia. Il metodo fenomenologico si concretizza così in una descrizione obiettiva e imparziale delle strutture essenziali dell’esistenza.
Nell’analisi di quel poter-essere che è l’uomo, Heidegger, conformemente ai presupposti fenomenologici dell’imparzialità, comincia ad esaminare l’uomo in quella che egli chiama quotidianità e medietà, ossia nelle situazioni in cui l’Esserci si trova innanzitutto e per lo più.
Le formule di Heidegger riecheggiano qui il pensiero di Kierkegaard; tuttavia, l’esserci non coincide con il singolo kierkegaardiano, perché al centro della nozione heideggeriana il momento essenziale non è tanto quello della singolarità irripetibile della persona, quanto quello del legame con l’essere.
L’essere-nel-mondo e la visione ambientale preveggente
Visto nel suo concreto e quotidiano esistere, l’uomo è in primo luogo un essere-nel-mondo, ossia un prendersi cura delle cose che gli occorrono: mutarle, manipolarle, ripararle, costruirle ecc. Tale prendersi cura ha le caratteristiche della trascendenza e del progetto. Infatti, l’Esserci, oltrepassando (=trascendendo) la realtà di fatto come si presenta a prima vista, costituisce (=progetta) la realtà secondo strumenti utilizzabili (la casa per abitare, il sentiero per camminare). Poiché per l’Esserci trovarsi nel mondo significa prendersi cura delle cose, l’essere di queste ultime, in relazione all’uomo, coincide con il loro poter essere utilizzate. Dire che l’uomo è essere-nel-mondo significa affermare che l’uomo è nel mondo in modo tale da progettare il mondo stesso secondo un piano globale di inutilizzabilità, volto a subordinare le cose ai suoi bisogni e ai suoi scopi.
L’uomo non è nel mondo secondo la modalità della conoscenza, ma secondo la modalità della manipolazione degli enti. Analogamente, le cose non sono oggetti di studio, ma strumenti di azione. Tant’è vero che la semplice-presenza è solo un modo di essere derivato e privativo rispetto alla utilizzabilità, che si manifesta quando all’atteggiamento della manipolazione subentra quello della contemplazione. La manipolazione non è cieca, in quanto esiste uno specifico modo di vedere che la guida.
Heidegger chiama visione ambientale privilegiante (Umsicht), intendendo la visione circospetta del mondo-ambiente, ovvero del complesso dei rimansi fra gli utilizzabili, che si richiamano l’un l’altro attraverso una serie di rinvii: scrittoio, penna, inchiostro. Le “cose” non si manifestano isolatamente, per riempire una stanza come una somma di reali. Ciò che si incontra per primo è la camera come mezzo di abitazione, da essa si rivela l’arredamento e a sua volta il singolo mezzo. Prima del singolo mezzo è già scoperta una totalità di mezzi.
A questo punto, il mondo si qualifica come una totalità di rimandi e di significati mettenti capo all’uomo. Lo strumento serve per qualcosa, ossia rinvia a qualcos’altro, in rapporto a cui esiste o è stato progettato. Come quanto, per esempio, l’uomo si serve dell’aratro per rivoltare le zolle di terra; ma l’aratro ha la sua destinazione nel preparare il campo per la nuova seminagione, alla quale rinvia alla crescita del grano, e questo, a sua volta, rinvia alla nutrizione dell’uomo. Lo stare per qualcos’altro è la caratteristica distintiva del segno. Ne segue che l’essere in mezzo a una totalità di strumenti coincide con l’essere familiari con una totalità di significati. Totalità che coincide con la mondità del mondo. Quindi se il mondo viene prima delle singole cose, l’uomo viene prima del mondo, in quanto si identifica con l’ente grazie al quale soltanto possono darsi dei significati.
Poiché l’esistere nel mondo significa per l’uomo progettare, e il progettare si fonda sulle possibilità che all’uomo sono offerte, la comprensione di queste possibilità è un modo d’essere fondamentale all’uomo stesso. Anzi, l’uomo ha già da sempre una precomprensione della realtà che lo circonda. Precomprensione che egli eredita, insieme al linguaggio, dalla società in cui vive. La stessa conoscenza è nient’altro che una esplicazione o una tematizzazione del precompreso.
Coesistenza ed esistenza anonima
Come l’esistenza è sempre un essere nel mondo, così anche un essere fra gli altri. Non sussiste per Heidegger l’alternativa di un idealismo egologico perché come non c’è un soggetto senza mondo, così non c’è un io isolato senza gli altri. Ciò accade perché la sostanza dell’uomo non è lo spirito come sintesi di anima e corpo a partire dal quale si debba giungere all’essere delle cose e degli altri, ma è l’esistenza, che è fin da principio, apertura verso il mondo e verso gli altri. Come il rapporto tra l’uomo e le cose è un prendersi cura delle cose, così il rapporto tra l’uomo e gli altri è un aver cura degli altri. L’aver cura costituisce la struttura fondamentale di tutti i possibili rapporti tra gli uomini. Esso può assumere due forme diverse: in primo luogo, sottrae agli altri le loro cure; in secondo luogo, aiutarli ad essere liberi di assumersi le proprie cure. Nella loro prima forma, l’uomo non si cura tanto degli altri quanto delle cose da procurar loro; la seconda forma apre agli altri la possibilità di trovare se stessi e di realizzare il proprio essere. Perciò la prima è la forma inautentica della coesistenza, è un puro essere insieme; mentre la seconda è la forma autentica, è il vero coesistere.
La trascendenza esistenziale, fondandosi sulle possibilità di essere dell’uomo, è nello stesso tempo un atto di comprensione esistenziale. Ma per comprendersi, l’uomo può assumere come punto di partenza o se stesso o il mondo e gli altri uomini. Nel primo caso, si ha una comprensione autentica, di cui vedremo in seguito la portata,; nel secondo caso si ha la comprensione inautentica, che è il fondamento dell’esistenza anonima. L’esistenza anonima è l’esistenza del si, cioè quella in cui il “si dice” o il “si fa” domina incontrastato. In essa, tutto è livellato, reso convenzionale e insignificante. L’uomo è, in essa, tutti e nessuno, perché è ciò che sono tutti; non nel loro essere autentico, ma in un modo d’essere fittizio e convenzionale che vela l’essere proprio. Il linguaggio, che è per sua natura lo svelamento dell’essere, ciò in cui l’essere stesso si esprime e prende corpo, diventa nell’esistenza anonima chiacchiera inconsistente. Si fonda sul “si dice” e obbedisce a “la cosa sta così perché così di dice”.
Un’esistenza così vuota cerca naturalmente di riempirsi e perciò è morbosamente protesa verso il nuovo: la curiosità è quindi l’altro carattere dominante: curiosità non per l’essere delle cose ma per la loro apparenza visibile, che perciò reca con sé l’equivoco. L’equivoco è il terzo contrassegno dell’esistenza anonima che, in preda alle chiacchiere e alla curiosità, finisce per non sapere neppure di che si parla o a che si riferisce il “si dice”.
La Cura
Queste determinazioni non implicano una condanna dell’esistenza anonima. Essa si limita a riconoscere che l’esistenza anonima fa parte della struttura esistenziale dell’uomo ed è un suo costitutivo poter essere. Alla base di questo poter essere c’è la deiezione, cioè la caduta dell’essere dell’uomo al livello delle cose del mondo. La deiezione non è un peccato originale né un accidente che il progresso dell’umanità possa eliminare; fa parte essenziale dell’essere dell’uomo. È un processo interno, per cui quest’essere scende al livello di un fatto e diventa effettivamente un fatto. La attualità o l’effettività dell’Esserci è il suo essere gettato nel mondo in mezzo agli altri esistenti, al loro stesso livello. Questa condizione diventa evidente o meglio viene vissuta direttamente nella situazione emotiva in cui l’uomo si sente abbandonato ad essere ciò che è di fatto. La situazione emotiva si differenzia dalla comprensione esistenziale in quanto mentre questa è un continuo progettare in avanti, a partire dalle possibilità dell’esistenza, quella è piuttosto orientata all’indietro e fa perno sul fatto che l’uomo c’è ed è un esistente fra gli altri.
La totalità di queste determinazioni dell’essere dell’uomo viene compresa nell’unica determinazione della Cura. La Cura è la struttura fondamentale dell’esistenza.
Poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma all’uomo, la Cura lo possieda finché esso viva. La Cura esprime la condizione fondamentale di un essere che, gettato nel mondo, progetta in avanti le sue possibilità; ma queste possibilità lo riconducono incessantemente alla sua situazione di fatto originaria, al suo essere gettato nel mondo. L’esistenza è in primo luogo un essere possibile, cioè un progettarsi in avanti; ma questo progettarsi in avanti non fa che cadere all’indietro, su ciò che già l’esistenza è di fatto. Tale è la struttura circolare e perciò conclusa e compiuta della Cura, in quanto costituisce l’essere stesso dell’uomo, in quanto tale essere è un essere del mondo e in quanto esso decade nell’esistenza anonima quotidiana. A questa esistenza anonima, che è in autentica, Heidegger assegna buona parte dell’esistenza umana. Non solo lo spazio e la parola, ma anche il conoscere mondano in genere appartengono all’esistenza quotidiana in autentica. Ed appartengono ad essa le leggi morali e le teorie che ne cercano il fondamento. L’intero campo della normativa e dei valori, non essendo possibile né comprensibile fuori dal rapporto col mondo, appartiene all’esistenza quotidiana anonima e rimane fuori della soglia dell’esistenza autentica.
La morte
Nell’Esserci manca sempre qualcosa che esso può essere e sarà. Di questo qualcosa che manca fa parte la stessa fine, la fine dell’Esserci è la morte. La morte non è per l’uomo un termine finale, la conclusione, la fine della sua esistenza; non è neppure un fatto perché in quanto tale non è mai la propria morte. Essa è come fine dell’Esserci, la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa, e come tale, indeterminata e insuperabile. È la possibilità propria perché concerne l’essere stesso dell’uomo. È una possibilità incondizionata perché appartiene all’uomo in quanto individualmente isolato. Tutte le altre possibilità pongono l’uomo in mezzo alle cose o fra gli altri uomini; la possibilità della morte isola l’uomo con se stesso. È una possibilità insormontabile, in quanto l’estrema possibilità dell’esistenza è la sua rinuncia a se stessa. È infine la possibilità certa: che non ha l’evidenza apodittica (principi che l’intelletto percepisce come vere senza bisogno di dimostrazioni) delle verità in cui si rivela l’essere delle cose del mondo, ma che si connette in maniera essenziale all’aspetto autentico dell’esistenza umana. Soltanto nel riconoscere la possibilità della morte, l’uomo ritrova il suo essere autentico e comprende veramente se stesso.
Ma poiché ad ogni comprensione si accompagna una situazione emotiva che ci pone immediatamente di fronte al nostro essere di fatto, così anche la comprensione di noi stessi alla luce della morte è accompagnata da quella specifica tonalità emotiva che è l’angoscia. L’angoscia, distinto kierkegaardianamente dalla paura, è quella situazione capace di tenere aperta la costante e radicale minaccia che proviene dalla morte, ovvero lo stato emotivo in virtù del quale l’Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza. Di conseguenza, l’angoscia colloca l’uomo davanti al nulla. E in virtù di essa la totalità dell’esistenza diventa qualcosa di labile, di accidentale e di sfuggente, in cui il nulla stesso si presenta nella sua potenza di annullamento.
L’esistenza quotidiana anonima è una fuga di fronte alla morte. L’individuo la considera come un caso fra i tanti della vita di ogni giorno, nasconde il suo carattere di possibilità immanente, la sua natura incondizionata e insormontabile, e cerca di dimenticarla, di non pensarci nelle cure quotidiane del vivere. La decisione anticipatrice progetta l’esistenza autentica come un essere-per-la-morte. Tale essere-per-la-morte non è suicidio. Poiché la morte è una possibilità, essa non può venir intesa e realizzata che come pura minaccia sospesa sull’uomo. Non è neppure un’attesa, perché anche l’attesa non mira che alla realizzazione, e la realizzazione nega o distrugge la possibilità come tale. Essere-per-la-morte significa procedere al di là delle illusioni del Si, cioè dell’esistenza anonima, e, tramite un atto di libertà, accettare la possibilità più propria del nostro destino.
La voce della coscienza
Ciò che richiama l’uomo alla sua esistenza autentica è quel fenomeno che Heidegger denomina “voce della coscienza”: il richiamo dell’esistenza a se stessa. Infatti, quanta voce si rivolge all’uomo in quanto è immerso nel mondo e dominato dalla cura e lo richiama a se stesso, a ciò che egli automaticamente è e non può non essere.
Si è gia visto che l’esistenza umana è costituita da possibilità e che su queste possibilità si fonda il suo progettare o trascendere. Tuttavia, pur trovandosi ad essere il fondamento di se stesso, l’uomo, essendo un progetto-gettato, non risulta il fondamento del proprio fondamento. Da ciò la nullità di base che lo costituisce. L’Esserci, essendo fondamento, è, come tale, una nullità di se stesso. Anche i quanto progetto concreto in atto, l’Esserci incontra il nulla, in quanto il progettarsi su delle possibilità è possibile solo mediante l’esclusione di altre possibilità, cioè tramite il non progettarsi su altre possibilità. L’Esserci risulta quindi doppiamente attraversato dalla negatività: il progetto, in quanto gettato, non è soltanto determinato dalla nullità dell’esser-fondamento, ma è essenzialmente nullo proprio in quanto progetto. La Cura, quindi, è totalmente permeata dalla nullità. Cioè l’essere dell’esserci in quanto progetto gettato, significa: l’esser-fondamento di una nullità. Tale nullità esistenziale non ha affatto il carattere della privazione, del’imperfezione rispetto a un ideale proclamato e non raggiunto, in quanto è l’essere di quest’ente ad esser nulla precedentemente a tutto ciò che può progettare e solitamente raggiungere, ad esser nullo già come progettare. Ciò vuol dire che l’Esserci è colpevole.
È appunto il richiamo al nulla che la voce della coscienza fa risuonare, all’essere autentico dell’Esserci. Da ciò la necessità di un decisione maturata all’interno della situazione emotiva dell’angoscia: il tacito ed angoscioso autoprogettarsi nel proprio esser-colpevole è ciò che chiamiamo decisione. Ma decidersi per il nulla equivale a decidersi per l’anticipazione della morte. Cioè la decisione in merito al nostro esser-colpevoli, cioè alla nostra negatività originaria, si può costituire nella sua autenticità solo come decisione anticipatrice della morte: la nullità, che domina originariamente l’essere dell’Esserci, gli si svela nell’essere-per-la-morte autentico.
L’esistenza autentica è quella che comprende chiaramente e realizza emotivamente la radicale nullità dell’esistenza. Se l’uomo, in quanto progetto-gettato è costituito da una nullità esistenziale, non rimane che anticipare e progettare questo nulla, sotto forma di una decisione anticipatrice della morte, intesa come la possibilità propria ed estrema del nulla di sé: noi conosciamo esistenzialmente la morte come la pura e semplice nullità dell’Esserci. Solo in tal modo l’Esserci entra in possesso della propria finitudine e si trova in cospetto della nudità del suo destino. Solo in tal modo l’Esserci ratifica quella situazione per la quale egli, nello stesso momento in cui si apre all’essere, si installa e si mantiene fermamente nel nulla.
Il tempo e la storia
Intendendo per senso ciò che rende possibile e comprensibile qualcosa, il senso della Cura è la temporalità. Infatti sono le stesse strutture dell’Esserci a rimandare ad altrettante dimensioni del tempo. Ad esempio, il progetto proietta l’Esserci verso il futuro, l’esser-gettato inchioda l’Esserci al passato; la deiezione radica l’uomo nel presente inautentico per prendersi cura delle cose, cui si contrappone il presente autentico dell’attimo. In altri termini, la temporalità rappresenta il senso unitario della struttura della Cura, in quanto questa è essere-davanti-a-sé (progetto), esser-già-in (gettatezza) ed essere-presso (deiezione). L’Esserci è tempo, o, meglio, la temporalità è ciò che rende possibile l’Esserci nella totalità strutturale delle sue determinazioni.
Per quanto riguarda la storicità, il fondamento della teoria heideggeriana è che l’esistenza autentica, pur progettandosi come nullità radicale del mondo e di sé stessa, non elimina il mondo, anzi lo presuppone nella sua realtà di fatto. La comprensione dell’impossibilità radicale dell’esistenza, della sua nullità essenziale, non impedisce di esistere come questa impossibilità e nullità, anzi rende liberi di accettare l’esistenza così come essa è. E poiché l’esistenza è un coesistere con gli altri uomini, e fra le cose del mondo, l’esistenza autentica conferisce all’uomo la possibilità di rimanere fedele al destino della comunità o del popolo a cui si appartiene. La storicità non è altro che l’assunzione dell’eredità del passato, ossia la ripresa deliberata e consapevole (la ripetizione) delle possibilità tramandate. Ripresa che coincide con il destino, inteso come lo storicizzarsi originario dell’Esserci, ovvero l’atto in cui l’uomo si tramanda in una possibilità ereditata e tuttavia scelta.
Nella storicità inautentica, al contrario, l’estensione originaria del destino risulta nascosta: è nell’incoerenza propria di essa che l’Esserci presenta a se stesso il proprio oggi. L’esistenza anonima rifugge dalla scelta. Perduto nella presentazione dell’oggi, esso comprende il passato a partire dal presente. L’esistenza in autentica storica, oppressa dal peso del passato, per essa in conoscibile, non va in cerca che del moderno.
Per quanto concerne il rapporto tra storia e storiografia, Heidegger ritiene che non è la storiografia a fondare la possibilità della storicità, ma la storicità originaria e costitutiva dell’Esserci a fondare la possibilità della storiografia.
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